Il divenire della finanza tra logiche di sistema e comportamenti

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Il divenire della finanza tra logiche di sistema e comportamenti
Il divenire della finanza tra logiche di sistema
e comportamenti imprenditoriali
ENRICO COTTA RAMUSINO*
Abstract
Il presente contributo propone una riflessione sulla recente evoluzione dell’industria
finanziaria interessata da una crisi di proporzioni storiche. In particolare, il tema verrà
trattato sotto due profili d’indagine: da un lato le logiche sistemiche sottese allo sviluppo
internazionale dell’industria finanziaria e dall’altro i comportamenti imprenditoriali delle
imprese finanziarie che compongono il sistema. La crisi ha infatti dimostrato come sia
insostenibile la coesistenza tra un divenire sempre più internazionale dell’attività finanziaria
e l’assenza di regole di fondo atte a garantire che tale divenire si realizzi in una prospettiva
sistemica.
Parole chiave: industria finanziaria, crisi, sistema, complessità, governance
This paper aims at contributing to the debate about the recent development of the financial
industry in the light of the sweeping effects of the last year crisis. This issue has been
analyzed under two different perspectives: on the one hand the systemic complexity behind
the globalization of the financial industry and on the other hand the strategic management of
the companies that belong to the financial system. The crisis, in fact, showed how the
globalization of the financial industry is no more sustainable without rules able to grant its
development in a systemic perspective.
Key words: financial industry, crisis, system, complexity, governance
1. Introduzione
Le parole chiave di questo ventunesimo Convegno Annuale di Sinergie sistema, complessità, governo, creazione e distruzione di valore - ben si adattano
alla interpretazione della recente evoluzione dell’industria finanziaria, epicentro di
una crisi di proporzioni storiche, che ancora non può essere considerata del tutto
superata.
Cercando di mettere in ordine le parole chiave sopra citate e facendo riferimento
alle categorie proprie dell’approccio sistemico vitale, possiamo affermare - e le
*
Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Pavia
e-mail: [email protected]
sinergie n. 81/10
174
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
argomentazioni successive serviranno a dimostrarlo - che le lacune nel governo di
un sistema complesso hanno prodotto una distruzione di valore che ha condotto il
sistema sull’orlo del fallimento.
A questo risultato siamo giunti per due vie, tragicamente convergenti; la prima è
quella che parte dalle autorità di governo e vigilanza, organo di governo del sistema,
che con il loro operato ne dettano la dinamica evolutiva di medio termine; la
seconda è quella che ha invece origine nei comportamenti imprenditoriali delle
imprese finanziarie che compongono il sistema o, meglio, come si chiarirà in
seguito, la sua struttura operativa.
Entrambi i punti di vista consentono di risalire a quelle che possiamo definire le
cause remote della crisi; esse rappresentano i riflessi di orientamenti culturali
generatori di valori condivisi, e quindi di regole che dettano il comportamento degli
operatori e, per conseguenza, il funzionamento del sistema. Su di esse conviene a
noi riflettere e agli organi di governo intervenire, allo scopo di evitare che la stessa
situazione si riproponga, in futuro, negli stessi termini.
Il quadro di riferimento dell’analisi è costituito da un processo, ormai compiuto,
di globalizzazione finanziaria nel quale nessuno può vivere in pace la propria crisi
ma dove, al contrario, l’instabilità di un sistema si riflette immediatamente su tutti
gli altri.
La presente relazione, in coerenza con il titolo assegnatomi, è divisa in due parti:
nella prima esaminerò le logiche sistemiche, vere o presunte, sottese allo sviluppo
internazionale dell’industria finanziaria; nella seconda tratterò il tema dei
comportamenti imprenditoriali espressi dalle imprese che tale industria hanno
progressivamente sviluppato. L’analisi ha beneficiato dei lavori preparatori tenutisi
in questa Università nello scorso mese di luglio e sintetizzati nei due volumi usciti
per la nostra Rivista nello scorso mese di settembre1; a tutti gli autori vanno il mio
ringraziamento per lo sforzo profuso e i complimenti per i risultati raggiunti.
