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Poste italiane spa - spedizione in a. p. d.l. 353/03 (conv. l. 46/04) art. 1 comma 1, ne/Vr - anno 22 | numero 53/01 | 13 gennaio 2016 | 2,00 settimanale diretto da luigi amicone anno 22 | numero 53/01 | 13 gennaio 2016 | 2,00 Te Deum EDITORIALE “TUTTO ‘NASCE’ DA UNA FERITA” La più bella sintesi del Natale arriva da un condannato in prigione P iero Daccò è un tale che si è fatto (per adesso) quattro anni di detenzio- ne “preventiva” e che (per adesso) è stato condannato per bancarotta a 9 anni di carcere “definitivo”. Mentre altre persone accusate con Daccò per lo stesso reato, ma che non hanno scelto con Daccò lo stesso rito abbreviato, in un altro processo sono state assolte «perché il fatto non sussiste». In effetti la Cassazione ha rilevato l’incompatibilità tra le due sentenze. Annullando parzialmente quella riguardante Daccò (2014) e chiedendo un secondo giudizio per rideterminare la pena di Daccò. Nel loro secondo giudizio i giudici di Milano hanno riconfermato i nove anni e la Cassazione ne ha preso atto (2015), apparentemente contraddicendo la propria precedente decisione. Ma non è questo il punto. Il punto non è neanche che Daccò sarebbe dovuto uscire dal carcere alla scadenza dei termini di “custodia cautelare” e invece resta in carcere nel pieno rispetto della legge (che, per carità, sappiamo essere molto “elastica”). Prima di Natale, un giudice ha deciso la sua liberazione. Alla condizione, però, che egli portasse il “braccialetto elettronico”. «Purtroppo il numero dei “braccialetti” è limitato», è stato spiegato ai difensori del detenuto. Perciò Daccò è rimasto in cella. Avviso ai lettori Il punto è questo: il biglietto di auQuesto numero di Tempi dedicato al guri che il detenuto Daccò ha inviato “Te Deum” di fine anno rimarrà nelle edicole anche a noi (tra gli altri) fratelli. Si tratper due settimane. Il prossimo numero ucirà a partire da giovedì 14 gennaio 2016 ta di un foglio illustrato con la foto di Aylan, il bambino siriano trovato morto annegato sulla spiaggia di Bodrum, Turchia. Non si intitola “Buon Natale”. Si intitola “Tutto ‘nasce’ da una ferita”. Leggiamone insieme qualche passo. «Quello che sono rimane per me ancora un’incognita: sono tormentato e insieme felice, carico di bene e di male, uno che benedice e si sente affranto, uno che dispera e spera insieme… È difficile, quasi impossibile, dire Dio, così come è difficile, quasi impossibile dire il dolore. Forse sono le due facce dello stesso mistero. E non è stato ancora inventato l’alfabeto capace di decifrare la sofferenza del corpo e dell’anima. A me aiuta volgermi nella direzione di Gesù abbandonato… Tutto ciò che è nuovo nasce sempre da una ferita. Gesù abbandonato ha fatto sorgere in me e attorno a me un amore particolare per chi porta con sé delle difficoltà. La ferita è spesso il luogo dell’incontro: il passaggio per noi nell’altro e il passaggio per l’altro in noi. È ancora il luogo dell’incontro con Dio: un Dio dal volto ancora misterioso… Se ammettiamo la nostra miseria personale, questa povertà, questa debolezza potrà diventare lo spazio libero in cui Dio potrà continuare a creare». Ecco, in queste parole noi sentiamo che un sentenziato “delinquente” ci sta dicendo cos’è Natale. Introducendoci, esistenzialmente, a Gesù abbandonato, Continuatore della creazione, perciò Salvatore, e questo è il punto definitivo, dal Vangelo secondo Matteo, «perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Te Deum. L’ASCIA NEL CUORE Buon 2016 anche a te, grillino Pulizie di fine anno. Riordinando la cassettiera della redazione mi sono capitati tra le mani vecchi ritagli ingialliti di giornale. Erano gli anni di Mani pulite e sui quotidiani capitava di leggere frasi come queste: «Non è un po’ farisaico fingere che per prendere politicamente atto della sconvolgente realtà emersa si debbano attendere le sentenze?» (Francesco Saverio Borrelli, luglio 1993). «Noi non incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato» (sempre Borrelli, 4 giugno 1993). «La custodia cautelare non può essere limitata, altrimenti la gente si incazza» (Piercamillo Davigo, 14 luglio 1993). Sono passati più di vent’anni, è finita Tangentopoli ma non Mani pulite. Solo qualche settimana fa, Luigi Di Maio, astro nascente del Movimento Cinque Stelle che secondo gli opinionisti ha soppianto Grillo e che per i sondaggisti gode ormai di una popolarità seconda solo a quella di Renzi, ha detto a Libero: «Non sono a favore della presunzione d’innocenza per i politici. Se uno è indagato, deve lasciare, lo chiedono gli elettori». Dovesse poi capitare, come è capitato in questi ultimi quattro lustri, che dopo essere stato rovinato dalla giustizia, risulti innocente, che si fa? Semplice, dice serafico il grillino: «Si ripresenta». Un bel sollievo, che altro dire? Vent’anni fa simili ragionamenti li faceva un certo pm poi finito in politica, tale Antonio Di Pietro, oggi al pascolo nei giardinetti patri. Buon 2016 anche a te, Di Maio, con l’augurio di compiere la medesima transumanza. Emanuele Boffi | | 13 gennaio 2016 | 3 SOMMARIO N. 53/1 Poste italiane spa - spedizione in a. p. d.l. 353/03 (conv. l. 46/04) art. 1 comma 1, ne/Vr - anno 22 | numero 53/01 | 13 gennaio 2016 | 2,00 settimanale diretto da luigi amicone anno 22 | numero 53/01 | 13 gennaio 2016 | 2,00 Te Deum LE ALTRE FIRME 6 CESANA, PROSPERI 12 ARSLAN, FARINA 20 LUIGI BRUGNARO 44 LUIGI NEGRI 14 SINISA MIHAJLOVIC Per il legame madre-figlio Marina Terragni ..................... 10 Il desiderio del Centrafrica Aurelio Gazzera........................ 16 Dall’Iraq all’Australia Amel Nona............................................ 19 Per la libertà riconquistata Totò Cuffaro .................................. 22 Per quel giudizio non mio Francesco Botturi..............24 Per l’ablativo assoluto Vittorio R. Bendaud....... 25 Per questa mia malattia Marina Corradi ......................... 26 Per un’epoca grandiosa Roberto Perrone.................... 28 Per il Dio ritrovato Gilberto Cavallini................. 30 Per la vita di famiglia G. D. D’Oldenico....................... 32 Per la musica divina Filippo Gorini..................................33 Per quello che mi chiedi Costanza Miriano................ 34 Per la mia “apparizione” Walter Izzo ...................................... 36 Per i giganti della Chiesa Pippo Corigliano .....................37 Per quest’anno negli Usa Alberto Frigerio...................... 38 Per la Tua opera Aldo Trento ..................................... 40 Per il gregge siberiano Alfredo Fecondo ..................... 41 Corrado Limentani ...........42 Mario Adinolfi ............................ 43 Vittorio Gassman................46 Foto: Ansa Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994 settimanale di cronaca, giudizio, libera circolazione di idee Anno 22 – N. 53/1 dal 31 dicembre 2015 al 13 gennaio 2016 DIRETTORE RESPONSABILE: LUIGI AMICONE REDAZIONE: Rodolfo Casadei (inviato speciale), Caterina Giojelli, Daniele Guarneri, Pietro Piccinini IN COPERTINA: cattedrale di Notre-Dame, Parigi PROGETTO GRAFICO: Enrico Bagnoli, Francesco Camagna UFFICIO GRAFICO: Matteo Cattaneo (Art Director), FOTOLITO E STAMPA: Reggiani spa Via Alighieri, 50 – 21010 Brezzo di Bedero (Va) DISTRIBUZIONE a cura della Press Di Srl SEDE REDAZIONE: Via Confalonieri 38, Milano, tel. 02/31923727, fax 02/34538074, [email protected], www.tempi.it EDITORE: Vita Nuova Società Cooperativa, Via Confalonieri 38, Milano La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250 CONCESSIONARIA PER LA PUBBLICITà: Editoriale Tempi Duri Srl tel. 02/3192371, fax 02/31923799 GESTIONE ABBONAMENTI: Tempi, Via Confalonieri 38 • 20124 Milano, dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13 tel. 02/31923730, fax 02/34538074 [email protected] Abbonamento annuale 60 euro. 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Migliaia di persone alla Messa solenne a Notre-Dame per le vittime degli attentati jihadisti di venerdì 13 novembre DI GIancarlo cesana e DavIDe ProsPerI sconvolto nuovamente il mondo lo scorso 13 novembre a Parigi, risuona ancora una volta l’affermazione impressionante contenuta nel comunicato di rivendicazione dell’attentato dell’11 marzo 2004 a Madrid, attribuito al portavoce di Bin Laden: «Noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita». Già dopo la tragedia apocalittica delle Torri Gemelle a New York l’Occidente era rimasto sconvolto dalla furia ideologica dell’estremismo fondamentalista di matrice islamica, ma Madrid e Londra prima, Parigi ora hanno oscurato l’idea pur giusta e tranquillizzante di un’Europa centro del dialogo con tutti, luogo di apertura sul Mediterraneo e nesso col Medio Oriente. Questa idea è messa in discussione dal terrore, che è precisamente lo scopo del terrorismo: riempire di incertezza e confusione l’urgenza di una reazione, che protegga noi, le nostre città e il nostro mondo. Ma proprio il fatto che tutti avvertiamo la necessità di difenderci deve farci riflettere su cosa vogliamo veramente difendere e quale sia la difesa vincente sul lungo periodo. Che cos’è la paura che ci fa sentire insicuri, precari e sospettosi, quando per strada, al bar, in treno e soprattutto in aeroporto vediamo e sentiamo persone o gruppi diversi da noi chiacchierare in una lingua che ci sembra arabo? Il nostro benessere, la nostra organizzazione sociale, il nostro ordine non bastano a darci certezze, a contrastare quella dedizione che i terroristi hanno per la morte, sì da sembrare indomabilmente più forti di noi. C’è un ideale per cui valga la pena vivere, più potente di quello per cui i terroristi muoiono? Un ideale per vivere è molto di più di uno per cui morire. Nel primo caso, la vita, pur con il suo carico di contraddizioni e sofferenze, è positiva, luogo di significato, compimento e promessa di compimento. I martiri cristiani hanno dato e purtroppo danno la vita, vivendo e affermandola anche quando viene loro tolta violentemente. Nel secondo caso, la vita propria e altrui è insignificante e vi si può rinunciare o sopprimerla per un utopico progetto di paradiso terreno o ultra-terreno. Si tratta di una declinazione più elementare delle ideologie che hanno insanguinato il Novecento. Mentre siamo impegnati a discutere di quale spazio dare a presunti nuovi diritti, indifferenti o polemici con i valori e le verità della nostra tradizione, siamo investiti da un treno in corsa, che travolge la nostra superficialità e disattenzione. Il buio della tragica ondata di nonsenso, di cui siamo vittime e autori, deve trasformarsi in una spinta opo la strage che ha | | 13 gennaio 2016 | 7 BUON 2016 cogente a riflettere su chi siamo e così cercare una sponda per un possibile cambiamento, per un possibile sguardo nuovo sulle cose. C’è ancora qualcosa per cui continuare a uscire di casa, andare al lavoro, metter su famiglia, portare i figli a scuola, anche solo andare al cinema, a fare la spesa o partire per un viaggio, curarsi per una malattia, assistere chi ha bisogno, decidere di continuare a respirare stesi su un letto di ospedale senza più poter muovere un muscolo se non le palpebre… insomma vivere e convivere? Nel corso di un ritiro spirituale tenuto agli studenti universitari di Comunione e Liberazione nel 1994, don Giussani raccontò un episodio riguardante madre Teresa di Calcutta. Un giornalista aveva intervistato una giovanissima suora di madre Teresa, non EsistE un bEnE a cui darE la vita più grandE dEl malE chE la nEga? Finché non comincErEmo a spEndErE la vita pEr rispondErE a quEsta domanda, sarEmo sEmprE schiavi dElla paura ancora ventenne, e lei disse: «Ricordo di aver raccolto un uomo dalla strada e di averlo portato nella nostra casa». «E cosa disse quell’uomo?». «Non biascicò, non bestemmiò, disse soltanto: “Ho vissuto sulla strada come un animale e sto per morire come un angelo, amato e curato. (…) Sorella, sto per tornare alla casa di Dio” e morì. Non ho mai visto un sorriso come quello sulla faccia di quell’uomo». Il giornalista replicò: «Perché anche nei più grandi sacrifici sembra che non ci sia sforzo in voi, che non ci sia fatica?». Allora intervenne madre Teresa: «È Gesù quello a cui facciamo tutto. Noi amiamo e riconosciamo Gesù, oggi». E commentava don Giussani: «Quel che c’era ieri o è oggi o non c’è più». È proprio questo “oggi” che fa la differenza, il riconoscere quello sguardo sulla propria vita oggi, non ieri o 2000 anni fa. I messaggeri del nulla Perché uno avverte immediatamente come bene un gesto come quello descritto, a prescindere dalla propria posizione religiosa o ideologica? Perché è profondamente umano e quindi vero per tutti. Risveglia qualcosa che c’è nell’io, che magari uno neanche si ricorda di avere. Corrisponde! L’argine alla disumanità dei tempi è un cuore che desidera vivere per il bene, per quel bene che rende ragione del passato e desta la speranza per il futuro. L’ideale della libertà sul quale sono stati costruiti i nostri paesi sfida qualsiasi violenza dentro e fuori i confini e ha la sua origine nel fatto che ogni singolo essere umano, qualun8 | 13 gennaio 2016 | | que sia la sua condizione fisica e morale, è rapporto con l’infinito e quindi ha un destino di cui nessuno può essere padrone. Dare la vita per il bene della singola persona, non per distruggere l’altro in nome della morte. Chi difende il nulla, chi nega l’urgenza di sostenerci a cercare un significato per il vivere, fa da sponda ai messaggeri della morte. Perché i messaggeri della morte sono i messaggeri del nulla. In questa situazione dobbiamo riconoscere che l’unica possibile ripartenza è un’educazione autentica, la liberazione dell’io dalla schiavitù di un orizzonte piccolo per la propria esistenza. Solo con un ideale grande c’è libertà, e quindi coraggio per affrontare la vita, comunque essa si presenti. La risposta adeguata a tale esigenza non comincia con un’iniziativa nostra, ma dalla accoglienza di quello che magari inconsapevolmente aspettiamo. È Natale! Il grande annuncio Il Natale, con la lieta notizia di Dio che si fa uomo, ci richiama ad accorgerci che l’umanità più grande di cui abbiamo bisogno si realizza attraverso l’ingresso nel mondo di una verità concreta, tanto inaspettata quanto visibile e frequentabile. Questo ideale ha un punto di verifica oggettivo che chiunque può riconoscere, in qualunque parte del mondo, qualunque sia il suo credo, religione, cultura, genere o sesso: esso afferma il bene e ama il destino di ogni singola persona. Esiste un bene a cui dare la vita più grande del male che la nega? Finché non cominceremo a spendere la nostra vita per rispondere a questo interrogativo, saremo sempre schiavi della paura, perché la vita è appesa a un filo. Papa Francesco ci ricorda che l’unica giustizia che può trionfare è il nome di Dio e si chiama Misericordia: «Solo l’amore riempie i vuoti, le voragini negative che il male apre nel cuore e nella storia». In questi giorni come duemila anni fa risuona in tutti gli angoli della Terra per bocca di quella cristianità che ha costruito l’Europa il grande annuncio con cui si avvia il vangelo di san Giovanni: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo». Ma l’uomo di oggi, stremato dalle proprie ansie e ferito dalle delusioni, saprà ancora riconoscerla e accoglierla? Quello che propone il Papa con l’istituzione del Giubileo della Misericordia è la presenza di una realtà storica, positiva per noi tutti, contro qualunque minaccia di male, tanto del nemico da fuori quanto della nostra meschinità da dentro. La Chiesa si rivolge a noi come luogo scelto per ospitare e far conoscere l’avvenimento di Cristo che permane nella storia. Questa scalcagnata compagnia umana nella quale continua ad essere presente il Verbo fattosi carne è il metodo che ha voluto Cristo stesso. Questa è in fondo la nostra sicurezza, nient’altro. n BUON 2016 Te Deum laudamus Per la verità decisiva del due Nel corpo a corpo tra madre e figlio l’evidenza della fittizieria dell’individuo, della sua totale inconsistenza all’infuori di un legame. La lezione della gratitudine secondo la femminista Terragni Marina Terragni scrive per diverse testate tra cui Io Donna (Corriere della Sera) ed è autrice di libri sulla “differenza femminile”, l’ultimo dei quali è Un gioco da ragazze. Come le donne rifaranno l’Italia (Rizzoli). 