Il divenire della finanza tra logiche di sistema e comportamenti
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Il divenire della finanza tra logiche di sistema e comportamenti
Il divenire della finanza tra logiche di sistema e comportamenti imprenditoriali ENRICO COTTA RAMUSINO* Abstract Il presente contributo propone una riflessione sulla recente evoluzione dell’industria finanziaria interessata da una crisi di proporzioni storiche. In particolare, il tema verrà trattato sotto due profili d’indagine: da un lato le logiche sistemiche sottese allo sviluppo internazionale dell’industria finanziaria e dall’altro i comportamenti imprenditoriali delle imprese finanziarie che compongono il sistema. La crisi ha infatti dimostrato come sia insostenibile la coesistenza tra un divenire sempre più internazionale dell’attività finanziaria e l’assenza di regole di fondo atte a garantire che tale divenire si realizzi in una prospettiva sistemica. Parole chiave: industria finanziaria, crisi, sistema, complessità, governance This paper aims at contributing to the debate about the recent development of the financial industry in the light of the sweeping effects of the last year crisis. This issue has been analyzed under two different perspectives: on the one hand the systemic complexity behind the globalization of the financial industry and on the other hand the strategic management of the companies that belong to the financial system. The crisis, in fact, showed how the globalization of the financial industry is no more sustainable without rules able to grant its development in a systemic perspective. Key words: financial industry, crisis, system, complexity, governance 1. Introduzione Le parole chiave di questo ventunesimo Convegno Annuale di Sinergie sistema, complessità, governo, creazione e distruzione di valore - ben si adattano alla interpretazione della recente evoluzione dell’industria finanziaria, epicentro di una crisi di proporzioni storiche, che ancora non può essere considerata del tutto superata. Cercando di mettere in ordine le parole chiave sopra citate e facendo riferimento alle categorie proprie dell’approccio sistemico vitale, possiamo affermare - e le * Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Pavia e-mail: [email protected] sinergie n. 81/10 174 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI argomentazioni successive serviranno a dimostrarlo - che le lacune nel governo di un sistema complesso hanno prodotto una distruzione di valore che ha condotto il sistema sull’orlo del fallimento. A questo risultato siamo giunti per due vie, tragicamente convergenti; la prima è quella che parte dalle autorità di governo e vigilanza, organo di governo del sistema, che con il loro operato ne dettano la dinamica evolutiva di medio termine; la seconda è quella che ha invece origine nei comportamenti imprenditoriali delle imprese finanziarie che compongono il sistema o, meglio, come si chiarirà in seguito, la sua struttura operativa. Entrambi i punti di vista consentono di risalire a quelle che possiamo definire le cause remote della crisi; esse rappresentano i riflessi di orientamenti culturali generatori di valori condivisi, e quindi di regole che dettano il comportamento degli operatori e, per conseguenza, il funzionamento del sistema. Su di esse conviene a noi riflettere e agli organi di governo intervenire, allo scopo di evitare che la stessa situazione si riproponga, in futuro, negli stessi termini. Il quadro di riferimento dell’analisi è costituito da un processo, ormai compiuto, di globalizzazione finanziaria nel quale nessuno può vivere in pace la propria crisi ma dove, al contrario, l’instabilità di un sistema si riflette immediatamente su tutti gli altri. La presente relazione, in coerenza con il titolo assegnatomi, è divisa in due parti: nella prima esaminerò le logiche sistemiche, vere o presunte, sottese allo sviluppo internazionale dell’industria finanziaria; nella seconda tratterò il tema dei comportamenti imprenditoriali espressi dalle imprese che tale industria hanno progressivamente sviluppato. L’analisi ha beneficiato dei lavori preparatori tenutisi in questa Università nello scorso mese di luglio e sintetizzati nei due volumi usciti per la nostra Rivista nello scorso mese di settembre1; a tutti gli autori vanno il mio ringraziamento per lo sforzo profuso e i complimenti per i risultati raggiunti. 1 Tra gli altri, i contributi che più hanno approfondito gli argomenti trattati nella presente relazione sono quelli di: Golinelli G.M., “L’Approccio Sistemico Vitale: Verso la Costruzione di un Nuovo paradigma per il Governo dell’Impresa nella Percezione di Nuovi Orizzonti di Ricerca”; Iannuzzi E., Renzi A., Sancetta G., “Un’Interpretazione della Crisi del Sistema Finanziario”; Gatti C., Vagnani G., “Intelligenza, Compimento Sistemico e Vitalità dei Sistemi di Sistemi. Una Riflessione sulla Dinamica Evolutiva dell’Industria Finanziaria”; Barile S., “Verso la Qualificazione del Concetto di Complessità Sistemica”; Faggioni F., Simone C., “Le Declinazioni della Complessità. Ordine, Caos e Sistemi Complessi”; Gatti M., Biferali D., Volpe L., “Il Governo dell’Impresa tra Profitto e Creazione di Valore”; Genco P., Esposito S., “Il Governo dell’Impresa negli Studi Economico Aziendali”; Proietti L., Quattrociocchi B., “Crisi e Complessità dei Sistemi Economici e Sociali: dalla Sinergia al Contagio”; tutti pubblicati sui numeri 79 e 80 della rivista Sinergie, maggio - agosto 2009. ENRICO COTTA RAMUSINO 175 2. Il governo dell’industria finanziaria tra logiche economiche, valori e ideologie 2.1 La formazione e l’evoluzione di un sistema di sistemi Quello che abitualmente definiamo il sistema finanziario internazionale, ha partecipato in modo pieno, spesso anticipandolo, al processo di globalizzazione che ha caratterizzato, con particolare intensità nel corso degli ultimi venti anni, il divenire delle moderne economie. Questa circostanza è stata favorita, essenzialmente, da tre ordini di motivazioni, che mi limito ad accennare. La prima è la natura dell’oggetto dello scambio; le risorse finanziarie, di natura scritturale e, dunque, immateriale ben si prestano a scambi intensi e ripetuti su orizzonti spazio-temporali potenzialmente illimitati a costi tendenti allo zero. La seconda determinante è da riconnettersi al vertiginoso sviluppo dell’information technology, che ha innalzato in modo verticale la capacità transazionale e di settlement delle operazioni, la circolazione delle informazioni, la potenza del calcolo economico2. La terza motivazione è da rinvenirsi nelle progressive e ormai completate liberalizzazioni delle transazioni su un orizzonte geografico sempre più ampio, comprensivo non solo dei paesi economicamente avanzati ma anche di un numero crescente di paesi emergenti. Queste tendenze hanno prodotto risultati significativi: hanno potenziato l’intelligenza individuale degli operatori, ne hanno allargato il raggio d’azione e l’attitudine all’innovazione, hanno, in sintesi enormemente ampliato il range di opportunità3 nel fare impresa in questo settore. Le evidenze empiriche confermano gli effetti di questi fattori abilitanti su tre distinti fronti: - la prima è quella che riguarda il tema della dimensione del sistema, misurata rapportando l’evoluzione dimensionale delle grandezze finanziarie a quelle reali; il fenomeno della “finanziarizzazione” dell’economia è comprovato dagli studi che rapportano tali grandezze4; - la seconda è quella che stima la crescente integrazione del sistema, misurata con il grado di internazionalizzazione degli attivi e dei passivi delle banche operanti su scala internazionale. Gli indici di misurazione del fenomeno tradizionalmente utilizzati dagli studiosi rapportano il totale delle attività e delle passività 2 3 4 Gatti C., Vagnani G., 2009, op. cit. Nella seconda parte della relazione cercherò di spiegare come i meccanismi di incentivo hanno spinto gli operatori ad usare questa crescente intelligenza non ai fini di implementare le condizioni per la sopravvivenza del sistema ma, piuttosto, per servire propri particolari interessi. Cfr. Golinelli G.M., L’Approccio sistemico al Governo dell’Impresa, Vol. I, Cedam, Padova, 2005, p. 28, in particolare la citazione di C. Merlani. Tamburini R., working paper presentato ai seminari di Econometica, Milano, 2 febbraio 2009, reperibile sul sito www.econometica.it; Cotta Ramusino E., Imprese e industria finanziaria nel processo di globalizzazione, Giuffrè, Milano, 1998. 176 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI finanziarie verso l’estero a misure dell’attività reale quali il prodotto interno lordo o il volume degli scambi commerciali con l’estero in determinati paesi o gruppi di paesi. Orbene, entrambe le misurazioni offrono l’evidenza di un processo di crescente integrazione finanziaria, molto più rapido sia dello sviluppo della produzione che di quello dei commerci5. - la terza evidenza empirica è quella che testimonia della capacità del cosiddetto “sistema finanziario internazionale” di svolgere in modo efficace il proprio compito istituzionale, quello di “comporre” i “macro squilibri” reali, garantendo la crescita globale attraverso il trasferimento di risorse dai grandi creditori ai grandi debitori6. Motori di questo sviluppo sono state le grandi banche internazionali, protagoniste di una lunga fase caratterizzata da crescita dimensionale, diversificazione del business e significativa redditività. La fase storica che va dall’inizio degli anni Novanta allo scoppio della crisi ha rappresentato un periodo di grande prosperità per la finanza a livello mondiale; i dati riportati nelle tabelle che seguono mostrano come le maggiori banche attive a livello internazionale abbiano fatto registrare tassi di redditività molto elevati, seppur in presenza di condizioni complessive di funzionamento dalle quali si potevano trarre evidenze di un livello di rischio crescente e dubbi sulla sostenibilità del modello di business generatore di tale redditività. Osservazioni di questa natura parevano peraltro, in un contesto di crescita e prosperità, poco opportune. Redditività e rischio nell’attività bancaria, alcune riflessioni Le tabelle che seguono riportano, con riferimento agli anni immediatamente precedenti la crisi, alcuni dati di sintesi sul tema della redditività bancaria e del rischio ad essa potenzialmente associato. Come si evince dall’osservazione dei dati (Tabelle 1 e 3), riferiti ad un campione rappresentativo delle maggiori banche europee e statunitensi, i livelli della redditività, misurata attraverso l’indice Roe, risultano davvero molto elevati, massimamente nel 2006, ultimo anno prima della crisi. La dimensione di questi risultati, in una prospettiva di lungo periodo, pone ovvi interrogativi circa la sostenibilità del modello di business generatore di questa redditività. 5 6 Lane P.R., Milesi Ferretti G.M., “The External Wealth of Nations Mark II: Revised and Extended Estimates of Forreign Assets and Liabilities, 1970-2004”, Journal of International Economics, Vol. 73, 2007, pp. 223-250. Tra i grandi squilibri compensati attraverso il mercato finanziario internazionale i più evidenti sono riferibili al deficit di parte corrente espresso dagli Stati Uniti e al correlato ed eccessivo indebitamento delle famiglie in quel paese. La crescita complessiva dell’economia americana è stata infatti frequentemente sostenuta, in numerosi anni come componente più dinamica, dai consumi delle famiglie, a propria volta resi possibili da un incremento del proprio indebitamento (con il rapporto tra debito e reddito disponibile che ha superato il 130%). Per un’analisi comparata a livello internazionale sull’indebitamento delle famiglie cfr. IRER, Il Sovraindebitamento delle Famiglie, Rapporto Finale, gennaio 2008. ENRICO COTTA RAMUSINO 177 Gli anni successivi, il 2007 ed il 2008, segnano invece una generalizzata contrazione; solo un numero ristretto di banche riesce a mantenere soddisfacenti condizioni di remunerazione del capitale proprio, mentre molte sono quelle che fanno registrare perdite, anche significative. La seconda evidenza, presentata nelle tabelle 2 e 4, riguarda il “leverage” delle imprese bancarie. Sia le banche europee che statunitensi sono arrivate allo scoppio della crisi, nell’estate del 2007, con dotazioni patrimoniali del tutto insufficienti a fronteggiare il complesso dei rischi accumulati nei propri attivi. Il dato relativo alle banche statunitensi, come illustrato nella nota alla tabella 2, sottostima il reale livello di leverage di questi istituti in conseguenza dei diversi criteri contabili utilizzati nella costruzione del bilancio e, come si spiegherà nel testo, per la presenza di veicoli fuori bilancio non consolidati. Il forte leverage accumulato negli anni precedenti la crisi è largamente imputabile all’accumulo di titoli nominalmente a rating massimo, che implicavano un assorbimento patrimoniale molto ridotto; la conseguenza è stata una dilatazione del valore contabile degli attivi che, emersi come maggiormente rischiosi con lo scoppio della crisi, hanno palesato l’esigenza di ricapitalizzazioni forzate da parte dei governi. In presenza di un forte leverage di partenza il deleveraging imposto alle banche dallo scoppio della crisi ha mostrato in tutta la sua forza il carattere prociclico insito nell’assetto in essere della struttura finanziaria. Il meccanismo di aggiustamento è stato innescato dal crollo dei prezzi degli asset (finanziari) che ha determinato la riduzione del capitale e una tendenza automatica ad un ulteriore aumento della leva. Per contrastare questo effetto le banche sono state costrette a liquidare gli asset, per rientrare nei target di leva prefissati. Questo ha contribuito a deprimere ulteriormente il prezzo degli asset e a razionare il credito disponibile per l’economia reale7. Tab. 1: Redditività delle maggiori banche USA (ROE: return on equity) CITIGROUP BANK OF AMERICA JP MORGAN WELLS FARGO US BANCORP BNY MELLON GOLDMAN SACHS MORGAN STANLEY MERRIL LYNCH LEHMAN BROTHERS 2003 19,5 22 15,4 19,1 19,8 15,3 14,8 16,2 14,9 16,2 2004 16,6 18,8 5,9 19,4 21,5 16,2 19,5 16,9 14,8 17,9 2005 22,3 16,3 8 19,6 22,7 16,4 21,8 17,2 15,8 21,8 2006 18,7 18,1 13 19,8 23,3 26,7 31,9 23,5 21,2 23,3 2007 3,1 10,8 12,8 17,4 21,2 10 31,5 9,7 -25,3 20,9 2008 -22,2 1,8 3,8 4,9 14,6 5,1 4,7 5,1 -156,5 Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg 7 Panetta F., Angelini P. (ed), “Financial Sector Pro-ciclality”, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, Occasional Papers, n. 44, aprile 2009. 178 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI Tab. 2: Rapporto di leva nelle maggiori banche USA (total assets / equity - US GAAP*) CITIGROUP BANK OF AMERICA JP MORGAN WELLS FARGO US BANCORP BNY MELLON GOLDMAN SACHS MORGAN STANLEY MERRIL LYNCH LEHMAN BROTHERS 2003 12,90 15,00 16,70 11,25 9,85 10,96 17,62 21,73 17,18 21,55 2004 13,58 11,08 10,95 11,30 9,99 10,18 19,76 26,43 20,02 23,94 2005 13,28 12,72 11,18 11,85 10,43 10,34 22,68 30,72 19,13 24,42 2006 15,73 10,79 11,67 10,51 10,34 9,03 20,67 31,65 21,55 26,24 2007 19,28 11,69 12,68 12,08 11,29 6,72 22,37 33,43 31,94 30,73 2008 13,69 10,27 13,03 13,22 10,11 8,47 13,40 12,96 33,37 Note: * Gli US GAAP consentono il netting di poste attive e passive riducendo in alcuni casi in modo significativo il totale dell’attivo di bilancio. Questa circostanza rappresenta un nodo cruciale ai fini della confrontabilità dei dati su scala internazionale da un lato e della valutazione dei livelli complessivi di rischio insiti negli attivi bancari. La contabilizzazione secondo gli IFRS porterebbe a differenze significative nella determinazione dei dati sulla leva esposti in tabella. A titolo di esempio, a fine 2008, con il processo di “deleveraging” già in corso, il dato relativo a Goldman Sachs sarebbe pari a 20 (invece di 13,4), quello relativo a Morgan Stanely a 23 (in luogo di 12,96), quello relativo a Citigroup a 28 (invece di 13,7). Il caso di Deutsche Bank, presente nella tabella successiva è esemplare a questo proposito: da un totale di bilancio di 2,2 trilioni di dollari secondo gli IFRS, si scende ad un totale di 1,03 trilioni dopo il netting delle posizioni attive e passive sui derivati e altre poste minori. Si veda la presentazione effettuata da Deutsche Bank nel roadshow presso gli investitori nordamericani nel febbraio 2009. Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg Tab. 3: Redditività delle maggiori banche europee (ROAE: return on average equity) HSBC SANTANDER BNP PARIBAS CREDIT SUISSE BBVA UNICREDIT INTESA SAN PAOLO UBS DEUTSCHE BANK BARCLAYS 2004 16,0 12,1 16,1 16,0 18,8 15,1 13,2 23,1 8,3* 20,6 2005 16,8 15,8 16,6 16,9 25,9 9,8 19,7 36,0 11,3* 21,1 2006 15,8 18,1 17,5 26,4 25,0 14,8 14,7 26,2 18,3 24,6 2007 16,4 32,8 17,0 17,9 25,2 12,3 20,8 -12,1 18,5 20,5 Note: * Calcolato secondo gli US GAAP. Fonte: Credit Suisse Fixed Income Research, European Banks, 30 june 2009 2008 5,3 19,3 6,7 -21,8 19,0 7,1 5,1 -60,0 -11,3 14,6 ENRICO COTTA RAMUSINO 179 Tab. 4: Indebitamento delle maggiori banche europee (total assets / equity) TOTAL ASSETS/EQUITY 2004 2005 2006 2007 2008 HSBC 15,4 15,6 16,7 17,9 27,0 SANTANDER 18,2 18,9 17,9 15,9 17,5 BNP PARIBAS 29,4 31,3 30,3 33,3 45,5 CREDIT SUISSE* 25,6 27,0 21,3 22,7 25,0 BBVA 23,8 22,7 18,5 17,9 20,4 UNICREDIT 16,7 20,0 19,2 16,4 17,9 INTESA SAN PAOLO 18,9 15,6 15,4 11,0 12,8 UBS 47,6 43,5 47,6 62,5 58,8 DEUTSCHE BANK** 29,4 29,4 47,6 52,6 71,4 BARCLAYS 47,6 47,6 45,5 47,6 52,6 Note: * US GAAP; ** US GAAP per il 2005 e il 2005; nel 2006 il rapporto di leva calcolato secondo gli US GAAP sarebbe stato di 31,2 in luogo del valore esposto in tabella, pari a 47,6, calcolato secondo gli IFRS. Fonte: Credit Suisse Fixed Income Research, European Banks, 30 june 2009 Anche l’osservazione dei rendimenti espressi dal mercato azionario confermano le evidenze in precedenza presentate, desunte da dati contabili. La tabella 5 confronta i rendimenti offerti dagli indici finanziari con quelli globali, espressivi dei rendimenti delle imprese non finanziarie. Lungo l’arco temporale 2001/2006, si vede come il settore finanziario abbia prodotto rendimenti superiori a quello degli altri settori dell’economia; a fronte di tali maggiori rendimenti, peraltro, si rilevano anche indicazioni abbastanza chiare di un maggiore rischio percepito dagli investitori (misurato dalla volatilità annua dei rendimenti). Il caso particolare delle grandi banche di investimento, epicentro della crisi, appare emblematico: come evidenzia la tabella 5 esse hanno prodotto, fino a prima della crisi, rendimenti molto elevati, maggiori rispetto a quelli del settore finanziario nel suo complesso, ma con livelli di rischiosità molto più elevati, tanto rispetto all’indice generale quanto a quello finanziario. 