1
Tra gli altri, i contributi che più hanno approfondito gli argomenti trattati nella presente
relazione sono quelli di: Golinelli G.M., “L’Approccio Sistemico Vitale: Verso la
Costruzione di un Nuovo paradigma per il Governo dell’Impresa nella Percezione di
Nuovi Orizzonti di Ricerca”; Iannuzzi E., Renzi A., Sancetta G., “Un’Interpretazione
della Crisi del Sistema Finanziario”; Gatti C., Vagnani G., “Intelligenza, Compimento
Sistemico e Vitalità dei Sistemi di Sistemi. Una Riflessione sulla Dinamica Evolutiva
dell’Industria Finanziaria”; Barile S., “Verso la Qualificazione del Concetto di
Complessità Sistemica”; Faggioni F., Simone C., “Le Declinazioni della Complessità.
Ordine, Caos e Sistemi Complessi”; Gatti M., Biferali D., Volpe L., “Il Governo
dell’Impresa tra Profitto e Creazione di Valore”; Genco P., Esposito S., “Il Governo
dell’Impresa negli Studi Economico Aziendali”; Proietti L., Quattrociocchi B., “Crisi e
Complessità dei Sistemi Economici e Sociali: dalla Sinergia al Contagio”; tutti pubblicati
sui numeri 79 e 80 della rivista Sinergie, maggio - agosto 2009.
ENRICO COTTA RAMUSINO
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2. Il governo dell’industria finanziaria tra logiche economiche, valori e
ideologie
2.1 La formazione e l’evoluzione di un sistema di sistemi
Quello che abitualmente definiamo il sistema finanziario internazionale, ha
partecipato in modo pieno, spesso anticipandolo, al processo di globalizzazione che
ha caratterizzato, con particolare intensità nel corso degli ultimi venti anni, il
divenire delle moderne economie. Questa circostanza è stata favorita,
essenzialmente, da tre ordini di motivazioni, che mi limito ad accennare.
La prima è la natura dell’oggetto dello scambio; le risorse finanziarie, di natura
scritturale e, dunque, immateriale ben si prestano a scambi intensi e ripetuti su
orizzonti spazio-temporali potenzialmente illimitati a costi tendenti allo zero.
La seconda determinante è da riconnettersi al vertiginoso sviluppo
dell’information technology, che ha innalzato in modo verticale la capacità
transazionale e di settlement delle operazioni, la circolazione delle informazioni, la
potenza del calcolo economico2.
La terza motivazione è da rinvenirsi nelle progressive e ormai completate
liberalizzazioni delle transazioni su un orizzonte geografico sempre più ampio,
comprensivo non solo dei paesi economicamente avanzati ma anche di un numero
crescente di paesi emergenti.
Queste tendenze hanno prodotto risultati significativi: hanno potenziato
l’intelligenza individuale degli operatori, ne hanno allargato il raggio d’azione e
l’attitudine all’innovazione, hanno, in sintesi enormemente ampliato il range di
opportunità3 nel fare impresa in questo settore.
Le evidenze empiriche confermano gli effetti di questi fattori abilitanti su tre
distinti fronti:
- la prima è quella che riguarda il tema della dimensione del sistema, misurata
rapportando l’evoluzione dimensionale delle grandezze finanziarie a quelle reali;
il fenomeno della “finanziarizzazione” dell’economia è comprovato dagli studi
che rapportano tali grandezze4;
- la seconda è quella che stima la crescente integrazione del sistema, misurata con
il grado di internazionalizzazione degli attivi e dei passivi delle banche operanti
su scala internazionale. Gli indici di misurazione del fenomeno tradizionalmente
utilizzati dagli studiosi rapportano il totale delle attività e delle passività
2
3
4
Gatti C., Vagnani G., 2009, op. cit. Nella seconda parte della relazione cercherò di
spiegare come i meccanismi di incentivo hanno spinto gli operatori ad usare questa
crescente intelligenza non ai fini di implementare le condizioni per la sopravvivenza del
sistema ma, piuttosto, per servire propri particolari interessi.
Cfr. Golinelli G.M., L’Approccio sistemico al Governo dell’Impresa, Vol. I, Cedam,
Padova, 2005, p. 28, in particolare la citazione di C. Merlani.