10 | 13 gennaio 2016 | | AugusteRenoir, GabrielleetJean (1895-1896), oliosutela, 65x54centimetri, Parigi,Musée del’Orangerie essere lei. È quello, il corpo a corpo tra la madre e il figlio, il luogo in cui è lampante la fittizieria dell’individuo, la fallacia dell’uno, la sua sostanziale inesistenza. È la matrice. Andare a toccare lì può comportare la catastrofe simbolica, perché quello è il tabernacolo della verità decisiva del due. Foto: Ansa N che richiede una | DI MarINa TerragNI* certa forza d’animo. Se si va a vedere l’etimologia, c’è una radice nascosta di passione, di desiderio e di brama che lo arroventa. C’è una lotta. Quando siamo grati a qualcuno vuole dire che chiniamo il capo, che accettiamo docilmente il fatto che molto indipende da noi, che riconosciamo un nostro limite (un bel po’ di quello che io ho, che io so e che io sono mi viene da un altro o da un’altra). C’è l’istinto di ribellarsi, di dire: no, tutto questo me lo sono guadagnato da solo, è farina del mio sacco. Cerchi di dimenticare com’è andata. Incontri quello a cui dovresti essere grato e cambi strada. Ma se non cambi strada e riesci a stare nella grati- la madre. Penso alla mia grande nonna Luigina, roctudine la lezione è grande. Per te e per quello o quel- cia, pioniera breadwinner, terribile badessa, modello. la a cui devi essere grato, che a sua volta dalla tua gra- «Màma moeri…», invocava nell’agonia. Come per dire: titudine è intimidito, perché vede in te una capacità «Mamma, vieni a prendermi». Torniamo insieme in di grandezza – sapere dire grazie – che lo rimpiccioli- quel luogo in cui prima inesistevo e poi siamo esistite. sce, e anche lui percepisce il proprio limite. La princiAnche mio padre l’ho visto andare: all’improvviso, pale lezione della gratitudine è l’ineliminabilità della in un fulgido pomeriggio d’estate, una vigilia di San relazione e l’inconsistenza dell’uno. L’individuo come Giovanni, il suo onomastico. Eravamo io e lui soli, e trompe-l’œil. Siamo sempre in due, a dire poco. Senza ho sentito questa forza che se lo riprendeva, una speun altro che ci riconosce inesistiamo. cie di vortice, come sua madre che mi diceva: «Adès l’è Non mi ricordo quale teologo missionario ha det- el me», levati di torno ragazza perché adesso è di nuoto che l’Occidente è il terzo mondo delle relazioni. vo mio. Non ho avuto nemmeno la forza della rabbia. Guardiamo di là, a quei ragazzini che si fanno saltare Non ho potuto che chinare il capo e piangere. in aria come niente dimostrandoci che la loro singola Quando si va a toccare quel punto, il madrevita non conta nulla, c’è solo l’Umma. E poi guardia- figlio/a, si tocca il fondamento della civiltà umana e mo di qua, tanti uni e une asserragliati nell’armatura l’origine di tutte le speranze, perché si tocca il punbellicosa dei diritti. Il due è la soluzione alla diatriba. to in cui il due è indistinguibile dall’uno. La distinzioIl due è il nuovo uno, è l’átomos indivisibile. Il due è ne arriva piano piano, siamo animali lenti, ci mettiala lezione della gratitudine. L’empatia, il legame, l’in- mo almeno un paio d’anni a sentirci uni e une, forse terdipendenza, i neuroni specchio. La solitudine che è tre secondo Margaret Mahler. È il tempo che occorre al processo di individuazione-separazione. più dolorosa della morte. Prima di quel tempo crediamo di essere tutt’uno Dice la mia amica Mercedes, anestesista rianimatrice, che quasi tutti quando moriamo invochiamo con la donna che ci ha generato. Crediamo proprio di on sembrerebbe, ma la gratitudine è un sentimento difficile, Il corpo è mio e non è mio Judith Butler, a cui viene attribuita la maternità delle gender theory, andando avanti a pensare ha detto tante altre cose, per esempio che «il corpo è mio e non è mio», ma qui già non la ascoltava più nessuno. Il corpo è mio e non è mio perché è impigliato in una rete inestricabile di relazioni, al punto che i confini tra me e l’altro si stemperano e si fanno confusi. Quello che faccio a me lo faccio almeno a un altro, verosimilmente ad alcuni altri, se sono fortunato a tanti altri. «Il corpo è mio» è servito a dire «non è tuo», non è dei patriarchi che ne hanno usato a piacimento. E lo si doveva dire. Ma il paradosso è che in fondo a questa strada – il corpo è mio e ne faccio quello che voglio – oggi si intravede il rischio di restituire docilmente ai neo-patriarchi ciò che ci eravamo riprese. Rifarsi corpi da usare, contenitori a pagamento, materia inerte per un ricco maschio genitore principale, secondo la visione aristotelica fondativa dell’inferiorità naturale delle donne. Ridurre l’unità di quel due a un uno+uno immediatamente divisibile, quando non lo si fa nemmeno ai cuccioli di cane, per i quali si riconosce la necessità di restare vicini alla madre per il tempo necessario. Siamo davvero la specie derelitta? L’esistenza di un mercato in cui tutto questo è fattibile vuole dire che allora si può fare? Che cosa stiamo facendo, quando lo facciamo? Sono anni che mi faccio queste domande, scrutando in quella sarabanda infernale di carne, sangue, umori, gameti, desideri, sofferenze, soldi, leggi, diritti, tenendo saldamente come primo quel terzo contrattuale che viene chiamato al mondo (come dicono i codici? salvo diritti di terzi). E pregando che la compassione non mi abbandoni, perché spesso mi abbandona. Perciò sono grata alle donne che, avendo cara come me la libertà femminile, sono arrivate a porsi quelle stesse domande, facendomi sentire meno sola. *giornalista, scrittrice, blogger, madre, femminista. E anima in pena | | 13 gennaio 2016 | 11 BUON 2016 Te Deum laudamus TE DEUM LAUDAMUS Perché hai posto sulla terra una nazione così Per quel popolo mite e fantasticante Quest’anno è stato il centenario del genocidio armeno. Io ringrazio il Cielo che ha posto in terra una nazione così, un popolo di questa fatta. Nel 1915 circa un milione e mezzo di cristiani armeni furono oggetto di una eliminazione sistematica, totale, pianificata alla perfezione da parte degli ottomani. C’erano ragioni di tipo nazionalistico: nel momento in cui prendevano il potere i giovani turchi, si volle espiantare qualsiasi radice dal suolo del sultano che non fosse puramente, razzialmente, linguisticamente turca. Era in corso la guerra e la Sublime Soglia era alleata della Germania contro la Russia ortodossa. Dunque una necessità bellica, quella di trasferire nel deserto i riottosi armeni, poi sfuggita di mano. È la tesi ufficiale di Ankara. Di recente però, studiando le vicende di una città di confine, Mardin, dove convivevano pacificamente insieme ai musulmani diverse confessioni cristiane, non solo armeni dunque, Andrea Riccardi ha potuto dimostrare che si trattò di un martirio di cristiani. Li uccisero tutti. Non c’entrava la nazionalità, il fatto che gli armeni erano sospetti di intelligenza con il nemico russo: li ammazzarono in odio a Cristo. Eppure questo genocidio è sconosciuto. Se fino allo scorso anno aveste chiesto a uno studente delle superiori se sapesse di questo immenso eccidio, avrebbe sbarrato gli occhi confondendo armeni con armenti. Il centenario celebrato dal Papa in San Pietro, con la forza di comunicazione e la sincerità che ha Francesco, ha spezzato l’isolamento acustico intorno al grido di moltitudini torturate e assassinate, coi loro vescovi scorticati e crocifissi. La notte dell’inverno del 1915 in cui l’illusoria quotidianità degli armeni maturò all’improvviso nella cosciente rassegnazione dei martiri. Un secolo fa nella cattedrale di Costantinopoli Tra le più celebrate scrittrici italiane, armena di origini, Antonia Arslan è stata docente di Letteratura italiana all’Università di Padova. Con il suo primo romanzo, La masseria delle allodole, uscito nel 2004, ha inaugurato una grande indagine “storico-familiare” sulle tragiche (e a lungo censurate) vicende recenti del suo popolo, a partire dal genocidio perpetrato dall’Impero ottomano. Il terzo capitolo della serie, Il rumore delle perle di legno (Rizzoli, 17 euro), è di quest’anno. 12 | 13 gennaio 2016 | | cludersi, e tanta gente in tutti paesi del mondo si è stretta agli armeni per ricordare quella tragedia lontana cent’anni ma ancora così attuale, credo di aver finalmente capito. Forse intuivano molte cose, quelli che parteciparono a quel Te Deum. Ma forse si abbandonarono alla volontà del Dio che invocavano, affidando a lui la loro salvezza. E divennero rassegnati martiri quando la scure del Grande Male si abbatté su di loro, e «morirono di tutte le morti del mondo», come scrisse il testimone tedesco Armin Wegner. La Chiesa apostolica armena li ha proclamati tutti santi, le vittime del genocidio: avevano l’umiltà di una minoranza sottomessa, ma anche la fierezza di essere stato il primo popolo a proclamarsi cristiano. E nel suo capolavoro Notte sull’aia, una delle più struggenti poesie del Novecento, la voce straordinaria di Daniel Varujan tutto questo lo esprime perfettamente, attraverso la sua limpida parola di contadino-poeta: Foto: Ansa S | DI ANtONIA ArslAN 1915, a Costantinopoli, la capitale dell’impero ottomano, ma scossa dalla pesante sconfitta che l’onnipotente ministro della Guerra, Enver Pasha, aveva subìto intorno a Natale a Sarikamish, in mezzo alle nevi del Caucaso. Le truppe russe avevano avuto facilmente ragione della terza armata turca, male armata e male equipaggiata, e dei visionari e fragili sogni di vittoria di quel presuntuoso incapace del ministro, ansioso di emulare le gesta di Alessandro Magno e di Cesare, di cui teneva i busti nel suo studio. Confidando nel suo Nella foto, san Giovanni genio militare, si era gettato a corpo morto nella folle impresa di conquistare Paolo II e Karekin II, il Caucaso d’inverno, sfidando l’esercito russo, ben più assuefatto a quei luoghi Patriarca supremo e e a quei climi. Ormai accerchiato dai cavalieri cosacchi, Enver si era visto perCatholicos di tutti gli Armeni, in preghiera duto, ma era stato salvato all’ultimo istante da un manipolo di soldati armeni comune davanti al che lo avevano circondato e tratto in salvo. Memoriale delle vittime Di ritorno a Costantinopoli, il patriarca della Chiesa armena fece celebrare del genocidio a Yerevan, in suo onore un solenne Te Deum nella cattedrale. Non solo Enver partecipò al 26 settembre 2001 rito, ma elogiò pubblicamente il valore dei soldati che lo avevano salvato: eppure in quegli stessi giorni, con gli altri due triumviri che governavano il paese, Talaat Pasha e Djemal Pasha, stava progettando la “soluzio- racchiudeva in un cerchio magico dove nessun male ne finale” per tutto il popolo armeno, che sarebbe ini- sarebbe potuto penetrare. Mi commuoveva l’ingenuità mite di mio zio Semziata nel successivo gennaio 1915, proprio con il disarmo, la destinazione a campi di lavoro forzato e il suc- pad il farmacista, della bellissima zia Noemi dagli cessivo annientamento dei soldati e ufficiali di etnia occhi profondi che morì annegata nel Mar Nero perché aveva rifiutato di sposare l’assassino di suo mariarmena arruolati nell’esercito ottomano. Ho sempre pensato con strana attrazione a to, dei fratelli carpentieri che sognavano di andare quell’inverno gravido di oscuri presagi e di minimi in America: mi pareva impossibile che non avessero eventi luttuosi, che la minoranza armena cercava davvero capito niente del terribile futuro che incomdi esorcizzare facendo finta di niente, tirando avan- beva su di loro, mi angosciava quella loro serena ceciti giorno per giorno, come se l’aggrapparsi alla quo- tà che si rifletteva ai miei occhi nelle foto composte e tidianità con le sue abitudini e i suoi riti immutabili, solenni negli abiti della festa. Avrei voluto ritornare il lavoro giornaliero e il ritorno a casa, il calore del- indietro, scuoterli dalla loro quiete sognante… Ma in questi giorni, mentre l’anno del centenario la famiglia e del rassicurante cerchio esteriore del villaggio, rappresentassero un potente esorcismo che la del genocidio, della Aghèt (la catastrofe), sta per concenario: una notte dell’inverno «È squisito per il mio spirito tuffarsi nell’onda luminosa di azzurro/ naufragare – se è necessario – nei fuochi celesti;/ conoscere nuove stelle, l’antica patria perduta,/ da dove la mia anima caduta piange ancora la nostalgia del cielo». La grave omissione del governo italiano Il popolo armeno è stato perfino più sventurato di quello ebreo, se mai queste graduatorie abbiano un senso, perché mentre la Shoah è riconosciuta (quasi) da tutti, pur esistendo i negazionisti, e la Germania si è cosparsa il capo di cenere come popolo e come Stato, l’Olocausto armeno è negato dalla Turchia e da molti paesi islamici, ma in quanto genocidio non è riconosciuto neppure da Stati Uniti e Israele. E la Turchia, appartenente alla Nato, è riuscita a condizionare con il ricatto della sua potenza la diffusione di questa notizia. Ho una testimonianza grave da produrre. È stato impossibile approvare in parlamento una risoluzione preparata da vari gruppi politici in cui si impegnava il ministero dell’Istruzione a inserire il genocidio armeno nei programmi scolastici. È stato vietato votare questa risoluzione, è stata insabbiata. E il sottosegretario del governo, plenipotenziario per i rapporti con l’Europa, Sandro Gozi, è giunto a sostenere che «è inopportuno che il governo prenda posizione ufficiale: è compito degli storici». Si chiama relativismo opportunistico. È persino peggio del negazionismo turco. Per fortuna il Papa in aprile ha usato parole formidabili sul tema, riconoscendo che questo genocidio va condannato con il nome che gli spetta, per fermarne un altro oggi in corso contro i cristiani in Siria e in Iraq, e contro gli yazidi. Non canto il Te Deum contro qualcuno, non canto la morte di un milione e mezzo di nostri fratelli, ma il loro canto che viene giù dal Cielo. Canto il meraviglioso popolo che il sangue versato ha generato nel cuore del nostro tempo, amici anche oggi perseguitati in Siria, di nuovo messi in fuga, ma sempre testimoni di una croce fiorita, che è resurrezione e musica. Grazie a Dio ci sono gli Armeni, c’è questo popolo bisognoso di giustizia e capace di misericordia. Renato Farina | | 13 gennaio 2016 | 13 BUON 2016 Te Deum laudamus Perché mi hai dato qualcosa da amare In battaglia bisogna potersi aggrappare a una grande passione per non perdere la speranza. Parola di Sinisa Mihajlovic, uno che di guerre ne ha attraversate tante È 14 | 13 gennaio 2016 | | Lei di guerre ne ha viste, sia nel senso letterale che in senso sportivo. A cosa o a chi si può aggrappare la speranza e la gratitudine di un uomo in battaglia? Anche l’Italia ormai è un paese in perenne conflitto per qualunque motivo, dalla politica allo sport. Si deve aggrappare alla fiducia. Non si deve mai perdere la fiducia, non si deve mai perdere la speranza. Si deve continuare sempre a lottare al di là di tutto, perché non bisogna mollare mai. Bisogna essere forti. So che non è facile e so che non tutti sono forti. Però io ho fatto sempre così: ringrazio anche per il mio carattere. Come crede che possa salvarsi questo paese dalla guerra continua? Ma la speranza su cosa si può basare? Foto: Ansa Sinisa Mihajlvoic è nato nel 1969 a Vukovar, ex Jugoslavia, ora Serbia. È stato un grande calciatore (centrocampo e difesa), temutissimo sulle punizioni: ancora detiene il record di calci piazzati realizzati in serie A, a pari merito con Andrea Pirlo (28 reti). Ha giocato per Stella Rossa, Roma, Sampdoria, Lazio e Inter. Da allenatore si è seduto sulle panchine di Bologna, Catania, Fiorentina, Serbia e Samp. Oggi occupa quella del Milan. la mattina di domenica 20 dicembre e il Milan è in ritiro a Frosinone. I rossoneri giocheranno alle 18 e si stanno preparando psicologicamente a scendere in campo fra tensioni e ansie che si possono a stento immaginare. Da settimane le cronache sportive sono piene di espressioni stereotipate come “panchina traballante” e “panettone a rischio per Sinisa Mihajlovic”. Sono tutti pronti a scommettere che se il Diavolo non vincerà neanche stavolta, l’ultimo incontro dell’anno solare 2015 sarà l’ultimo in assoluto per l’allenatore serbo. Quella di oggi è la partita della vita per Miha, scrivono tutti senza fantasia. Eppure il mister accetta di interrompere per Può raccontarci qualche episodio particolare? qualche minuto la mitica “concentrazione pre-gara” Mah, gli episodi sono tanti. Mi vengono in menper consegnare a Tempi il suo personale Te Deum. te tutte le vittorie, la firma del contratto… perché la È un bello sforzo mentale, ma l’uomo ne ha passate mia vita comunque è molto legata alla mia professioabbastanza per potere insegnare a chiunque che non ne, perciò tutto, anche l’umore, dipende sempre in sono le fortune di una domenica a decidere il valore una certa misura da come va la squadra. Non è facidi un’esistenza. E tuttavia questa sera Mihajlovic urle- le, per esempio, quando le sensazioni sono negative rà e si batterà con i suoi giocatori come se fosse l’ora riuscire a non trasmetterle alla mia famiglia. Il mio e mezza più importante della storia. Frosinone due, è un lavoro che ti prende 24 ore al giorno e sopratMilan quattro. Sinisa avrà un motivo in più per chiu- tutto quando c’è qualche problema non è semplice “staccare”, arrivare a casa e dedicarti ai figli senza dere l’anno ringraziando. pensarci: ci pensi sempre. Ma a parte questo, tutti i Mister, ricorda uno o più fatti della sua vita profesmomenti vissuti con i miei figli, quando li vedo una sionale e personale che hanno reso per lei il 2015 un volta ogni dieci giorni (perché io vivo da solo a Milaanno da ricordare con gratitudine? Difficile ricordare tutto, comunque ci provo. Per no, la mia famiglia è rimasta a Roma), sono momenquanto riguarda il mio lavoro, per i primi sei mesi ti belli di cui ringrazio. dell’anno devo ringraziare perché siamo riusciti a C’è qualcuno di preciso che crede di dover ringraziaportare la Sampdoria in Europa League; per gli ultire quest’anno? mi sei mesi ringrazio perché in virtù di quella impreRingrazio sempre per la mia famiglia. Ho cinque sa sono diventato allenatore del Milan. Una crescita bambini e ho una moglie splendida che si occupa di continua. Quanto al livello personale, devo dire che loro, permettendomi di stare sereno e concentrato grazie a Dio c’è sempre stata la salute per me e per sul lavoro. Poi per quanto riguarda il calcio, ringrala mia famiglia. Stiamo tutti bene, ringrazio anche zio le persone che lavorano con me, i dirigenti e tutper questo. ti quelli che mi hanno dato fiducia. La speranza si può basare sulla bontà della gente. Io sono passato purtroppo attraverso due guerre, e solo chi ci è passato sa cosa vuol dire. Dopo quello che è successo in Francia, adesso anche lì, come in molti altri paesi del mondo, sanno che la guerra è la cosa peggiore che c’è. Allora bisogna sensibilizzare la gente. Bisogna far capire alla gente che a questo mondo c’è posto per tutti. Che bisogna aver rispetto per tutte le persone. Che ognuno ha la propria religione ma deve rispettare anche le altre. So che non è facile e non ho soluzioni politiche, sono uno che ha passato due guerre e posso solo offrire la mia testimonianza: la guerra è la cosa peggiore di tutte. Non solo l’Italia, tutto il mondo è così purtroppo. Eh, l’Italia… Io dico sempre che la maggior parte delle guerre sono di religione, e la fortuna che avete qui è che siete tutti cattolici. Dico che bisogna essere uniti. Capisco che la vita è difficile, la gente ha sempre meno soldi ed è dura vivere in questa maniera, però è sempre meglio che fare la guerra. In Serbia le persone vivevano male, e l’unico modo perché la gente non pensasse a come viveva male era farle fare la guerra, darle un motivo, un’altra cosa a cui pensare. E lei come ha fatto a non arrendersi alla guerra? A me ha aiutato lo sport. Io soltanto quando stavo in campo riuscivo a non pensare alla guerra. Ricordo che in quel periodo volevo allenarmi tutti i giorni: è stata la passione per lo sport che mi ha dato la forza di reagire e di passare i momenti bui. È indispensabile amare qualcosa: la famiglia, lo sport… La forza dell’amore è devastante. Nel bene e nel male. Ti porta a fare cose di cui neanche ti crederesti capace. Pietro Piccinini | | 13 gennaio 2016 | 15 BUON 2016 Te Deum laudamus Per quelle gocce d’acqua nel deserto A sinistra, la facciata della chiesa di Bozoum e la costruzione della scuola media. Le foto sono tratte dal blog di padre Gazzera Bozoum in diretta. Sotto, papa Francesco durante la visita in Centrafrica lo scorso 29 novembre, dove ha aperto la prima Porta Santa del Giubileo della Misericordia La visita del Papa in Centrafrica è stata come la pioggia tanto attesa. Ci ha ricordato che anche qui, dove ci si massacra per meno di niente, può tornare il desiderio di costruire Aurelio Gazzera è missionario carmelitano e vive in Centrafrica dal 1992. Tra i più poveri dell’Africa, da tre anni il paese è teatro di una guerra sanguinosa e quasi totalmente ignorata dal resto del mondo. Nel 2007 padre Gazzera si è guadagnato l’appellativo di “uomo che ha piegato i fucili” per il modo in cui ha affrontato i banditi che infestavano la zona intorno a Bozoum. 