180 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI Tab. 5: Rendimenti e rischi nelle principali banche internazionali, dati di mercato 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 CAGR MSCI WORLD F - Rendimento Volatilità -15% 17% -11% 21% 36% 15% 5% 9% 11% 7% 4% 9% -5% 13% -16% 32% 26% 23% -0,16% 16% MSCI WORLD FINANCIAL Rendimento Volatilità -14% 19% -21% 25% 30% 17% 14% 9% 19% 7% 19% 10% -12% 16% -51% 43% 30% 41% -2% 21% HSBC HDG. (ORD Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità Rendimento Volatilità 2001 -15% 37% 13% 38% 11% 28% -1% 37% -5% 36% -3% 40% -16% 40% -17% 43% 43% 34% -1% 52% 0% 36% -9% 41% -13% 45% -28% 58% 16% 32% 2002 -11% 27% -30% 44% -20% 50% -8% 54% -18% 40% -55% 62% -28% 50% -31% 57% 15% 32% -20% 42% -24% 49% -44% 45% -26% 37% -27% 48% 20% 35% 2005 11% 10% 9% 17% 33% 16% 45% 16% 35% 14% 44% 16% 26% 14% 6% 14% 2% 13% 48% 19% 5% 12% 29% 17% 24% 18% 4% 21% 4% 17% 3% 9% 30% 17% 44% 18% 4% 12% 83% 28% 128% 27% 75% 25% 2006 4% 13% 25% 20% 26% 22% 30% 22% 22% 21% 31% 22% 31% 17% 26% 17% 21% 13% 23% 28% 20% 14% 27% 20% 57% 23% 46% 20% 12% 17% 13% 9% 37% 22% 18% 20% 17% 13% -9% 24% -18% 37% 19% 34% 2007 -5% 17% -28% 34% -7% 26% -20% 29% -27% 25% -18% 23% 8% 21% -7% 27% -19% 22% -15% 41% -45% 29% -9% 23% 9% 34% -20% 36% -30% 27% 6% 12% -1% 18% -12% 26% -12% 27% -37% 35% -5% 25% -9% 37% 2009 26% 59% 135% 131% 88% 69% 39% 63% 24% 71% 104% 61% 71% 49% 47% 90% 27% 138% -76% 116% -67% 70% -60% 79% -69% 138% -85% 194% -28% 140% 94% 71% 124% 66% 97% 90% 0% 4% -27% 54% -13% 35% 10% 25% -58% 76% 7% 47% -14% 40% 2004 5% 14% 23% 20% 11% 18% 12% 20% 16% 18% 7% 23% 0% 19% 10% 17% 22% 13% 14% 22% 3% 16% 1% 22% 6% 19% -2% 23% 17% 15% 7% 11% 16% 24% 3% 13% 9% 12% 60% 37% 79% 37% 12% 30% 2008 -16% 44% -66% 81% -57% 62% -61% 71% -68% 85% -56% 79% -49% 54% -25% 84% -63% 100% -44% 37% -17% 37% -20% 26% -62% 65% 8% 45% -26% 44% 2003 36% 19% 37% 34% 34% 34% 34% 34% 30% 30% 51% 41% 49% 33% 60% 30% 20% 20% 46% 26% 42% 24% 54% 36% 46% 26% 48% 32% 32% 20% 8% 17% 55% 38% 17% 23% 29% 18% 193% 77% 26% 30% 59% 40% -49% 58% -67% 68% 2% 83% -51% 74% -55% 45% -49% 64% 22% 55% 74% 68% 4% 118% -28% 55% 2% 34% 20% 39% CAGR 3% 27% 1% 46% 6% 36% 1% 38% -6% 38% 0% 41% 4% 33% 4% 42% 1% 43% -44% 33% -20% 48% -3% 38% 7% 39% -6% 52% -14% 40% 0% 11% -2% 36% -3% 34% 4% 37% -13% 52% 9% 36% 3% 39% BARCLAYS - TOT BNP PARIBAS - T SOCIETE GENERAL UBS 'R' - TOT R CREDIT SUISSE G BANCO SANTANDER JP MORGAN CHASE BANK OF AMERICA LEHMAN BROS.HDG CITIGROUP - TOT DEUTSCHE BANK GOLDMAN SACHS G MORGAN STANLEY WACHOVIA DEAD MERRILL LYNCH & INTESA SANPAOLO UNICREDIT - TOT WELLS FARGO & C MIZUHO FINL.GP. NOMURA - TOT RE SUMITOMO - TOT Fonte: Nostre elaborazioni su dati Datastream. Da ultimo, vale ricordare come neppure i momenti di difficoltà che pur si sono manifestati nel corso di questo periodo8, in forme diverse e con una certa regolarità, 8 Solo per citare i fatti più rilevanti, ricordiamo: la crisi del mercato finanziario giapponese, iniziata nel 1989, determinata dallo scoppio della bolla immobiliare e dall’esplosione delle sofferenze bancarie; la crisi dei junk bonds, dovuta all’insolvenza di molti emittenti e iniziata nello stesso anno; la crisi dei sistemi bancari di Svezia, Norvegia e Finlandia, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta; la crisi del sistema monetario europeo del settembre 1992; la crisi del mercato obbligazionario internazionale, ENRICO COTTA RAMUSINO 181 abbiano intaccato l’evoluzione complessiva del sistema e le basi sulle quali essa si fondava; in ciascuno di questi episodi il sistema ha mostrato grandi doti di “resilience”, superando le criticità emergenti e acquisendo, probabilmente, la sensazione di essere immune rispetto ai rischi di fallimento; la convinzione che quello intrapreso fosse il migliore modello di sviluppo possibile si è, nei fatti, consolidata. Una prima conclusione che sembrerebbe naturale derivare da queste premesse è quella della progressiva emersione di un sistema finanziario internazionale sempre più grande in termini dimensionali, sempre più profondamente integrato e perfettamente funzionale alle esigenze di sostegno finanziario di un’economia globale in forte crescita. Come spieghiamo nel prossimo paragrafo, così non è. 2.2 Un sistema incompiuto Lo sviluppo di questa potente infrastruttura dello sviluppo globale si è però realizzato in modo profondamente asimmetrico, come la crisi ha puntualmente evidenziato. Ciò che viene comunemente definito “sistema” finanziario internazionale è, in realtà, un sistema di sistemi che necessitano, al fine di esprimere il necessario grado di compimento, di un forte livello di coordinamento. Le lacune su questo cruciale fronte sono alla radice della crisi che stiamo vivendo e rappresentano il principale nodo da affrontare per gettare le basi di una crescita sostenibile. Riferendosi all’impresa, l’approccio sistemico identifica due elementi chiave9, l’organo di governo e la struttura operativa. Il primo detta le scelte 9 determinatasi nel 1994 a seguito di un forte incremento dei tassi a medio termine sulle principali valute internazionali; la crisi dell’economia messicana del 1994; il clamoroso default di Barings, una delle più prestigiose merchant bank britanniche, acquisita da ING, in una logica di salvataggio, al prezzo di una sterlina; la crisi asiatica del 1997, originata dall’incapacità di molti paesi dell’area di mantenere il tasso di cambio stabilito con il dollaro e la conseguente crisi bancaria e finanziaria; la crisi valutaria che ha interessato il Brasile nel 1997; la crisi russa del 1998 ed il conseguente default sui titoli pubblici di questo paese; la crisi di un importante hedge fund, il Long Term Capital Management, nel 1998; lo scoppio, alla fine del primo trimestre del 2000, della bolla speculativa legata ai titoli tecnologici; la crisi, nello stesso anno, dei titoli di debito turchi; una nuova crisi del mercato dei junk bonds, nel 2001; la crisi sistemica provocata dagli attentati alle Twin Towers, l’11 settembre 2001; la crisi economica e il default dell’Argentina, nel 2001; la crisi del mercato brasiliano dei bond, nel 2002; gli scandali societari di inizio millennio, che hanno coinvolto società quotate prestigiose i titoli delle quali erano presenti nei portafogli di tutti gli investitori istituzionali del mondo. Per una rassegna sul fenomeno si vedano: Reinhart C., Rogoff K., “This Time Is Different: a Panoramic View of Eight Centuries of Financial Crisis”, NBER Working Paper Series, n. 1382, 2008; Leaven L., Valencia F., “Systemic Banking Crisis: a New Database”, International Monetary Fund Working Paper, n. 224, 2008. Golinelli G.M., 2005a, op. cit.; Golinelli G.M., L’Approccio sistemico al Governo dell’Impresa, Vol. II, Verso la Scientificazione dell’Azione di Governo, Cedam, Padova, 2008. 182 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI strategiche di medio lungo termine, adattando a queste la configurazione della struttura operativa, spinto dai driver della competitività, che declina gli obiettivi di natura economica, e della consonanza, che mira a creare un rapporto armonico tra l’impresa e gli altri sistemi con i quali essa viene a contatto, pervenendo, in sintesi, alla legittimazione del suo ruolo nella comunità civile entro la quale opera. Nel caso del “sistema” finanziario, l’approccio sistemico ci consente di proporre alcune argomentazioni che ne riflettono, ad un tempo, la specificità e la distanza dell’assetto in essere da quello desiderato. L’organo di governo è costituito dall’insieme delle autorità che hanno competenza in tema di regolazione dell’industria finanziaria; a loro pertiene il compito di configurare l’assetto regolatore in grado di garantire, per un sistema che intenda definirsi vitale, condizioni di sostenibilità e di stabilità nel medio lungo termine. Ritengo superfluo insistere sul ruolo cruciale della stabilità in ambito finanziario, questione ampiamente indagata in letteratura e nella recente crisi misurata in termini drammaticamente pratici. Rispetto al caso dell’impresa, va in primo luogo ricordato come nel caso del sistema finanziario tale organo sia esterno, non interno, e questa circostanza rende le relazioni con la struttura operativa, composta a propria volta, come dirò fra un attimo, di imprese, più complesse. La ragione è riconducibile alla nota contrapposizione insider/outsider e alla conseguente differente dotazione informativa. In secondo luogo, l’organo di governo è estremamente composito; ne fanno ovviamente parte la banca centrale e gli organismi di vigilanza sulle imprese e sui mercati finanziari, in senso lato, ma l’elencazione non finisce qui. Pensiamo alla regolazione dell’informativa societaria, e dunque ai principi contabili in base ai quali le imprese redigono i propri bilanci, alla fissazione del profilo fiscale dell’attività finanziaria, alle regole di governance delle imprese, solo per citare i principali attori che concorrono al governo del sistema. L’efficacia complessiva dell’azione di governo dipende dal grado di coordinamento tra questi soggetti. La terza osservazione riguarda il sistema delle relazioni che il sistema “organo di governo” ha con altri sistemi. Nel caso in oggetto il pensiero corre immediatamente alle relazioni con l’ambiente politico istituzionale. Le scelte di fondo che l’organo di governo è chiamato a compiere sono influenzate dai valori condivisi e maggioritari nei singoli contesti nazionali; esse sono, in altre parole, legate al “modello di capitalismo” nel quale il sistema finanziario nazionale si sviluppa e del quale costituisce parte cruciale. In altre parole, l’organo di governo matura ed esprime un “orientamento di fondo”, che potremmo definire “country specific”, che lo conduce, attraverso un processo dialettico a livello politico - istituzionale, a definire la funzione obiettivo pro-tempore prevalente. Tale orientamento di fondo è essenzialmente declinato su due fronti. Il primo afferisce la funzione obiettivo sul fronte macroeconomico, in particolare la crescita, alla quale il sistema finanziario può contribuire in modo importante, attraverso il credito nelle più svariate forme tecniche. Questi obiettivi sono fissati dalla politica, chiamata a scegliere, schematizzando, tra due orientamenti alternativi, ENRICO COTTA RAMUSINO 183 uno maggiormente ispirato a favorire lo sviluppo della domanda effettiva, l’altro maggiormente orientato al rigore e alla correzione degli squilibri macroeconomici. La manovra delle variabili monetarie segue logicamente le scelte di cui sopra, dettando quindi un primo elemento di influenza sul funzionamento del sistema finanziario. Il secondo snodo cruciale, che definisce l’orientamento di cui sopra, è quello che riguarda il “modo” in cui l’azione di governo viene esercitata, in particolare sul fronte della scelta di un ragionevole punto di equilibrio tra efficienza e stabilità, due obiettivi tra i quali, come ben illustrato nella letteratura di riferimento, esiste un certo livello di trade off10. L’orientamento all’efficienza si traduce in politiche atte a favorire una maggiore concorrenza tra gli operatori, sul presupposto logico della diretta correlazione tra la seconda e la prima; un portato di questa scelta è l’attribuzione di particolare rilevanza al mercato e alle sue istituzioni, nella convinzione che esse sappiano modulare il corretto livello di presidio dei rischi. L’orientamento alla stabilità, per contro, genera modelli di governo strutturati su regolamentazione e controlli più pervasivi, meno permissivi, maggiormente finalizzati a prevenire fenomeni di crisi anche a costo di qualche sacrificio sul fronte dell’efficienza. In questo contesto si collocano anche le scelte tra regolamentazione e autoregolamentazione, la prima tipicamente top-down e la seconda maggiormente confidente sulla capacità di aggiustamento “automatico” del mercato sotto la spinta di istituzioni all’interno di esso spontaneamente sviluppatesi. Passando da un contesto nazionale ad uno internazionale, quello sul quale l’industria finanziaria ha sviluppato le proprie attività nel corso degli ultimi vent’anni. Il quadro, ovviamente, si complica. Iniziamo ricordando come le opzioni possibili per l’esercizio di una effettiva azione di governo siano, in linea di principio, due. La prima, che considero la via maestra, è la creazione di un organo di governo di natura sovranazionale al quale affidare pieni poteri per l’esercizio delle proprie funzioni. La seconda è quella di creare meccanismi di coordinamento tra gli organi di governo nazionali. In termini astratti, è evidente come l’efficacia di questa seconda impostazione dipenda dal grado di coordinamento che le autorità nazionali ritengono di dover raggiungere. In forza di quello che ho in precedenza definito l’orientamento di fondo dell’organo di governo, appare subito chiaro che il coordinamento rappresenta una sfida difficile. Se è vero, da un lato, che tutte le autorità sono, in linea di principio, interessate al buon funzionamento del sistema finanziario e per tale ragione lo sottopongono ad una certa “quantità di regolamentazione”, è altrettanto vero, dall’altro, che la definizione di tale “corretta quantità” è pur sempre lasciata alla valutazione soggettiva delle autorità nazionali. 10 Carletti E., Hartmann P., “Competition and Stability: What’s Special About Banking?”, ECB Working Papers, n. 146, 2002. Una riflessione sul tema della regolamentazione del sistema bancario indotta dalla recente crisi è contenuta in Masera R. (ed.), The Great Financial Crisis. Economics, Regulation and Risk, Bancaria Editrice, Roma, 2009. 184 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI Consideriamo ora la struttura operativa di quello che definiamo il sistema finanziario internazionale. Essa è costituita da imprese11, vale a dire da sistemi, ciascuna delle quali composta, a propria volta, da un organo di governo e da una struttura operativa. Il primo è anche in questo caso soggetto, nelle proprie scelte di fondo, a diversi fattori di influenza che, in termini generali, si possono ricondurre a due categorie essenziali. Il primo fattore di influenza è quello esercitato dall’organo di governo del sistema finanziario, come in precedenza definito, all’interno del quale l’impresa (finanziaria) opera. Il contesto normativo generale, la disciplina specifica in tema di attività finanziaria, la vigilanza, la regolamentazione civilistica, contabile e fiscale, definiscono i gradi di libertà ovvero, i vincoli12, entro i quali l’organo di governo compie le proprie scelte. Il secondo fattore di influenza è rappresentato dall’attività degli stakeholder dell’impresa che si relazionano, secondo vari schemi, con i soggetti ai quali sono affidati il governo e la gestione dell’impresa. Su entrambi i fronti vi sono molte opzioni. Il modo in cui l’organo di governo del sistema finanziario esercita la propria influenza sull’organo di governo delle imprese finanziarie può essere ispirato ad obiettivi diversi e caratterizzato da modalità di esercizio differenti, come si è già in precedenza accennato. Sul fronte delle relazioni con gli stakeholder, l’influenza che questi ultimi possono esercitare è fortemente dipendente dal complessivo assetto del modello di capitalismo entro il quale l’impresa opera. Come è stato osservato, e come si dirà nel seguito, i citati fattori di influenza possono determinare scelte diverse, da parte dell’organo di governo, nella scelta di medio termine tra competitività e consonanza, producendo differenti funzioni obiettivo. Su questo tema torneremo nella seconda parte della relazione. La struttura operativa delle imprese, che costituiscono a propria volta la struttura operativa del cosiddetto sistema finanziario internazionale, è rappresentata da un pool di risorse essenzialmente riconducibili a tre categorie, risorse materiali, immateriali, umane. In sintesi, le risorse materiali sono le strutture fisiche e quelle tecnologiche. Le prime possono avere incidenza diversa in funzione del modello di business realizzato dalle diverse banche; sono maggiormente rilevanti nel banking tradizionale (retail) - che si vale di strutture fisiche quali le reti di filiali - mentre sono del tutto trascurabili nell’investment banking. Le risorse tecnologiche sono un tratto comune di tutte le imprese di questa specie; la piattaforma tecnologica e i sistemi informativi sintetizzano l’intelligenza dell’impresa e sono condizione necessaria all’esercizio efficace del business. Complessivamente, le risorse materiali rappresentano, presso la totalità degli operatori, una quota molto ridotta del totale di bilancio delle imprese in oggetto13. Le risorse umane e quelle intangibili sono di 11 12 13 Assumiamo a rappresentazione della struttura operativa l’insieme delle imprese finanziarie, così come rappresentato in Golinelli G.M., L’Approccio sistemico al Governo dell’Impresa, Vol. II, La Dinamica Evolutiva del Sistema Impresa tra Economia e Finanza, Cedam, Padova, 2000, p. 270. Golinelli G.M., 2005a, op. cit., p. 202; Golinelli G.M., 2000, op. cit. Per dare un’idea del fenomeno, osserviamo come, nel bilancio al 31.12.2008 di Goldman Sachs e di UniCredit, banche espressive di modelli di business profondamente diversi, le ENRICO COTTA RAMUSINO 185 difficile separazione in quanto le prime, con il loro saper fare, concorrono alla creazione delle seconde. In un contesto operativo nel quale non esistono brevetti, sono sempre meno frequenti le licenze, e sono rari i casi di processi tecnologici distintivi, sono le decisioni strategiche assunte dalla coalizione manageriale di comando a definire il posizionamento di mercato dell’azienda, la sua reputazione e, in sintesi, la sua profittabilità. La dimensione degli intangibili trova sintetica espressione nei valori di mercato, in particolare nel rapporto tra capitalizzazione e valore contabile del patrimonio. L’output della funzione di produzione è rappresentato da relazioni di debito e di credito con i prenditori e i prestatori di fondi e, su entrambi i versanti, sono rilevanti le presenze di altre imprese finanziarie. Il fatto che una quota rilevante degli attivi e dei passivi delle grandi banche internazionali sia composta di rapporti di debito/credito con altre banche conferisce a questa industria quell’aspetto particolare, non rinvenibile in altri settori economici di attività, che nel gergo comune definiamo “sistemico”14. Dalle argomentazioni precedenti emerge con chiarezza come il termine sistema venga in questo caso utilizzato in modo non appropriato; non di sistema si tratta ma di un’industria caratterizzata da forte interrelazioni delle strutture operative delle aziende operanti. Manca, rispetto alla visione sistemica, come si è visto, il requisito dell’organo di governo comune. Proprio la forte interrelazione delle strutture operative è emersa con chiarezza all’esplosione della crisi, come diremo fra breve. Analizzando gli ultimi vent’anni, si vede come l’evoluzione dell’industria finanziaria si sia realizzata attraverso la creazione di una immensa arena competitiva nella quale sono discesi operatori provenienti da sistemi nazionali diversi, portatori di differenti schemi di relazione con i propri stakeholder15, dunque di diverse funzioni obiettivo, e di modelli differenziati di relazione con le proprie autorità di controllo, e dunque di diversi gradi di libertà. In assenza di un’autorità sovranazionale di governo e in presenza di un insufficiente livello di coordinamento degli organi nazionali di governo, il sistema non si è compiuto ma, al contrario, è rimasto in una fase di pericolosa transizione nella quale la solidità apparente celava una strutturale fragilità. 