Tamburini R., working paper presentato ai seminari di Econometica, Milano, 2 febbraio
2009, reperibile sul sito www.econometica.it; Cotta Ramusino E., Imprese e industria
finanziaria nel processo di globalizzazione, Giuffrè, Milano, 1998.
176
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
finanziarie verso l’estero a misure dell’attività reale quali il prodotto interno
lordo o il volume degli scambi commerciali con l’estero in determinati paesi o
gruppi di paesi. Orbene, entrambe le misurazioni offrono l’evidenza di un
processo di crescente integrazione finanziaria, molto più rapido sia dello
sviluppo della produzione che di quello dei commerci5.
- la terza evidenza empirica è quella che testimonia della capacità del cosiddetto
“sistema finanziario internazionale” di svolgere in modo efficace il proprio
compito istituzionale, quello di “comporre” i “macro squilibri” reali, garantendo
la crescita globale attraverso il trasferimento di risorse dai grandi creditori ai
grandi debitori6.
Motori di questo sviluppo sono state le grandi banche internazionali,
protagoniste di una lunga fase caratterizzata da crescita dimensionale,
diversificazione del business e significativa redditività. La fase storica che va
dall’inizio degli anni Novanta allo scoppio della crisi ha rappresentato un periodo di
grande prosperità per la finanza a livello mondiale; i dati riportati nelle tabelle che
seguono mostrano come le maggiori banche attive a livello internazionale abbiano
fatto registrare tassi di redditività molto elevati, seppur in presenza di condizioni
complessive di funzionamento dalle quali si potevano trarre evidenze di un livello di
rischio crescente e dubbi sulla sostenibilità del modello di business generatore di tale
redditività. Osservazioni di questa natura parevano peraltro, in un contesto di
crescita e prosperità, poco opportune.
Redditività e rischio nell’attività bancaria, alcune riflessioni
Le tabelle che seguono riportano, con riferimento agli anni immediatamente
precedenti la crisi, alcuni dati di sintesi sul tema della redditività bancaria e del
rischio ad essa potenzialmente associato.
Come si evince dall’osservazione dei dati (Tabelle 1 e 3), riferiti ad un campione
rappresentativo delle maggiori banche europee e statunitensi, i livelli della
redditività, misurata attraverso l’indice Roe, risultano davvero molto elevati,
massimamente nel 2006, ultimo anno prima della crisi. La dimensione di questi
risultati, in una prospettiva di lungo periodo, pone ovvi interrogativi circa la
sostenibilità del modello di business generatore di questa redditività.
5
6
Lane P.R., Milesi Ferretti G.M., “The External Wealth of Nations Mark II: Revised and
Extended Estimates of Forreign Assets and Liabilities, 1970-2004”, Journal of
International Economics, Vol. 73, 2007, pp. 223-250.
Tra i grandi squilibri compensati attraverso il mercato finanziario internazionale i più
evidenti sono riferibili al deficit di parte corrente espresso dagli Stati Uniti e al correlato
ed eccessivo indebitamento delle famiglie in quel paese. La crescita complessiva
dell’economia americana è stata infatti frequentemente sostenuta, in numerosi anni come
componente più dinamica, dai consumi delle famiglie, a propria volta resi possibili da un
incremento del proprio indebitamento (con il rapporto tra debito e reddito disponibile che
ha superato il 130%). Per un’analisi comparata a livello internazionale sull’indebitamento
delle famiglie cfr. IRER, Il Sovraindebitamento delle Famiglie, Rapporto Finale, gennaio
2008.
ENRICO COTTA RAMUSINO
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Gli anni successivi, il 2007 ed il 2008, segnano invece una generalizzata
contrazione; solo un numero ristretto di banche riesce a mantenere soddisfacenti
condizioni di remunerazione del capitale proprio, mentre molte sono quelle che
fanno registrare perdite, anche significative.
