Invenzione della Tradizione

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Invenzione della Tradizione
Invenzione della tradizione
Il concetto di invenzione della tradizione, e quello
correlato di tradizione inventata, sono stati introdotti
nel 1983, con la pubblicazione di un libro, oggi
divenuto un classico, curato da Eric Hobsbawm e
Terence Ranger: The Invention of Tradition, edito
dalla Cambridge University Press. Il libro era una
raccolta coordinata di studi storici ed antropologici,
preceduti da un’introduzione teorica.
Nel saggio introduttivo, Hobsbawm affermava che
«molte tradizioni che ci appaiono, o si pretendono,
antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e
talvolta sono inventate di sana pianta». L’invenzione
è spesso frutto di un atto calcolato, ma può avvenire
anche attraverso un processo creativo spontaneo, che
si realizza, comunque, in un breve arco di tempo.
Secondo Hobsbawm «per “tradizione inventata” s’intende un insieme di pratiche, in genere regolate
da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si
propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è
automaticamente implicita la continuità col passato. Di fatto, là dove è possibile, tentano in genere
di affermare la propria continuità con periodi storici opportunamente selezionati. [...] Comunque
sia, là dove si dà un riferimento ad una determinata eredità storica, è caratteristico delle tradizioni
“inventate” che l’aspetto della continuità sia in larga misura fittizio. In poche parole, si tratta di
risposte a situazioni affatto nuove, che assumono la forma di riferimenti a situazioni antiche, o che
si costruiscono un passato proprio attraverso la ripetitività quasi obbligatoria.»
Invenzioni di questo tipo ricorrerebbero con tale frequenza nel corso della storia che, a detta
dell’autore, «... non esiste probabilmente un’epoca o un luogo di cui gli storici si siano occupati, che
non abbia assistito all’“invenzione” di una tradizione intesa in questo senso».
Certe tradizioni che consideriamo di origine molto antica non hanno dunque alle spalle una storia
secolare, ma sono frutto di operazioni relativamente recenti. Il libro prende in esame alcuni casi del
genere, come la formazione di una “cultura nazionale” gallese e scozzese, o i cerimoniali della
corona britannica istituiti tra l’Ottocento e il Novecento, o quelli imperiali in India o nelle colonie
inglesi dell’Africa. Si registrano inoltre vari tentativi messi in atto da alcuni movimenti radicali, di
rivendicare proprie specifiche contro-tradizioni. Emergono così complesse interazioni tra passato e
presente, le quali coinvolgono aspetti storici ed antropologici, in un multiforme intrecciarsi di riti e
simboli, che aprono nuove prospettive alla comprensione della nostra storia.
Le “tradizioni inventate” rappresentano spesso una risposta a tempi di crisi, si affermano in epoche
di rapido cambiamento sociale, scaturendo dalla necessità di far fronte a situazioni nuove e difficili:
il richiamo al passato serve, in questi casi, per assicurare a certe idee una sembianza di legittimità.
Gli autori distinguono l’“invenzione” di tradizioni, secondo i meccanismi sopra descritti (che sono
presenti, in particolare, nello sviluppo moderno delle nazioni e dei nazionalismi), dal progetto del
tutto esplicito – e libero quindi da sospetti di contraffazione – di dare vita ad una nuova tradizione,
senza rivendicarle antiche origini: è il caso, ad es., dei Boy Scout di Robert Baden-Powell.
Secondo Hobsbawn e Ranger, le tradizioni inventate riguardano anzitutto «quella novità storica
piuttosto recente che è la “nazione”, con i fenomeni ad essa associati: il nazionalismo, lo stato
nazionale, i simboli e gli eventi nazionali etc.». Essi rilevano il «curioso ma comprensibile paradosso
per cui le moderne nazioni ed i loro complessi apparati si presentano come tutt’altro che nuovi, cioè
come radicati nelle antichità più remote, e come tutt’altro che artificiali, cioè come comunità umane
tanto “naturali” da non richiedere altra giustificazione che l’affermazione di se stesse».