14 15 attività materiali rappresentassero una percentuale di poco superiore all’1% dell’attivo totale. Riferendosi alle banche italiane, è possibile, sulla base dei dati contenuti nella relazione della Banca d’Italia per il 2008, stimare il peso delle relazioni interbancarie in una quota pari a circa il 25% del totale dell’attivo. Poiché il sistema bancario italiano è caratterizzato da un livello di internazionalizzazione più basso rispetto ai maggiori paesi avanzati, la percentuale ragionevolmente riferibile a questi ultimi è più elevata. Ancora, la percentuale di dipendenza da altre banche si innalza in modo significativo nel caso delle banche prive di reti di sportelli, totalmente dipendenti, per conseguenza, dalla raccolta interbancaria. Cotta Ramusino E., “Conflitti e Trasformazioni nei Modelli di Governance”, Sinergie, n. 73/74, 2007; Cotta Ramusino E., 1998, op. cit.; Golinelli G.M., “Il Confronto tra Capitalismi Nazionali: la Specificità Italiana”, Finanza Marketing e Produzione, n. 4, 1994. 186 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI Certamente più integrata, come anche la crisi ha dimostrato, è apparsa la struttura operativa, imperniata su uno strettissimo sistema di relazioni - espresse dalla molteplicità di intersezioni tra gli attivi e i passivi - tra imprese finanziarie che hanno progressivamente accresciuto la propria dotazione strutturale e la complessità del proprio operato fino a creare, per gli organi di governo, nazionali e insufficientemente coordinati, oggettive difficoltà di lettura e comprensione delle dinamiche in corso. Il lungo cammino compiuto in questi anni sulla via della vigilanza finanziaria internazionale ha prodotto risultati certamente apprezzabili ma, come la crisi dimostra, assolutamente non conclusivi. La ragione è che tali sforzi hanno condotto alla fissazione di regole limitate solo ad alcuni aspetti, pur rilevanti, ma parziali, come le competenze dell’organismo che le ha emanate. È dunque emersa una contraddizione palese tra un divenire sempre più internazionale dell’attività finanziaria da un lato e l’assenza di istituzioni di governo su scala internazionale dall’altro. 2.3 L’azzardo morale del paese guida Le argomentazioni esposte in precedenza consentono di inquadrare e comprendere il fenomeno della crisi che stiamo ancora vivendo. In relazione ad essa conosciamo il luogo di manifestazione - il sistema finanziario statunitense - l’asset class coinvolta - i mutui immobiliari successivamente cartolarizzati - i veicoli del contagio - i titoli con garanzia ipotecaria originati dalle cartolarizzazioni e successivamente strutturate in forme via via più complesse e distribuiti agli investitori di tutto il mondo - gli effetti - una diffusa crisi tra le maggiori istituzioni finanziarie del mondo, la cospicua iniezione di capitale pubblico nelle banche, la contrazione del credito e la conseguente pesantissima recessione. Ci soffermiamo brevemente sui principali snodi della crisi perché dal loro esame possiamo trarre indicazioni sulla possibile configurazione che un organo di governo internazionale dovrebbe avere per evitare il ripetersi delle esperienze passate. Nella lunga fase di sviluppo che precede la crisi, l’azione di governo del sistema finanziario statunitense ha seguito due principi ispiratori; da una lato essa ha fatto proprio l’orientamento della politica a fissare come assolutamente prioritario l’obiettivo della crescita economica del paese, grazie ad una politica dei tassi di interesse finalizzata al sostegno dei consumi e degli investimenti; dall’altro essa ha agito sulla struttura del sistema nella direzione di una sua sempre maggiore liberalizzazione e deregolamentazione (o non regolamentazione)16. 16 L’orientamento alla deregolamentazione o alla non regolamentazione del sistema finanziario è stato in qualche misura favorito dalla “contiguità” da molti autori segnalata tra i massimi esponenti dell’industria finanziaria e il mondo politico istituzionale statunitense. In questo modo i “regolati” sono riusciti ad influenzare, attraverso la mediazione politica, il comportamento dei regolatori. Con diversi accenti, questa impostazione è riportata in diversi contributi, tra i quali segnaliamo: Onado M., I Nodi al Pettine, Laterza, Roma-Bari, 2009; Consumer Education Foundation, “Sold Out: How ENRICO COTTA RAMUSINO 187 Sul fronte del sostegno alla crescita economica sono state compiute, soprattutto a partire dall’inizio di questo decennio, scelte molto discutibili ma assolutamente chiare in termini di finalità: una politica perdurante di tassi di interesse artificialmente ridotti, finalizzati a sostenere la domanda interna e, per questa via, la crescita del prodotto interno lordo. Il caso del mercato immobiliare rappresenta un esempio paradigmatico dell’applicazione di queste scelte: l’enorme liquidità e i bassi tassi di interesse hanno sostenuto i redditi delle famiglie, incentivandone l’investimento immobiliare (una sorta di via finanziaria al sogno americano della casa di proprietà); saturato il mercato “prime”, si è ben presto aperta la via a quello “subprime”, mettendo a contratto debitori nuovi, che in tempi normali non avrebbero ottenuto credito17. Il risultato è stato un rapido stravolgimento del mercato dei mutui immobiliari statunitense, il più grande del mondo18: - i mutui non conforming (o non Agency), sono cresciuti rapidamente in termini di emissioni e consistenze19; - una percentuale sempre maggiore di questi mutui “nuovi” è stata cartolarizzata, finendo nei portafogli di numerosissime istituzioni finanziare in tutto il mondo. Ricordo un dato che mi sembra significativo: nel 2006 i subprime rappresentano il 22% dei mutui erogati e l’80% di essi viene cartolarizzato. Una simile condotta, che possiamo ben definire “aggressiva”, sul fronte macroeconomico, tradottasi nell’asservimento del sistema finanziario agli obiettivi di crescita del sistema reale, avrebbe dovuto trovare un proprio logico contrappeso in una più rigorosa azione di governo. Declinando in termini più specifici il concetto di governo del sistema fin qui utilizzato per introdurre la discussione, possiamo ricordare come esso si componga, in tempi normali, di due elementi essenziali: la regolamentazione che definisce, a monte, il quadro di riferimento per l’operatività degli attori e la vigilanza, a valle, che verifica la compliance dei comportamenti posti in essere rispetto alla normativa. All’emergere della patologia, il governo del 17 18 19 Wall Street and Washington Betrayed America”, www.wallstreetwatchdog.org. In questo secondo contributo vengono esaminate le attività di lobbyng condotte dai rappresentanti dell’industria finanziaria e i contributi da questa corrisposti, in modo peraltro conforme alla normativa e trasparente, a diversi rappresentanti del mondo politico. Nel segmento dei clienti subprime sono spesso presenti individui non in grado di valutare con oggettività le proposte di mutuo ricevute dagli intermediari finanziari, con la conseguenze di una asimmetrica distribuzione del potere negoziale che ha condotto all’accettazione di condizioni di mutuo che, nel complesso, determinavano una riduzione netta del benessere del cliente. È questa la cosiddetta pratica del “predatory lending” oggi oggetto di indagine anche da parte dell’FBI. Cfr. Morgan D.P., “Defining and Detecting Predatory Lending”, FED of New York Staff Report, n. 273, 4 maggio 2005. Cfr. Gorton G., “The Subprime Panic”, www.ssrn.com, 2008; Ashcraft A.B., Shuermann T., “Understanding the Securitization of Subprime Mortgage Credit”, www.ssrn.com, 2008; Caprio G., Demirguc K.A., Kane E.J., “The 2007 meltdown in structured securitization: searching for lessons not scapegoats”, World Bank Policy Research Working Paper, n. WPS 4756, pp. 4-17, 25-29, 48-56, 5 settembre 2008. Ashcraft A.B., Shuermann T., 2008, op. cit.; Gorton G., “The Subprime Panic”, www.ssrn.com, 2008. 188 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI sistema si arricchisce di una terza componente altrettanto importante, quella che riguarda le modalità di gestione delle crisi delle imprese finanziarie, un’azione che deve essere condotta con l’obiettivo di minimizzarne l’impatto sulla stabilità complessiva del sistema (o della struttura operativa). Anticipando le conclusioni alle quali porta il nostro ragionamento, possiamo affermare che, al contrario, una regolamentazione sempre più permissiva si è coniugata con una vigilanza del tutto inadeguata e con modalità di gestione della crisi, se possibile, ancora peggiori. 2.3.1 Gli snodi della crisi Cerco ora di declinare, per punti essenziali, le argomentazioni che supportano la precedente affermazione. a) l’impalcatura del sistema finanziario statunitense è stata modificata in modo strutturale con un provvedimento legislativo, il Financial Modernization Act20 del 1999, che ha di fatto abolito il Glass Stegall Act del 1933, allora istituito allo scopo di creare una netta separazione tra le attività e i rischi tipici dell’investment banking e il sistema dell’intermediazione bancaria tradizionale (c.d. “pure commercial banking”). La rimozione di questa barriera e la conseguente creazione di giganteschi conglomerati (“too big to fail” o “too big to be saved”?) non può certo essere considerata causa diretta della crisi. Non c’è mai stato un Glass Stegall Act in Germania e anche nell’Unione Europea, in forza della legge bancaria varata all’inizio degli anni Novanta, non esiste separazione tra le differenti attività del banking; ciononostante, l’adozione del modello di banca universale non ha impedito alle banche europee di crescere e di svilupparsi in condizioni di maggiore stabilità (direi di stabilità al netto del “contagio”). Ciò che ha pesato è l’“effetto somma” di questa modificazione istituzionale con gli altri fattori esposti nel seguito. b) La vigilanza sul sistema bancario è stata nei fatti suddivisa tra la Banca Centrale, competente sulle banche e sulle Bank Holding Companies, e la Securities and Exchange Commission competente sulle banche di investimento. Queste ultime si sono poi rivelate l’epicentro della crisi - tre delle cinque maggiori in vita prima della crisi oggi non esistono più come entità autonome, una è addirittura fallita e le due rimanenti si sono trasformate in Bank Holding Companies - accumulando posizioni di rischio sempre più insostenibili a fronte di riserve patrimoniali del tutto inadeguate. La ragione ormai acclarata è che, in presenza di un buco legislativo in tema di competenze di vigilanza su queste istituzioni, esse sono state, a partire dal 2004, assoggettate al cosiddetto Consolidated Supervised Entities, un programma di supervisione su base volontaria amministrato dalla SEC21; un portato di questa impostazione era che le investment banks potessero 20 21 Cfr. il c.d. Gramm-Leach-Bliley Act, emanato dal Congresso americano il 12 novembre 1999. Securities and Exchange Commission, “Final Rule: Alternative net Capital Requirements for Broker - Dealers that Are Part of Consolidate Supervised Entities”, June 21, 2004; ENRICO COTTA RAMUSINO 189 determinare i propri requisiti patrimoniali attraverso modelli di calcolo proprietari, internamente sviluppati. Questa impostazione non appare, in sé, priva di fondamento; nello spirito degli accordi sulla vigilanza internazionale promossi dal Comitato di Basilea, infatti, le banche possono optare per il calcolo dei requisiti di vigilanza prudenziale attraverso algoritmi di calcolo internamente sviluppati. Il corollario fondamentale di questa impostazione, peraltro, è che le autorità di vigilanza debbano verificare e validare questi modelli per accertarsi che le banche mantengano adeguati presidi nei confronti delle diverse tipologie di rischio. Questo è esattamente quello che non è stato fatto; nessuno ha effettivamente vigilato sulla bontà dei modelli e ciò ha consentito alle banche di investimento - prima di allora chiamate a mantenersi al di sotto di un rapporto di leverage complessivo pari a 15 sulla base di un criterio empirico, criticato dai membri di questa industria per il suo carattere di grossolana approssimazione - di dilatare il rapporto tra attivo e patrimonio fino a superare soglie elevatissime (pari a 30 o 40). Il risultato è quello che tutti abbiamo potuto vedere; dopo il fallimento di Lehman Brothers il Presidente della Sec ha riconosciuto il fallimento di questa impostazione di vigilanza22 ed il controllo dei soggetti rimasti in vita è passato alla Banca Centrale. c) Un altro pilastro del processo di modernizzazione del sistema è rappresentato dal Commodity Futures Modernization Act (CFMA), varato nel 2000, con il quale si è data via libera alla crescita del mercato dei derivati “over the counter”, strumenti negoziati direttamente tra le parti, invece che in una borsa. La differenza tra le due opzioni è chiara. Le negoziazioni all’interno di un mercato regolamentato sono maggiormente trasparenti (in termini di prezzi, volumi, standardizzazione e liquidità, delle tipologie contrattuali, natura delle controparti, etc.), sono maggiormente monitorabili dalle autorità di vigilanza e, da ultimo, beneficiano, sotto il profilo del rischio, del ruolo centrale svolto dalla Clearing House che, attraverso un sistema di garanzie applicato a tutti gli operatori attivi sul mercato, solleva ciascuno di questi dal rischio di controparte. L’approvazione del CFMA segnò il prevalere di una impostazione, quella secondo la quale lo sviluppo dell’innovazione finanziaria doveva essere lasciato completamente nelle mani del “mercato”, su un orientamento alternativo che, invece, proponeva una sua più stretta e trasparente disciplina. L’oggetto della disputa non era teorico ma, al contrario, un mercato in carne ed ossa che stava crescendo in modo vertiginoso e che, a giugno 2008, avrebbe raggiunto la rispettabile dimensione di 683 trilioni di dollari23. Scelta la via della non regolamentazione il 22 23 Securities and Exchange Commission, “Sec’s Oversight of Bear Stearns and Related Entities: the Consolidated Supervised Entity Program”, Office of Inspector General Report n. 446-A, September 25, 2008. Securities and Exchange Commission, “Chairman Cox Announces End of Consolidated Supervised Entities Program”, September 26, 2008. Il dato riportato, al quale comunemente ci si riferisce, anche per la sua impressionante capacità evocativa (il valore citato è pari ad oltre 11 volte il prodotto mondiale lordo del 2008) è espresso in termini di “notional amount outstanding”, vale a dire il valore del 190 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI mercato si è sviluppato attorno ad un sostanzialmente ristretto numero di dealer, riconosciuti sulla scena internazionale come veri e propri “market makers su questo segmento di mercato, con ovvie ripercussioni sistemiche (la crisi di uno di questi operatori poteva coinvolgere tutti gli altri). d) Se regolamentazione e vigilanza non hanno prodotto i risultati sperati, anche altre istituzioni - che potremmo definire “di mezzo” - fondamentali nella struttura del sistema, mi riferisco in particolare alle agenzie di rating24, hanno completamente mancato rispetto ai compiti loro assegnati. Giova ricordare che questi soggetti rivestono un ruolo fondamentale nel funzionamento dei mercati finanziari in quanto i giudizi valutativi da essi espressi sono rilevanti anche ai fini della regolamentazione dell’attività bancaria internazionale. Gli accordi sull’adeguatezza patrimoniale su base internazionale, meglio noti come “Accordi di Basilea”, attribuiscono ai rating delle agenzie una valenza formalmente rilevante ai fini della ponderazione dei rischi che le banche possono assumersi. Un asset valutato dalle agenzie con rating massimo può essere acquisito dalla banca con minimo assorbimento patrimoniale; se, a posteriori, tale giudizio si rivela infondato, la conseguenza è che il presidio patrimoniale posto dalla banca a fronte di questo rischio si rivela insufficiente. L’operato