La seconda evidenza, presentata nelle tabelle 2 e 4, riguarda il “leverage” delle
imprese bancarie. Sia le banche europee che statunitensi sono arrivate allo scoppio
della crisi, nell’estate del 2007, con dotazioni patrimoniali del tutto insufficienti a
fronteggiare il complesso dei rischi accumulati nei propri attivi. Il dato relativo alle
banche statunitensi, come illustrato nella nota alla tabella 2, sottostima il reale
livello di leverage di questi istituti in conseguenza dei diversi criteri contabili
utilizzati nella costruzione del bilancio e, come si spiegherà nel testo, per la presenza
di veicoli fuori bilancio non consolidati. Il forte leverage accumulato negli anni
precedenti la crisi è largamente imputabile all’accumulo di titoli nominalmente a
rating massimo, che implicavano un assorbimento patrimoniale molto ridotto; la
conseguenza è stata una dilatazione del valore contabile degli attivi che, emersi
come maggiormente rischiosi con lo scoppio della crisi, hanno palesato l’esigenza di
ricapitalizzazioni forzate da parte dei governi.
In presenza di un forte leverage di partenza il deleveraging imposto alle banche
dallo scoppio della crisi ha mostrato in tutta la sua forza il carattere prociclico insito
nell’assetto in essere della struttura finanziaria. Il meccanismo di aggiustamento è
stato innescato dal crollo dei prezzi degli asset (finanziari) che ha determinato la
riduzione del capitale e una tendenza automatica ad un ulteriore aumento della leva.
Per contrastare questo effetto le banche sono state costrette a liquidare gli asset, per
rientrare nei target di leva prefissati. Questo ha contribuito a deprimere
ulteriormente il prezzo degli asset e a razionare il credito disponibile per l’economia
reale7.
Tab. 1: Redditività delle maggiori banche USA (ROE: return on equity)
CITIGROUP
BANK OF AMERICA
JP MORGAN
WELLS FARGO
US BANCORP
BNY MELLON
GOLDMAN SACHS
MORGAN STANLEY
MERRIL LYNCH
LEHMAN BROTHERS
2003
19,5
22
15,4
19,1
19,8
15,3
14,8
16,2
14,9
16,2
2004
16,6
18,8
5,9
19,4
21,5
16,2
19,5
16,9
14,8
17,9
2005
22,3
16,3
8
19,6
22,7
16,4
21,8
17,2
15,8
21,8
2006
18,7
18,1
13
19,8
23,3
26,7
31,9
23,5
21,2
23,3
2007
3,1
10,8
12,8
17,4
21,2
10
31,5
9,7
-25,3
20,9
2008
-22,2
1,8
3,8
4,9
14,6
5,1
4,7
5,1
-156,5
Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg
7
Panetta F., Angelini P. (ed), “Financial Sector Pro-ciclality”, Banca d’Italia, Questioni di
Economia e Finanza, Occasional Papers, n. 44, aprile 2009.
178
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
Tab. 2: Rapporto di leva nelle maggiori banche USA
(total assets / equity - US GAAP*)
CITIGROUP
BANK OF AMERICA
JP MORGAN
WELLS FARGO
US BANCORP
BNY MELLON
GOLDMAN SACHS
MORGAN STANLEY
MERRIL LYNCH
LEHMAN BROTHERS
2003
12,90
15,00
16,70
11,25
9,85
10,96
17,62
21,73
17,18
21,55
2004
13,58
11,08
10,95
11,30
9,99
10,18
19,76
26,43
20,02
23,94
2005
13,28
12,72
11,18
11,85
10,43
10,34
22,68
30,72
19,13
24,42
2006
15,73
10,79
11,67
10,51
10,34
9,03
20,67
31,65
21,55
26,24
2007
19,28
11,69
12,68
12,08
11,29
6,72
22,37
33,43
31,94
30,73
2008
13,69
10,27
13,03
13,22
10,11
8,47
13,40
12,96
33,37
Note: * Gli US GAAP consentono il netting di poste attive e passive riducendo in alcuni casi in
modo significativo il totale dell’attivo di bilancio. Questa circostanza rappresenta un
nodo cruciale ai fini della confrontabilità dei dati su scala internazionale da un lato e
della valutazione dei livelli complessivi di rischio insiti negli attivi bancari. La
contabilizzazione secondo gli IFRS porterebbe a differenze significative nella
determinazione dei dati sulla leva esposti in tabella. A titolo di esempio, a fine 2008, con
il processo di “deleveraging” già in corso, il dato relativo a Goldman Sachs sarebbe pari
a 20 (invece di 13,4), quello relativo a Morgan Stanely a 23 (in luogo di 12,96), quello
relativo a Citigroup a 28 (invece di 13,7). Il caso di Deutsche Bank, presente nella
tabella successiva è esemplare a questo proposito: da un totale di bilancio di 2,2 trilioni
di dollari secondo gli IFRS, si scende ad un totale di 1,03 trilioni dopo il netting delle
posizioni attive e passive sui derivati e altre poste minori. Si veda la presentazione
effettuata da Deutsche Bank nel roadshow presso gli investitori nordamericani nel
febbraio 2009.
Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg
Tab. 3: Redditività delle maggiori banche europee (ROAE: return on average equity)
HSBC
SANTANDER
BNP PARIBAS
CREDIT SUISSE
BBVA
UNICREDIT
INTESA SAN PAOLO
UBS
DEUTSCHE BANK
BARCLAYS
2004
16,0
12,1
16,1
16,0
18,8
15,1
13,2
23,1
8,3*
20,6
2005
16,8
15,8
16,6
16,9
25,9
9,8
19,7
36,0
11,3*
21,1
2006
15,8
18,1
17,5
26,4
25,0
14,8
14,7
26,2
18,3
24,6
2007
16,4
32,8
17,0
17,9
25,2
12,3
20,8
-12,1
18,5
20,5
Note: * Calcolato secondo gli US GAAP.
Fonte: Credit Suisse Fixed Income Research, European Banks, 30 june 2009
2008
5,3
19,3
6,7
-21,8
19,0
7,1
5,1
-60,0
-11,3
14,6
ENRICO COTTA RAMUSINO
179
Tab. 4: Indebitamento delle maggiori banche europee (total assets / equity)
TOTAL ASSETS/EQUITY
2004
2005
2006
2007
2008
HSBC
15,4
15,6
16,7
17,9
27,0
SANTANDER
18,2
18,9
17,9
15,9
17,5
BNP PARIBAS
29,4
31,3
30,3
33,3
45,5
CREDIT SUISSE*
25,6
27,0
21,3
22,7
25,0
BBVA
23,8
22,7
18,5
17,9
20,4
UNICREDIT
16,7
20,0
19,2
16,4
17,9
INTESA SAN PAOLO
18,9
15,6
15,4
11,0
12,8
UBS
47,6
43,5
47,6
62,5
58,8
DEUTSCHE BANK**
29,4
29,4
47,6
52,6
71,4
BARCLAYS
47,6
47,6
45,5
47,6
52,6
Note: * US GAAP;
** US GAAP per il 2005 e il 2005; nel 2006 il rapporto di leva calcolato secondo gli US
GAAP sarebbe stato di 31,2 in luogo del valore esposto in tabella, pari a 47,6, calcolato
secondo gli IFRS.
Fonte: Credit Suisse Fixed Income Research, European Banks, 30 june 2009
Anche l’osservazione dei rendimenti espressi dal mercato azionario confermano
le evidenze in precedenza presentate, desunte da dati contabili. La tabella 5
confronta i rendimenti offerti dagli indici finanziari con quelli globali, espressivi dei
rendimenti delle imprese non finanziarie.
Lungo l’arco temporale 2001/2006, si vede come il settore finanziario abbia
prodotto rendimenti superiori a quello degli altri settori dell’economia; a fronte di
tali maggiori rendimenti, peraltro, si rilevano anche indicazioni abbastanza chiare di
un maggiore rischio percepito dagli investitori (misurato dalla volatilità annua dei
rendimenti).
Il caso particolare delle grandi banche di investimento, epicentro della crisi,
appare emblematico: come evidenzia la tabella 5 esse hanno prodotto, fino a prima
della crisi, rendimenti molto elevati, maggiori rispetto a quelli del settore finanziario
nel suo complesso, ma con livelli di rischiosità molto più elevati, tanto rispetto
all’indice generale quanto a quello finanziario.