16 | 13 gennaio 2016 | | Foto: Ansa N dio! Sono le 6 del mattino, e il sole cerca di sorgere su | DI AURELIO GAZZERA Bozoum, a 400 chilometri da Bangui, in Centrafrica. Qualche settimana fa, papa Francesco ne ha fatto la “capitale spirituale del mondo”, aprendo la Porta Santa del Giubileo della Misericordia, in anticipo sul resto del mondo. E allora, come si fa a non lodarTi? Grazie Signore per questo anno, che pur con tutte le sue difficoltà, ha portato anche bellezza, gioia, amore e pace. Magari soltanto come piccoli semi. Ma ci sono. Questo paese, in guerra da tre anni, è come la terra screpolata di questa stagione secca: tutto sembra arido e morto, ma basta una goccia d’acqua e il deserto rifiorisce. È venuto il Papa, e sembrava proprio che la gente non aspettasse altro. Tutti: cristiani e musulmani, cattolici e pagani, hanno capito che la visita di Francesco era la pioggia tanto attesa. Magari, come le prime piogge, non avrebbe dato grandi frutti (per quello, ci vuole tempo, pioggia e lavoro duro) ma sarebbe bastata per avere un po’ di verde, di fresco, di Vita. E questo è quello che è successo. Te Deum laudamus: se c’è un posto al mondo dimenticato e ignorato, è il Centrafrica. E Tu sei venuto, l’hai visitato, e l’hai coperto di Grazia! Mentre uscivo dallo stadio, dove con almeno 30 mila persone abbiamo celebrato e vissuto l’Eucarestia presieduta da papa Francesco, sembrava di essere in un altro paese. Trentamila persone che devono uscire per forza da un cancello largo 4 metri… è inevitabile che ci si spinga, e tanto. Ma nessuno si è messo a litigare, a gridare, a urlare. E questo in un paese dove, da un paio di anni, i problemi prima si discutono con le armi (dai kalashnikov ai coltelli) ni schierati, NON riescono a portare un minimo di e poi, se c’è ancora qualcuno vivo, si ragiona. Fuori pace e di sicurezza, la Tua presenza, la presenza del dallo stadio sembrava che il Centrafrica avesse vin- Papa, hanno fatto il miracolo. Magari un miracolo fragile, come le prime piogto la Coppa del Mondo: clacson, risate, grida, gioia. E, grazie a Dio (e proprio solo grazie a Te, Dio!), era ge. Ma un miracolo. Un miracolo che accende la speranza, perché fa vedere che al di là della terra aricosì: la capitale spirituale del modo. Te Deum laudamus! Mentre i Caschi Blu del- da, c’è una riserva di Vita, di Pace e di Gioia che le Nazioni Unite, con un costo giornaliero di alme- non si è estinta. E bastano due gocce perché tutto no un milione e mezzo di euro, e con 12 mila uomi- rinverdisca. oi ti lodiamo Non sappiamo ancora quanto durerà questo miracolo. Forse poche settimane. Oppure qualche mese. Magari di più. Ma quello che conta è che ci aiuta a ricordarci che l’impossibile è possibile. Che su questa terra martoriata e arida può spuntare l’erba. Che in queste persone capaci di massacrare per meno di niente, capaci di distruggere, saccheggiare e violare persino gli spazi sacri delle scuole e degli ospedali, può spuntare la nostalgia della Pace, la voglia di costruire e non di distruggere, la forza di amare e non di odiare. Te Deum laudamus! Questo miracolo non è solo per il Centrafrica. Di questi miracoli ne fai continuamente, dappertutto, a ogni latitudine. Da quando hai creato il mondo e, soprattutto, da quando Tuo Figlio si è fatto Uomo. Come ha detto papa Francesco a Bangui: «La salvezza di Dio ha il sapore dell’amore». | | 13 gennaio 2016 | 17 buoN 2016 TE DEUM LAUDAMUS Perché DAvANtI Al mAle Dell’IsIs cI sPINgI AD AgIre | DI Amel NoNA N ella nostra vita odierna, piena di violenze e attacchi terroristici e uccisioni di innocenti, alcuni princìpi fondamentali della nostra fede cristiana ci sfidano a dare una risposta adeguata. Quando siamo davanti a un attentato che ha come unico obiettivo uccidere gli altri solo perché sono diversi, come è possibile pensare di amare coloro che realizzano un simile gesto? Il dilemma che il mondo cristiano affronta oggi ci costringe a ricordarci dei primi cristiani, quando erano piccoli gruppi perseguitati dalle autorità dell’epoca. Che male avevano fatto per essere oggetto di persecuzione? Erano una minoranza che non faceva male a nessuno, ma il potere li perseguitava e li uccideva. Allora come si può amare chi vuole ucciderci solo perché abbiamo un’altra fede? La bellezza della fede cristiana risiede nell’essere una fede di cuore e non di leggi, un credo che non ha una lista di obiettivi da realizzare nel mondo, ma solo una parola del Maestro divino: «Amatevi gli uni gli altri», tutto il resto gira intorno a questo. Significa che il cristiano non è obbligato a seguire leggi prefissate e fatte per una civiltà precisa o in un tempo diverso di quello in cui vive, ma ha solamente una parola: ama l’altro. Come sia possibile amarlo, la maniera in cui si ama l’altro, dipende tutto da quel cristiano. Perciò la nostra fede ci chiede di essere nel nostro cuore pieni di amore, ma realizzare questo amore concretamente è un nostro compito. L’importante è che ci sia l’amore verso l’altro anche se l’altro è un uomo cattivo. Davanti un gruppo come l’Isis, uomini pieni di odio verso di noi e di voglia di eliminarci, la sfida è duplice. Da una parte, la loro cattiveria cosa cambia nel nostro cuore? Questo male può cambiare la pienezza dell’amore di cui la nostra fede riempie il nostro animo? Bisogna stare attenti a non svuotare l’amore che è nel nostro cuore per reazione alle violenze dei terroristi. È proprio quello che vogliono: che diventiamo come loro, senza amore, così possono giustificare meglio l’odio che provano verso di noi. La nostra fede odia il male, ma non chi fa il male. Dall’altra parte, però, l’amore che abbia- mo ci spinge a reagire in modo adeguato al male che compiono i terroristi. Bisogna fare qualcosa contro questo male e non rimanere passivi nei suoi confronti. Abbiamo la necessità di trovare un modo per fermarlo, per sradicare questo pensiero dalle nostre società e dal mondo intero. E questo modo può comprendere qualunque atto necessario, anche aggressivo se c’è bisogno. L’amore non resta chiuso nell’intimità Non è contro la nostra fede, è la fede stessa che lo richiede. Quando il Signore ci insegna ad amare, ci fa capire che amare l’altro non è solo una cosa personale che debba rimanere dentro di te, ma una forza che ti spinge a rendere anche l’altro pieno di amore. Davanti ai terroristi islamici bisogna reagire con forza e coraggio, opponendo una risposta forte alla minaccia. Bisogna far capire loro che il male che praticano verrà sconfitto dalla nostra resistenza, dal nostro coraggio e dalla nostra reazione. Perché noi amiamo tutti gli uomini, e per questo noi combattiamo con le nostre regole e con i mezzi adeguati al male. Occorre cambiare le regole che concedono spazio a chi vuole compiere azioni cattive. Il male sarà sconfitto se saremo capaci di cambiare tutto quel che serve per combatterlo e sconfiggerlo. Non bisogna aver paura del cambiamento e non dobbiamo esse- Monsignor Amel Nona è arcivescovo dell’eparchia caldea di San Tommaso Apostolo a Sydney. È stato arcivescovo di Mosul, in Iraq, fino all’estate del 2014, quando le milizie terroriste dello Stato islamico hanno invaso la città e cacciato tutti i cristiani. lA NostrA È uNA feDe DI AzIoNe e NoN DI AttesA: vA verso l’Altro Per cAmbIArlo, NoN AsPettA che fAccIA quel che vuole re deboli di fronte ai terroristi. Non permettiamo loro di cambiare la nostra cultura d’amore, quando facciamo ciò che è necessario per far capire loro cos’è l’amore cristiano, e se non vogliono capire dobbiamo metterli in condizione di non riuscire più a fare il male. La fede cristiana è una fede di azione e non di attesa, una fede che va verso l’altro per cambiarlo e non attende che l’altro faccia quel che vuole contro di noi. Noi amiamo e non odiamo, ma il nostra amore ci fa reagire con forza all’odio, per sconfiggerlo. | | 13 gennaio 2016 | 19 BUON 2016 Te Deum laudamus Per quelli che hanno voglia di fare Non si scappa dalla fatica e dal lavoro. Occorre spendersi perché la protesta diventi proposta. Venezia mi ha eletto per questo. Ed è questo che le sta permettendo di riprendere il largo U Luigi Brugnaro è stato eletto nel giugno scorso sindaco di Venezia, conquistando a sorpresa una delle principali roccaforti del centrosinistra (che comandava incontrastato in laguna dal 1993). Fino all’ingresso in politica è stato presidente di Umana, una delle principali agenzie per il lavoro italiane, divenuta ora una holding che raggruppa venti aziende in diversi settori, e ha guidato la Reyer Basket di cui è proprietario. In precedenza (2009-2013) aveva presieduto anche Confindustria Venezia e Assolavoro (2012-2014). Ha cinque figli. 20 | 13 gennaio 2016 | n gioiello che non ha eguali al mondo e 30 milioni di visitatori l’anno. Eppu- | DI LUIgI BrUgNarO re, quando siamo arrivati alla guida di Ca’ Farsetti abbiamo trovato un buco da 800 milioni di euro e situazioni in città da far impallidire I miserabili di Victor Hugo. Ma come? Come è stato possibile che un patrimonio dell’umanità, uno dei più straordinari luoghi della storia e siti della civiltà, sia stato ridotto a pietire protezione dall’Unesco e a scendere a Roma col cappello in mano? Come è potuto accadere che, in una città splendente di luce e di tesori, indigeni e forestieri rimanessero impigliati all’ombra di balzelli e di un assistenzialismo sempre più grami invece che scatenarsi in un dinamismo benedetto da Dio e dagli uomini? D’altra parte è vero, la speranza risiedeva a Venezia nelle stesse percentuali in cui, negli ultimi anni, intermedia e dà lavoro a decine di migliaia di persoi cittadini si recavano alle cabine elettorali e parte- ne. Cose come società sportive che ricreano comunità cipavano attivamente al governo della città. Pensate e offrono ai giovani l’opportunità di crescere e compeche anche i veneziani non avessero buone, anzi, otti- tere imparando valori umani e dandosi obiettivi conme ragioni per starsene a casa piuttosto che andare creti piuttosto che surreali. Non si scappa dalla regola a votare? Per mandare a quel paese i signorotti del- della fatica e del lavoro. Non basta chiedere, protestala politica e i signorini dell’antipolitica, piuttosto che re e stare dalla parte del bisogno e del giusto. Occorre infilare una scheda nell’urna? Ecco, guardando a cosa agire, fare, costruire qualcosa perché bisogno e giustista accadendo in giro per l’Europa, considero già un zia si trasformino da lamento in azione, da rivendicapiccolo miracolo il fatto che un “signor nessuno”, sia zione in fatti, da protesta in azione propositiva. Per cui della politica sia dell’antipolitica, è stato eletto a furor ogni cittadino, in qualunque condizione si trovi, possa di popolo. Posso ben dirlo: a “furore” e da parte del alla fine partecipare dei risultati che il suo contributo “popolo”, considerato il rating da curiosità esotica, ha portato alla comunità nel suo insieme. rispettabile ma pur sempre minoritaria, che ci davano gli scommettitori quando il nome di Luigi Brugna- L’armonia fra cultura ed economia ro fece capolino nella corsa a sindaco. Per tagliar corto, visto che l’avventura è appena Per carità. Non sono né un comico agguerrito né cominciata (ma i veneziani mi dicono che già si respiun professionista della protesta. Non ho né il codino ra un bella arietta nuova in città), ciò che conta nelda Podemos né l’età per giocare all’anti-Casta. Eppu- le piccole come nelle grandi imprese è la serietà, la re, nel mio piccolo, nell’esperienza di una vita trascor- concretezza e la decisione con cui credi in quello sa con un certo impegno e coerenza, posso ben dire di che fai e fai quello in cui dici di credere. Chiamateaver fatto “cose” anch’io. Cose come un’azienda che lo, se volete, “rinascimento veneziano”. Vado per tito- | li, perché non è questo il luogo per dettagliare. Primo. Non è vero che, come si è visto con il nuovo tracciato delle Grandi Navi in laguna, la difesa dello sviluppo è contraria alla difesa del territorio e dell’ambiente. Secondo. Non è vero che cultura ed economia parlano due lingue diverse e che se fai buona cultura sei poi costretto a farla pagare a Pantalone, allo Stato, cioè al cittadino contribuente. Cultura e impresa, in una città come Venezia, non solo devono andare insieme e produrre reddito, ma possono diventare opportunità anche per il governo nazionale e assumere addirittura un ruolo di traino nel processo politico europeo. Vi sembra che Venezia possa offrire meno appeal di Bruxelles e il suo porto debba rinunciare ad ogni segmento competitivo rispetto a quello di Anversa? Terzo. Porto Marghera. Davvero dovremmo rassegnarci all’idea di un sito archeologico industriale lasciato a incancrenire in laguna, uno spazio geografico immobile nell’assistenzialismo, dove continuare a riversare denari che non producono posti di lavoro, abbandonato alla fantasia di utopie da sottosviluppo? Quarto. Sono stato eletto perché Venezia torni ad essere Serenissima. Perché invece di fuggire o ciondolare all’amo dei soliti quattro sfasciacarrozze, i giovani ritrovino un lavoro e si appassionino all’impresa di fare grande la loro città, le famiglie la gioia di abitarla con i loro bambini, ogni cittadino la sicurezza anche nelle più remote calli. Non solo festival e carnevale È finito il tempo di piangersi addosso e lamentarsi di quello che succede o non succede a Roma. Ringraziando i veneziani che mi hanno voluto in plancia di comando, come sindaco di Venezia, farò tutto ciò che è in mio potere fare perché la nave torni a uscire dal porto e ricominci a solcare i mari, da regina dei commerci e di una modernità sviluppata, civile, ordinata, forte delle proprie identità e peculiarità locali, ma stendendo le sue vele ai venti di tutte le opportunità offerte dalla globalizzazione. Amo ripetere che “se riparte Venezia riparte l’Italia”. Mi pare di non sbagliare. A Dio piacendo, Venezia non sarà più una non notizia tra una passerella e l’altra del cinema, né l’attimo fuggente di un Carnevale sul Canal Grande. | | 13 gennaio 2016 | 21 BUON 2016 Te Deum laudamus Per quello che ho ricevuto. Incluso il carcere Dopo cinque anni di prigione Cuffaro è uscito da Rebibbia e ha ritrovato la libertà e la famiglia. «Ma soprattutto ho conservato la fede. Grazie per essere entrato nella mia cella» Q Esponente storico di primo piano della Dc siciliana, che ha seguito fedelmente in tutte le sue evoluzioni fino all’Udc di Casini, Totò Cuffaro è stato governatore dell’isola dal 2001 al 2008. Il 13 dicembre scorso è uscito dal carcere di Rebibbia dove ha scontato quasi cinque anni di pena (dal 22 gennaio 2011) per i reati di favoreggiamento aggravato alla mafia e rivelazione di segreto istruttorio, accuse che lui ha sempre respinto. 