delle agenzie di rating ha rappresentato uno snodo cruciale per il propagarsi della crisi: i mutui immobiliari di qualità scadente sono stati trasformati in titoli negoziabili che le agenzie hanno valutato in modo totalmente slegato dall’effettivo merito creditizio. La valutazione positiva ha prodotto conseguenze importanti ai fini del 24 capitale nozionale al quale i contratti si riferiscono, comportando scambi di cash flow pari ad una piccola percentuale del capitale nozionale stesso (mai oggetto di scambio, peraltro, ad eccezione di alcune tipologie di contratti aventi ad oggetto valute). Un altro dato relativo alla dimensione del mercato, regolarmente pubblicato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali, è quello che si riferisce al cosiddetto “gross market value”, inteso come costo che ciascun operatore dovrebbe sostenere per smontare le operazioni in essere; il “gross market value”, maggiormente rappresentativo del profilo di rischio a carico degli operatori del mercato rispetto al “notional amount outstanding”, era pari, alla data del 30 giugno 2008, a 20,4 trilioni di dollari, meno di un trentesimo rispetto alla dimensione del notional amount outstanding ma sempre pari, per dare un ordine di grandezza, a circa 9 - 10 volte il prodotto interno lordo dell’Italia. Un’ultima grandezza che può aiutare a comprendere il reale profilo di rischio al quale sono esposti gli operatori di mercato è la cosiddetta “gross credit exposure”, nella quale, partendo dalle esposizioni lorde di cui al punto precedente viene effettuato il “netting” delle esposizioni di segno opposto tra le parti. Di questa grandezza, di dimensioni ovviamente più ridotte rispetto alla precedente, non sono disponibili statistiche su base sistematica. Cfr. BIS, Monetary and Economic Department, “OTC Derivatives Market Activity in the Second Half of 2008”, May 2009; International Swao & Derivatives Association, Research Notes, n. 1, Autumn 2008. Il riferimento coinvolge anche altri soggetti, quali gli analisti attivi nella valutazione dei titoli quotati sulle borse internazionali, dimostratisi incapaci di distinguere tra creazione di valore sostenibile e comportamenti speculativi di breve termine, così come all’efficacia delle attività svolte dalle società di revisione. ENRICO COTTA RAMUSINO 191 contagio: da un lato i titoli nominalmente sicuri sono stati acquisiti dagli investitori internazionali, accelerando il contagio anche ad operatori usualmente riluttanti ad assumere rischio, dall’altro, la positiva valutazione delle agenzie ha fatto sì che i titoli potessero essere riacquistati dalle banche stesse che, potendo contare sul basso assorbimento patrimoniale di questo investimento, hanno potuto dilatare gli attivi a consistenza patrimoniale pressoché inalterata25. Sul tema del riacquisto da parte delle banche dei titoli poi rivelatisi “tossici”, un ulteriore tassello si aggiunge a questo sconfortante quadro; mi riferisco alla circostanza che le banche hanno riacquistato questi titoli attraverso veicoli societari all’uopo creati, che la normativa civilistico contabile ha consentito di non consolidare in bilancio, con la creazione di un vero e proprio “shadow banking system”26. Esistono oggi rapporti dettagliati che documentano le evidenze di questo fallimento27, e proposte di regolamentazione di cui attendiamo gli sviluppi concreti28. Ciò che colpisce è il valore simbolico di questo fallimento: si è molto discusso del conflitto di interesse che può alterare il buon funzionamento del processo di rating - dove il valutatore del rischio è pagato dal soggetto valutato - ma a questa visione “maliziosa” si usava contrapporre l’affermazione che, fondando le agenzie il proprio business sul prestigio e la reputazione nel mercato, il conflitto in oggetto veniva superato dall’interesse delle agenzie stesse a mantenere intatto il proprio avviamento29. Nuovamente, il mercato conteneva in sé, secondo i suoi sostenitori, gli enzimi atti a garantirne il buon funzionamento30. Le indagini condotte dalla Sec dopo lo 25 26 27 28 29 30 Foglia A., “The Risk on Banks’ Books”, Swiss Finance Institute, Occasional Paper Series, n. 08-01, 2009. Adrian T., Shin H.S., “The Shadow Banking System: Implications for Financial Regulation”, Federal Reserve Bank of New York Staff Report, n. 382, July 2009. Securities and Exchange Commission, “Summary Report of Issues Identified in the Commission’s Staff Examinations of Selected Rating Agencies”, July 2008; Securities and Exchange Commission, “Proposed Rules for Nationally Recognized Statistical Rating Organizations”, June 2008. Commission of The European Communities, Communication from the Commission, “European Financial Supervision”, Bruxelles, 2009. Commissione delle Comunità Europee, “Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo alle agenzie di rating del Credito”, Bruxelles, 12.11.2008; ESME, “Role of Credit Rating Agencies”, Esme’s Report to the European Commission, June 2008; United States Senate “Committee on Banking, Housing and Urban Affairs, Hearings on, Examining Proposals to Enahance the Regulation of Credit Rating Agencies, August 5, 2009. SY A.N.R., “The Systemic Regulation of Credit Rating Agencies and Related Markets”, IMF Working Paper, June 2009; OPP C.C., OPP M.M., “Rating Agencies in the Face of Regulation: Rating Inflation and Regulatory Arbitrage”, www.ssrn.com, May 2009; Maris P., “The Regulation of Credit Rating Agencies in the Us and Europe: Historical Analysis and Thoughts on the Road Ahead”, www.ssrn.com, 2/27/2009. L’idea che il mercato sia in grado di trovare comunque un equilibrio e, dunque, di preservare la propria stabilità senza la necessità di un intervento di autorità regolatrici è fortemente ed efficacemente contestata in un recente saggio di Akerlof e Shiller. Cfr. Akerlof G.A., Shiller R.J., “How “Animal Spirits” Destabilize Economies”, McKinsey 192 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI scoppio della crisi ci consegnano una realtà ben diversa da quella prospettata dai sostenitori dell’aggiustamento automatico attraverso i meccanismi di mercato. e) L’ultimo anello nella filiera dei controlli è rappresentato dagli organismi e dalle funzioni interne alle banche, mi riferisco alle funzioni di risk management, ai comitati di controllo interno e ai consigli di amministrazione, incaricati di supportare da un lato e vigilare dall’altro sull’operato del top management. Per sintesi, mi limito a rilevare il fallimento di questi meccanismi di controllo; a dispetto della forte evoluzione e della crescente sofisticazione degli strumenti manageriali disponibili, la crescente intelligenza degli operatori è stata asservita alle istanze degli organi di linea, interessati in modo esclusivo allo sviluppo del business, mettendo in secondo piano le finalità del presidio del rischio. Sulle ragioni di questa evoluzione31, che si colloca coerentemente nel quadro della governance delle aziende coinvolte nella crisi, dirò nella seconda parte della relazione. 2.3.2 La gestione della crisi Le modalità di gestione della crisi hanno ulteriormente evidenziato la frammentazione e il disordine sottostanti un’infrastruttura globale all’apparenza sistemica. Come risulta evidente dalle premesse, i primi fenomeni di instabilità nascono nel mercato dei titoli originati dai mutui immobiliari di bassa qualità; al crescere delle insolvenze su questi ultimi si abbina il crollo dei valori di mercato dei primi. I downgrade delle agenzie di rating si succedono rapidamente32 - prova di quanto infondate fossero le valutazioni espresse poco tempo prima - ed entrano immediatamente in crisi gli operatori che avevano investito a leva in questi titoli. Il 2007 archivia la crisi di Northern Rock nel Regno Unito e quella di due hedge fund promossi da Bear Stearns. L’incapacità delle autorità di governo di stimare le dimensioni e le conseguenze della crisi appaiono chiare nelle espressioni ufficiali. Si dichiarano perdite presunte che non sono che una piccola frazione di quelle che poi risulteranno le effettive33. Nella primavera del 2008 si registra il salvataggio di Bear 31 32 33 Quarterly, n. 3, 2009. Cfr. Senior Supervisors Group, “Observations on Risk Management Practices during the Recent Market Turbolence”, 6 marzo 2008; Economist, “Confessions of a Risk Manager”, 7 agosto 2008; G 20 Working Group 1, “Enhancing Sound Regulation and Strenghtening Transparency”, Final Report, March 25, 2009. Inizia Moody’s nel giugno 2007 con il downgrade di 131 emissioni (250 vengono messe sotto osservazione per un successivo downgrade). A luglio S&P effettua downgrade su titoli di importo complessivamente pari a 7,3 miliardi di dollari, seguita da Moody’s con downgrade per 5 miliardi di dollari. Negli stessi giorni iniziano ad essere messe sotto osservazione le emissioni di CDO; Fitch annuncia il downgrade di 33 classi di emissioni di strutturati. Moody’s annuncia la revisione dei criteri di stima dell’expected loss sui titoli garantiti da mutui Alt-A. Le revisioni proseguono incessantemente, e sempre più estese, nell’autunno. Cfr. Borio C., “The Financial Turmoil of 2007 - ?: a Preliminary Assessment and some Policy Considerations”, Bis Working Papers, n. 251, marzo 2008. Ci riferiamo alle dichiarazioni del presidente della Fed, Ben Bernanke, che quantifica in ENRICO COTTA RAMUSINO 193 Stearns - acquisita da J. P. Morgan grazie ad una finanziamento della banca centrale americana - e, nell’estate, quelli di Freddie Mac e Fannie Mae, agenzie semipubbliche cruciali per il funzionamento del mercato dei mutui immobiliari statunitense. In queste condizioni si arriva allo snodo cruciale della crisi, con il fallimento di Lehman Brothers. Di fronte all’insolvenza della terza banca di investimento statunitense le autorità di quel paese hanno ritenuto di sospendere la politica dei salvataggi e di dare libero sfogo alle forze di mercato, ritenendo di sottoporre così a giusta sanzione l’agente economico che aveva sbagliato. La questione è chiara dal punto di vista teorico: i salvataggi, secondo alcuni, eliminando il rischio di fallimento, pongono il management in una situazione di azzardo morale nella quale beneficiano degli effetti positivi dei propri comportamenti senza sopportarne le conseguenze negative. Sulla base di questo semplice ragionamento si è deciso di lasciare Lehman al proprio destino. Ritengo questa scelta assolutamente sciagurata in quanto la sanzione non si è scaricata (solo) su Lehman ma sull’intero sistema finanziario internazionale. È stato demolito un bene pubblico, la fiducia nelle istituzioni finanziarie, e la crisi ha subito una drastica escalation a livello mondiale, come dimostrato dal prosciugarsi del mercato interbancario internazionale, dal crollo del prezzo delle attività finanziarie e dall’innalzamento verticale dei premi per il rischio. L’effetto Lehman Il fallimento di Lehman, come documentato nei grafici che seguono, determina una escalation della crisi e una accelerazione formidabile dei meccanismi di contagio34. Il primo effetto è l’ascesa verticale dei premi per il rischio pretesi dal 34 50 – 100 miliardi di dollari le perdite connesse ai subprime, e alle stime formulate il mese successivo dal Fondo Monetario Internazionale, che alzano le stime a circa 200 miliardi di dollari. Queste circostanze evidenziano come la complessità del sistema fosse straordinariamente cresciuta andando al di là della capacità di comprensione diretta e immediata di soggetti qualificati e interni al sistema stesso. Una molteplicità di operatori disseminati sulla scena mondiale - e pertanto soggetti a regole diverse sotto il profilo normativo e di vigilanza, a differenti discipline contabili e fiscali - ma profondamente integrati in un sistema di scambi organizzato largamente al di fuori di mercati ufficiali e avente per oggetto prodotti dalle strutture tecniche e giuridiche molto sofisticate, aveva di fatto dato vita ad un’entità di complessità tale da non risultare leggibile neppure da esponenti autorevoli collocati all’interno di essa. Sul tema della complessità dei sistemi si vedano, Faggioni F., Simone C., 2009, op. cit.; Barile S., 2009, op cit. Il contributo di Proietti e Quattrociocchi documenta la manifestazione dei meccanismi di contagio e, riferendosi al caso della crisi finanziaria, evidenziano correttamente come esso si sia limitato alle banche maggiormente esposte sulla scena internazionale, non estendendosi, per contro, a quelle maggiormente inserite in circuiti finanziari locali. Ritengo di dover aggiungere che tale effetto si è manifestato solo grazie alla decisione delle autorità dei vari paesi di intervenire in soccorso delle banche maggiori, maggiormente esposte rispetto alla crisi. In assenza di tale intervento il contagio sarebbe proseguito raggiungendo, in una fase successiva, anche le istituzioni inizialmente non 194 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI mercato sui titoli di debito di tutti gli operatori. Il drastico aumento coinvolge pesantemente i titoli AAA, in linea di principio i più sicuri negoziati sul mercato; il premio per il rischio rispetto ai titoli governativi sale da circa 80 punti base a luglio 2007 a 180 nel luglio 2008 fino a superare i 400 punti con una crescita pressoché istantanea dopo il fallimento di Lehman (Figura 1). Il terzo grafico evidenzia come la volatilità degli spread di questi titoli sia maggiore di quelli con rating inferiore (Figura 3). Il secondo grafico mostra come l’innalzamento degli spread sia ancora più marcato per i titoli di debito emessi dalle imprese finanziarie (Figura 2). La conseguenza di questo innalzamento dei premi per il rischio è, ovviamente, la caduta verticale dei prezzi delle attività finanziarie iscritte nei bilanci degli intermediari finanziari; nella catena della crisi, questo fenomeno provoca dubbi sulla tenuta del sistema. Il significato della decisione presa con riguardo a Lehman è, in questo quadro, molto preciso: gli operatori hanno maturato la convinzione che il circuito vizioso della crisi potesse non avere più termine. Fig. 1: Spread dei titoli AAA sui titoli governativi Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg coinvolte. Cfr. Proietti L., Quattrociocchi B., 2009, op. cit. ENRICO COTTA RAMUSINO 195 Fig. 2: Spread delle obbligazioni bancarie sui titoli governativi Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg Fig. 3: Spread dei titoli “investment grade” sui titoli governativi Investm ent Grade Spread Volatility 350 300 250 AAA 200 AA A 150 BBB 100 50 Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg 05/22/2009 11/30/2008 06/11/2008 12/18/2007 06/29/2007 01/05/2007 07/17/2006 01/24/2006 08/02/2005 02/10/2005 08/20/2004 03/01/2004 09/10/2003 03/21/2003 09/27/2002 04/10/2002 10/16/2001 04/24/2001 10/31/2000 05/11/2000 11/19/1999 06/02/1999 12/10/1998 06/22/1998 12/31/1997 0 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI 196 Un’analisi complementare alla precedente è quella che esamina l’evoluzione dei prezzi dei contratti espressivi del saggio di rischio attribuito dai mercati alle grandi banche internazionali. È evidente la natura sistemica del fenomeno della crisi: essi schizzano verso l’alto simultaneamente dopo il fallimento di Lehman e si riducono solo dopo che in diversi paesi vengono annunciati e varati piani di intervento a sostegno delle banche (Figura 4). Due verifiche empiriche sull’andamento dei “CDS premia” appaiono interessanti: da un lato essi paiono legati più alla capacità di intervento del paese d’origine della banca che al rischio specifico di questa; dall’altro si rileva un effetto positivo incrociato in quanto i premi dei CDS delle banche dei vari paesi beneficiano dell’intervento varato in altri paesi35. Nella propagazione e nella cura della crisi, dunque, il sistema pare perfettamente coeso. Fig. 4: Quotazioni dei credit default swap sul debito senior delle banche Banks CDS (Senior Debt) 400 350 300 250 A SNR 200 C SNR B SNR 150 100 04/08/20… 21/05/20… 09/03/20… 24/12/20… 10/10/20… 29/07/20… 15/05/20… 03/03/20… 19/12/20… 05/10/20… 24/07/20… 10/05/20… 26/02/20… 13/12/20… 29/09/20… 18/07/20… 04/05/20… 20/02/20… 07/12/20… 23/09/20… 12/07/20… 28/04/20… 14/02/20… 30/11/20… 16/09/20… 05/07/20… 21/04/20… 05/02/20… 19/11/20… 05/09/20… 24/06/20… 08/04/20… 23/01/20… 24/10/20… 06/08/20… 0 13/05/20… 50 Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg Le autorità statunitensi non hanno tardato a pentirsi della scelta operata. Lo dimostra il fatto che il giorno successivo alla decisione presa su Lehman, il colosso assicurativo AIG è stato salvato con una iniezione di 85 miliardi di dollari, seguita da altre cospicue sovvenzioni nei giorni e nei mesi successivi. Dopo il tentennamento delle autorità statunitensi tutti i paesi coinvolti dalla crisi decidono di intervenire per salvare quello che resta del sistema finanziario 35 Cfr. Panetta F., Faeh T., Grande G., Ho C., King M., Levy A., Signorelli F. M., Toboga M., Zaghini A., “An Assessment of Financial Sector Rescue Programmes”, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, Occasional Papers, luglio 2009. ENRICO COTTA RAMUSINO 197 internazionale. Un recente studio, riferito ai primi undici paesi coinvolti nella crisi, evidenzia le dimensioni degli interventi programmati e realizzati: i primi ammontano ad un totale di 5 trilioni di dollari, con punte di 2,5 trilioni negli Stati Uniti, pari al 18,6% del prodotto totale dei paesi considerati; i secondi, gli aiuti erogati, ammontano invece a 2 trilioni, pari al 7,6 del prodotto lordo dei citati paesi36. 