A volte è possibile riconoscere subito una “tradizione inventata”, come nel caso delle cerimonie
solenni che costellano la vita pubblica dei vari stati, ma spesso è difficile individuare le origini di
una pratica del genere, se essa si è sviluppata informalmente in cerchie private, o se si è innestata su
tradizioni anteriori. In alcuni casi, si tratta di un adattamento di vecchie tradizioni a nuovi scopi; in
altri casi, l’invenzione del nuovo è ottenuta attraverso la semplice riproposizione di elementi passati
(“reinvenzione” della tradizione). Accanto a invenzioni di vasta portata, Hobsbawm considera certe
innovazioni della tradizione avviate su piccola scala e sviluppatesi in maniera meno plateale.
Il concetto di “tradizione inventata” può essere applicato a fenomeni culturali quali la Bibbia, il
sionismo, le arti marziali giapponesi, o i miti degli Highlands scozzesi (coniati, per lo più, a partire
dal Settecento). Esso ha avuto anche influenza sulla definizione di certe situazioni strutturalmente
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analoghe, quali le “ccomunità immaginate” di Benedict Anderson o l’“eeffetto pizza” .
Proprio lo sviluppo di questi temi sembra peraltro condurre alla conclusione che la stessa rigida
distinzione fra “tradizione” e “modernità” costituisce spesso, a sua volta, qualcosa di inventato.
Un’altra considerazione che emerge da tutto ciò è il carattere problematico del concetto stesso di
“autenticità”: qualcuno ha osservato che già il titolo del libro L’invenzione della tradizione, pur
suonando come brillantemente rivoluzionario, nasconde consistenti ambiguità. Hobsbawm procede
infatti a criticare le “tradizioni inventate” in nome della forza persuasiva di quelle “genuine”, e della
loro “adattabilità” alle nuove situazioni. Ma dov’è il confine tra questa auspicata “adattabilità” e la
pura “invenzione”? Dato che tutte le tradizioni subiscono mutazioni nel corso del tempo, quale
criterio consente di distinguere gli elementi effettivamente antichi dalle loro falsificazioni? E del
resto, tutte le forme di tradizione (così come tutti i simboli) sono in definitiva costruzioni umane:
come isolare ciò che è “artificiale” da ciò che sarebbe invece “naturale”?
Giovanni Sole: Il barbaro buono e il falso beato (2014)
Eruditi e storici cosentini, nel velleitario tentativo di attribuire alla loro città un glorioso passato,
hanno usato con disinvoltura fonti e manipolato avvenimenti, mescolando il vero col verosimile
e spesso con l’immaginario. Secondo certi autori, gli abitanti di Cosenza si differenzierebbero da
quelli delle altre città del Sud per il loro spirito indipendente, l’amore per la cultura e l’apertura
verso lo straniero: la città meriterebbe quindi addirittura il titolo di “Atene della Magna Grecia”.
Giovanni Sole (forte di un robusto impianto di ricerca, basato sulla sistematica consultazione di
biblioteche ed archivi) rimprovera a questi “studiosi” di aver effettuato una quanto meno parziale,
se non completa, “invenzione della tradizione”, nel senso già teorizzato da Hobsbawm e Ranger.
Ma le acute osservazioni di questo autore non andrebbero riferite soltanto alla situazione di una
provincia calabrese: moltissime sono le realtà locali la cui storia viene trasformata, travestita e in
sostanza plagiata da falsi storici e da fanatici ideatori di eventi immaginari. Esaltare la propria terra
con argomenti fasulli, promuovere eventi culturali basati su miti infondati, significa alla fine recare
danno al patrimonio storico che si vorrebbe, a parole, valorizzare. La ricostruzione della memoria
avviene oggi spesso, purtroppo, in forme che cancellano ogni differenza tra impegno intellettuale
e convenienza economica: metodi del genere hanno oltretutto la responsabilità di allontanare la
formazione intellettuale degli “addetti ai lavori” dalla genuina cultura popolare.
Ai r p or t Ar t
La colonizzazione della Nuova Guinea Orientale da parte di Inghilterra e Germania, alla fine
dell’Ottocento, ha determinato un rapido deterioramento della cultura indigena Papua. Dopo il
processo di decolonizzazione – che ha dato luogo anche a conflitti civili – questo territorio ha
trovato una certa stabilità all’inizio del XXI secolo, inserendosi quindi nel sistema produttivo e
commerciale globalizzato. Il paese, ad assetto produttivo in prevalenza agricolo, è subordinato
economicamente agli interessi di certe potenze straniere, rispetto alle quali esso può considerarsi
“sottosviluppato”. Il rapido incremento del turismo ha d’altra parte reso questo territorio una
meta di particolare interesse; il che ha innescato lo sviluppo di una cultura artificiale solo in
parte collegata alle tradizioni del popolo: la cospicua produzione di “storyboards” (cioè tavolette
di legno istoriate) da parte degli artigiani locali, rivolta esclusivamente al mercato turistico.