22 | 13 gennaio 2016 | ualunque detenuto che lasci il carcere in prossimità della fine dell’anno è | DI TOTò CUffarO in grado di comprendere il significato della preghiera liturgica del Te Deum che la Chiesa ci fa cantare, oltre che in alcune solennità, la sera del 31 dicembre, per ringraziare dell’anno appena trascorso. (Non a caso si canta anche nella Cappella Sistina dopo l’elezione di un nuovo papa)! Ricordo ancora quando da bambino lo ascoltavo cantato in latino in chiesa in paese l’ultimo dell’anno senza capirne le parole, ma con mia mamma che me ne spiegava il significato, perché diceva: «Abbiamo sempre da ringraziare il Signore, almeno perché ci ha fatto nascere e ci ha fatto giungere fino ad oggi». Il mio Te Deum di quest’anno non può che essere continuato a pregare insieme al mio buon amico e innanzitutto un ringraziamento per la riconquista- compagno Jalal, abbiamo pregato con la stessa intenta libertà. Ma i 1.780 giorni trascorsi a Rebibbia mi sità e con le stesse intenzioni per le vittime del terrohanno insegnato che solo questo sarebbe poca cosa. rismo e abbiamo pregato nello stesso modo. Di diverIl mio Te Deum di quest’anno è anche un ringrazia- so soltanto il mio sguardo rivolto al cielo dove c’eramento per essere tornato a casa, dove una mamma no i gabbiani e quello di Jalal rivolto verso il muro ultranovantenne, una moglie, due figli, due fratelli, della cella in direzione della Mecca. E ciò che non mi ha fatto perdere la fede è stata tanti parenti e tantissimi amici mi hanno atteso con immutato affetto. Ho imparato, in carcere, che non la Misericordia. La Misericordia di Dio che è in grado tutti i detenuto hanno la stessa fortuna. Ma anche di attraversare tutte le celle e tutte le grate che impediscono ai detenuti di uscire. questo non dice tutto. Maestro e Padre in questa Via Crucis mi è stato Il mio Te Deum di quest’anno è soprattutto il riconoscimento per quello che di più caro ho ripor- papa Francesco. Dei suoi tanti interventi nelle visite tato a casa dal carcere: la fede. Mai come quest’anno alle carceri di tutto il mondo voglio ricordare quanto la frase di san Paolo mi è stata cara, presente e con- disse a Palmasola, in Bolivia. «Quello che sta davancreta: «Ho combattuto la buona battaglia, ho termi- ti a voi – ha detto parlando di se stesso – è un uomo nato la corsa, ho conservato la fede». Sì, perché il car- perdonato. Un uomo che è stato ed è salvato dai suoi cere, in barba a tutti i proclami dello Stato e delle sue molti peccati. Questa è una certezza della mia vita. leggi, è un luogo dove ci si può perdere e ancor più L’amore di Dio è un amore che guarisce, perdona, si può perdere la fede. Ma la fede è di per sé libera, rialza, cura, che si avvicina e restituisce dignità. Gesù non può essere imprigionata e non deve essere stru- è un ostinato in questo: ha dato la vita per restituirci mentalizzata, neanche se appartiene a un detenuto, l’identità perduta. Quando Gesù entra nella vita uno sia esso cristiano o di fede islamica. In questi anni ho non resta imprigionato nel suo passato ma è in gra- | do di piangere e lì trovare la forza di ricominciare». Oggi se non avessi la fede, non so dove troverei le forze per ricominciare. La vita è un ricominciare sempre, ogni giorno, ogni istante. La realtà provoca e noi non possiamo non prenderla sul serio e ciò vuol dire accettare la sfida che essa ci pone. La chiave di volta sta nel rapporto con noi stessi, tra noi e ciò che ci sta attorno. Da ciò non dobbiamo rifuggire perché è il culmine e la misura della sfida. Dobbiamo pregare più intensamente perché la Misericordia sia sempre presente nei nostri cuori e nella nostra vita, sia di detenuti sia di uomini liberi. Il Papa ha annunciato il Giubileo speciale della Misericordia e ha voluto per il 6 novembre 2016 il giorno del Giubileo del detenuto, riaffermando e ribadendo la sua attenzione per chi è privato della libertà. Ma ha stabilito che il Giubileo si possa fare anche in carcere, anche senza la porta della Misericordia che c’è in certe chiese. Non è appena una innovazione: è una rivoluzione perché capovolge la logica! È la Sua Misericordia che ti viene incontro; devi solo chiederLa e riconoscerLa. La Misericordia è al di sopra di ogni sovranità e di ogni potere, di ogni inferiorità e di ogni soggezione. È questa Misericordia che mi ha consentito di tornare a casa e trovare mia moglie e i miei figli che mi attendevano. Mio figlio ha voluto ricordarmi una frase di Telemaco, il figlio di Ulisse: «Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli, per prima cosa vorrei il ritorno del Padre». Tutti attendiamo un padre. Tornato a casa non ho trovato mio padre, morto qualche anno fa. Ma mio figlio ha ritrovato suo padre che attendeva da quasi 5 anni. Dopo gli abbracci e la commozione ha voluto spiegarmi il senso dell’attesa più o meno così: l’assenza di un padre è un’assenza sempre presente. È grazie a questa tua assenza che abbiamo potuto capire il tuo sacrificio e comprendere il dono più grande che potevi farci: la testimonianza di una vita concreta, là dove non avremmo mai potuto aspettarcelo, in un carcere. Ecco perché il Te Deum di quest’anno sarà diverso e particolare; non solo perché potrò tornare a cantarlo nella chiesa del mio paese, dove sono stato battezzato e introdotto alla Chiesa di Dio, ma perché per ripartire occorre ringraziare per quello che abbiamo ricevuto, anche per una colpa inflitta ingiustamente o una morte che non avresti voluto che accadesse. | | 13 gennaio 2016 | 23 BUON 2016 TE DEUM LAUDAMUS PERChé SEI TU ChE gIUDIChI Il TEmPO | Francesco Botturi è da quasi vent’anni professore ordinario di Antropologia filosofica e Filosofia morale all’Università Cattolica di Milano. È autore di saggi e articoli sui temi dell’etica, della modernità e della “ragion pratica”, dell’antropologia. DI FRANCESCO BOTTURI D i che cosa mi sono sorpreso a ringraziare lungo quest’anno? Di moltissime cose grandi, molto grandi: di Maddalena, la nuova nipotina, e della generosità che l’ha portata al mondo; delle molte testimonianze di fede, quelle autorevoli e attese e quelle casuali e inaspettate; del buon lavoro fatto, nonostante tutto; dello spettacolo del primo spalancarsi della mente nei più giovani… Di che cosa ho ringraziato, in fondo? Di nuovi inizi, di inizi che fanno nascere alla novità, che è il senso del nostro venire all’esistenza, come ha intuito Hannah Arendt. Non siamo al mondo per morire ma per nascere, e tutte le volte che sperimentiamo un nuovo inizio è come l’avverarsi della profezia della vita. Non si può ringraziare anzitutto se non di ciò che nasce e fa (ri)nascere. Eppure, ancora una volta, ho avvertito che ciò non basta, che ogni rigraziamento è sempre accompagnato da un’ombra. In tutto ciò che accade, come non sentire l’affanno umano del domandarsi: che cosa veramente accade in ciò che accade, che cosa avviene davvero, il positivo sperimentato è tutta la verità degli eventi? Se il definitivo non fosse già avvenuto e non avvolgesse l’accadere, che cosa ne sarebbe del nostro ringraziamento? È il senso straordinario del tempo cristiano, NEl TAFFERUglIO qUOTIDIANO DEl CUORE E DEll’AmBIENTE, qUESTO RASSERENA E SPRONA: ChE qUAlCUNO ABBIA Il POTERE DI vAglIARE qUEllO ChE vAlE DAvvERO che non è più lineare, come quello ebraico, che ancora attendeva Colui che doveva venire; che tanto meno è circolare, senza novità come quello pagano; ma che è piuttosto a spirale, il cui asse – Cristo innalzato e glorificato – presente ad ogni punto del tempo ne giudica il valore, e così lo salva. Lui stesso, istante per istante, misura della consistenza reale d’ogni accadimento. La rappresentazione del giudizio finale, che ne fa Matteo: «Ho avuto fame e mi hai/non mi hai dato da mangiare… quando, Signore?» (25,31-46), lo esprime plasticamente: 24 | 13 gennaio 2016 | | ciò che domina l’accadere del mondo è il Suo giudizio pronunciato sui vissuti umani nel tempo. Non un pronunciamento intellettuale, né una sentenza morale, ma la valutazione d’ogni cosa secondo la misura della Sua carità. Nel giudizio vivente, Cristo e la sua storia di morte e resurrezione si incrociano in unità reale giustizia e misericordia. Ogni più piccolo gesto e ogni moto dell’animo nella misura in cui è secondo l’amore trinitario è salvo e si conserva per l’eterno; ciò che è difforme, si condanna da sé e si dissolve a misura della sua inconsistenza: «Consideri scorie tutti gli empi della terra, perciò amo i tuoi comandamenti», dice il salmo (118, 119). Seguendo questa logica, sant’Agostino ha detto nel De civitate Dei che lungo la storia si va tracciando in continuazione e nel profondo (del cuore di ciascun uomo) un invisibile e reale confine tra la “città di Dio” e la “città degli uomini”. Al di là delle apparenze e dei pensieri Questa è la liberazione del tempo: che qualunque cosa l’uomo possa fare, qualunque nuovo inizio sappia generare o qualunque arroganza possa mostrare, è comunque misurato dal giudizio di Cristo, misericordia che salva fino all’ultima particella di amore e giustizia che soppesa la consistenza di tutto ciò che è. Liberazione del tempo, dunque, perché risponde alla domanda che ciascuno di noi, in qualche tornante dell’esistenza, si trova a porre: che cosa è veramente avvenuto nella mia vita, così da meritare di esserci? Sembra, a volte, che la vita sia come un fumo che si leva e poi sparisce, come lo hebel, la “vanità” del libro di Qohélet. Allora capisco meglio che cosa significhi che Cristo è «il centro del cosmo e della storia», anche del mio piccolo cosmo e della mia piccola storia. Nel tafferuglio quotidiano del mio cuore e dei miei ambienti, questo rasserena e sprona: che Qualcuno vagli il tempo e abbia il potere di vagliare quello che vale davvero, al di là delle apparenze, dei miei moti di soddisfazione e di ripugnanza, degli altrui apprezzamenti. Senso religioso del tempo, di un tempo affidato al Giudizio Misericordioso: solo qui il ringraziamento è pieno e l’ombra dissipata. Godiamo nella gioia dei nuovi inizi che ci concedi e lodiamo Te, Signore del tempo. V i è nella liturgia e nella prassi dell’ebrai- smo una benedizione molto amata che è forse accostabile al Te Deum e al suo significato. Si tratta della benedizione di Shehekheyanu, recitante: «Benedetto sei Tu, o Signore, Nostro Dio, Re dell’universo, che ci hai fatto vivere, ci hai sostenuti e ci hai fatti giungere a questo momento». Le norme riguardanti questa benedizione prevedono che sia recitata, ad esempio, per l’acquisto di vestiti nuovi o di cose che danno gioia, per l’arrivo di una notizia lieta o quando si incontra un caro amico o un parente stretto che non si vede da molto tempo, oppure annualmente al ricorrere di alcune solennità ebraiche. Recentemente la più vibrante e commovente recitazione pubblica di questa benedizione credo sia stata quella scandita, con voce rotta dall’emozione, dal rabbino Fishman alla proclamazione della nascita dello Stato di Israele la sera del 14 maggio 1948. È certamente cosa nuova e gradita per me condividere con Tempi questo Te Deum. Vorrei premettere che non è sempre facile ringraziare. In particolare, non è sempre facile ringraziare Dio. Spesso riteniamo di aver diritto a ciò che abbiamo, siano beni economici, materiali, fisici, spirituali o culturali. E che sia un dovere da parte della società, e ancor più di Dio, benedirci con tali beni. Spesso ci crediamo onnipotenti; ringraziare, al contrario, significa ammettere il limite, l’incompletezza, la dipendenza. Questo, specie oggi, disorienta e può persino infastidire. Ringraziare per il tempo concesso e per il singolo giorno accordato, inoltre, in una società di ego ipertrofici come la nostra, significa proclamare la signoria di Dio, ridimensionandoci. Anche questo può risultare scomodo. Infine, l’individuazione, nelle settimane dell’anno, di fatti concreti nella nostra vita per cui ringraziare Dio può risentire di eccessi di intimismo oppure, al contrario, di una sorta di “depressione spirituale”, per cui non riusciamo a intravedere nulla di positivo che possa valere un sincero “grazie”. L’italiano, rigore e trasgressione Ecco perché è preziosa la lezione che entrambe le nostre tradizioni religiose offrono nel fissare tempi e modalità precisi per la recita del Te Deum o di Shehekheyanu: bisogna fugare le tentazioni spirituali sia dell’anima sazia sia dell’anima depressa. Devo ringraziare Dio per le persone che quest’anno ho incontrato e conosciuto, come pure per aver avuto il privilegio di essere stato accompagnato da vecchie amicizie anche nel corso del 2015. Milano, Tel Aviv, Gerusalemme, New York, Padova, Ferrara sono state per me quest’anno città molto care, perché cari sono gli amici che vi abitano. Te Deum, infine, per quella lingua che è la mia lingua madre, l’italiano. Anche questo è un dono non da poco, con una sua precisa lezione. La nostra è una lingua per certi versi barocca. L’ordine delle parole nella frase è libero, affidato alla genialità espressiva del parlante e dello scrivente, pronto a flet- TE DEUM LAUDAMUS anche per l’ablatIVo assoluto | DI VIttorIo robIatI benDauD tersi pur di dar vita a ciò che si vuole comunicare. Questo è impensabile in altri universi linguistici. Per converso, la grammatica italiana è severa, complessa, ricca di eccezioni. Tutti, parlando e scrivendo, esperiamo quotidianamente la tensione creativa tra rigore e fantasia, tra regola e deroga, tra perfezione e trasgressione, tra logica e incongruenza. E funziona! Azzardando, potremmo dire che l’italiano esprime bene la tensione e l’accordo, in termini biblici, tra mishpàth (diritto), tzedaqah (equità) e chèsed (amore), evitando smarrimenti nelle tentazioni opposte del legalismo e dell’emotivismo spiritualista, indulgente e narcisista. Non muri né ponti ma porte Questa tensione è dinamica e non statica. Ideologia e utopia sono, invece, pensieri statici. La Bibbia, come la lingua italiana e la sua grammatica, ama la creatività e il dinamismo. Ne consegue che, ad esempio, il locus classicus adottato dalla Bibbia per descrivere i turbolenti rapporti tra il sé e l’altro da sé, tra il residente e lo straniero, tra io e tu, tra identità e alterità, non sia né quello dei ponti né quello dei muri con la bieca retorica ideologica di entrambi, ma la porta, figura della dinamicità e non della fissità. La porta, infatti, può essere all’occorrenza chiusa o aperta, disserrata o sprangata, accostata o socchiusa, spalancata o sbattuta. L’esistenza, cioè, richiede un sapiente e difficile dinamismo morale, religioso e culturale. Nel testo latino del Te Deum ho incontrato l’espressione devicto mortis aculeo, ossia “spezzato il pungiglione della morte”. In latino questo è un ablativo assoluto, un geniale e raffinato costrutto logico capace di esprimere, con eleganza ed eccezionale capacità di sintesi, molteplici significati: temporali e causali, ma anche concessivi e condizionali. Per i letterati è una vera e propria goduria. Per noi, forse, è una riflessione ulteriore sulla preziosità delle regole, incluse quelle di convivenza civile e religiosa, che non sono esanimi e fredde, bensì richiedono, come quelle grammaticali, rigore e intuizione, concretezza e sedimentazione, intelligenza ed elasticità. Te Deum quindi anche per l’ablativo assoluto e per la mia cara e inflessibile professoressa di latino del liceo che me lo ha fatto gustare. | Laureato in filosofia, Vittorio robiati bendaud coordina il Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia, presieduto da Giuseppe Laras di cui è collaboratore. Impegnato nel dialogo ebraicocristiano, è stato, assieme a don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio Ecumenismo e Dialogo della Cei, organizzatore e animatore del Convegno internazionale 2014 della Cei per i rapporti tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. È responsabile da parte ebraica, assieme a padre Lino Dan SJ da parte cattolica, dei “dialoghi a due voci” sulla Bibbia, promossi dal cardinale Carlo Maria Martini e dal rabbino Laras. Collabora con alcune riviste, quotidiani e case editrici. | 13 gennaio 2016 | 25 BUON 2016 Te Deum laudamus Per la sorella oscura È aspra, dura, petrosa questa mia malattia. Svuota e distrugge e incenerisce tutto. Senza di lei però sarei più sciocca e più cieca. Non avrei riconosciuto Cristo C i ho pensato, ho fatto i miei conti. Credo, quest’anno, di dover ringraziare | DI MarINa COrraDI per questa malattia. Io sono una bipolare, ho la sindrome bipolare. Brevemente, è un serio disturbo dell’umore, che fluttua senza controllo da picchi di euforia alla più plumbea depressione. (A dire il vero io di picchi di euforia non ne vedo più da anni, e vorrei chiedere al medico dove è andato, il mio polo positivo, giacché mi imbatto sempre solo nell’altro). Comunque, non è una malattia da poco: chi ne soffre e non si cura può, nei momenti peggiori, trovarsi a fronteggiare la disperazione. Io mi curo da trent’anni, e tuttavia il controllo sull’umore non è mai del tutto stabile. Da una vita mi sveglio al mattino e faccio un rapido controllo: se sono in grado di alzarmi, di vestirmi, di uscire, vuol dire che va tutto bene. Ma accade che, in pochi giorni o perfino in una notte, scatti il polo negativo. È molto difficile spiegare com’è, a chi non ha sofferto di depressione. Ma immaginate che, di colpo, per un black out in città, venga a mancare la luce in casa, e non abbiate torce, né candele. Restereste immobili, paralizzati, Ritorna ogni anno, al primo impercettibile cenno di non potendo fare altro che aspettare che la luce tor- primavera, e in autunno, fedelmente. La riconosco, ormai, da lontano, la vedo che si insinua e si allarni. Non potreste ridarvi la luce da soli. Ed è proprio così: è inutile e penoso, quando sto ga fra i pensieri. È inesorabile. Solo quando ho avuto male, sentirmi dire di “farmi forza”. Qualcosa in me i figli piccoli la mia sorella malinconica si è arresa, si è bloccato, e sono del tutto impotente, dentro a non sostenendo la forza leonina e tenera della materun vuoto di significato che mi sgomenta. Posso solo nità. Poi, i figli ormai adolescenti, è tornata. Ma perché ringraziare di una malattia? Perché aumentare i farmaci e chiudermi in camera, al buio, ora mi rendo conto che la mia ombrosa sorella mi giacché non sopporto più la luce. Sono soggetta a questa oscillazione da quando ha fatto del bene. Quando ero ragazza mi ha costretto a uscire dalero ragazza. È una cosa dolorosa: nei momenti peggiori sono talmente estranea a tutto, che anche solo la distrazione in cui vivevo, avendo, apparentemenuscendo per strada vorrei nascondermi, sentendomi, te, “tutto”. E allora quel precipitare improvviso, quel fra la gente che vive, una clandestina, una intrusa. guardarmi da fuori e vedermi in realtà povera e sola, Poi, dopo qualche giorno o settimana, la sorella