2.3.3 Considerazioni conclusive Queste argomentazioni evidenziano a nostro avviso con chiarezza la natura incompiuta di quello che definiamo il sistema finanziario internazionale. Se la sua struttura operativa è evoluta nel tempo verso un sempre maggiore grado di integrazione, il sistema di sistemi della autorità di governo non ha tenuto il passo con questa evoluzione, dimostrando un grave ritardo che la crisi ha puntualmente evidenziato. Quando anche, in un simile contesto, le autorità di un paese si convincano che i comportamenti delle autorità di altri paesi possano produrre un rischio di portata mondiale, quali strumenti avrebbero per esercitare non un controllo o una influenza in grado di produrre qualche risultato? La risposta è semplice: nessuno. L’Unione Europea o il Giappone, a titolo di esempio, non erano nelle condizioni di esercitare alcuna influenza sulle autorità statunitensi su questioni tanto cruciali quali la vigilanza sulle banche di investimento, il controllo delle agenzie di rating o, per continuare negli esempi, la gestione della crisi. Da questi punti essenziali, come evidenzierò nelle conclusioni, è necessario partire oggi per la costruzione del sistema. 3. Comportamenti imprenditoriali, incentivi e dissonanza sistemica La seconda via lungo la quale si sviluppa la presente analisi è quella dei comportamenti imprenditoriali, anch’essa particolarmente ricca di elementi causali rispetto al fenomeno della crisi. Vale subito precisare che l’attributo “imprenditoriale” si riferisce, nel caso delle imprese di cui si tratta, caratterizzate per una strutturale separazione tra proprietà e controllo, alle azioni poste in essere dalla coalizione manageriale alla quale è affidato il governo delle imprese, finanziarie in questo caso. Queste imprese costituiscono, come si è detto, la struttura operativa del sistema ma sono a loro volta composte da un organo di governo e da una struttura operativa. È alla razionalità dell’organo di governo di queste imprese che dobbiamo guardare per comprendere pienamente la crisi. Abbiamo in precedenza affermato come le imprese di cui si 36 I paesi analizzati sono Stati Uniti (2.491 miliardi di dollari impegnati; 825 erogati), Gran Bretagna (845; 690), Francia (368; 104), Germania (700; 151), Olanda (265; 99), Italia (10; 2), Spagna (31 erogati), Giappone (113; 3), Svizzera (31 erogati), Australia (62 erogati) e Canada (0). Cfr. Panetta F. et al., 2009, op. cit. 198 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI tratta si sono incontrate nell’arena competitiva internazionale portando con sé orientamenti imprenditoriali assai differenti in virtù dell’appartenenza a sistemi nazionali differenziati, ciascuno dei quali sintesi dello schema delle relazioni che ciascuna di essa aveva con i propri regulator da un lato e con i propri stakeholder dall’altro. La tesi che si intende sostenere è che il perverso funzionamento dei meccanismi di incentivazione manageriale, distorcendo i comportamenti imprenditoriali, ha progressivamente posto in contrasto interessi individuali e collettivi. In questo quadro, lo sviluppo dell’intelligenza individuale degli operatori si è realizzato in totale spregio dell’obiettivo della consonanza sistemica, concentrandosi esclusivamente sugli interessi dell’elite o, se si preferisce, della lobby manageriale di governo. Questa situazione si è determinata attraverso un processo di evoluzione e di stratificazione storica, accentuatasi nel corso dei due ultimi decenni, che ha interessato complessivamente il modello della public company; nel caso particolare delle imprese finanziarie fattori specifici si sono aggiunti, esasperandoli, a quelli di ordine generale. 3.1 Il “tradimento” della public company Tra le radici remote della crisi trova indubbiamente posto, in posizione di preminenza, il malfunzionamento della democrazia societaria ed economica che ha caratterizzato, con asprezza crescente, il modello di governance delle grandi imprese statunitensi. Il tema non è circoscrivibile a quel sistema economico ma è di quelli rilevanti ai fini della comprensione delle future dinamiche evolutive delle istituzioni del capitalismo su scala globale. Questa affermazione si motiva con il fatto che risulta in tutta evidenza crescente il numero delle imprese che, anche in sistemi economici diversi da quelli di matrice anglosassone, assume una veste strutturale di questa specie, particolarmente connaturata a sostenere i processi di crescita delle imprese su scala mondiale. Una corretta gestione dei processi di governance all’interno di questo modello rappresenta, in sintesi, un elemento essenziale per garantire un equilibrato soddisfacimento degli interessi degli stakeholder dell’elite dimensionale delle imprese mondiali, con conseguente beneficio sulla stabilità complessiva del sistema. Al contrario, il perdurare di assetti quali quelli che ci hanno condotto alla crisi e la loro esportazione su scala globale - attraverso processi imitativi già avviati, seppur in scala ben minore, in altri sistemi - determinerà un probabile ritorno alla situazione che oggi stiamo vivendo. 3.1.1 Le ragioni, le evidenze e le conseguenze In cosa consiste quello che ho chiamato il tradimento della public company? In sintesi, esso si sostanzia in una ormai palese inadeguatezza del modello, così come declinato negli Stati Uniti, a rappresentare in modo equilibrato le istanze e le esigenze delle due categorie di stakeholder che qualificano questa struttura, gli ENRICO COTTA RAMUSINO 199 azionisti e i manager; un processo evolutivo iniziatosi a far tempo dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso ha infatti profondamente modificato la distribuzione di quello che noi definiamo il “potere contrattuale”, a tutto vantaggio dei secondi. La questione non interessa solo ai fini di una valutazione di equità ovvero, pur rilevante, di ordine etico. Ciò che maggiormente preme in questa sede - ove argomentiamo di instabilità, crisi e recessione - è rilevare come gli sviluppi intervenuti abbiano oggettivamente posto in discussione il postulato dell’efficienza economica che sembrava naturalmente sotteso a questa architettura d’impresa37. Cercherò in via sintetica di porre in luce, di questo fenomeno, le radici logiche, le evidenze empiriche dello scostamento rispetto alle premesse e alle promesse, le ragioni strutturali di tale scostamento. Il modello della public company ha origine per motivazioni storicamente acclarate: la crescita dimensionale molto rapida delle imprese, l’apertura degli assetti proprietari, la scomparsa dell’azionista di riferimento, la proprietà che diviene conseguentemente diffusa, il controllo totalmente affidato alla coalizione manageriale. Quest’ultima ha regole d’ingaggio molto chiare: la legittimazione del suo ruolo poggia sulla capacità di dimostrare come il suo operato sia in linea con gli interessi degli azionisti e, dunque, della collettività38; la dimostrazione di tale capacità viene misurata con le performance economiche dell’impresa, valutate, nel tempo, con una metrica progressivamente sempre più sofisticata. Di qui il principio della creazione di valore, sul quale mi preme fare un’osservazione. In conseguenza della crisi abbiamo assistito a numerosi attacchi al principio della creazione di valore per gli azionisti; si è detto che esso sta alla radice degli atteggiamenti speculativi delle banche che hanno originato la crisi e che tale principio andrebbe sottoposto a una dura revisione. Pur non avendo nulla contro le revisioni, se ci conducono ad un miglioramento, mi permetto di osservare che colpevole non è il principio che, anzi, non ha a mio avviso alternative credibili, ma la sua declinazione. Come dimostrano diverse ma convergenti evidenze empiriche il management ha prevalentemente operato al fine di creare valore per sé, non per l’azionista39. Torniamo al tema generale dell’evoluzione strutturale del modello della public company. Per verificare il rispetto, da parte del management, delle regole di ingaggio sopra citate, il modello prevede, in linea di principio, tre modalità: - il controllo del management attraverso i processi interni di governance dell’impresa, imperniati sul ruolo del board, lunga mano degli azionisti; - il varo di piani di incentivazione tesi ad allineare gli interessi (i compensi in termini più prosaici) dei manager a quelli degli azionisti; 37 38 39 Cfr. Becht M., Bolton P., Roell A., “Corporate Governance and Control”, National Bureau of Economic Research, Working Papers Series, n. 9371, December 2002. Golinelli G.M., “Recenti Sviluppi nelle Relazioni tra Economia e Finanza nel Governo dell’Impresa”, Sinergie, n. 67, 2005. Cotta Ramusino E., 2007, op. cit. Cfr. infra, par. 3.1.2 200 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI - e, da ultimo, la disciplina posta dal mercato (vale a dire dai grandi investitori), con l’estrema ratio del takeover ostile pendente, come una spada, sul capo dei manager non performanti. L’evoluzione storica ci ha mostrato, con chiarezza, che questo insieme di meccanismi ha smesso da tempo di funzionare. Se vogliamo fissare la fase temporale nella quale ha avuto inizio il disinnesco di questi deterrenti possiamo andare alla seconda metà degli anni Ottanta. Da allora il potere manageriale è cresciuto incontrastato e la proprietà è parallelamente scomparsa. Le ragioni sono diverse e sono state messe in risalto dagli studi scientifici in materia40. I. Il funzionamento dei board - che dovrebbero realizzare la prima forma di controllo sul management, determinando un bilanciamento dei poteri di questo rispetto a quello degli azionisti - non ha, secondo molti osservatori, espresso il necessario grado di efficacia41. È stato sottolineato come il crearsi di strette relazioni tra membri del board - frequentemente eletti in base a liste predisposte dal management - e top management tenda a rendere i primi eccessivamente acquiescenti nei confronti dell’operato dei secondi42. Nemmeno il requisito dell’indipendenza degli amministratori - caratteristica della maggior parte delle società quotate43 - è apparso sufficiente a garantire né un adeguato livello di controllo sull’operato del management, né la necessaria “distanza” dallo stesso, né concreti effetti sulla performance di medio lungo termine dell’impresa44. Le analisi condotte su significative popolazioni di consiglieri di amministrazione rivelano come tali soggetti siano i primi ad essere consapevoli del gap tra il modo in cui essi esercitano il proprio ruolo e le attese che su di essi si concentrano45. 40 41 42 43 44 45 Bebchuk L., “The case for increasing shareholder power”, Harvard Law Review, Vol. 118, n. 3, pp. 833-917, 2005; Bebchuk L., “The myth of shareholder franchise”, Harvard Law School, Discussion Paper, Vol. 565, n. 11, 2006; Bebchuk L., Audizione presso il Committee on Financial Services della Camera dei Rappresentanti, 8 marzo 2007; Cotta Ramusino E., 2007, op. cit. Cfr. tra gli altri, Becht M., Bolton P., Roell A., 2002, op. cit. Cfr. Bebchuk L., Fried J.M., “Pay without performance: overview of the issues”, Journal of Applied Corporate Finance, Vol. 17, n. 4, pp. 8-23, 2005. Molte società quotate hanno consigli composti da amministratori nominalmente indipendenti per oltre due terzi; le “listing rules” del NYSE e del NASDAQ prevedono che vi sia maggioranza di amministratori indipendenti e in molte società quotate si possono osservare consigli composti per intero da amministratori indipendenti, ad eccezione del CEO, che talvolta coincide con la figura del Presidente. In aggiunta a ciò, si deve ricordare come le verifiche empiriche non conducano in alcun modo a conclusioni univoche in tema di relazioni tra composizione del Board e performance dell’impresa. Cfr. sul tema in oggetto, Dallas G.S. e Scott H.S., “Mandating corporate behavior: can one set of rules fit all?” Panel discussion programm on international financial systems, Harvard Law School and Standard & Poors, New York, 2005. Cfr. Bhagat S., Black B.S., “The uncertain relationship between board composition and firm performance”, Journal of Corporation Law, Vol. 27, n. 2, pp. 231-274, 2002. In un survey del 2002 citato dal National Bureau of Economic Research è stato rilevato ENRICO COTTA RAMUSINO 201 Da ultimo, alcune prassi diffuse in molte public company, quali, ad esempio, quella dei cosiddetti “staggered board”46, al contrario, fanno sì che gli stessi consiglieri vengano a porsi quale ostacolo all’iniziativa degli azionisti, con il risultato di lederne gli interessi economici47. II. Anche il secondo meccanismo di ricomposizione dei conflitti, quello degli incentivi azionari attributi ai top manager allo scopo di allinearne gli interessi a quelli degli azionisti, non ha conseguito i risultati attesi. I piani di incentivazione si sono diffusi in modo pervasivo nelle public company a partire dalla metà degli anni Ottanta sul presupposto logico che manager/azionisti - attuali o potenziali potessero essere maggiormente stimolati a porre in essere comportamenti coerenti con il principio della creazione di valore. L’osservazione delle pratiche poste in essere e delle conseguenze che ne sono derivate ci porta a conclusioni lontane dalle attese, per ragioni di natura diversa, che cerco ora di illustrare. La prima considerazione che ci sentiamo di proporre sul tema in oggetto ha carattere generale. In linea di principio è ragionevole pensare che tali piani dovrebbero essere il risultato di una serrata negoziazione, tra manager e azionisti, in forza della quale i secondi dovrebbero validare, attraverso l’operato del board, la congruità dei piani in oggetto rispetto ai propri interessi. Nuovamente, viene anche in questo caso coinvolto il funzionamento della democrazia societaria poiché se l’azionista non è sufficientemente presente e il board che lo rappresenta non svolge in modo adeguato la propria funzione di controllo, è facile ipotizzare che tali piani 46 47 che molti amministratori (il 71% degli intervistati) ritenevano che sarebbe stato opportuno potenziare l’attività di monitoraggio svolta dal Consiglio (per esempio organizzando “executive sessions” con il CEO, che si verificavano solo nel 45% dei casi); inoltre, il 60% degli intervistati riteneva che sarebbe stato opportuno avere una figura di “lead director” (presente solo nel 37% dei casi). Cfr. Kaplan N.S., Holstrom B., “The State of Us Corporate Governance: What’s Right and What’s Wrong?”, NBER Working Paper Series, n. 9613, April 2003. Un survey realizzato da Mc Kinsey nel febbraio di quest’anno e focalizzato sulle modalità con le quali i board hanno affrontato la crisi, nuovamente, rivela uno stato di ampia insoddisfazione circa la distanza tra le attese e i risultati concreti. Il dato appare interessante perché fondato su rilevazioni effettuate presso gli stessi componenti dei board; cfr. Mckinsey Quarterly, “Governance in the Crisis”, n. 3, 2009. Questa fattispecie ricorre quando una società ha consiglieri eletti per differenti orizzonti temporali, cosicché la loro scadenza non si realizza in un unico istante. Il potenziale acquirente (ma anche gli azionisti che promuovono un’azione finalizzata al ricambio del board) non ha pertanto la possibilità di sostituire la maggioranza dei membri in una sola assemblea annuale ma deve ricorrere ad almeno due assemblee, l’una ad un anno dall’altra. Questa prassi di governance, diffusa presso molte imprese quotate, riduce la loro vulnerabilità ad attacchi esterni e, di conseguenza, la loro contendibilità. Studi condotti su questo tema evidenziano una correlazione negativa tra valore dell’impresa e presenza di “staggered boards”. Cfr. Bebchuk L., Cohen A., “The cost of entrenched boards”, Journal of Financial Economics, Vol. 78, pp. 409-433, 2005. Cfr. Bebchuk L., Coates J.C. IV, Subramanian G., “The powerful antitakeover force of staggered boards. Theory, evidence and policy”, National Bureau of Economic Research, Working Papers Series, n. 8974, 2002. 202 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI vengano strutturati secondo l’interesse prevalente del management. Quando i contratti di opzione interessano quantitativi molto elevati di azioni - e l’esercizio delle stesse comporta remunerazioni nell’ordine delle decine, talvolta centinaia di milioni di dollari - si torna al problema centrale della governance: chi stabilisce le regole di distribuzione del valore creato? La seconda osservazione è di natura più specifica e riguarda la struttura e la distribuzione temporale degli incentivi. Questo aspetto non può essere derubricato al rango di questione tecnica in quanto la sua declinazione può largamente influenzare la patologia nel funzionamento di questi meccanismi. Due distinte fattispecie rilevano su questo fronte. La prima è riconducibile alla circostanza che la stretta correlazione tra remunerazione del top management e andamento dei corsi azionari può indurre il management a porre in essere azioni che, indipendentemente dall’effetto di medio lungo periodo sul posizionamento competitivo dell’impresa, massimizzino l’andamento dei prezzi azionari nel breve termine (o sull’orizzonte temporale rilevante per l’esercizio delle opzioni)48; è il tema dello “short termism”, sul quale tornerò fra breve. La seconda declinazione della patologia ha carattere molto più concreto e si riferisce essenzialmente ai comportamenti fraudolenti che il management, mosso dall’avidità, potrebbe essere indotto a porre in essere. Manipolazioni contabili e falso in bilancio sono esempi tragicamente concreti attraverso i quali il management cerca di produrre un artificioso rialzo dei corsi azionari49. La recente emersione di una serie molto diffusa di casi definiti di “options’ backdating” - una pratica in forza della quale i board di molte società, su pressione dei rispettivi top manager, avrebbero accettato di retrodatare i contratti di stock option di cui questi ultimi erano i beneficiari, allo scopo di collocarne la decorrenza in istanti temporali favorevoli50 - rappresenta un altro esempio di 48 49 50 Intendiamo in questo modo riferirci al tema dell’orientamento a breve termine del management, diffusamente trattato in letteratura, indicatore dei negativi effetti dei mercati finanziari sul comportamento delle imprese. Cfr. Cotta Ramusino E., “Imprese e sistema finanziario in Italia, problemi e prospettive”, Sinergie, n. 38, pp. 51-72, 1995. Tra i contributi ivi citati, si segnala, in particolare: Stein J.C., “Efficient Capital Markets, Inefficient Firms: A Model of Myopic Corporate Behaviour”, The Quarterly Journal of Economics, Vol. 104, n. 4, November 1989. I piani di stock option vengono in questa prospettiva accusati di massimizzare il beneficio riveniente dal comportamento fraudolento. Si tratta, in