180
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
Tab. 5: Rendimenti e rischi nelle principali banche internazionali, dati di mercato
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
CAGR
MSCI WORLD F -
Rendimento
Volatilità
-15%
17%
-11%
21%
36%
15%
5%
9%
11%
7%
4%
9%
-5%
13%
-16%
32%
26%
23%
-0,16%
16%
MSCI WORLD FINANCIAL
Rendimento
Volatilità
-14%
19%
-21%
25%
30%
17%
14%
9%
19%
7%
19%
10%
-12%
16%
-51%
43%
30%
41%
-2%
21%
HSBC HDG. (ORD
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
Rendimento
Volatilità
2001
-15%
37%
13%
38%
11%
28%
-1%
37%
-5%
36%
-3%
40%
-16%
40%
-17%
43%
43%
34%
-1%
52%
0%
36%
-9%
41%
-13%
45%
-28%
58%
16%
32%
2002
-11%
27%
-30%
44%
-20%
50%
-8%
54%
-18%
40%
-55%
62%
-28%
50%
-31%
57%
15%
32%
-20%
42%
-24%
49%
-44%
45%
-26%
37%
-27%
48%
20%
35%
2005
11%
10%
9%
17%
33%
16%
45%
16%
35%
14%
44%
16%
26%
14%
6%
14%
2%
13%
48%
19%
5%
12%
29%
17%
24%
18%
4%
21%
4%
17%
3%
9%
30%
17%
44%
18%
4%
12%
83%
28%
128%
27%
75%
25%
2006
4%
13%
25%
20%
26%
22%
30%
22%
22%
21%
31%
22%
31%
17%
26%
17%
21%
13%
23%
28%
20%
14%
27%
20%
57%
23%
46%
20%
12%
17%
13%
9%
37%
22%
18%
20%
17%
13%
-9%
24%
-18%
37%
19%
34%
2007
-5%
17%
-28%
34%
-7%
26%
-20%
29%
-27%
25%
-18%
23%
8%
21%
-7%
27%
-19%
22%
-15%
41%
-45%
29%
-9%
23%
9%
34%
-20%
36%
-30%
27%
6%
12%
-1%
18%
-12%
26%
-12%
27%
-37%
35%
-5%
25%
-9%
37%
2009
26%
59%
135%
131%
88%
69%
39%
63%
24%
71%
104%
61%
71%
49%
47%
90%
27%
138%
-76%
116%
-67%
70%
-60%
79%
-69%
138%
-85%
194%
-28%
140%
94%
71%
124%
66%
97%
90%
0%
4%
-27%
54%
-13%
35%
10%
25%
-58%
76%
7%
47%
-14%
40%
2004
5%
14%
23%
20%
11%
18%
12%
20%
16%
18%
7%
23%
0%
19%
10%
17%
22%
13%
14%
22%
3%
16%
1%
22%
6%
19%
-2%
23%
17%
15%
7%
11%
16%
24%
3%
13%
9%
12%
60%
37%
79%
37%
12%
30%
2008
-16%
44%
-66%
81%
-57%
62%
-61%
71%
-68%
85%
-56%
79%
-49%
54%
-25%
84%
-63%
100%
-44%
37%
-17%
37%
-20%
26%
-62%
65%
8%
45%
-26%
44%
2003
36%
19%
37%
34%
34%
34%
34%
34%
30%
30%
51%
41%
49%
33%
60%
30%
20%
20%
46%
26%
42%
24%
54%
36%
46%
26%
48%
32%
32%
20%
8%
17%
55%
38%
17%
23%
29%
18%
193%
77%
26%
30%
59%
40%
-49%
58%
-67%
68%
2%
83%
-51%
74%
-55%
45%
-49%
64%
22%
55%
74%
68%
4%
118%
-28%
55%
2%
34%
20%
39%
CAGR
3%
27%
1%
46%
6%
36%
1%
38%
-6%
38%
0%
41%
4%
33%
4%
42%
1%
43%
-44%
33%
-20%
48%
-3%
38%
7%
39%
-6%
52%
-14%
40%
0%
11%
-2%
36%
-3%
34%
4%
37%
-13%
52%
9%
36%
3%
39%
BARCLAYS - TOT
BNP PARIBAS - T
SOCIETE GENERAL
UBS 'R' - TOT R
CREDIT SUISSE G
BANCO SANTANDER
JP MORGAN CHASE
BANK OF AMERICA
LEHMAN BROS.HDG
CITIGROUP - TOT
DEUTSCHE BANK GOLDMAN SACHS G
MORGAN STANLEY
WACHOVIA DEAD MERRILL LYNCH &
INTESA SANPAOLO
UNICREDIT - TOT
WELLS FARGO & C
MIZUHO FINL.GP.