Si tratta di immagini e scene tratte per lo più dalla tradizione Papua, ma che s’inseriscono ormai
in un contesto del tutto estraneo a quello originario: simili manufatti rivestivano, in passato, un
significato simbolico e magico, collegato a cerimonie e rituali totemici, ed erano ovviamente
destinati solo ai membri della società indigena. La nuova funzione commerciale ha stravolto non
solo le antiche finalità di queste opere (il cui contenuto è ormai irrilevante rispetto al supporto –
e anche questo è un esempio significativo di un medium che si converte in messaggio), ma il loro
stesso assetto fisico: i turisti preferiscono comprare infatti oggetti poco ingombranti e realizzati
in materiali resistenti (molte immagini originali erano scolpite su fragili pezzi di corteccia).
Indubbiamente, questa pratica presenta risvolti positivi: a parte i vantaggi economici diretti, con
lo sviluppo dell’artigianato nazionale, le tavolette istoriate sono per i Papua anche un elemento
di contatto e di scambio culturale con il resto del mondo. Ma c’è chi mette in luce gli aspetti
deteriori di un simile fenomeno, parlando addirittura di “prostituzione culturale”: l’antropologa
Margaret Mackenzie sostiene ad esempio che l’effetto principale di questa “tradizione inventata”
è di cancellare quanto resta di quella autentica, favorendo anche un modello superficiale di
turismo, in cui il visitatore sprovveduto si auto-illude di procurarsi qualcosa di genuinamente
“etnico”. Il termine, spregiativo “aairport art” indica appunto la soggezione degli artigiani alle
mere esigenze di chi deve mettere in valigia qualcosa di facilmente trasportabile.
I n v e n z i o n i ch e h a n n o a s s un t o v a l o r e d i c l a s s ic i
Il ciclo di Ossian, pubblicato a partire dal 1761 da James Macpherson, ebbe enorme successo in
tutta Europa, affascinando personalità del calibro di Goethe e contribuendo non poco allo
sviluppo della cultura pre-romantica. Il “curatore” dichiarò di aver raccolto miti e canti popolari
(riferiti ad un antico bardo di nome Ossian o Oisín) negli Highlands scozzesi, anche se i testi si
riferivano per lo più a racconti irlandesi: il Ciclo Feniano, parte del quale risaliva al XVI secolo.
I poemi ossianici furono giudicati già da alcuni storici e critici del tempo (vedi Samuel Johnson)
dei falsi grossolani: in effetti lo stile – e non di rado anche il contenuto – di queste composizioni
riecheggiava vistosamente la Bibbia, i poemi omerici, o perfino l’opera di Milton. Pur dando vita
ad una saga di vicende epiche grandiosa e suggestiva, Macpherson aveva alterato e non di rado
travisato il senso poetico e concettuale della tradizione, storicamente attestata, da cui egli aveva
preso spunto. Insomma, si trattava un po’ di un Signore degli Anelli ante litteram; ma l’autore, a
differenza di Tolkien, aveva spacciato per materiale autentico l’invenzione di fantasia.
Kalevala (Terra di Kaleva) è un poema in cinquanta canti pubblicato nel 1835, e in versione
definitiva nel 1849, dallo scrittore e filologo finlandese Elias Lönnrot, che lo compose dopo vari
viaggi attraverso il suo paese, raccogliendo pazientemente, dalla viva voce dei cantastorie locali,
vari e frammentati elementi della tradizione popolare. Difficile distinguere i contributi personali
dell’autore dai contenuti folcloristici originari: trattandosi però di un’opera unitaria, e non di una
semplice antologia, è verosimile (ed era inevitabile) un drastico riadattamento del materiale.