pratica, di retrodatare le opzioni allo scopo di collocarne la decorrenza in momenti di prezzi azionari particolarmente bassi, in modo da attribuire ai manager contrariamente alla prassi tradizionalmente seguita in passato di conferire le opzioni ai prezzi correnti - contratti di opzione aventi già in partenza un valore intrinseco positivo. Questo modo di procedere rende ovviamente molto più probabile, quando non certa, la convenienza all’esercizio futuro. La pratica contempla numerose e differenziate fattispecie, talune illegali, in specie quando si associano alla mancata trasparenza sui benefici concessi al management e sui relativi costi a carico dell’impresa, e altre che, pur non violando espliciti obblighi di legge, sono invece in aperto conflitto con il principio di fiducia in forza del quale il management dovrebbe operare nell’interesse degli azionisti. Al momento in cui si scrive, ad inizio 2007, vi sono oltre 200 società indagate per ENRICO COTTA RAMUSINO 203 comportamento fraudolento. Tutto ciò non ha fatto che esacerbare il dibattito sulla liceità dei compensi dei top manager e ha diffuso la consapevolezza in merito alla scarsa efficacia dei meccanismi di controllo sul loro operato. III. Il terzo meccanismo in grado di risolvere i conflitti di agenzia è rinvenibile nella cosiddetta “disciplina di mercato”, elemento centrale nella regolazione del funzionamento di un sistema capitalistico fondato sul modello della public company. Esso si declina in due distinte fattispecie, l’attivismo degli investitori chiamati a controllare in itinere l’operato e i risultati del management da un lato, e la minaccia dei takeovers ostili dall’altro. In merito al primo aspetto non possiamo non rilevare una discrasia tra quanto ipotizzabile in termini astratti e una prassi che si rivela, non di rado, assai distante. Poichè le analisi empiriche dimostrano come i grandi investitori istituzionali siano strutturalmente51 i principali azionisti delle imprese statunitensi52 e poiché le partecipazioni che essi detengono sono finalizzate alla produzione del massimo rendimento per i risparmiatori che ad essi si affidano, si tende ad ipotizzare che questi soggetti si impegnino in azioni di monitoraggio sull’operato del management, finalizzate ad ottenere il massimo sforzo, da parte di questi, nel perseguimento dell’obiettivo di massimizzazione del valore per l’azionista. L’attivismo diviene, in questa prospettiva, un’azione nell’interesse dello stesso investitore; la probabilità 51 52 l’esercizio di queste pratiche. L’Institutional Shareholder Services pubblica sul proprio sito le evoluzioni del fenomeno e i consigli agli investitori in merito ai comportamenti da tenere nel caso essi abbiano investito in società coinvolte in queste pratiche. Il fenomeno è seguito costantemente dalla stampa internazionale ed è oggetto di valutazione da parte della Securities and Exchange Commission. I primi studi empirici, che iniziano a comparire sull’argomento, rilevano come tali prassi si verifichino con maggiore frequenza in imprese caratterizzate da modesti standard di governance. Collins, Gong e Li (2007) analizzano un articolato set di indicatori di corporate governance e li correlano con l’incidenza delle pratiche di backdating. Il tema, inoltre, era già stato affrontato da Lie (2005) - che rinveniva rendimenti anomali negativi prima della data di conferimento delle opzioni e rendimenti anomali positivi dopo questa data - adombrando il sospetto che molte delle opzioni fossero, come poi infatti si è scoperto, retrodatate. Cfr. Collins D.W., Gong G., Li H., “Corporate governance and backdating of executive stock options”, www.ssrn.com, 2007; Lie E., “On the timing of CEO stock option awards”, Management Science, Vol. 51, 2005; cfr. anche Fried J., “Option Backdating and its Implications”, www.ssrn.com, 2008. Con questa affermazione intendiamo sottolineare come gli investitori istituzionali tendano a mantenere le proprie partecipazioni nelle imprese in modo sostanzialmente durevole. A supporto di questa affermazione possiamo citare ragioni essenzialmente legate agli stili di gestione di portafoglio seguiti da questi soggetti. A maggior ragione nel caso di gestione orientata alla replicazione di indici ma anche nel caso di stili maggiormente attivi, gli investitori di questa specie non possono azzerare le proprie partecipazioni in società rilevanti nei diversi mercati in quanto queste azioni tenderebbero naturalmente ad allontanare la performance di gestione da quello di investitori comparabili. Si tratta di un rischio che non molti investitori intendono assumere. Cotta Ramusino E., 2007, op. cit. 204 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI che esso si impegni nell’azione di monitoraggio del management è proporzionata alla sua forza relativa e ai risultati che questi comportamenti sono ipotizzati produrre. Se, in linea di principio, questa argomentazione pare fondata su solide basi di razionalità, l’osservazione empirica ha invece portato molti studiosi a concludere come l’attivismo dei grandi investitori risulti, nella pratica, assai inferiore (insufficiente, secondo molti) rispetto a quello che sarebbe logico attendersi53. Le ragioni dello scarso attivismo sono state ampiamente indagate in numerosi contributi ai quali rinviamo, limitandoci a dare conto di alcune conclusioni sulle quali si rileva forte convergenza di opinioni54. In primo luogo occorre ricordare che tra i fondi pensione e le compagnie di assicurazione - detentori, nel 2005, del 26% delle azioni delle società statunitensi55 - solo i fondi di natura pubblica (detentori del 10,3%) mostrano significativi segnali di attivismo56. La cautela e lo scarso attivismo dei fondi di investimento - detentori del 25% delle azioni delle imprese statunitensi viene spesso imputata alla volontà di non pregiudicare, con i propri comportamenti di opposizione, le relazioni con le imprese che rappresentano potenziali clienti per i servizi di asset management o di investment banking, offerti dai gruppi finanziari ai quali i fondi stessi appartengono57. 53 54 55 56 57 Si veda Black (1998): “I survey corporate governance activity by institutional investors in the United States, and the empirical evidence on whether this activity affects firm performance. A small number of American institutional investors, mostly public pension plans, spend a trivial amount of money on overt activism efforts. They don’t conduct proxy fights, and rarely try to elect their own candidates to the board of directors. Legal rules, agency costs within the institutions, information costs, collective action problems, and limited institutional competence are all plausible partial explanations for this relative lack of activity. The currently available evidence, taken as a whole, is consistent with the proposition that the institutions achieve the effects on firm performance that one might expect from this level of effort - namely, not much”. Cfr. Black B.S., “Shareholder activism and corporate governance in the United States”, in Newman P. (ed.), The New Palgrave Dictionary of Economics and the Law, 1998 e, dello stesso autore, “Shareholder passivity reexamined”, Michigan Law Review, Vol. 89, pp. 520-608, 1990. Cfr. Holton G.A., “Investor suffrage movement”, Financial Analysts Journal, Vol. 62, n. 6, pp. 15-20, 2006; Gillan S.L., Starks L.T., “Corporate Governance, Corporate Ownership and the Role of Institutional Investors: A Global Perspective”, Journal of Applied Finance, n. 2/2003. Board of Governors of the Federal Reserve System. Si veda Holton G.A., 2006, op. cit. L’autore rileva peraltro come i fondi pensione di natura pubblica debbano essere cauti nelle loro azioni di intervento. Comportamenti di eccessiva opposizione al management aziendale potrebbero essere interpretati come un atteggiamento “antibusiness” e sottoposto a pressioni di natura politica. In merito ai fondi pensione privati, Holton rileva, semplicemente, che essendo essi gestiti da manager, è ragionevole attendersi una scarsa azione contro altri manager. Le osservazioni, recenti, di Holton riprendono e confermano un’analisi già effettuata da Black nel 1990. Si veda anche, Smith M.P., “Shareholder activism by institutional investors: evidence from Calpers”, Journal of Finance, Vol. 5, n. 1, pp. 227-252, 1996. La circostanza viene rilevata e confermata, in istanti diversi, dai lavori di Black (1998), ENRICO COTTA RAMUSINO 205 Non stupisce, in questa prospettiva, lo scarso attivismo. L’operatore che decida di agire pregiudica le proprie potenziali relazioni di clientela per ottenere vantaggi che vanno divisi tra tutti gli azionisti. Gli investitori inattivi, per contro, beneficiano del risultato dell’azione di quello attivo senza sostenerne i relativi costi; il movente per compiere il primo passo appare, pertanto, oggettivamente debole. In tempi recenti si sono avuti segnali concreti di attivismo da parte di altre categorie di investitori, i fondi di private equity e gli hedge fund. In forza delle loro particolari caratteristiche, queste categorie di investitori sembrano in grado di rendersi protagonisti58, di comportamenti maggiormente attivi rispetto ai tradizionali investitori istituzionali. Questi sviluppi stanno generando differenti reazioni; mentre da un lato si segnala la crescente influenza di questi operatori sui comportamenti delle imprese, non mancano, da parte di queste ultime, espressioni di preoccupazione per i comportamenti estremamente aggressivi e l’orientamento al breve termine espresso da questi soggetti59. Benché per una valutazione più ponderata sia necessario attendere gli esiti delle evoluzioni in corso - con la ulteriore crescita del comparto a livello mondiale potremo verificare, nel tempo, il permanere delle attitudini all’attivismo sul fronte della corporate governance60 - la dimensione complessiva dei patrimoni gestiti da questi soggetti non è ancora in grado di portare ad influenze diffuse sui comportamenti delle imprese61. 58 59 60 61 Gillan e Starks (2003) e Holton (2006). L’assenza di obblighi di diversificazione del patrimonio, la possibilità di utilizzare strumenti derivati e leva finanziaria, la possibilità di procurarsi diritti di voto attraverso operazioni di prestito titoli, rappresentano elementi che, uniti alla minore dimensione e alla circostanza che i gestori sono i beneficiari primi delle performance prodotte, possono agevolare comportamenti attivi e particolarmente aggressivi. Sul tema si vedano, tra gli altri: Klein A., Zur E., “Hedge fund activism”, European Corporate Governance Institute, Working Paper Series in Finance, n. 140, 2006. Cfr. Dallas G.S., Scott H.S., 2005, op. cit. Segnaliamo come l’industria europea degli hedge fund si vada arricchendo di tipologie di fondi che dichiarano, in termini di strategia di investimento, la propria specializzazione nei comportamenti “attivi” nella governance delle imprese. Casi anche eclatanti di interventi attivi di fondi di private equity e di fondi hedge si sono recentemente avuti, oltre che negli Stati Uniti, anche in Europa. Si pensi, tra gli altri, ai casi di Deutsche Börse, Sainsbury, ABN AMRO, Carrefour, etc. Il contributo di Klein e Zur (2006) pone in luce come questi fondi tendano ad investire in modo diverso rispetto allo schema tradizionale che prevede l’intervento in aziende poco performanti allo scopo di rilanciarne la gestione; le evidenze presentate rivelano, piuttosto, come gli hedge fund tendano ad investire in aziende profittevoli caratterizzate da ampie disponibilità di cassa. L’obiettivo sembra essere quello di estrarre le risorse finanziarie in eccesso inducendo le aziende partecipate a pagare dividendi straordinari; questa manovra ha l’effetto di ridurre i conflitti di agenzia legati al “free cash flow” (le risorse finanziarie in eccesso rispetto al fabbisogno di investimento dell’impresa che i manager dovrebbero restituire agli azionisti, mentre, nei fatti, viene spesso trattenuto per realizzare progetti che non sempre arrivano a massimizzare gli interessi degli azionisti stessi). Sul tema si veda: Jensen M.C., “The agency costs of free cash flow: corporate finance and takeovers”, American Economic Review, Vol. 76, n. 2, pp. 323-329, 1986. 206 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI Anche i takeover paiono essere uno strumento maggiormente efficace nella teoria che nella pratica. Gli studiosi che hanno analizzato l’evoluzione storica di medio lungo periodo delle operazioni in oggetto hanno posto in chiara luce la fondamentale trasformazione avvenuta tra gli anni Ottanta e il periodo successivo, che arriva fino a noi. Mentre gli anni ottanta sono stati caratterizzati da una grande ondata di takeover (spesso) ostili (prevalentemente finanziati con debito)62, a partire dagli anni Novanta, le operazioni ostili sono divenute più difficili e oggi sono considerate eventi piuttosto rari63. Tra le ragioni addotte per spiegare questo cambiamento ricordiamo gli impedimenti di natura giuridica alle operazioni di scalata ostile. Le legislazioni antitakeover promulgate da numerosi stati alla fine degli anni Ottanta hanno consentito alle imprese di dotarsi diffusamente di meccanismi anti scalata64. 3.1.2 Potere manageriale e debolezza della proprietà Le argomentazioni fin qui sviluppate hanno posto in luce le ragioni logiche di una evoluzione di lungo periodo in forza della quale la democrazia societaria che caratterizza la public company sarebbe progressivamente degenerata determinando uno sbilanciamento di poteri tra azionisti e manager, a tutto vantaggio dei secondi rispetto ai primi. Due sono le evidenze empiriche a supporto delle affermazioni precedenti: l’evoluzione dell’executive compensation da un lato, fenomeno già posto 62 63 64 Cfr. Kaplan N.S., Holstrom B., “Corporate governance and merger activity in the United States: making sense of the 1980s and 1990s”, Journal of Economic Perspectives, Vol. 15, n. 2, 2001; Burkart M., Panunzi F., “Takeovers”, European Corporate Governance Institute, Working Paper Series in Finance, Vol. 118, 2006. Cfr. Becht et al., 2002, op. cit. Nello studio si sostiene che a) anche nel periodo di massima diffusione di queste operazioni - gli anni Ottanta - la percentuale di imprese quotate oggetto di scalata non eccedette mai la percentuale dell’1,5%; b) la percentuale di operazioni ostili sul totale, in quel periodo, non fu mai superiore al 30%; c) tra il 1990 e il 1998 solo il 4% delle operazioni fu di carattere ostile. Si veda anche Kaplan N.S., Holstrom B., 2001, op. cit. Cfr. Becht et al., 2002, op. cit., p. 71. In conseguenza di queste evoluzioni, il numero di takeover ostili è molto diminuito e la loro probabilità di successo si è molto ridotta. Nello stesso senso si esprimono Bebchuk et al., 2002, op.cit. I meccanismi antiscalata comprendono, oltre al già citato esempio dei cosiddetti “staggered boards”, le cosiddette “poison pills”, strumenti variamente disegnati, usati dalle imprese per rendere difficile, finanche impossibile, la realizzazione di scalate ostili da parte di potenziali acquirenti. Comparsi sulla scena all’inizio degli anni Ottanta, questi strumenti consentono al consiglio di amministrazione - frequentemente senza il bisogno di un’approvazione da parte dell’assemblea dei soci, come nel caso della legge dello stato del Delaware, una tra le più utilizzate dalla società americane - di prevedere azioni che riducono la convenienza dell’acquirente (ostile) a portare a termine l’operazione (il caso più tipico è quello della previsione di emissione di nuove azioni riservate ai vecchi azionisti che ha l’effetto di diluire la quota acquisita dallo scalatore). ENRICO COTTA RAMUSINO 207 in luce da numerosi studi empirici pubblicati ben prima della crisi, e la stabilità del vertice manageriale dall’altro. Sul primo fronte, quello della management compensation, disponiamo di dati molto chiari, che evidenziano due fenomeni. Il primo è quello della crescita vertiginosa, realizzatasi a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, dei compensi dei manager apicali delle public company, accompagnato da una struttura della remunerazione caratterizzata da una componente sempre maggiore di incentivazione azionaria (restricted shares e stock option). Senza entrare in eccessivo dettaglio, ricordo solo un dato che illustra in modo chiaro le proporzioni del fenomeno di cui si discute: il rapporto tra compenso del CEO e stipendio medio del lavoratore, pari a 40 negli anni Settanta, a 69 negli anni Ottanta, sale a 187 negli anni Novanta e a 367 nei primi anni di questo secolo65. Il secondo fenomeno è quello della correlazione tra compenso e performance dell’impresa, argomento centrale nel funzionamento di questo modello di capitalismo, nel quale il bravo manager/imprenditore può legittimamente ricevere compensi ricchissimi in quanto il suo ruolo è quello di creare ricchezza per tutti. Numerosi studi empirici hanno mostrato invece come il management sia progressivamente riuscito, grazie al potere accumulato nel tempo, a rompere la correlazione in oggetto. In altre parole, numerosi studi hanno dimostrato la capacità del management di percepire ricchi compensi anche indipendentemente dalle performance espresse dall’impresa gestita66. I tentativi di trovare una spiegazione teorica al fenomeno di cui si tratta67 non hanno a nostro avviso prodotto risultati convincenti. 