oscu- è stato una spinta a cercare qualcosa di solido come ra se ne va: e tutto torna al suo posto, affetti, lavoro, la roccia, qualcosa che reggesse nei momenti di disperazione. È stata lei, la mia buia sorella, a metvoglia di vivere. È una compagna, questa mia sorella, costante. termi in mano un giorno le Confessioni di Agostino, 26 | 13 gennaio 2016 | | e di lì disordinatamente, a salti, a balzi, a passi all’indietro, a indurmi a riconoscere Cristo nella mia vita. Poi, a trent’anni, è stata sempre la mia malattia che è deflagrata, e mi ha mostrato, da un letto di ospedale, che non potevo vivere solo di lavoro: che volevo una famiglia, e dei figli, anche se non lo avevo mai capito. La sorella oscura con le sue lame taglienti scarnificava le apparenze, giungendo all’essenziale. Quasi mi conoscesse bene, e assai meglio di me. Ogni cosa vacilla E adesso, quando puntuale lei si riaffaccia e io vacillo, e mi rannicchio su di me smarrita, mi dice in fondo che tutto ciò che ho, che pure è molto, è in verità ancora così poco. La sorella oscura è severa: saggia con le sue mani tutto ciò che posseggo, e mostra come ogni cosa vacilli, e come tutto, e io stessa, siamo in verità così fragili, così precari. Ma dopo giorni, come dal fondo di un tunnel si riaffaccia una piccola luce. Sfrondata ogni apparenza, rimane solo per me di vero, e vero per sempre, Gesù Cristo. Ripenso alle parole che rivolse alla Samaritana, al pozzo: «Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è, colui che ti chiede da bere, tu stessa gliene avresti chiesto, ed egli ti avrebbe dato acqua viva». C’è un’acqua viva che sgorga di nuovo, da un pozzo fondo e segreto: ma è la sorella oscura che mi ha spinto sull’orlo di quel pozzo. Aspra, dura, petrosa sorella. Senza di lei però sarei più distratta, più sciocca e più cieca. Stamattina lei tace, mite, in disparte. Il mio Te Deum quest’anno è per lei, che pure mi ha dato molta sofferenza. Per lei che svuota e distrugge e incenerisce, ma discerne l’autentico dal fasullo; per lei che, inesorabile, mi conduce – recalcitrante, cocciuta, riottosa – verso il solo amore vero. | | 13 gennaio 2016 | 27 BUON 2016 Te Deum laudamus Perché sono andato in pensione Ho vissuto l’epoca migliore. E ora basta con gli stadi, gli scandali, l’indignazione collettiva, il doping e l’anti-doping. Salvo solo la mosca bianca Rossettini (ma proprio al Grifo fai gol?) 28 | 13 gennaio 2016 | | Foto: Ansa I per una volta meno bastardo del solito, per la | DI ROBERTO PERRONE sua munificenza, per la sua generosità: quest’anno mi ha concesso di cimentarmi nel Te Deum. Spero di essere all’altezza di questo onore. Te Deum laudamus perché abbiamo festeggiato il Santo Natale ancora una volta con il presepe e da qualche parte pure con il presepe vivente. Perché con i tempi che corrono oggi sì, domani boh. Te Deum laudamus perché c’è un campionato tosto e avvincente, come non si vedeva da qualche anno, almeno ci divertiamo. È tornata pure la Juventus. Te Deum laudamus ma dacci banche oneste. Meglio i soldi sotto il materasso. Io la penso come Jules Bonnot, quello della banda Bonnot: l’unico modo di trattare con le banche è rapinarle (tanto prima o poi ti rapinano loro). Te Deum laudamus perché sono andato in pensione (1). A Roma 2024 comunque non ci sarei arrivato, però adesso mi toccherebbe occuparmi della candidatura olimpica per lavoro. A vedere i soliti noti, le solite facce, i soliti figli e parenti, il solito generone imbarcato a spese nostre, mi viene sempre l’ulcera ma non dovendo trattare l’argomento meno. Te Deum laudamus, dacci una scuola laica. Ma laica vera: abolite pure i crocifissi, i presepi e “Astro del Ciel”, ma anche i libretti e le lezioni sulle fami- cominciare sono stati gli americani c’ho dei sospetti). glie “allargate”, le lezioni di educazione sessuale e Però a Michel voglio sempre bene. Te Deum laudamus perché ci sono le serie tv e i quant’altro. Solo storia, latino e matematica. Fine. Te Deum laudamus perché sono andato in pensio- film sul canale satellitare, altrimenti sulla vecchia tv ne (2): sono nato povero ma splendido, che ci posso generalista guarderei solo Mela Verde o Linea Verde fare, confesso che ho vissuto e di fare il giornalista da (perché fanno vedere formaggi, salumi, vino e pasta). Scampaci dai talk show. I soliti noti, i soliti discorsi e pezzente proprio non ho voglia. Te Deum laudamus perché i vari fenomeni dell’IS ti raccomando la Gabanelli. Te Deum laudamus per il mio amico Luca Rosset(intelligenza superiore) adesso si lamentano di Renzi. Ah, ah. Hanno abbattuto Berlusconi per trovarsi con tini, una mosca bianca tra i giocatori di serie A, calciatore che non vive sulla luna, ma conosce di che pasta il suo clone (ma più cattivo del Berlusca). Te Deum laudamus se farai un vero repulisti di è la realtà. Belin, ma doveva scoprirsi goleador proFifa, Uefa e tutto il resto, ma qualcosa mi dice che prio contro il Grifo? Te Deum laudamus perché sono andato in pensiosta cambiando tutto perché nulla cambi (e poi se a nnanzitutto laudo Fred Perri, ne (3): così non ho partecipato all’indignazione collettiva dei giornalisti unificati contro Renzi. A me le corporazioni non sono mai piaciute. Esternazioni del premier a parte, io non difendo la categoria, solo quelli che lo meritano. Te Deum laudamus perché sulla mia tavola natalizia non è mancato cibo in abbondanza (occhio agli sprechi) e tra questo un bel salame. Perché verranno i tempi che, per la dittatura di qualche fanatico (salutista o peggio), il maiale potremmo non vederlo più (nel piatto). Te Deum laudamus ma mandaci qualche dirigente che sappia trasformare il calcio italiano. Con questi presidenti non andiamo da nessuna parte. Te Deum laudamus perché almeno l’occhio è soddisfatto con tutte queste tipe in giro. Se avessi l’età di mio figlio e dei suoi amici, dei veri imbranati, farei una strage. Ma dov’eravate ai miei tempi, belle figliole? Te Deum laudamus perché sono andato in pensione (4). Così almeno non devo più andare negli stadi italiani: in quello di Napoli ogni volta che ci mettevo piede mi veniva l’ansia, ma anche San Siro, te lo raccomando. E Firenze, dove la tribuna stampa è per hobbit? Addio senza rimpianti. Te Deum laudamus ma se non si danno una mossa, mandagli un segno, un fulmine, un angelo sterminatore, uno stormo di cavallette. Perché con questo sistema giudiziario non si può andare avanti. Te Deum laudamus anche per il possibile scudetto dell’Inter. Se lo sta meritando e poi adoro il Mancio. Difesa arcigna (come si diceva un tempo), gente tosta, senza fronzoli. Ognuno fa il suo. E il “partito degli onesti” stavolta non c’entra. Massì, se po’ fa’. Te Deum laudamus, ma portaci meno tasse. Sarà possibile? Non credo, anche perché se non vengono a ravanare nelle mie tasche dove vanno? Te Deum laudamus, liberaci dal doping ma non solo da quello che gli atleti si sparano in vena per vincere, ma anche dai professionisti dell’anti-doping che sono ancora più pericolosi. I primi fanno male a se stessi, i secondi a tutti noi. Te Deum laudamus ma salvaci dalle ipocrisie e dai luoghi comuni, dai “feroci conduttori di trasmissioni false” (Guccini, Cyrano), dai profeti un tanto al chilo, da quelli che pontificano dall’attico. Te Deum laudamus per Federica Pellegrini. Ogni tanto qualcuno mi dice “com’è antipatica”. A parte che non è vero, meno male che un giorno qualcuno l’ha buttata in acqua. Te Deum laudamus e liberaci dalla smania dell’intercettazione. Non solo da quella autorizzata (?), ma anche da quella selvaggia, liberaci da quelli che fotografano, filmano e registrano tutto. Un paese di spie. Te Deum laudamus perché pare che l’inchiesta di Cremona sul calcioscommesse sia finita. Non se ne poteva più. Anni e anni, ma alla fine ci sono sempre le stesse partite, gli stessi nomi, con Conte a fare da specchietto per i media. Te Deum laudamus perché sono andato in pensione (5). Significa che ho una certa età e ho vissuto l’epoca delle cabine telefoniche, dei gettoni, delle cartine geografiche, del muovere il culo altrimenti non portavi a casa niente. Ragazzi dai trent’anni in giù, vi siete persi qualcosa. | | 13 gennaio 2016 | 29 BUON 2016 Te Deum laudamus Per l’abbraccio tra vittime e carnefici Negli anni di piombo ha oltraggiato il Dio conosciuto in gioventù. Dopo la scelta disperata della lotta armata lo ha ritrovato in cella. Delitto, castigo e riconciliazione di un pluriergastolano IL LIBRO VADEMECUM DEL DETENUTO Autore G. Cavallini, E. Colanero Editore AGA editrice Pagine 109 Prezzo 11 euro 30 | 13 gennaio 2016 | | Foto: Ansa N ei giorni precedenti le feste natalizie ho aiutato padre Rino Morelli, il cap- | DI GILBERTO CAVALLINI pellano del carcere di Terni dove mi trovo da alcuni anni, a preparare un enorme presepe che copre una vasta area del pavimento della chiesa. Erano tantissimi anni che non lo facevo e con la mente sono tornato indietro nel tempo, quando preparavo il presepe assieme alla mia buona mamma che mi insegnava l’amore per il Vangelo di nostro Signore, che a mia volta coltivavo frequentando l’oratorio della parrocchia di San Pio V di Milano e cantando nel coro in occasione della santa Messa. Inoltre, trascorrevo le mie estati con i missionari comboniani, che avevano una casa generalizia a Lanzo d’Intelvi, dei quali ammiravo la forza della fede e l’impegno che mettevano nell’affrontare la vita, loro che, dopo l’arrivo in terra di missione, erano spesso destinati al martirio. Ringrazio dunque Dio per avermi fatto trascorrere un’adolescenza piena di allegria e di pathos cristiano. Poi venne il “Sessantotto”… Il mio buon papà durante la guerra civile aveva perso un fratello e un cugino. Anche vari amici che avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana furono uccisi dai partigiani comunisti. Papà mi aveva trasmesso il culto della memoria dei Caduti, perciò mi venne naturale non condividere le idee e la mente a quel Dio che avevo abbandonato e oltragpressi dei seguaci di Marx e Mao e per questo, a sedi- giato. E il Buon Dio in qualche modo mi ha ascolci anni, sono diventato un reietto da perseguitare e tato, inviandomi come messaggero il padre gesuita possibilmente annientare. Ma allora non ero votato Adolfo Bachelet nel cui sguardo e nel cui cuore ho a porgere l’altra guancia e mi sono calato nella lot- ritrovato la stessa limpidezza e la stessa forza della ta restituendo colpo su colpo; poi sono arrivati gli fede che avevo ammirato tanti anni prima nei mis“anni di piombo” e sono andato addirittura oltre, sionari comboniani. Con padre Adolfo ho percorso un’altra tappa causando vittime, finché sono stato fermato, impriimportante della mia vita, finché Dio lo ha chiamato gionato e condannato. Ringrazio Dio anche di questo, perché nella mia a Sé e io mi sono ritrovato un po’ più solo. Ho somcella, popolata dagli incubi e dalle visioni delle mie mato nuovi errori e nuove colpe, ma non ho rinnevittime e dei miei camerati che avevano perso la vita gato il suo insegnamento, sentendo anzi la necessità condividendo quella scelta disperata, poco alla vol- di trovare una nuova guida spirituale. E Dio, che non ta sono riaffiorati i ricordi e i propositi della mia lesina nulla ai suoi figli, mi ha mandato un secondo gioventù, e con essi il bisogno di rivolgermi nuova- messaggero, padre Guido Bertagna, anch’egli della Compagnia di Gesù, che nel frattempo aveva ripreso e continuato l’opera di riconciliazione tra i familiari delle vittime e i responsabili della lotta armata che aveva iniziato padre Adolfo fin dagli anni Ottanta (o forse prima), per la quale ho rinnovato la mia disponibilità e il mio impegno, convintamente e doverosamente. Opera di riconciliazione che padre Guido, come il suo predecessore, aveva e ha portato avanti per anni in silenzio e con estrema discrezione, finendo col renderne testimonianza solo quest’anno attraverso Il libro dell’incontro, presentato a Milano, pubblicato da Il Saggiatore pochissimi giorni fa. Mi è venuto naturale confidare tutto questo a padre Rino, mentre preparavamo il presepe qui a Terni; e quando lo abbiamo terminato abbiamo rin- graziato Dio per avere dato ai familiari delle vittime la forza per partecipare agli incontri con i carnefici dei loro cari. Ma, soprattutto, abbiamo voluto pregare Dio di infondere la stessa forza in coloro che non hanno saputo, potuto o voluto condividere questa scelta: incontrare, ascoltare e, se lo ritengono, perdonare, vedendo nel Bambinello destinato a salire sulla Croce il simbolo vivente e operante di ogni Risurrezione. È solo per rilanciare questo messaggio di riconciliazione che, dopo avere sempre rifiutato di esibirmi in interviste, interventi o ricostruzioni del mio passato e del mio presente, nell’anno del Giubileo della Misericordia, ho accettato di scrivere queste righe. Buon Natale a tutti. | Gilberto Cavallini nasce a Milano nel 1952, in una famiglia cristiana, umile e unita, segnata dalla uccisione di un fratello della mamma alla fine della guerra civile. Militante di destra fin dalle superiori, viene arrestato nel 1976 dopo essere stato coinvolto in uno scontro seguito all’assalto a una sede del Msi, durante il quale viene ucciso un ragazzo di sinistra. Nel 1977 riesce a scappare durante un trasferimento. In appello la sua posizione viene ridimensionata. Durante la latitanza, negli “anni di piombo”, entra in contatto con gli ambienti della destra romana ed entra a far parte del gruppo fondatore dei Nuclei Armati Rivoluzionari, i «7 magnifici pazzi». È l’ultimo di quel gruppo a essere arrestato, nel 1983. Accusato di reati gravissimi fra cui l’omicidio di un magistrato, due poliziotti e un carabiniere, è condannato a più ergastoli. Durante i processi si assume ogni responsabilità. In carcere si riavvicina alla fede e si dedica agli “ultimi degli ultimi” fra detenuti tossici ed extracomunitari. Nell’estate del 2001 ottiene la semilibertà, e inizia a lavorare in una comunità di recupero e poi come impiegato in un centro sportivo. Nel dicembre del 2002 viene fermato e trovato in possesso di una pistola. Da allora è sepolto in carcere a Terni dove, nel 2013, si è laureato con 110 e lode in Discipline delle arti figurative e dei linguaggi creativi. | 13 gennaio 2016 | 31 BUON 2016 TE DEUM LAUDAMUS PEr OGNI (strA)OrDINArIA VItA DI fAmIGLIA | DI GIOVANNI DONNA D’OLDENICO T Giovanni Donna d’Oldenico, medico del lavoro, sposato con Carmina, padre di 9 figli più qualcun altro in affido. Ha scritto quattro libri: Polvere (2000), Giusto (2006), Dodici (2011) e Lettere a un figlio sull’educazione (2015). L’ultimo, pubblicato alla vigilia del Sinodo sulla Famiglia, consiste in diciotto lettere scritte da un padre, per parlare di educazione a un figlio che sta per mettere su famiglia. 32 | 13 gennaio 2016 | Deum lauDamus: indicativo, presente, prima persona plurale. Indicativo, modo della realtà: un anno trascorso, uno che arriva. Presente: questo istante; che, per gradevole o ingrato che sia, dando retta a Giacobbe, è casa di Dio e porta del cielo. Prima persona plurale; molto plurale, nel nostro caso, visto che siamo undici, più fidanzati e ospiti e amici e chi più ne ha più ne metta. Allora in parecchi Ti lodiamo, qui, per questo 2015, come ce lo hai regalato. Nessuna rampogna, non rimpianti, né risentimento; soltanto: Te Deum laudamus. Ma una lode sarebbe ovvia, se si limitasse ai fatti per cui è stato spontaneo prorompere in un grazie. Già: facile, oltre che doveroso, lodarTi per le vicende belle e liete, quelle che ci hanno subito dipinto sulle labbra un sorriso. A cominciare dalla quotidianità benedetta di ogni giornata trascorsa senza soprassalti né sgomenti, senza salite impervie, ma neppure discese esilaranti. Grazie per tutto questo, dunque. Te Deum laudamus anche per le circostanze che, lungo quest’anno, ci hanno fatto pronunciare altre due parole: aiuto e perdono. e Per l’orecchio che hai prestato alle nostre grida Proprio così. Tanto per cominciare, vogliamo lodarti per le volte in cui ci siamo trovati a chiederTi aiuto. Cioè per quando avversità, lievi o toste, ci hanno urtati, fiaccati, feriti, sommersi. Ne abbiamo passate anche quest’anno, eh! Ti siamo riconoscenti per l’orecchio che hai prestato a ogni nostro grido, con un aiuto che, a tempo e modo Tuo, e seppure talora spiazzandoci, mai ci hai fatto mancare. Prima ancora, però, meriti la nostra lode perché ci hai dato la voglia e la voce per gridare. Anzi, addirittura per le situazioni stesse dentro le quali la nostra invocazione è scoppiata. Contrarietà, sgomenti, dolori: Ti lodiamo per queste cose qui. Perché attraverso le croci conficcate qua e là nelle settimane di quest’anno, ci hai aiutati a riconoscere che la realtà tutta, tranne il peccato, sei sempre Tu, o Cristo, che vieni; e hai continuato a educare il nostro desiderio a farsi infinito, dunque capace di generare una preghie| ra semplice: vieni, Signore Gesù. Domanda esaudita; come il Natale, qui nei paraggi, dimostra. Ma ancora non ci basta lodarTi solo per le occasioni in cui non abbiamo potuto che esclamare grazie o per quelle in cui abbiamo dovuto implorare e ricevere il Tuo aiuto. No. Te Deum laudamus anche per ogni volta che ci è toccato domandare e accogliere il Tuo perdono. Sì: proprio per averTi dovuto e potuto chiedere insistentemente perdono. Di sicuro la lode non è per il male che abbiamo commesso, che detestiamo cordialmente e che, da Te perdonato, più non è. Ma è per le martellate con cui Ti sei lasciato trafiggere i polsi dai chiodi, per piantare nel nostro cuore, dopo averla comprata da Te a caro prezzo, la Tua misericordia. Con essa ci hai accompagnati per i giorni e le notti di quest’anno vecchio e, non contento, la stai facendo scaturire ancora più evidente nel neonato Giubileo. Te Deum laudamus perché fai di noi, che siamo