Considerata l’epopea nazionale della Finlandia, la saga unisce temi di una cultura magica di età
pagana ad una rilettura poetica di vicende storiche, tra cui l’avvento del cristianesimo. Anche
questo lavoro si ispira stilisticamente ai poemi omerici, dei quali Lönnrot è stato traduttore; ma
soprattutto esso mette in atto, in età moderna, un’operazione analoga a quella che aveva fatto
nascere l’Iliade e l’Odissea (chissà che qualcuno, a quei tempi, non abbia storto la bocca).
Per altri versi, il poema di Lönnrot ha svolto in Finlandia una funzione culturale che può essere
accostata a quella che hanno avuto in Italia la Commedia di Dante – o più tardi, almeno in parte,
i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Si tratta della sistemazione della lingua nazionale,
attraverso l’introduzione di nuovi termini o l’adozione di strutture sintattiche e stilistiche.
No t e :
* Il concetto di comunità immaginate è stato elaborato, all’inizio degli anni ’80 del Novecento, da
Benedict Anderson, filosofo di ispirazione marxista e docente della Cornell University: egli lo ha
introdotto in una riflessione sui virulenti esiti conflittuali, di matrice nazionalistica, che negli anni
’70 erano scaturiti dai processi di decolonizzazione. Anderson sostiene che ogni collettivo politico
la cui dimensione abbia superato una dimensione minima (di cittadina o quartiere), non potendo più
affidare la concordia tra i propri membri e la loro identità culturale all’interazione diretta, è indotto
a fondare la propria coesione interna sull’immaginazione degli individui: si tratta di promuovere
rappresentazioni (spesso costruite ad hoc) che li spingano a percepirsi come membri di un gruppo.
La questione assume particolare intensità ed interesse in relazione agli stati giovani (come quelli
nati dalla fine del sistema coloniale) che il processo di globalizzazione ha costretto a riconvertire in
tempi rapidi la propria cultura tradizionale, adattandola a contesti che le erano del tutto estranei.
** L’espressione “eeffetto pizza” (“pizza effect”) è oggi abbastanza diffusa nell’ambito degli studi
antropologici relativi alle religioni ed ai modelli etici. Tale espressione indica un processo per cui
elementi specifici di una qualche cultura sono adottati e poi trasformati all’interno di un diverso
contesto sociale, dal quale poi vengono di nuovo assunti (ma nella forma rinnovata) nella cultura di
origine. Più in generale, può capitare che il modo in cui una certa comunità umana percepisce se
stessa sia influenzato o persino interamente alterato dall’introduzione di prospettive ricavate dalla
percezione altrui. Nel caso della pizza, questo piatto ormai celebre, che in Italia non godeva di gran
considerazione (rappresentando un tipico cibo da poveri), era stato introdotto in America dagli
immigrati italiani, assumendo poi nel nuovo ambiente il carattere di una specialità gastronomica;
infine la pizza ha fatto ritorno nella patria di origine, arricchita dal prestigio conquistato altrove.
Si è parlato anche di “ffeedback ermeneutico” (“hermeneutical feedback loop”) o, con riferimento
più specifico, di “aauto-orientalizzazione” (“self-orientalization”). Quest’ultima espressione è stata
coniata nel 1970 dal monaco induista (e professore di antropologia) Agehananda Bharati, in
riferimento ad alcune situazioni che ben illustravano il meccanismo in questione:
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Alcuni film del regista indiano Satyajit Ray, che nella madre patria erano stati un completo
fallimento, ebbero poi importanti riconoscimenti nei paesi occidentali, ottenendo infine in India
lo statuto di classici del cinema nazionale.
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Certe dottrine e pratiche legate allo yoga (vedi il movimento creato da Maharishi Mahesh)
devono la loro attuale fama al fatto che alcuni guru hanno avuto ascolto e seguito in occidente.
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L’attuale importanza della Bhagavad Gita nella dottrina religiosa induista prende le mosse dalla
notorietà assunta da quest’opera nella cultura (ad esempio filosofica) occidentale, da cui essa è
stata considerata come il “Vangelo dell’India”.
Qualcuno ha sostenuto che il Mahatma Gandhi non fosse particolarmente interessato alla religione
prima del suo soggiorno a Londra, dove si recò per studiare giurisprudenza e dove ebbe modo di
leggere (in inglese) la Bhagavad Gita, che ebbe poi influssi decisivi sulla sua evoluzione spirituale.
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