65 66 67 La stima è contenuta in Frydman C., Saks R., “Historical trends in executive Compensation 1936-2003”, Harvard University, Mimeo, web.mit.edu/frydman/ www.research.htm, 2004. Altre stime sono quelle operate dal National Bureau for Economic Research (NBER) secondo il quale il rapporto tra la remunerazione del CEO e lo stipendio medio dei lavoratori, compreso in un intorno tra 15 e 20 in Europa, supera il valore di 400 negli Stati Uniti; Cfr. Kaplan N.S., Holstrom B., 2003, op. cit. Evidenze analoghe sono rinvenibili in altri contributi, tra i quali citiamo i seguenti: Bebchuk L., Grinstein Y., “The growth of executive pay”, Oxford Review of Economic Policy, Vol. 21, n. 2, pp. 283-303, 2005; Dallas G.S., Scott H.S, 2005, op. cit. Evidenze simili sono citate in un saggio di Buck, Shahrim e Winter (2004), che fanno riferimento ad analisi condotte da Tower Perrin sulle imprese statunitensi con più di 500 milioni di dollari di fatturato; per queste imprese la retribuzione totale media dei CEO è stata, nel biennio 2000/2001, pari a 1,93 milioni di dollari, un valore pari a 531 volte la retribuzione media dei dipendenti delle stesse imprese. Stime basate su differenti metodologie ma che conducono a conclusioni simili sono state pubblicate nel numero dell’Economist del 20 gennaio 2007. Cfr. Buck T., Shahrim A., Winter S., “Executive stock options in Germany: the diffusion or translation of US - style corporate governance?”, Journal of Management and Governance, Vol. 8, n. 2, pp. 176-186, 2004. Cfr. in particolare, Bebchuk L., Fried J.M., 2005, op. cit.; Bebchuk L., Grinstein Y., 2005, op. cit.; Frydman C., Saks R., 2005, op. cit. Cfr. Thomas R.S., “Explaining the international CEO pay gap. Board capture or market driven?”, Vanderbilt University Law School Law and Economics, WP, n. 03-05, 2005. 208 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI Sul fronte della stabilità dei manager apicali, studi recenti evidenziano con puntuale precisione una realtà della quale si ha, peraltro, una percezione già abbastanza chiara a livello intuitivo. Due contributi pubblicati nel corso degli ultimi due anni68 hanno mostrato, tra i tanti, due risultati rilevanti, la tendenza del management a permanere nella propria posizione anche in presenza di performance insoddisfacenti e la riduzione del ricambio nel contesto della crisi69. Queste evidenze empiriche ridimensionano pesantemente la stilizzazione generalmente accettata di un top management costantemente alle prese con una disciplina di mercato rigorosa puntuale e minacciosa. 3.2 Lo “short termism” Queste premesse aiutano a mio avviso a collocare in una dimensione corretta il tema dello short termism, un aspetto tanto rilevante quanto difficile da valutare e ambiguo nelle sue manifestazioni. Il modello anglosassone è stato ripetutamente accusato di soffrire l’eccessiva pressione dei mercati finanziari e di produrre, come conseguenza, comportamenti manageriali/imprenditoriali, eccessivamente orientati ad enfatizzare le performance finanziarie a breve termine delle imprese e, parallelamente, un eccessivo grado di instabilità70. 68 69 70 Karlsson P.O., Neilson G.L., Webster J.C., “Ceo Succession: The Performance Paradox”, Strategy + Business, n. 51, Summer 2008; Karlsson P.O., Neilson G.L., “Ceo Succession: Stability in the Storm”, Strategy + Business, n. 55, Summer 2009. Nel secondo dei due studi citati alla nota precedente, basati sulle risultanze delle analisi di Booz & Co., una delle maggiori società di consulenza a livello mondiale, si rileva come il tasso di sostituzione dei CEOs delle 2.500 maggiori public company del mondo sia stato del 14,4% (361 sostituzioni su 2.500 imprese), in leggero calo rispetto al 2007, vicino ai livelli del 2006. Al fine di meglio comprendere il significato di questo dato occorre rilevare che di queste 361 sostituzioni 180 sono da considerarsi “pianificate” (pensionamenti, sostituzioni da tempo pianificate, malattia, etc.), 54 sono state la conseguenza di operazioni di fusione/acquisizione e solo 127 sono state decise dal board in forza di performance economico finanziarie insoddisfacenti da parte dell’impresa. Tra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso si sviluppò un acceso dibattito sulla (presunta) debolezza intrinseca del modello di mercato, ritenuto strutturalmente affetto da un orientamento eccessivo al breve termine. Questa circostanza era, nelle valutazioni che allora venivano formulate, destinata a determinarne un progressivo indebolimento e una irrimediabile perdita di competitività da parte degli Stati Uniti rispetto a due potenze emergenti, il Giappone e la Germania, rappresentanti del modello alternativo, definito stakeholder oriented, fondato sulla mediazione tra stakeholder, meno influenzato dall’andamento dei mercati finanziari e più incline a preservare la competitività di lungo periodo delle imprese. Cfr. Porter M., “Capital Disadvantage: America’s failing Capital Investment System”, Harvard Business Review, Vol. 70, n. 5, 1992; Stein J.C., 1989, op. cit.; Cable J., 1985, op. cit.; “Capital Market Information and Industrial Performance: the Role of West German Banks”, Economic Journal, Vol. 95, n. 3, 1985; Cotta Ramusino E., 1995, op. cit.; Ellsworth R.R., “Capital Markets and competitive decline”, Harvard Business Review, Vol. 68, n. 5, 1985; ENRICO COTTA RAMUSINO 209 Rispetto a questa rappresentazione ci sentiamo di proporre due considerazioni e una domanda. La prima considerazione riguarda la natura e la rilevanza del fenomeno. In presenza di separazione tra proprietà e controllo, gli azionisti conferiscono al management una delega alla gestione dei mezzi della produzione di cui sono proprietari. Il delegante ha un ragionevole interesse a controllare, in itinere, il delegato in relazione all’esercizio della delega e tale controllo si esplica valutando le performance prodotte dall’impresa. Secondo la visione maggioritaria, pertanto, un esercizio impaziente dell’azione di controllo produce la tanto citata “pressione” sul management e, di conseguenza, la tendenza di questo a concentrarsi sui risultati di breve periodo. La questione è rilevante. Il ruolo dei manager all’interno di una struttura societaria nella quale l’azionista proprietario diviene progressivamente meno presente e visibile assume chiaramente contenuto imprenditoriale. Un efficace esercizio di questa funzione implica, ovviamente, il possesso da parte del manager/imprenditore di capacità e di competenze adeguate al compito, ma ciò può non essere sufficiente se manca il tempo necessario a realizzare il progetto imprenditoriale; se l’orientamento al breve termine dell’azionista induce chi governa l’impresa a concentrarsi primariamente sull’estrazione di valore dall’assetto in essere dell’impresa e non ad investire sulla creazione di capacità di creazione di valore sostenibile è il sistema economico nel suo complesso che rischia di subire una perdita netta. La seconda considerazione riguarda la nostra capacità di cogliere, in termini di verifica empirica la dimensione di questo fenomeno, tanto chiaro da esporre in termini astratti. Tradizionalmente, i contributi scientifici sul tema in oggetto assumono quali indicatori (proxies) dello “short termism” variabili che colgono solo parzialmente la manifestazione del fenomeno. Un processo logico diffuso nelle verifiche empiriche è quello che si fonda sull’osservazione di grandezze quali gli investimenti in ricerca e sviluppo - tipologia di investimento atta a produrre effetti nel medio lungo termine - e che, dalla loro dimensione ed evoluzione, cerca di trarre conclusioni sull’orientamento dell’impresa. Questa impostazione non risulta a nostro avviso esaustiva, per due ordini di ragioni. In primo luogo l’intensità di questi investimenti varia in funzione del settore di operatività dell’impresa. In secondo luogo, e più importante, vale ricordare come lo “short termism” possa essere dall’impresa declinato attraverso altri e numerosi comportamenti, scarsamente visibili, e dunque rilevabili, all’esterno. Poste sotto pressione dai mercati finanziari, le imprese possono reagire declinando i propri comportamenti in modo più o meno orientato al breve termine in aree (politiche di prodotto e di prezzo, investimenti materiali e nella comunicazione, politiche del personale, etc.) che non si prestano ad una lettura (o almeno ad una lettura univoca) da parte dell’analista esterno. Il fenomeno, in altre parole, tende per sua natura a sfuggire alla verifica empirica. Complessivamente, le evidenze che ci Strickland D., Wiles K.W., Zenner M., “A Requiem for the Usa: Is Small Shareholders Monitoring Effective?”, Journal of Financial Economics, Vol. 40, pp. 329-338, 1996. 210 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI vengono consegnate, spesso contraddittorie, non consentono di trarre conclusioni univoche sull’esistenza e sugli effetti dei comportamenti di questa specie71 anche se resta forte, nell’esperienza concreta, la sensazione che molte delle decisioni strategiche delle imprese quotate siano influenzate in modo determinante dai mercati finanziari. L’elemento di novità introdotto dai fenomeni che abbiamo esposto in precedenza si sostanzia invece in una domanda: quali sono i soggetti orientati al breve termine? Nella sua versione tradizionale, il fenomeno dello short termism rappresenta un tratto del comportamento degli azionisti che, eccessivamente orientati ai rendimenti a breve termine, porrebbero eccessiva pressione sul management influenzandone in modo pernicioso l’operato. In un simile scenario il top management diverrebbe prigioniero del mercato, essendo da questo “obbligato” a produrre con continuità le performance attese dagli investitori, con la sanzione della dismissione nel caso questa obbligazione non venisse onorata. Portando avanti il ragionamento, il risultato economico - il profitto attuale e quello atteso che, attualizzato definisce il valore - smetterebbe di essere grandezza residuale per divenire, in qualche modo, grandezza “contrattualizzata”. Le evidenze empiriche che abbiamo in precedenza presentato raccontano però una realtà diversa. Un top management sempre più potente, privo di un reale contradditorio, compensato in misura sempre maggiore e ragionevolmente stabile mal si adatta a ricoprire il ruolo del prigioniero. Di più, la componente azionaria 71 Bhojraj S., Libby R., “Capital Market Pressure, Disclosures Frequency - Induced earnings, Cash Flow, Conflict and Managerial Myopia”, Accounting Review, Vol. 80, pp. 1-20, 2005; Bushee B.J., “The Influence of Institutional Investors on Myopic R&D Investment Behavior”, Accounting Review, Vol. 73, pp. 305-334, 1998; David P., Hitt M.A., Gimeno J.G., “The Influence of Activism by Institutional Investors on R&D”, Academy of Management Journal, Vol. 44, pp. 144-157, 2001; Fuller J., Jensen M.C., “Just Say No to Wall Street: Putting a Stop to the Earning Game”, Journal of Applied Corporate Finance, Vol. 14, n. 4, 2002; Graham J.R., Harvey C.R., Rajagopal S., “The Economic Implications of Corporate Financial Reporting”, www.ssrn.com, 2005; Hansen G.S., Hill C.W.L., “Are Institutional Investors Myopic? 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In generale possiamo affermare che, nella misura in cui tali contratti offrano la prospettiva di realizzo a breve di forti plusvalenze, il rischio che il management si comporti come azionista finanziario impaziente sale in modo rilevante; aggiungiamo che tale eventualità è realisticamente possibile perché, a differenza di quanto accade all’imprenditore proprietario, i contratti di incentivazione azionaria contemplano solo il rischio di upside e non anche quello di downside. La figura stilizzata del mercato impaziente che impedisce al manager di realizzare strategie di lungo respiro orientate ad una sostenibile creazione di valore esce da questo ragionamento fortemente ridimensionata nella sua effettiva capacità esplicativa. Al contrario, gli schemi di incentivazione largamente adottati nell’elite dimensionale delle public company sono certamente responsabili dello short termism manageriale più di quanto non lo siano gli atteggiamenti degli azionisti (del mercato). Per queste ragioni la crisi ha palesato chiare esigenze di ripensamento di questi meccanismi di incentivo; se non emergeranno spontaneamente, dal basso, proposte serie di riforma, i pubblici poteri non dovranno aver paura di intervenire attraverso la regolamentazione. Come si vedrà nel seguito, l’esempio dell’industria finanziaria ben rappresenta le degenerazioni del fenomeno e le necessità di riforma. Nuovamente, chiedere l’abolizione dei meccanismi di incentivazione rappresenta una posizione demagogica e pertanto non realistica, destinata ad essere abbandonata con l’uscita dalla crisi. Al contrario, occorre, impegnarsi pazientemente in un’opera di riprogettazione dei meccanismi stessi e le direzioni sono chiare: occorre disciplinare l’orizzonte temporale di applicazione degli incentivi e introdurre, nel contempo, qualche forma di corresponsabilizzazione a fronte del rischio di downside. 3.3 Il “caso peculiare” delle imprese finanziarie I comportamenti imprenditoriali espressi dalle imprese finanziarie protagoniste della crisi vanno inquadrate in questo contesto di riferimento. Le maggiori banche statunitensi sono, infatti, public company e tale struttura ha progressivamente connotato lo sviluppo di pressoché tutte le altre grandi banche internazionali. Le considerazioni esposte ai precedenti paragrafi sulle disfunzioni del modello si applicano pertanto anche a questa tipologia di imprese. Sbilanciamento nella distribuzione del potere e del valore creato tra azionisti e manager, difficoltà da parte dei primi nel controllare i secondi, sono stati, come nelle altre public company, i tratti caratteristici dell’evoluzione di questi ultimi anni, con qualche elemento di esasperazione che ha contraddistinto l’industria finanziaria rispetto agli altri comparti del sistema produttivo72. 72 Evidenze di un differenziale positivo di remunerazione tra settore finanziario e settore 212 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI La crisi ha evidenziato due elementi sui quali occorre riflettere, uno di portata più generale, riferibile all’intero universo delle public company, e l’altro, invece, caratteristico di queste particolare categoria di imprese. Il primo riguarda la declinazione, presso le imprese finanziarie, della relazione tra performance delle imprese e retribuzioni del top management. Questo elemento, diffuso anche nel sentire comune, è stato analizzato con rigore e chiarezza in uno studio pubblicato lo scorso mese di agosto da Andrew Cuomo, procuratore generale dello Stato di New York73. Focalizzandosi sulle nove banche che hanno per prime ricevuto gli aiuti di Stato nell’ambito del Troubled Asset Relief Program (TARP), lo studio esamina sull’arco temporale 2003 - 2009 e concentrandosi in modo particolare sul 2008, anno di erogazione degli aiuti di Stato - l’andamento delle retribuzioni e dei risultati aziendali, allo scopo di verificare la effettiva esistenza del principio “pay for performance”. Le tabelle sotto riportate offrono una risposta sufficientemente chiara che non necessita di essere ulteriormente argomentata. Solo due osservazioni possono essere utili, anche ai fini delle conclusioni. La prima, riferita al 2008, evidenzia come il totale dei bonus erogati sia prossimo al 20% dei fondi ricevuti nell’ambito del TARP, con punte molto elevate per alcune singole istituzioni. Tab. 6: Utili, bonus e aiuti presso nove maggiori banche statunitensi (dati riferiti al 2008) >3 >2 >1 EARNINGS/ BONUS TARP MIL MIL MIL EMPLOYEES LOSS POOL (1) (2) (3) 4 3,3 45 28 65 172 0,265 243 0,11% BANK OF AMERICA 1,4 0,945 3 12 22 74 0,108 42,9 0,25% BANK OF NEW YORK -2776 5,3 45 124 176 739 1,039 322,8 0,32% CITIGROUP 2,3 4,8 10 212 391 953 1,556 30 5,19% GOLDMAN SACHS 5,6 8,7 25 200 1626 1,826 225 0,81% JP MORGAN -27,6 3,6 10 149 696 0,845 59 1,43% MERRILL LYNCH 1,7 4,5 10 101 169 428 0,698 47 1,49% MORGAN STANLEY 1,8 0,47 2 3 8 44 0,055 28,5 0,19% STATE STREET 42,9 (1) 0,98 25 7 22 62 0,091 281 0,03% WELLS FARGO Note: (1) Include le perdite dell’acquisita Wachovia. Fonte: A. Cuomo, 2008 73 reale dell’economia sono riportate in Philippon T., Reshef A., “Skill Biased Financial Development: Education, Wages and Occupation in the U.S. Financial Sector”, www.ssrn.com, 2007. Cuomo A.M., “No Rhyme or Reason: the “Heads I Win, Tails You Lose” Bank Bonus Culture”, New York, 2008. ENRICO COTTA RAMUSINO 213 La seconda osservazione nasce dall’esame della tabella 7, ove si evidenzia come il livello della compensation sia strutturalmente rigido e non, come spesso si sostiene, legato strettamente alle performance aziendali; l’evoluzione del rapporto tra questa grandezza e il risultato aziendale sale in modo vertiginoso nell’anno della crisi a fronte della contrazione degli utili. Anche in caso di perdita, peraltro, le banche considerate continuano a pagare bonus significativi. Tab. 7: Compensi al personale / utile netto (%) BANK OF AMERICA BANK OF NEW YORK CITIGROUP GOLDMAN SACHS JP MORGAN MERRILL LYNCH MORGAN STANLEY STATE STREET WELLS FARGO 2003 97,1 173 116,1 250,1 169,5 255,8 208,4 239,7 143,9 2004 96,3 161,4 134,5 212 324,8 238,9 207,8 245,2 120,4 2005 91,4 162,5 104,8 209 213 240,7 217,6 266,2 136,3 2006 86,2 92,7 140,6 172,6 146,7 224,9 187,2 239,8 142,8 2007 125,2 202,1 952 174,1 147,7 (2) 515,8 258,2 165,9 2008 458,4 369,1 (1) 470,9 405,8 (2) 720,9 212,1 487,4 2009 IQ 206,4 315,9 403,9 259,8 354,4 (2) (3) 153,6 212,9 2009 IIQ 241,6 281,2 149,6 193,3 254,2 (2) 2617,4 (4) 212,1 Note: (1) A fronte di compensi per 32,4 miliardi di dollari, la banca ha registrato perdite per 27,7 miliardi. (2) A fronte di compensi per 1,9 e 14,8 miliardi di dollari nel 2007 e 2008, la banca registra perdite per 7,8 e 27,6 miliardi. Nel 2008 viene assorbita da Bank of America. (3) A fronte di compensi per 2,1 miliardi di dollari nel I quarter del 2009, la banca registra perdite per 0,2 miliardi. (4) A fronte di compensi per 0,7 miliardi di dollari nel I quarter del 2009, la banca registra perdite per 3,2 miliardi. Fonte: A. Cuomo, 2008 Se la capacità del management di tutelare i propri interessi a scapito di quelli degli azionisti appare un tratto comune al mondo delle public company - e in questo caso la questione viene esasperata in quanto si hanno evidenze di appropriazione non solo del valore creato ma anche di quello non creato - una specificità delle public company finanziarie deve essere a nostro avviso posta in luce. Ci riferiamo al tema dell’azzardo morale di fronte al quale si sarebbero trovati i manager delle imprese finanziarie, un aspetto che, secondo una visione che sta guadagnando crescente consenso, avrebbe contribuito ad accelerare il passo degli eventi, concorrendo in modo significativo allo scoppio della crisi74. 