tutti più o meno tentati, vacillanti, cadenti o caduti in quei burroni che si chiamano superbia e avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e accidia, sì, proprio di noi, che siamo questi qui, Tu fai gente capace di operare la misericordia di cui ci colmi. Allora: Te Deum laudamus per la misericordia ricevuta e per quella che riceveremo; e per le opere di misericordia che abbiamo fatto e che faremo. E che, per nostra fortuna, sono il doppio dei vizi capitali: sette questi, quattordici quelle. Ti lodiamo perché additandoci sette opere corporali e sette spirituali, la Chiesa indica quello che per una madre, un padre e dei figli, per una famiglia insomma, è vita di tutti i giorni. Poi si può anche partire per le missioni; ma intanto, in ogni casa, da quando si comincia ad attaccare un figlio al seno e, magari, anche da prima, si dà da mangiare agli affamati e da bere agli assetati; gl’ignudi si vestono e, per spontaneo o forzato che sia il loro viaggiare, si ospitano i pellegrini; si visitano gl’infermi e, quando tocca, i carcerati; si seppelliscono i morti. E poi si consigliano i dubbiosi e s’insegna agl’ignoranti; i peccatori si ammoniscono; gli afflitti si consolano e le offese si perdonano; si sopportano pazientemente le persone moleste; si prega Dio per i vivi e per i morti. Lodarti sempre e in ogni luogo Per ogni ordinaria vita di famiglia: Te Deum laudamus. Vogliamo che il nostro Te Deum non sia solo epilogo dell’anno che fu, ma prologo dei giorni a venire. Per questo Carmìna e io, con le figlie e i figli che ci hai donato, Piero, Anna, Carlotta, Filippo, Matteo, Giuseppe, Tommaso, Agnese e Maddalena, e con tutti gli altri con i quali camminiamo, Ti chiediamo di poter rivivere il Te Deum ogni volta che, nella Messa, ci uniremo al sacerdote, cioè a Cristo, quando afferma che «è veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza lodarTi e ringraziarTi sempre e in ogni luogo». Proprio così: sempre. Ti vogliamo lodare sempre. E in ogni luogo. Te Deum laudamus. TE DEUM LAUDAMUS PeRché NeLLa musIca cI chIamI a Te | DI FILIPPO GORINI I Dio per il dono miracoloso della musica. Affrontando sempre più intensamente negli ultimi anni lo studio del pianoforte, per me si è fatto evidente che nelle note dei grandi compositori si nascondeva la mia vocazione. Mi rendevo conto che la bellezza che si sprigiona nelle opere più sublimi è una chiamata fortissima a Dio, perché al cospetto di tali opere di genio quello che appare evidente è innanzitutto quanto siano inesauribili nella loro profondità, quanto istintivamente le troviamo “vere” nel loro essere attinenti a noi e al nostro desiderio, e quale sproporzione ci sia tra i limiti di un compositore e la grandezza dell’opera che può creare. Non riesco ad ascoltare a fondo una composizione di Beethoven o Bach senza essere colto dalla commozione di essere faccia a faccia con il Signore. Ho cominciato ad avvertire la sproporzione tra me e il senso che stava entro le note intorno a 12 anni, senza ancora riuscire a capirne l’entità o riuscire a dare il nome di vocazione a quello che avevo scoperto. Da lì si dipanò tutto il percorso di studi e di consapevolezza che mi ha portato oggi a riconoscere che quel giorno il Signore mi stava chiamando e mi faceva la grazia di capire una parte di Sé sconosciuta a molti. Come pianista, il mio compito e la mia più grande gioia è poter far vivere le composizioni, questi capolavori che sono davvero dei punti d’incontro tra Dio e l’uomo, portandole davanti agli uomini nella speranza che la mia esecuzione possa suscitare in chi ascolta la stessa reazione che suscitò in me quell’estate di otto anni fa. In questo è enorme il senso di responsabilità, e l’urgenza di non sciupare, modificare o trascurare nemmeno il più piccolo dettaglio di una composizione, perché non accada che nella mia esecuzione non ci siano le condizioni perché emerga Lui e venga incontro al pubblico. Nella fase di studio di un brano è grande la percezione della mia insufficienza a comunicare tutto questo, si passano centinaia di ore su un singolo brano a cercare di capirlo a fondo e di governarlo. In concerto suono chiedendo la grazia di forze non mie per poter dare compimento all’opera di Dio. Ogni volta che devo suonare dico una preghieo ringrazierò sempre Pianista, classe 1985, di Carate Brianza, Filippo Gorini (nella foto) lo scorso 12 dicembre ha vinto il prestigioso Concorso internazionale Beethoven Telekom di Bonn. Gorini, con i suoi vent’anni, era il più giovane dei 150 ammessi in gara, in finale ha presentato Concerto n. 5 per pianoforte di Beethoven. Ha iniziato a studiare pianoforte all’età di 6 anni, dal 2009 è allievo dell’Istituto superiore di studi musicali Donizetti di Bergamo. cOme PIaNIsTa, IL mIO cOmPITO e La mIa PIù GRaNDe GIOIa è POTeR FaR vIveRe Le cOmPOsIzIONI, caPOLavORI che sONO DeI PuNTI D’INcONTRO TRa DIO e L’uOmO ra; chiedo di poter lasciare fuori dal palco le mie insicurezze, il mio orgoglio e i miei numerosi difetti, di non cadere vittima dell’esibizionismo, e di saper rendere giustizia al capolavoro su cui “metto le mani”. Alla fine di quest’anno molto importante per la mia carriera e per il mio sviluppo personale, ringrazio il Signore per tutte le volte che si rende evidente nella mia vita e nella mia professione, per i doni innumerevoli che mi fa specialmente nelle persone preziose che mi pone accanto ogni giorno, e per il cammino che mi aspetta ancora nell’anno prossimo per avvicinarmi a Lui. | | 13 gennaio 2016 | 33 BUON 2016 Te Deum laudamus Perché il Tuo gusto non è il mio Per tutte le volte che farei qualsiasi cosa invece che il mio dovere, e trovo urgentissimi smalti da rifare e grandi slanci filantropici da assecondare, mentre quello che mi chiedi è solo stare. Qui, ora 34 | 13 gennaio 2016 | | se sto facendo la tua volontà è fare un diagramma preciso di come uso il mio tempo e i miei soldi: quanto al parrucchiere e quanto al povero che sta fuori dalla sua porta per strada, quanto tempo uso per preparare la cena, quanto ne spreco per stare su facebook, quanto ne investo per correggere i compiti, ascoltare davvero i figli (che hanno questa prodigiosa capacità di volerti parlare solo quando devi uscire o ti crolla la testa dal sonno), mettere il cuore dove sono, quanto per abbracciare quella insignificante, oscura missione, certa che tu, Signore, mi sorridi quando spolvero il termosifone almeno quanto mi sorridi quando parlo davanti a centinaia o migliaia (a volte decine o unità, eh, non montiamoci la testa) di persone. Foto: Ansa D Ti ringrazio per tutte le cose e le situazioni | DI COstaNza MIrIaNO che me lo suscitano, tante, perché in fondo sono una bambina viziata. Ti ringrazio per i piedi freddi (benedetti i mariti caldi a letto) e la signora delle poste che ci mette quarantasette minuti a chiudere un pacco, per il fantasmagorico capriccio di Lavinia, tesi di laurea in capricciologia avanzata, per la verdura da scegliere, piena di terra, e l’intervistato che non arriva e il dentista che ritarda e il clima da serra nella sua sala d’aspetto e il sudore che scorre a rivoli lungo la schiena e il figlio che intanto chiama per chiedere il temperamine da compasso che gli serve entro ieri. Ti ringrazio per il marito che qualche volta mi ama in un modo così lontano da quello che desidero, servendo nel silenzio la famiglia, concreto, fattivo, quando io vorrei chiacchiere e violini, e chissà quanto lui vorrebbe da me silenzio e concretezza, mi spezzi e non mi tagli come hai fatto con tanti, e mi chiedo perché a me tutta questa grazia. Ti ringraquando io chiacchiero e sviolino. Ti ringrazio, o Dio, per tutto quello che in questo zio perché mi plasmi come un vaso e non mi prenanno appena finito è andato contro il mio gusto, per- di a picconate come un pezzo di marmo. Ti ringraché so che è quello, proprio quello che mi sta cam- zio per tutte le volte che sono umiliata, disorientata, biando, vorrei tanto dire convertendo, vorrei tanto che non so dove mettere le mani, dove girare la testa. sperare che mi stia rendendo faticosamente, lenta- Ti ringrazio per quando mi sembra di essere arrivamente, un po’ più vicina alla vita in Te, un po’ più lon- ta davanti a un muro, di averle provate tutte: è allora tana dalla vita secondo la carne. Ci ho messo una vita, che, almeno qualche volta, mi ricordo di inginocchiva be’, dai, diciamo mezza vita a capire questa cosa armi davanti a quel muro, e di ricordarmi che «invapreziosa, che ti prometto cercherò da oggi di custodi- no vi faticano i costruttori, il Signore ne darà ai suoi re gelosamente. Ho sempre pensato che il gusto fosse amici nel sonno». Ti ringrazio per quando sono stanca e farei qualsiaun criterio affidabile, e l’ho cercato nelle cose, nelle relazioni, nelle scelte. È perché desidero vivere secon- si cosa invece che il mio dovere, e trovo urgentissimi do la mia carne, è perché non mi fido della tua Parola, smalti da ritoccare, messaggi a cui rispondere, magniè perché non credo alla tua promessa per la mia feli- fici slanci filantropici da assecondare, e mi sento pure cità. È, fondamentalmente, perché non credo al tuo un po’ martire, quando invece quello che mi è chiesto è solo stare qui, ora. Stare, semplicemente (se sarò amore, e ne cerco briciole, imitazioni in giro. Ti ringrazio o Dio per la delicatezza con cui me le vescovo il mio motto sullo stemma episcopale sarà spieghi, queste cose, si vede che lo sai che non regge- “stacce”). Lo so, me lo hai detto tante volte per bocca rei il colpo, e con me non fai movimenti bruschi, non del padre spirituale, lo so che l’unico modo per capire io, ti ringrazio per il disgusto. Raccogliendo spilli da terra in un monastero Diceva Teresina, una che di queste cose se ne intendeva, una che è diventata patrona delle missioni nel mondo raccogliendo spilli da terra in un monastero nella provincia francese, che tu, Signore, quasi ti vergogni quando ci converti per davvero, e raramente ci trasformi con violenza, perché tu non sopporti di essere sopportato, desideri essere amato, e da quando sono mamma ti capisco di più, Signore. Ti ringrazio, Signore, se non ti sei stancato di me, e se vorrai continuare a provarci anche in quest’anno che comincia, anche se la tua delicatezza rende la questione piuttosto lunga… Ti ringrazio perché mi hai permesso di intuire quale meraviglia, quale splendore, quale respiro diverso ci apre la vita in Te, una vita per la quale vorrei essere pronta a perdere tutto, a non ascoltare più il mio gusto, perché c’è qualcosa in me che senza di Te non funziona, qualcosa che non gira bene, qualcosa che se lo assecondo mi fa fare un sacco di stupidaggini. Ti prego, Signore, insegnami a diffidare di me, ma continua a farlo piano piano, custodendomi dagli errori più tragici. Continua a salvarmi ogni giorno, anche adesso che i figli crescendo mi stanno restituendo la mia vita, il mio tempo, le mie energie, e io le uso per me stessa, per nutrire il mio egoismo. Continua a credere in me, anche quando io non credo in Te. | | 13 gennaio 2016 | 35 BUON 2016 TE DEUM LAUDAMUS PERCHé SONO APPARSO ALLA MADONNA | DI WALTER IZZO M anche pesante intervento chirurgico di qualche mese fa. Mi senza aprire bocca: in questo colpiva che, in fondo, tutto è vero se vissuto nell’istancaso, sto parlando a mente. Mi te presente: in esso irrompe il tempo passato e futuscaldo in accese discussioni coi ro, la Terra e il Cielo e tutto – tutto! – è vivo e reale. Mi miei genitori, mancati tanti anni sono vergognato di come normalmente prego: richiefà e che mi appaiono alla men- ste e implorazioni a un Dio astratto, simbolico. Prete soprattutto quando ho un problema educativo. Io ghiere brevi, per ridurre la distrazione. Del resto, solo sostengo la mia tesi ed essi – di cui immagino e scorgo una Presenza viva può tenere lontana la noia. Cammipersino le espressioni – ribattono, mi correggono, mi navo su uno stretto marciapiede che, a un certo punto, incoraggiano. Io mi arrovello nella posizione da assu- si allarga per lasciare spazio a una piccola copia della mere con questo o quel figlio, questo o quel nipote. grotta di Lourdes, con dentro una statua della MadonEssi intervengono sui pro e sui contro, sempre in linea na e qualche fiore di plastica. Certi pensieri rendono con ciò che avrebbero detto da vivi. più attenti. Ti fanno guardare cose già viste. Così mi Con la stessa passione e amore di un tempo, i miei sono fermato di fronte a quella Madonnina superata genitori sono ancora presenti. E così, il fatto che non frettolosamente tante volte in questi mesi. siano ora con me diventa irrilevante. Ad ogni mio penMi sono tornati alla mente i miei genitori e don siero segue immediatamente il loro, in un dialogo Camillo. Come potevo, ora, non sentire viva la Madonspesso muto, a volte fatto da me che parlo a voce alta e na, donna vera e madre di un Dio vero uomo? Mi sono da loro che intervengono parlando al mio cuore. segnato per antica devozione e perché mi sentivo guarSi può pensare che si tratti di un dialogo imma- dato con tenerezza. Ho balbettato povere frasi, un po’ a ginario. Ma noi parliamo di cose serie che toccano la voce alta e un po’ a mente. Anche i miei genitori ogni vita e il destino: cosa c’è di più reale? Non ripasso i tanto mi rimproverano. La Madonna no: sono certo ricordi. Li rivivo nel presente, li calo nei miei rappor- che mi ascoltava e incoraggiava perché io mi ero rivolti di oggi e li fondo con le mie esperienze. Parlare coi miei genitori che MI SONO SEgNATO PER ANTICA DEvOZIONE non ci sono più non è astratto: misurarsi con esperienze, idee e ideali mi E PERCHé MI SENTIvO gUARDATO CON cambia concretamente la vita. Ecco: TENEREZZA. SONO CERTO CHE fOSSE i miei genitori erano e restano carne viva. Parte di loro è in me e poi nei CONTENTA DI vEDERMI E SENTIRMI vICINO miei figli. E un giorno sarà nei figli di questi ultimi. Don Camillo era sicuro che Cristo fosse uomo anco- to a Lei come madre presente e attenta alle mie vicenra presente che gli parlava dalla Croce, estremo richia- de. Sono certo che fosse contenta di vedermi e di senmo alla realtà della vita. La fede viva di don Camillo, tirmi vicino. Mi aspettava da un pezzo e finalmente ero che poggiava sul rapporto quotidiano con Dio, attra- apparso di fronte a Lei. versava i cuori della gente e la teneva unita: come Nei giorni successivi ero particolarmente lieto, quella volta che lui e Peppone si ritrovarono a munge- nonostante i problemi di salute. Mi sentivo di rendere per tutta la notte le vacche di una stalla del paese. re grazie a Dio per l’anno che si stava concludendo. Cosa c’era di più ragionevole e concreto del porre fine Un amico, notando la mia strana letizia, mi ha chiea uno sciopero che stava per uccidere, con le mucche, sto cosa fosse successo. «Sono apparso alla Madonna», l’economia e la vita di tante famiglie? ho risposto ridendo. L’amico: «Tu non sei normale!». Ho Pensavo a queste cose mentre andavo all’ospeda- riflettuto qualche istante. Poi, salutandolo: «Lo prendo le di Niguarda, in Milano, per la terapia legata a un come un complimento?». 36 | 13 gennaio 2016 | | i capita di parlare da solo, TE DEUM LAUDAMUS A ben guardare il motivo di ringraziamen- to che s’impone lungo il corso della mia vita è aver visto alla guida della Chiesa Papi di statura imponente. Da bambino mi colpiva la devozione indiscussa che avvertivo in grandi e piccoli verso Pio XII. Quando il Papa morì, nel 1958, avvertii che si era creato un vuoto, anche se all’epoca (avevo sedici anni) mi consideravo lontano dalla Chiesa. Giovanni XXIII fu una sorpresa travolgente. Gli anni del suo pontificato furono anni felici, pervasi di ottimismo. Perfino la Guerra Fredda si stemperò. Il Concilio da lui indetto, con la memorabile serata d’apertura e il discorso della luna, apriva una stagione di speranza. La sua morte pose fine a quell’incanto. Giovanbattista Montini quando diventò Papa aveva già dato un contributo sostanziale alla formazione dei laici cattolici. Alcuni di questi, giovani professori formati dalla Fuci e dall’Università Cattolica, guidarono il paese verso traguardi mai sognati: l’Italia era diventata la quarta potenza industriale del mondo mentre pochi anni prima era distrutta dalla guerra. Il merito di quel miracolo fu anche di quella classe dirigente che Montini contribuì a formare. Quando diventò Papa si trovò a gestire un concilio che subiva un attacco mediatico internazionale: era come se la mentalità mondana cercasse d’insinuarsi nella vita della Chiesa. Un quadro ben descritto da Benedetto XVI nel suo incontro d’addio al clero romano: da una parte il Concilio reale com’è davvero stato, dall’altra il concilio mediatico che riuscì a influire negativamente sulle coscienze. La poderosa tormenta spirituale si abbattè sul Santo Padre che resistette ribadendo il Credo cristiano e sconcertando tutti con l’Humanae Vitae: l’enciclica che teneva fermi i punti fondamentali della morale matrimoniale cristiana. Paolo VI ebbe un pontificato sofferto che si concluse tristemente con la supplica che il Pontefice vecchio e malato diresse agli “uomini delle Brigate Rosse” affinché non uccidessero il suo caro discepolo e amico Aldo Moro. Nell’agosto del ’78, dopo la morte del Papa, la Chiesa sembrava una cittadella assediata da grandi forze contrarie, mentre al suo interno si respirava un’aria d’incertezza. Dopo la parentesi dolce di Giovanni Paolo I apparve un personaggio inaspettato e sconosciuto ai più: Karol Wojtyla che fin dal suo storico discorso d’inaugurazione del pontificato, nell’ottobre del ’78, rovesciò la situazione. Il capo degli assediati invitava gli assedianti a non avere paura di spalancare le porte a Cristo. Un discorso sorprendente che apriva un’epoca ancor più sorprendente. Giovanni Paolo II lasciò nel 2005 