NOMURA - TOT RE
SUMITOMO - TOT
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Datastream.
Da ultimo, vale ricordare come neppure i momenti di difficoltà che pur si sono
manifestati nel corso di questo periodo8, in forme diverse e con una certa regolarità,
8
Solo per citare i fatti più rilevanti, ricordiamo: la crisi del mercato finanziario giapponese,
iniziata nel 1989, determinata dallo scoppio della bolla immobiliare e dall’esplosione
delle sofferenze bancarie; la crisi dei junk bonds, dovuta all’insolvenza di molti emittenti
e iniziata nello stesso anno; la crisi dei sistemi bancari di Svezia, Norvegia e Finlandia, tra
la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta; la crisi del sistema monetario
europeo del settembre 1992; la crisi del mercato obbligazionario internazionale,
ENRICO COTTA RAMUSINO
181
abbiano intaccato l’evoluzione complessiva del sistema e le basi sulle quali essa si
fondava; in ciascuno di questi episodi il sistema ha mostrato grandi doti di
“resilience”, superando le criticità emergenti e acquisendo, probabilmente, la
sensazione di essere immune rispetto ai rischi di fallimento; la convinzione che
quello intrapreso fosse il migliore modello di sviluppo possibile si è, nei fatti,
consolidata.
Una prima conclusione che sembrerebbe naturale derivare da queste premesse è
quella della progressiva emersione di un sistema finanziario internazionale sempre
più grande in termini dimensionali, sempre più profondamente integrato e
perfettamente funzionale alle esigenze di sostegno finanziario di un’economia
globale in forte crescita. Come spieghiamo nel prossimo paragrafo, così non è.
2.2 Un sistema incompiuto
Lo sviluppo di questa potente infrastruttura dello sviluppo globale si è però
realizzato in modo profondamente asimmetrico, come la crisi ha puntualmente
evidenziato. Ciò che viene comunemente definito “sistema” finanziario
internazionale è, in realtà, un sistema di sistemi che necessitano, al fine di esprimere
il necessario grado di compimento, di un forte livello di coordinamento. Le lacune
su questo cruciale fronte sono alla radice della crisi che stiamo vivendo e
rappresentano il principale nodo da affrontare per gettare le basi di una crescita
sostenibile. Riferendosi all’impresa, l’approccio sistemico identifica due elementi
chiave9, l’organo di governo e la struttura operativa. Il primo detta le scelte
9
determinatasi nel 1994 a seguito di un forte incremento dei tassi a medio termine sulle
principali valute internazionali; la crisi dell’economia messicana del 1994; il clamoroso
default di Barings, una delle più prestigiose merchant bank britanniche, acquisita da ING,
in una logica di salvataggio, al prezzo di una sterlina; la crisi asiatica del 1997, originata
dall’incapacità di molti paesi dell’area di mantenere il tasso di cambio stabilito con il
dollaro e la conseguente crisi bancaria e finanziaria; la crisi valutaria che ha interessato il
Brasile nel 1997; la crisi russa del 1998 ed il conseguente default sui titoli pubblici di
questo paese; la crisi di un importante hedge fund, il Long Term Capital Management, nel
1998; lo scoppio, alla fine del primo trimestre del 2000, della bolla speculativa legata ai
titoli tecnologici; la crisi, nello stesso anno, dei titoli di debito turchi; una nuova crisi del
mercato dei junk bonds, nel 2001; la crisi sistemica provocata dagli attentati alle Twin
Towers, l’11 settembre 2001; la crisi economica e il default dell’Argentina, nel 2001; la
crisi del mercato brasiliano dei bond, nel 2002; gli scandali societari di inizio millennio,
che hanno coinvolto società quotate prestigiose i titoli delle quali erano presenti nei
portafogli di tutti gli investitori istituzionali del mondo. Per una rassegna sul fenomeno si
vedano: Reinhart C., Rogoff K., “This Time Is Different: a Panoramic View of Eight
Centuries of Financial Crisis”, NBER Working Paper Series, n. 1382, 2008; Leaven L.,
Valencia F., “Systemic Banking Crisis: a New Database”, International Monetary Fund
Working Paper, n. 224, 2008.