74 Bebchuk L.A., Friedman W.J., Townsend Friedman A., “Written Testimony Before the Committee on Financial Services, United States House of Representatives Hearing on Compensation Structure and Systemic Risk”; June 11, 2009. Sulle stesso tema, cfr. Bebchuk L.A., Spamann H., “Regulating Bankers’ Pay”, J. Olin Center For Law, Economics and Business, Harvard University, Discussion Paper, n. 641, June 2009. 214 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI La questione è stata declinata con chiarezza nella finanza aziendale75 facendo riferimento al caso particolare di imprese molto indebitate. In presenza di un elevato livello di indebitamento gli azionisti di un’impresa potrebbero essere indotti a scegliere progetti di investimento ad elevato rischio, consapevoli che il buon esito di questi fornirebbe loro ritorni molto elevati mentre in caso di esito negativo si genererebbero perdite che coinvolgerebbero anche i creditori. Questi ultimi, pur consapevoli del potenziale azzardo posto in essere dagli azionisti, non hanno possibilità di agire sul loro comportamento; essi non possono che agire in via preventiva, impedendo all’impresa di accumulare eccessivi livelli di indebitamento. L’azzardo morale degli azionisti viene in effetti enumerato nella finanza aziendale come un deterrente all’uso eccessivo del debito (Tabella 8). Le imprese finanziarie sono strutturalmente caratterizzate, anche in tempi “normali”, da elevati livelli di leverage e nel periodo antecedente la crisi questi livelli di leverage sono cresciuti vorticosamente per le ragione spiegate nella prima parte della presente relazione. Nel patrimonio di vigilanza delle banche, inoltre, sono computabili, seppur entro certi limiti, strumenti di debito, subordinati rispetto agli altri debiti ma pur sempre senior rispetto alle azioni. È evidente come il manager/azionista venga a trovarsi, in presenza di simili condizioni di partenza, in una situazione ricca di tentazioni. Queste ultime divengono ancora più forti nel caso il manager detenga, in luogo di azioni, opzioni sulle stesse. Tab. 8: Valutazione di progetti di investimento in presenza di azzardo morale INVESTIMENTO 1000 STRUTTURA FINANZIARIA 1000 DEBITO 900 EQUITY 100 GRADO DI RISCHIO (crescente) 1 2 3 4 SCENARIO RISULTATO RISULTATO RISULTATO RISULTATO FAVOREVOLE (50%) 1200 1600 2000 1900 SFAVOREVOLE (50%) 1000 600 200 100 Valore atteso dell’impresa 1100 1100 1100 1000 Valore atteso del debito 900 750 550 500 Valore atteso dell’equity 200 350 550 500 RENDIMENTO EQUITY 100% 250% 450% 400% Fonte: nostra elaborazione L’esempio sopra riportato, che pur espone in termini stilizzati ed esasperati il concetto dell’azzardo morale dell’azionista, può aiutare nel ragionare sui fatti 75 Cfr., ad esempio, Ross S.A., Westerfield R.W., Jaffe J.F., Finanza Aziendale, Il Mulino, Bologna, 1996, cap. XV. ENRICO COTTA RAMUSINO 215 concreti. Manager molto remunerati e scarsamente controllati potrebbero essere indotti a guardare alla componente azionaria della propria remunerazione come ad un’opzione il valore della quale ricade sotto la loro stretta influenza. Se l’opzione è esercitabile nel breve periodo e poiché essa comporta, in quanto opzione, solo “upside”, l’intrapresa di progetti ad alto rischio rischia di diventare troppo attrattiva in quanto combina possibilità di massimizzazione del valore dell’opzione (caso positivo) con una situazione nella quale le perdite vengono condivise con soggetti (i creditori) che non partecipano all’upside. Secondo una visione alternativa, l’azzardo morale dovrebbe essere stemperato dalla circostanza che il manager/azionista, avendo una quota significativa della propria ricchezza legata alle sorti dell’impresa (non essendo in altre parole un investitore diversificato), dovrebbe essere massimamente interessato al destino di quest’ultima e, quindi, operare per la sua prosperità di lungo periodo. Questa obiezione merita, a mio avviso, di essere confutata con due controobiezioni. La prima riguarda la quota di ricchezza del manager azionista legata all’andamento delle azioni della società; per quanto elevata essa possa essere, la sua utilità marginale non è slegata dalla situazione patrimoniale di partenza del soggetto decisore. In questi casi non possiamo ragionare come nel caso dell’investitore razionale medio; qui l’utilità è oggettivamente meno elastica e scatta solo per grandi upside, essendo sostanzialmente indifferenti a perdite modeste. La seconda contro obiezione riguarda il timing delle opzioni; nella realtà, a differenza dell’esempio, l’assunzione di rischio e la verifica dei risultati non si realizzano in un’ottica uniperiodale. Pensiamo al caso, emblematico, dei mutui subprime, ove l’accumulo del rischio è avvenuto su un orizzonte di anni prima che gli effetti si producessero con l’intensità che abbiamo visto. È assolutamente evidente che i manager/azionisti hanno potuto incassare tutti i risultati dell’upside delle quotazioni senza essere minimamente coinvolti economicamente nel successivo crollo. 4. Considerazioni conclusive 4.1 Sulle logiche sistemiche La crisi ha dimostrato come sia insostenibile la coesistenza tra un divenire sempre più internazionale dell’attività finanziaria e l’assenza di regole di fondo atte a garantire che tale divenire si realizzi in una prospettiva sistemica. Le condizioni di contesto in essere prima della crisi dipingono l’immagine di un’industria profondamente integrata, non di un sistema, tantomeno di un sistema vitale. Per raggiungere questo assetto non sono sufficienti riforme parziali ma scelte politiche incisive che pongano come prioritaria la creazione di un organo di governo dotato delle attribuzioni necessarie a garantire il funzionamento del sistema in una prospettiva di sostenibilità. 216 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI Le azioni da intraprendere sono logicamente conseguenti alle carenze poste in luce nella precedente esposizione e si sintetizzano, a nostro avviso, in due domande: chi sarà l’organo di governo e quali saranno le sue attribuzioni? Sul primo fronte, il punto ideale d’arrivo, non realisticamente raggiungibile nel breve termine, è rappresentato dalla creazione di un’entità sovranazionale alla quale affidare le azioni di regulation, vigilanza e gestione della crisi su scala internazionale. Ragionevolmente, è lecito sperare, nel breve, in un aumento significativo del grado di concertazione tra autorità nazionali. I lavori del Financial Stability Board76 e il riconoscimento politico che le indicazioni emerse da tali lavori hanno avuto nelle recenti riunioni del G 20 aprono opzioni interessanti, in grado di innescare un processo virtuoso. Il ruolo dell’Unione Europea è, in questa prospettiva, cruciale; le proposte in discussione77 dettano un percorso che va, a nostro avviso, nella corretta direzione, se realizzato con la necessaria incisività. La rilevanza del ruolo giocato dall’Unione Europea è anche legata alla sua capacità di influenza nei confronti degli Stati Uniti. Un accordo bilaterale tra queste due entità può davvero avviare un percorso virtuoso di medio termine. Sul fronte delle competenze dell’emergente organo di governo occorre realisticamente tenere conto delle posizioni fortemente differenziate che tuttora permangono. Abbiamo rilevato come una prima forma di influenza che l’organo di governo del sistema su scala nazionale subisce è quella che proviene dalle autorità politiche nazionali. Gli impulsi che al sistema derivano dalle scelte di politica economica resteranno largamente di pertinenza dei governi nazionali (o sovranazionali come nel caso 76 77 Financial Stability Forum, “Report of the Financial Stability Forum on Enhancing Market and Institutional Resilience”, 7 April 2009; Financial Stability Forum, “FSF Principles for Cross Border Cooperation on Crisis Management”, 2 April 2009; Financial Stability Forum, “Committee on the Global Financial System Joint Working Group, The Role of Valuation and Leverage in Prociclicality”, March 2009; Financial Stability Board, “Principles for Sound Compensation Practices”, 25 September 2009; Financial Stability Board, “Improving Financial Regulation”, Report of Financial Stability Board to the G20 Leaders, 25 September 2009; Financial Stability Board, “Overview of Progress in Implementing the London Summit Recommendations for Strenghtening Financial Stability”, Report of Financial Stability Board to the G20 Leaders, 25 September 2009. Sui temi trattati nei lavori del FSB e rilevanti ai fini delle riforme finalizzate alla stabilizzazione dei sistema si vedano anche, Financial Services Authority, “A Regulatory Response to the Global Banking Crisis”, Discussion Paper, n. 09/02, March, 2009; European Central Bank, “OTC Derivatives and Post Trading Infrastructures”, September 2009;. Cecchetti S.G. Gyntelberg G., Hollanders M., “Central Counterparties for the Over - the - Counter Derivatives”, BIS Quarterly Review, September 2009. De La Rosiere Group, “The High Level Group on Financial Supervision in the EU”, Report, Bruxelles, 25 febbraio 2009; Commission Of The European Communities, Communication from the Commission, “European Financial Supervision”, Bruxelles, 2009. ENRICO COTTA RAMUSINO 217 dell’Unione Europea). Più realistico pare l’obiettivo di condividere i temi della regolamentazione, della vigilanza e della gestione della crisi su scala globale. L’eccessivo grado di indebitamento delle banche, il sistema bancario ombra nato con i veicoli non consolidati, l’accountability delle società di rating, la regolamentazione del mercato dei prodotti derivati, rappresentano aree nelle quali potrebbe essere trovato un consenso tra le authority nazionali in un consesso internazionale in grado di garantire il necessario grado di coordinamento. Le azioni debbono a nostro avviso essere intraprese rapidamente facendo leva sugli stimoli che vengono dall’esperienza della crisi. Con il passare del tempo, la ripresa della fiducia accresce il rischio di diluire il carattere di necessità degli interventi. 4.2 Sui comportamenti imprenditoriali Analizzando i comportamenti imprenditoriali espressi dalle imprese epicentro della crisi abbiamo avuto modo di porre in luce le lacune di un modello di governo delle imprese - in particolare di quelle finanziarie - potenzialmente in grado di accentuare i profili di instabilità. Gli interventi su questo fronte sono a nostro avviso più difficili dei precedenti perché intervenire su un assetto di governance significa incidere sui valori e sugli orientamenti di fondo di un modello di capitalismo. Così come sul fronte “sistemico”78 occorre agire con incisività per accelerare la trasformazione, su questo versante ci sembra invece più ragionevole procedere per gradi, evitando che la ricerca di un obiettivo troppo ambizioso generi una inevitabile sconfitta. Cerco di argomentare questa affermazione attraverso due considerazioni. Il dibattito in corso sul tema dei compensi ai vertici delle imprese finanziarie ha assunto toni molto accesi e non mancano posizioni radicali, spesso demagogiche, dalle quali è irrealistico attendersi ricadute concrete. Riteniamo più ragionevole percorrere una strada diversa. Partendo dalle imprese finanziarie, crediamo si possa, seguendo le linee guida emanate dal Financial Stability Board, chiedere agli organismi di vigilanza nazionali di inserire la valutazione dei programmi di incentivazione del management nella propria tradizionale attività di supervisione. Si tratta di una innovazione rilevante che tali organismi sono pienamente in grado di realizzare79. Occorre prendere in esame i singoli programmi di incentivazione, studiarne l’attitudine a generare comportamenti eccessivamente orientati al rischio, imporre le eventuali correzioni. Ottenuto questo risultato - e confidenti sulla maggiore stabilità delle imprese finanziarie - potremo attendere con pazienza gli sviluppi dei progetti di riforma di portata più generale sull’assetto delle public company. Il problema riguarda in primo luogo gli Stati Uniti, dove la politica e i 78 79 L’aggettivo sistemico esprime in questo caso l’obiettivo legato alla trasformazione in sistema di quella che oggi può solo definirsi un’industria profondamente integrata. Coerentemente con quanto espresso dal Financial Stability Board, nel nostro paese, la Banca d’Italia ha emanato direttive che chiedono alle banche di esplicitare i criteri ai quali esse ispirano le proprie politiche di remunerazione del top management, accentuando i profili di sostenibilità delle remunerazioni stesse ed enfatizzando la circostanza che tali politiche non debbano incentivare il management all’assunzione di rischi eccessivi. 218 LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI regulator devono valutare se intervenire in modo più complessivo e generalizzato sul modello al fine di introdurre riforme che ripristinino un maggiore equilibrio negli interessi degli stakeholder80. Subordinare gli interventi sull’industria finanziaria a questo secondo sviluppo mi sembra un errore strategico. 4.3 Regole, responsabilità d’impresa e responsabilità individuali Nel presente contributo, coerentemente con le finalità dello stesso, è stata posta particolare enfasi sul tema delle “regole”, intese come quadro generale di riferimento in grado di orientare i comportamenti degli attori e di trasformare un’“industria fortemente integrata” in un sistema vitale. L’ultima considerazione che desidero esplicitare allarga l’orizzonte dell’analisi recuperando elementi di riflessione sui quali abbiamo avuto modo di esprimere la nostra opinione in un recente contributo pubblicato su questa stessa rivista. Abbiamo allora sostenuto81, e lo confermiamo in questa sede, che dalla crisi non si esce solo per via regolamentare; è a nostro avviso necessaria una più forte assunzione di responsabilità tanto a livello di impresa quanto a livello individuale. Tra regole e responsabilità non vi è alcuna contraddizione ma solo una virtuosa sinergia. Un quadro regolamentare solido ed esaustivo riduce il costo che le imprese debbono sostenere per esprimere comportamenti responsabili. Quello che abbiamo definito il “sistema della responsabilità sociale”82, emendato delle debolezze che la crisi ha posto in luce e che abbiamo puntualmente rilevato, rappresenta, dunque, una sorta di “difesa di secondo livello” rispetto al rischio di degenerazione del sistema. Non dobbiamo però commettere l’errore di ritenere che i due livelli di difesa sopra indicati - il framework regolamentare e il sistema della responsabilità sociale siano così efficaci da esimere gli individui dall’assunzione di una responsabilità diretta, personale. Esisterà sempre uno spazio per l’azione individuale discrezionale, nel quale i risultati sono conseguenza dei valori dell’individuo chiamato ad agire e, se 80 81 82 Due interventi sui processi di governance sono oggi in discussione. Da un lato si dibatte sul tema del voto degli azionisti sui pacchetti di remunerazione del management; per un’analisi dell’esperienza inglese, dove è stato introdotto il voto consultivo degli azionisti sui compensi dei management si vedano: Ferri F., Maber D., “Say on Pay Votes and Ceo Compensation: Evidence from the UK”, www.ssrn.com, 2008; Gordon J. N., ““Say on Pay”: Cautionary Notes on the UK Experience”, The Center for Law and Economic Studies, Columbia University School of Law, Working Paper, n. 343, August 2009. Dall’altro si discute su come agevolare gli azionisti di minoranza nella presentazione di propri candidati ai consigli di amministrazione. Si tratta di due esempi concreti di miglioramento della democrazia societaria che, se adottati, potrebbero innalzare significativamente gli obblighi di accountability del management, restituendo agli azionisti parte del potere che l’evoluzione storica ha loro progressivamente sottratto. Cotta Ramusino E., “Quale Governance dopo la Crisi? Stato, Mercato, Responsabilità. Per l’Apertura di un Dibattito”, Sinergie, n. 79, maggio - agosto 2009. Ibidem, pag. 165. ENRICO COTTA RAMUSINO 219 accettiamo l’idea che l’individuo sia sensibile solo agli interessi economici, dobbiamo accettare già da oggi l’idea di una sconfitta. Regole, responsabilità d’impresa e responsabilità individuale sono tutte condizioni ugualmente necessarie. In assenza di regole i comportamenti responsabili divengono eccessivamente costosi e le imprese sono disincentivate a porli in essere; senza assunzione diretta di responsabilità da parte dell’impresa gli individui che operano nell’organizzazione non hanno, a propria volta, adeguati incentivi a comportarsi in modo responsabile; ma anche soddisfatte le due precedenti condizioni, nemmeno buone regole e assunzione di responsabilità a livello di impresa ci difendono dal rischio di degenerazione se anche i comportamenti individuali - per la porzione lasciata alla loro discrezionalità - non si ispirano a principi di responsabilità. È possibile progettare un miglior quadro regolamentare e definire un più efficace sistema della responsabilità d’impresa che premi e sanzioni gli operatori in conseguenza dei comportamenti ma non riusciremo mai a definire un quadro complessivo che annulli la responsabilità individuale. Possiamo però operare sui primi due livelli in modo da minimizzare, al terzo livello, il costo del comportamento virtuoso. I paesi più avanzati nel mondo occidentale stanno vivendo un processo di accelerata integrazione con economie emergenti destinate ad accrescere ulteriormente la propria importanza nell’immediato futuro. Abbiamo la responsabilità di proporre loro un modello che non può essere quello che la crisi ha fatto emergere. Bibliografia ADRIAN T., SHIN H.S., “The Shadow Banking System: Implications for Financial Regulation”, Federal Reserve Bank of New York Staff Report, n. 382, July 2009. AKERLOF G.A., SHILLER R.J., “How “Animal Spirits” Destabilize Economies”, McKinsey Quarterly, n. 3, 2009. ASHCRAFT B., SHUERMANN T., “Understanding the Securitization of Subprime Mortgage Credit”, Federal Reserve Bank of New York Staff Reports, n. 318, March 2008. BAR-GILL O., BEBCHUK L.A., “Misreporting Financial Performance”, John M. 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