una Chiesa dotata di un prestigio che era impensabile all’inizio del pontificato. L’assedio mediatico fu frantumato da quel campione di Cristo. I suoi funerali sono stati i più solenni della storia. La gente, con PER I GIGANTI ALLA GUIDA DELLA CHIESA | DI PIPPO CORIGLIANO una resistenza inimmaginabile, attese ore e ore in fila pur di salutarne la salma. Un evento unico nella storia della Chiesa e nella mia vita. Dopo la morte del Papa, dalla mezzanotte del 2 aprile alle sei del mattino del giorno successivo, con Michele Zanzucchi e un giornalista del tg restammo in studio, in onda su RaiUno, con continui collegamenti con Piazza San Pietro. Un vero dono: vegliare la notte della sua morte assieme agli italiani sbigottiti incollati alla tv. La Provvidenza aveva impresso una virata incredibile alla storia della Chiesa e Joseph Ratzinger, con la sua profonda cultura e dignità, raccolse il testimone di Giovanni Paolo II portandolo fino all’arrivo di papa Francesco. Memorabili le encicliche di Benedetto, i suoi libri su Gesù e i discorsi davanti a platee qualificate. Un san Pietro dei giorni nostri Con Jorge Bergoglio è arrivato il Papa che tutti desideravano, uno che sembra san Pietro trasportato al giorno d’oggi. Un Papa che parla il linguaggio del Vangelo, un Papa che fa ringiovanire la Chiesa sotto tutti gli aspetti, un Papa che trova sul suo cammino gli ostacoli che i santi hanno sempre trovato. A mio avviso l’anno appena trascorso, il 2015, assieme a tanti avvenimenti significativi, è l’anno del discorso di papa Francesco al Congresso americano. Un discorso che è un capolavoro: incoraggiante, positivo, volto a superare i problemi che attanagliano la società più avanzata. Un discorso interrotto da numerose standing ovation da parte dei rappresentanti di quel paese, fondato da protestanti e leader nel mondo. Davanti ai potenti della terra il Papa ha portato il volto del povero e di chi soffre. Con l’iniziativa del Giubileo della Misericordia il Papa ci fa alzare in piedi, ci fa abbandonare l’atteggiamento di autosoddisfazione e ci rimette in discussione. Siamo tutti pellegrini, bambini di Dio, che si devono sostenere l’un l’altro. Il Papa è il primo a essere misericordioso e a cercare la pecora perduta: sconcerta i dottori della legge ma non muta una virgola della verità di Gesù, che sa spiegare col linguaggio dell’uomo della strada. Per questi doni, Dio ti ringrazio. Questo è il mio Te Deum. | | 13 gennaio 2016 | 37 BUON 2016 Te Deum laudamus Per la missione di cui ci hai investiti Un anno vissuto da prete tra la “gente-gente”, dal carcere di Rebibbia ai secolarizzatissimi Stati Uniti, per riscoprire quanto è vero che i cristiani sono «i più civici fra gli uomini» Laureato in Medicina a Milano nel 2005, Alberto Frigerio ha interrotto la scuola di specializzazione per entrare in seminario. Ordinato sacerdote dal cardinale Angelo Scola il 7 giugno 2014, attualmente studia al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia presso la Pontificia Università Lateranense di Roma e presso l’Università Cattolica di Washington. 38 | 13 gennaio 2016 | | Foto: Ansa «L ibero-libero-libero…». Con queste parole, scandite dai colpi battuti sugli | DI ALBERTO FRIGERIO stipiti delle porte blindate, le amiche della Sezione AS (alta sicurezza) del carcere femminile di Rebibbia hanno salutato la mia partenza per gli Stati Uniti. Il rituale, solitamente tributato alle detenute che si apprestano a uscire di prigione, ha così segnato il transito da Roma a Washington, dove da alcuni mesi sto frequentando la sezione americana del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia. Italia e Usa, questi i poli attorno a cui è ruotato l’anno passato e da cui s’innalza il Te Deum a Colui che guida il de al male ma corregge dentro un abbraccio che conritmo della storia. Della vita romana, costellata di incontri (prezio- tinuamente rigenera. Con le donne dell’AS è nata una si quelli del Pontificio Seminario Lombardo), ricordo solida amicizia, fatta di intensi dialoghi, partite a carcon gratitudine il fecondo intreccio di studio e attivi- te (col baro), ascolto della musica e lettura di poesie. tà pastorale. Il servizio in carcere mi ha visto impegna- Con l’arrivo dell’estate, dopo il consueto caffè accomto per la celebrazione domenicale della Messa e la visi- pagnato da una buona pastiera napoletana e qualche ta in reparto. Lungo l’anno diverse sono state le occa- battuta scambiata nel cortile della sezione (alcune passioni d’incontro con le detenute: ricorrenze liturgiche, sibili di censura), è iniziato il torneo di badminton, incontri di studio con alcune donne iscritte all’uni- che ha visto impegnate diverse detenute insieme al versità – tra cui una giovane musulmana con cui si è sottoscritto: uno spasso! L’esperienza in carcere è stadiscusso della vocazione, di Dio, del mysterium iniqui- ta una grande occasione per vivere le domande costitatis –, compleanni onorati dalle più prelibate specia- tutive della vita, favorendo lo sviluppo di una riflessiolità del Sud d’Italia. L’attività svolta mi ha messo fac- ne teologica ancorata ai problemi della “gente-gente”, cia a faccia con un mondo intriso di sofferenza (per il facendone emergere la portata esistenziale e venendo male fatto e subìto, per i complessi rapporti familiari da essa illuminata. L’impegno accademico, incentrato su temi culturacon figli, genitori, mariti, compagni), in cui vengono a galla quasi con prepotenza le domande più radicali li decisivi (significato dell’amore, rilevanza personale dell’esistenza: che senso ha la vita? È possibile redimer- e civile della famiglia, tema della natura), è stato arricchito dall’incontro con preziosi maestri e dall’amicisi? Chi perdona il male compiuto? Ricordo di quella volta in cui una detenuta si è zia di preti, religiosi e laici provenienti da tutto il monrivolta a me chiedendomi: «Padre Alberto, Dio potrà do, dalle zone martoriate da guerre e persecuzioni ai perdonarmi per quello che ho fatto?». E io d’impeto paesi pervasi dalla secolarizzazione; l’incontro con le ho risposto che sì, con Dio è possibile ricominciare questi compagni di strada ha accresciuto la perceziosempre, perché Dio è misericordia, Egli non soprassie- ne del mistero che è la Chiesa, il valore del martirio, il compito che noi cristiani abbiamo gli uni verso agli altri e di fronte alla società. Lo stesso sentimento di gratitudine per la grazia ricevuta si sta facendo largo in me in questi mesi negli Stati Uniti, il paese di Planned Parenthood e del #LoveIsLove, cui si pone a servizio l’imperativo tecnologico di woodyalleniana memoria, secondo cui tutto è lecito “Whatever Works”. La lettura dei quotidiani, lo studio di tematiche giuridico-morali, i dialoghi con tante persone incontrate, tutto dice dell’imporsi di una mentalità laicista, che abolendo Dio dall’orizzonte degli uomini sta conducendo inesorabilmente all’abolizione dell’uomo. La crisi antropologica e la deriva morale ad essa connessa stanno facendo emergere il vuoto che domina tanta parte della civiltà occidentale, incapace di affermare ciò per cui vale la pena vivere e morire, lavorare e soffrire, educare e amare, e così incapace di indicare un’alternativa credibile al terrorismo islamista che avanza. Ecco dunque il compito di cui è investito il cristiano, personalmente e comunitariamente: «Vivere la fede in tutte le sue implicazioni antropologiche e sociali» (Scola) al fine di documentare la rilevanza umana del fatto cristiano. Solo affrontando le questio- ni in cui gli uomini e le donne del nostro tempo si trovano invischiati si potrà avanzare loro una proposta buona, valorizzando quanto di vero si trova nell’altro e correggendo – pronti a pagare di persona – le derive ideologiche della mentalità dominante che si va imponendo alle coscienze degli uomini. Perché di questo ha bisogno l’uomo, di essere ridestato da una proposta avvincente che scaldi il cuore e allarghi la mente introducendo all’esistenza tutta, dalla questione affettiva all’educazione, dal lavoro alla riflessione culturale, dall’ambito sociale e caritativo alla realtà giuridica e politica. Il messaggio cristiano è infatti per sua natura incarnato nella storia (Gv 1,14), come ricorda la pregnante analisi del genio cattolico di Péguy, che, individuando nella riduzione del cristianesimo a fenomeno spirituale il motivo ultimo del declino della civiltà cristiana, riaffermava con vigore: «I cristiani sono i più civici tra gli uomini» (Péguy). Questo dunque l’augurio per il nuovo anno: riprendere consapevolezza della missione di cui la vita del cristiano, per pura grazia, è investita. Niente prende più sul serio la nostra libertà di Cristo: il cristianesimo, in quanto esaltazione della grazia, è esaltazione della libertà. | | 13 gennaio 2016 | 39 BUON 2016 TE DEUM LAUDAMUS TE DEUM LAUDAMUS PER LA cONfERmA chE qUEsTA OPERA è TUA Per Il PIccolo gregge sPerDuto In sIberIA | DI ALDO TRENTO D ue fatti hanno segnato la mia vita e quella di coloro che fanno parte della grande famiglia della Fondazione San Rafael: l’incontro col Santo Padre l’8 gennaio in Santa Marta e la sua visita l’11 luglio alla nostra Clinica. Due avvenimenti imprevisti, un regalo immeritato, perché: chi sono io per ricevere questa sovrabbondanza di Grazia? Santa Caterina avrebbe risposto: «Signore, Tu sei tutto e io sono niente». «Chi sono io – si domandava santa Elisabetta – perché la Madre del mio Signore venga da me?». Il Mistero mi sorprende continuamente con il Suo modo di attuare. Mi sento un prediletto e questo fin da quando a undici anni mi aprì le porte del seminario. La presenza del Mistero mi ha sempre accompagnato, anche quando, come il profeta Giona, ho cercato di scappare da Lui. Ne ho fatte di cotte e di crude, ma il Mistero non mi ha mai mollato, non mi ha lasciato mai tranquillo. Che andassi a destra o a sinistra, me Lo sono trovato davanti in ogni caso. Mi ha sempre perseguitato. Fin dai primi anni della mia fanciullezza mi sono sentito scelto, sentivo la Sua voce che mi chiamava a essere Suo. Molte volte ho posto le mie resistenze alla Sua chiamata, eppure anche in questa situazione, quando don Giussani mi propose di partire per il Paraguay, accolsi la Voce del Mistero che mi parlava attraverso di lui e dissi: «Eccomi, o Signore». Passò un mese da quella chiamata e, senza salutare nessuno eccetto la mia famiglia, presi l’aereo per Asunción arrivando l’8 settembre, festa della nascita della Madonna. Ricordo la mia povera mamma con le lacrime agli occhi, che non riusciva a darsi ragione di questa improvvisa partenza. Il suo pensiero, mi scrisse poi, era andato a quando a soli 11 anni avevo fatto la stessa cosa. Leggendo attentamente le parole, a volte sembra che il Mistero sia sadico. Ad esempio, lo stesso Mistero che in un primo momento aveva dato ad Abramo un figlio con la promessa di una grande discendenza, poi gli ha chiesto di sacrificare quel suo unico figlio. Dunque «Abramo si alzò di buon mattino, preparò l’asino, prese con sé due dei suoi servitori e suo figlio Isacco. Spaccò la legna per l’olocausto e si mise in cammino verso il luogo che gli aveva detto Dio» (Gen. 22,3). Che coscienza aveva Abramo di sé come relazione con il Mistero. 40 | 13 gennaio 2016 | | Sono partito da lontano per cogliere che quanto mi è accaduto quest’anno è parte integrante del modo di attuare del Mistero nella mia vita. La Grazia di visitare in Santa Marta il Santo Padre e quindi la sorpresa del suo arrivo nella mia casa, incontrando poveri, ammalati, anziani, ragazze abusate e ammalati terminali, fanno parte della modalità con cui il Mistero mi conduce, tenendomi per mano e rispettando la mia libertà, la quale non può non aderire con gioia alla sua chiamata. Per questo, tanto la depressione quanto la spondilite sono due modalità attraverso le quali il Mistero mi dona la letizia di vivere la vita in modo drammatico. Il Mistero mi vuole bene, perché non c’è un attimo in cui mi lasci tranquillo. So che non mi lascerai mai solo La malattia o i limiti umani sono una possibilità per dire «Io sono Tu che mi fai». Quest’anno, che volge al termine, è stato di Grazia, perché con la visita del Papa alla Fondazione il Mistero ha messo il Suo sigillo per dire a tutti che quest’opera Gli appartiene, perché è l’evidenza del Mistero dell’Incarnazione che continua nel tempo e nello spazio. In questi ultimi tre anni ho conosciuto cosa significa il dolore, l’incomprensione, la gelosia verso un’opera di cui padre Aldo è un semplice strumento in mano al Mistero. Spesso mi lamentavo con Dio: «Signore, che colpa ho se Tu hai scelto me al posto di un altro? Tu lo sai perché mi hanno mandato qui e come ero ridotto dopo un doloroso esaurimento; mi fa male vedere persone che vivono al mio fianco incapaci di commuoversi». E il Signore mi ha risposto mandandomi papa Francesco che, pieno di commozione, mi ha detto: «Adelante Padre, y gracias». Quale segno più chiaro della Verità di quest’opera da parte del Mistero, che questo imperativo del Papa nei miei confronti! Ancora una volta il Mistero mi ha mostrato il Suo volto buono, che si chiama Gesù presente nella Chiesa e nei poveri, nei miei poveri, che sono la mia famiglia. Ti ringrazio, Gesù, per avermi regalato un anno nel quale il Tuo Vicario è venuto a trovarci. Avevo bisogno della conferma che quest’opera è Tua. So bene che non mancheranno difficoltà, pregiudizi, invidie, clericali e laiche, ma Tu e la Madonna non mi lascerete mai solo. «In Te Domine speravi, non confundar in aeternum». C anterò il mio te Deum per la follia d’amore con cui Lui manda ancora me, povero e insignificante missionario, nel cuore della Siberia a servire alcune piccolissime comunità di cattolici ex deportati sparsi in un raggio di circa 200 chilometri da casa e a costruire una chiesetta nella parrocchia situata vicinissimo a uno dei lager più spietati e temuti dell’epoca sovietica. Canterò il mio Te Deum per Galina. Quasi settantenne di un villaggio sperduto. Tumore alle ossa. Le foto di un non lontanissimo passato narrano di una donna russa di rara irresistibile bellezza degna di un Dostoevskij, che, dopo aver subìto una decina di operazioni negli ultimi tempi, mi dice: «Padre, è peccato desiderare di morire?». «O smettere di soffrire?», le chiedo. «Sì, ma allora perché Dio mi fa soffrire? Per purificarmi dei miei tanti peccati?». «Non lo so, è possibile; ma tu chiedilo a Lui, se Lo ami». «Certo che Lo amo, e Lui mi ama. Un tempo no: mia madre era credente, io no. Facevo quel che volevo». «Allora, forse Lui ti chiede di testimoniare questo amore». E lei, d’impeto: «Sììì, è proprio così!». «Padre – riprende – devo dirle che suor Adela mi ha salvato». E io, tra lo stupito e l’ortodosso: «Ma come, una donna può salvare qualcuno?». E lei: «No, non suor Adela, ma Dio attraverso suor Adela mi ha salvato». Canterò il mio Te Deum per Zebo, una ragazza musulmana di circa vent’anni, non russa, abbandonata alla nascita in un orfanotrofio, con un passato di violenze di ogni tipo, analfabeta ma più furba di un napoletano con le tre carte, che due anni fa ha chiesto e ricevuto il Battesimo. L’altro giorno mi ha detto: «Padre, quando facciamo il presepe in parrocchia?». E io: «Perché chiedi di fare il presepe?». «Quando lei me l’ha proposto l’anno scorso, io mi sentivo come un bambino appena nato. Una pace e una gioia simili non le avevo mai provate. Per me fare il presepe è poter provare la gioia di essere io stessa là con quei pastori e vedere con i miei occhi la Sua nascita. È come se quello che ti era stato promesso l’avessi finalmente ricevuto». «Cosa?». «L’amore! L’amore che ho cercato per tutta la vita, l’amore materno, l’amore infinito». La notte di Natale Zebo riceverà la Prima Comunione. «Che io ci sono. Che noi ci siamo» Canterò il mio Te Deum per Galja. Sessantenne figlia di deportati, nata e rimasta nello stesso posto dove la nonna e la mamma Lilia, appena quattordicenne, erano state mandate nel ’42 e dove vado un sabato al mese, lungo strade coperte per circa 200 chilometri di neve e di ghiaccio. Sabato scorso sono uscito di casa alle 7.45 e sono rientrato alle 19.45. Qualche confessione, poi la Messa e infine il pranzo. All’improvviso dico: «Galja, avrei una domanda: per cosa ringrazie- | DI AlfreDo feconDo resti Dio in quest’ultimo anno?». «Che io ci sono. Che noi ci siamo». Canto il mio Te Deum per la mia vita, chiamata ormai a sperimentare sempre più, dentro la frammentarietà e l’incompiutezza di rapporti (con giovani che mi parlano di suicidio o studenti che, nel migliore dei casi, non riescono a staccarsi dal telefonino per più di tre minuti), impegni (le enormi difficoltà legate alla costruzione di una chiesetta con quaranta posti a sedere) eccetera, una strana compiutezza. Canto il mio Te Deum per la richiesta fatta a me in ottobre dal nostro amico prete ortodosso padre Sergej di ospitare in Italia, per motivi di salute, la moglie di un suo amico prete per i tre mesi più freddi dell’inverno siberiano (dicembre, gennaio, febbraio), e per la risposta di tanti amici disposti ad accoglierla: Donatella e Bepi, Hanka e Paolo a Roma, e poi Irene e Giuseppe e Paola in Sardegna. Canto il mio Te Deum per Zebo, Jana, Elena, Igor… il piccolo granello di senape che Dio semina nella mia vita e che mi fa ripetere con papa Benedetto: «Non vorrei più vivere se non esistesse più il piccolo nucleo di credenti, se non esistesse più chiesa; anzi, dobbiamo completare: noi non potremmo più vivere, se così fosse». | Don Alfredo fecondo è sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo. Missionario in Siberia dal 1994, segue due parrocchie a Novosibirsk e Berdsk. | 13 gennaio 2016 | 41 BUON 2016 TE DEUM LAUDAMUS TE DEUM LAUDAMUS PER qUELLE vOLTE ChE sI sONO sPENTI I RIfLETTORI PERCHÉ CI DAI LA FORZA DI RESISTERE | | DI CORRADO LIMENTANI strati, soprattutto i giudici popolari ma anche quelto. Non mi riferisco al 2015, ma al pro- li togati, siano condizionati dalla pressione mediatica cesso Stasi. Qualche mese fa era tocca- che accompagna la celebrazione del processo. Appunto a Meredith e Sollecito. to, il processo. Un modo di dire abbastanza qualunquiForse ora ci risparmieranno ore e sta vuole che le sentenze definitive non si possano criore di Vespe, Bruzzoni, Matoni, Quarti ticare. Perché? Non è forse lecito mostrare sorpresa di gradi, eccetera. I processi in tv, i talk show, gli urlatori, fronte a una sentenza che afferma la colpevolezza di le esibizioni spesso scadenti, di professionisti ed esper- una persona «oltre ogni ragionevole dubbio» dopo che ti di ogni tipo alla ricerca di visibilità e fama sono una decina di giudici ne avevano affermato l’innocenormai il menù di ogni serata televisiva. E non scomo- za e dopo che in Cassazione la stessa accusa aveva chiediamo valori e princìpi quali la libertà di espressio- sto l’annullamento della condanna? Non aveva forse ne, di diritto di cronaca, eccetera. La parola d’ordine quindi ragione Berlusconi a introdurre il divieto (poi è un’altra: lo spettacolo. A tutti i costi. Anche a quel- rimosso dalla Corte Costituzionale) per il pm di impulo di fare carne da macello dei sentimenti dei prota- gnare le sentenze di assoluzione? gonisti di queste vicende, vittime o carnefici che siano, accomunati in un unico drammatico destino: esse- Compagni silenziosi e discreti re vivisezionati in ogni loro gesto, in ogni movimen- Tant’è: almeno ora che tutto è finito (forse) vittime e to, in ogni parola, in ogni sentimento, in ogni debo- condannati potranno finalmente vivere le loro stravollezza in nome dell’audience. E così i colloqui in car- te esistenze senza essere abbagliati dai riflettori. Ora cere con mogli e mariti (regolarmente videoregistrati restano solo i sentimenti e i valori veri: la vicinanza dagli inquirenti), finiscono nelle case di tutti gli italia- degli amici, la solidarietà dei compagni di cella, l’aiuni. E le conversazioni intercettate dalla polizia, anche to dei volontari che, silenziosi e discreti, ogni giorle più intime e innocenti, sono su tutti i siti internet no entrano in carcere per aiutare i detenuti a cercare per soddisfare l’ansia di voyeurismo di tanti. Vizi e virtù di innocenti e ORA (fORsE) vITTIME E CONDANNATI colpevoli, di vittime, parenti e amici, tutto in pasto al pubblico smavIvRANNO LE LORO sTRAvOLTE EsIsTENzE nioso di sapere come sono andate CON LA sOLIDARIETà DEI COMPAgNI veramente le cose. Per non dire dei condizionamenti che l’accertamenDI CELLA, LA vICINANzA DI LORO AMICI to della verità subisce a causa del can can mediatico. Nel corso del processo di Bossetti è così emerso e trovare le ragioni della loro esistenza e perché conche il filmato con il furgone dell’imputato che transi- venga andare comunque avanti. Grazie al cielo ci sono ta davanti alla palestra dove si allenava Jara, trasmes- loro (Te Deum!). so decine e decine di volte in tutti i talk show, in realAlcuni processi sono finalmente finiti, ma altri ne tà era una sorta di fotomontaggio diffuso alla stam- prendono il posto. Lo spettacolo continua: sfregiatori e pa per «esigenze di comunicazione» (tanto è vero che presunti assassini ci terranno certamente compagnia non faceva parte del fascicolo processuale, ma questo anche per il 2016. Ma mentre siamo tranquillamente il grande pubblico non lo sapeva). seduti in poltrona davanti al video e sbirciamo scanE lo stesso pubblico ministero della Cassazione nel- dalizzati nelle loro vite, facciamoci qualche domanda: la sua arringa al processo Stasi ha ricordato come il fra- siamo sicuri di essere noi molto migliori di loro? Siacasso del circo mediatico incida pesantemente sull’ac- mo sicuri che domani non potrebbe toccare a noi essecertamento della verità essendo inevitabile che i magi- re al loro posto? 42 | 13 gennaio 2016 | | L’ Foto: Ansa G razie al cielo almeno anche questo è fini- inferno avanza e ne vediamo i segni. Vedia- mo crescere l’offensiva di una visione antropologica che, nell’attacco alla famiglia naturale, dissimula l’ambizione di fondo: trasformare le persone in cose. Eppure riusciamo a resistere, eppure ci arriva la forza che ci consente di resistere. Più i mass media, i politici, il potere affondano la loro lama provando a trasformare il falso in vero, inducendo persino una campagna di lavaggio del cervello nelle scuole presso i più piccoli imperniata sull’ideologia del gender, più il popolo organizza la sua resistenza. Quando vogliono convincerci con la violenza dei loro mezzi più subdoli, con i loro programmi tv, con le loro paginate sui giornali, che persino vendere e comprare bambini sia cosa buona e giusta, basta chiamarla in inglese “stepchild adoption” per confondere le acque, improvvisa spunta la risposta popolare, di piazza, clamorosamente partecipata: è stato il 20 giugno di San Giovanni, il comitato Difendiamo i nostri figli, un milione di persone a dire no al gender nelle scuole e al ddl Cirinnà. Già, il ddl Cirinnà, quel testo sulle “unioni civili omosessuali” che sarà il terreno di battaglia del 2016. Persino le femministe si sono rese conto di quanto sia violento questo disegno di legge, di come l’articolo 5 che prevede l’adottabilità del figlio naturale del compagno gay da parte del partner, non sia altro che la legittimazione della pratica di utero in affitto seppure svolta all’estero. Rendendosene conto, le femministe hanno protestato, finalmente, dopo che per un paio d’anni lo avevamo fatto quotidianamente tra gli insulti di troppi ciechi e di qualche imbroglione, tipo quel senatore che la pratica di utero in affitto all’estero l’ha svolta e ora la vorrebbe vedere legittimata in Italia proprio tramite il ddl Cirinnà. Poi questi politici che giocano alle tre carte vorrebbero far sparire i riferimenti all’utero in affit- DI MARIO ADINOLFI to, vorrebbero che non se ne parlasse, utilizzano espressioni ambigue come “gestazione per altri” e si coprono con la lingua inglese definendo l’istituto, appunto, “stepchild adoption”. Ma il popolo ormai è informato e non si fa fregare, reagisce e si mobilita. Resiste. Non accetta che la donna possa essere considerata uno strumento per una coppia di ricchi, che la maternità possa essere un bene commerciabile, che il neonato possa essere strappato dal seno della madre che lo ha partorito per essere consegnato a due che se lo sono comprato. Contro lo sterminio dei prodotti “sbagliati” Le persone non sono cose, perché se vince questa visione antropologica infernale, poi le fiamme arrivano in terra, le cose fallate si eliminano, le persone “sbagliate” si scartano. La tragedia che va dall’aborto alla soppressione dei bimbi malati tramite l’eutanasia pediatrica, alle forme di suicidio assistito che infestano l’Europa dalla Svizzera all’Olanda, è tutta figlia di quella che papa Francesco definisce “cultura dello scarto”, frutto delle formule ideologiche che trasformano le persone in cose. La Danimarca, primo paese ad aver introdotto in Europa il matrimonio omosessuale con i relativi diritti gIOCANO ALLE TRE CARTE. DISSIMuLANO. MA vOgLION0 TRASFORMARE LE PERSONE IN COSE. IL POPOLO è INFORMATO E NON SI FA FREgARE, REAgISCE E SI MObILITA di filiazione tramite transazioni commerciali, ha oggi un progetto governativo che si chiama “Down Syndrome free” che prevede entro il 2030 l’azzeramento delle nascite di bambini affetti dalla sindrome di Down, con una campagna di diagnosi prenatali che conducono a un sostanziale aborto forzoso. Già nel 2014 in Danimarca solo due bambini Down hanno visto la luce perché voluti dai loro genitori, trentadue sono nati per “errata diagnosi”, milleseicento sono stati abortiti. Se le persone sono cose, le cose fallate si eliminano. Alla visione antropologica che trasforma le persone in cose occorre dire in italiano un chiaro no. Ora e sempre, resistenza. | | 13 gennaio 2016 | 43 BUON 2016 Te Deum laudamus Perché Tu sei con noi Come possiamo non rimanere schiacciati da un mondo che ci umilia e dove conta solo il proprio istinto? È la Tua presenza l’unica ragione che mi fa aprire lietamente gli occhi ogni mattina C di vivere la vita nella fede, per sperimen- | DI LUIGI NEGRI* tarne la novità che solo Cristo porta, sono lieto in questo ultimo giorno dell’anno e in questo primo giorno dell’anno nuovo perché, come dice la grande tradizione cattolica, Dio vive. Siamo grati a Dio di averci dato la fede, di averci coinvolto nell’evento straordinario e concretissimo dell’incarnazione del Verbo di Dio nella vita e nella fede di Sua madre. Siamo lieti perché quello che è impossibile all’uomo Dio lo ha fatto (Cf Lc 18,16). Era impossibile all’uomo comprendere l’enigma di sé, dominare con la ragione le tensioni, le negatività che nascono dalla parte più profonda del proprio cuore e più compromessa dal peccato originale. Sarebbe stato impossibile anche riscoprire la bellezza della vita, il fascino della ragione che conosce, del cuore che ama e coinvolge in questo amore tutta la realtà, cominciando da quella con cui l’uomo stringe un rapporto stabile e definitivo per la vita facendo nascere la famiglia ovvero un flusso di creatività fisica e morale, in cui l’uomo e la donna si incontrano e si promettono fedeltà per sempre. Sono lieto perché, come tutti i cristiani, riconosco che la mia vita è stata indelebilmente segnata dalla presenza di Cristo. Non l’autore di un messaggio a una esegesi più profonda del quale destinare le nostre energie intellettuali; non l’insegnante di una vita morale al cui centro stia la capacità dell’uomo di fare il bene per sé o per gli altri. Non questo, ma la presenza di un amico, dell’unico amico che è sceso fin nella profondità del nostro cuore e l’ha cambiato assimilandolo in modo definitivo al suo. Il cuore del Figlio di Dio che, come ha umanamente pulsato nel cuore di Gesù di Nazaret, pulsa allo stesso modo, dopo il battà, a cui molti cattolici si ostinano a non dare il giutesimo, nel cuore di chi si affida a Cristo. Siamo lieti perché Dio è con noi, perché la vita, sto peso, l’unica ragione che fa aprire lietamente gli come mi ricordava Robert Spaemann – il più grande occhi al mattino e li fa chiudere la sera in pace è che filoso vivente – non è correre o scivolare sul sentiero il Signore è con noi. Non in modo astratto, pietistipolveroso del nulla, ma affrontare il cammino con co, sentimentale, buonistico; non come un ideale ma Cristo, quel cammino che porta alla pienezza del- come una presenza carnale e storica che noi inconla vita, della verità e della gioia. Conviene ricorda- triamo e possiamo seguire nel mistero della Chiere che, di fronte al tempo che passa e alle circostan- sa. Seguendolo possiamo riceverne concretamente il ze della vita, di fronte ai tremendi orrori della socie- cambiamento dell’intelligenza e del cuore. 44 | 13 gennaio 2016 | | ome tutti gli uomini che cercano Come si farebbe a parlare, come cristiano e come pastore di una Chiesa, senza aprire immediatamente al fondo di questa letizia che viene da Dio? Come si fa a non aprire al problema del peccato che condiziona così gravemente la nostra persona, le strutture della vita sociale, dalla famiglia fino alle grandi strutture nazionali, internazionali e mondiali, secondo la penetrante e definitiva analisi fatta da Benedetto XVI in Caritas in veritate? Come si fa a non sentire l’umiliazione di una società in cui l’unico criterio di comportamento è quello dell’affermazione della propria soggettività individuale e la realizzazione dei propri istinti? Come si fa a non avere orrore di queste violenze familiari che insanguinano il nostro paese con una serie di omicidi-suicidi, questa violenza sui bambini, sui vecchi, questa terribile volontà di manipolazione della vita che comincia prima della nascita per affrettare poi la fine con l’orrenda immagine di una morte dolce o dignitosa? Come non provare orrore di fronte alla disgregazione della famiglia, contro la sacralità della sua vocazione sostituita da pseudo convivenze ritenute famiglie? Come non provare orrore di fronte alla volontà di procreare attraverso procedimenti disumani ed inaccettabili? Questo peso rischia di schiacciarci. Di fronte a questa realtà c’è l’ipocrisia di chi non vede il peccato, non lo riconosce o lo nega scaricandolo sulle strutture psicologiche, affettive e sociali. In questa società ciò che conta è il benessere e un’insaziabile volontà di denaro e di possesso. Se non guardassimo in faccia al nostro male e al male del mondo non avremmo neanche la capacità di riconoscere la grandezza della fede. La fede è ciò che ha permesso che, da rovine e macerie o da ossa inaridite, rinascessero l’uomo e il mondo. È rinato un popolo nuovo che ha Dio come Padre, Cristo come fratello e insieme a Cristo tutti gli uomini come fratelli e sorelle. La consapevolezza della certezza della fede che incontra il peccato non lo fa diventare spunto per un giudizio negativo permanente ma lo riconosce come oggetto di perdono: su questo male cala la misericordia di Dio. La lettera del beato cardinale Schuster Un mio professore di Venegono amava dire, spiegando la grazia di Cristo, che essa ci fascia tutta la vita. Questo è il motivo per cui siamo lieti, perché Dio ha avuto e ha misericordia di noi e ci fa partecipare vivamente di questa misericordia al punto tale – come ha ricordato papa Francesco – da poterla attuare nel mondo per il bene nostro e di tutti gli uomini senza nessuna distinzione o discriminazione. Siamo lieti perché, resi oggetto della misericordia del Padre, diventiamo attori di questa nella vita degli uomini e portiamo loro il volto più autentico di Cristo. Per questa ragione il nostro metterci lietamente al servizio di tutte le povertà che incontria- mo, e che qualche volta sembrano dilagare e mettere in crisi le nostre poche possibilità di intervento, diventa elemento di gratitudine a Dio. Dobbiamo diventare protagonisti attivi della misericordia di Dio nel mondo e far fiorire, come è accaduto sempre nella vita della Chiesa, la carità dalla verità, il perdono dalla giustizia, dalla inesorabile consapevolezza che l’uomo non basta a se stesso il dono purissimo e grandissimo di un amore che affratella uomini che non avrebbero nessuna ragione per condividere la vita. Questi sono gli aspetti del mio Te Deum in cui mi trovo a ringraziare il Signore per tutto quello che ho già detto, ma in modo particolarissimo lo ringrazio perché – al di là di ogni merito e nonostante i miei errori – in questi ultimi mesi il Signore ha voluto associarmi in modo significativo alle sofferenze che egli ha già vissuto per la redenzione del genere umano. Essere stato chiamato a partecipare in maniera particolare, provvisoria alle sofferenze del Signore, se da un lato non ha diminuito tutto il dolore e la lacerazione di una vita che è stata ingiustamente NEGLI ULTIMI MESI IL SIGNORE HA VOLUTO ASSOCIARMI ALLE SOFFERENZE CHE EGLI HA VISSUTO PER REDIMERE IL MONDO. SONO DIVENTATO PIù DISPONIBILE A CONSUMARE L’ESISTENZA PERCHé IL REGNO DI DIO ACCADA assalita e nella cui sofferenza non è mancato il tradimento di molti amici, dall’altro tutto questo mi fa guardare con rinnovato slancio il nuovo anno e affermare che la mia fede è più approfondita ed è più netta la mia carità, perché sono più disponibile a consumare l’esistenza ogni giorno affinché il Regno di Dio accada nel mondo, come ricordava nella sua prima grandiosa lettera pastorale il beato cardinale Schuster introducendosi in quel grande servizio alla Chiesa di Milano che lo rende a distanza di decenni forse il più grande dei vescovi milanesi. Vorrei concludere ricordando che ho avuto l’avventura, o la grazia, di condividere qualche ora della vita e della sofferenza del cardinale Giacomo Biffi nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte, quando ormai reso silenzioso con la forza e la vivacità degli occhi diceva la sua approvazione o il suo diniego a quello su cui discutevamo, soprattutto delle fatiche che la Chiesa vive oggi. In quelle ultime ore trascorse insieme mi ha ricordato, quasi con voce spezzata dal pianto, una fondamentale verità, ossia che la più grande povertà che possa capitare a un uomo è quella di non conoscere la verità di Cristo. *arcivescovo di Ferrara-Comacchio | | 13 gennaio 2016 | 45 BUON 2016 TE DEUM LAUDAMUS Nella speraNza che tU adessO cOmpaia Da un amico in volontario esilio su un’isola del Commonwealth britannico riceviamo come Te Deum la segnalazione di questi versi che volentieri pubblichiamo. Eri – come la “lettera smarrita” di Poe, nello spazio impensabile perché scontato. Eri – e sei, ora ho capito – fra le parole che ho tanto usato e osato. Sempre ci sei stato, eri lì ci sei ancora, e voglio decifrarti, stanarti, usando sì le parole ma in modo diverso, e in diverso modo la follia, il mestiere con cui la parola mi diventava grafia, mania, nodo, vuoto suono ed effetto; e fola. Solo quello so fare, solo lì c’è speranza che Tu adesso compaia, perfetto magari in rima, ma rimanendo con te stesso in un metro o in un altro. Tu puoi elevare al cielo qualunque prosodia; purché Tu appaia, le fruste parole si faranno Parola e col mio io sepolto finalmente parlerai, che mai è stato quel che era forse destinato ad essere, un Io mancato, Strangolato. Parlami a perdifiato. Ti cedo ogni suono o silenzio; e già Ti vedo emergere da quella pila di parole inutilmente sparse nel cassetto, cancellarne rime e rumore, facendone linguaggio perfetto d’amore. Cancella anche me, cambiami, conducimi, ri-traducimi, parla Tu per sempre, Signore. Vittorio Gassman (1922-2000), “A Dio (fermo posta)”, in “Anima e corpo – talk show d’addio”, 1996 46 | 13 gennaio 2016 | |