Golinelli G.M., 2005a, op. cit.; Golinelli G.M., L’Approccio sistemico al Governo
dell’Impresa, Vol. II, Verso la Scientificazione dell’Azione di Governo, Cedam, Padova,
2008.
182
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
strategiche di medio lungo termine, adattando a queste la configurazione della
struttura operativa, spinto dai driver della competitività, che declina gli obiettivi di
natura economica, e della consonanza, che mira a creare un rapporto armonico tra
l’impresa e gli altri sistemi con i quali essa viene a contatto, pervenendo, in sintesi,
alla legittimazione del suo ruolo nella comunità civile entro la quale opera.
Nel caso del “sistema” finanziario, l’approccio sistemico ci consente di proporre
alcune argomentazioni che ne riflettono, ad un tempo, la specificità e la distanza
dell’assetto in essere da quello desiderato.
L’organo di governo è costituito dall’insieme delle autorità che hanno
competenza in tema di regolazione dell’industria finanziaria; a loro pertiene il
compito di configurare l’assetto regolatore in grado di garantire, per un sistema che
intenda definirsi vitale, condizioni di sostenibilità e di stabilità nel medio lungo
termine. Ritengo superfluo insistere sul ruolo cruciale della stabilità in ambito
finanziario, questione ampiamente indagata in letteratura e nella recente crisi
misurata in termini drammaticamente pratici.
Rispetto al caso dell’impresa, va in primo luogo ricordato come nel caso del
sistema finanziario tale organo sia esterno, non interno, e questa circostanza rende le
relazioni con la struttura operativa, composta a propria volta, come dirò fra un
attimo, di imprese, più complesse. La ragione è riconducibile alla nota
contrapposizione insider/outsider e alla conseguente differente dotazione
informativa.
In secondo luogo, l’organo di governo è estremamente composito; ne fanno
ovviamente parte la banca centrale e gli organismi di vigilanza sulle imprese e sui
mercati finanziari, in senso lato, ma l’elencazione non finisce qui. Pensiamo alla
regolazione dell’informativa societaria, e dunque ai principi contabili in base ai quali
le imprese redigono i propri bilanci, alla fissazione del profilo fiscale dell’attività
finanziaria, alle regole di governance delle imprese, solo per citare i principali attori
che concorrono al governo del sistema. L’efficacia complessiva dell’azione di
governo dipende dal grado di coordinamento tra questi soggetti.
La terza osservazione riguarda il sistema delle relazioni che il sistema “organo di
governo” ha con altri sistemi. Nel caso in oggetto il pensiero corre immediatamente
alle relazioni con l’ambiente politico istituzionale. Le scelte di fondo che l’organo di
governo è chiamato a compiere sono influenzate dai valori condivisi e maggioritari
nei singoli contesti nazionali; esse sono, in altre parole, legate al “modello di
capitalismo” nel quale il sistema finanziario nazionale si sviluppa e del quale
costituisce parte cruciale. In altre parole, l’organo di governo matura ed esprime un
“orientamento di fondo”, che potremmo definire “country specific”, che lo conduce,
attraverso un processo dialettico a livello politico - istituzionale, a definire la
funzione obiettivo pro-tempore prevalente. Tale orientamento di fondo è
essenzialmente declinato su due fronti.
Il primo afferisce la funzione obiettivo sul fronte macroeconomico, in particolare
la crescita, alla quale il sistema finanziario può contribuire in modo importante,
attraverso il credito nelle più svariate forme tecniche. Questi obiettivi sono fissati
dalla politica, chiamata a scegliere, schematizzando, tra due orientamenti alternativi,
ENRICO COTTA RAMUSINO
183
uno maggiormente ispirato a favorire lo sviluppo della domanda effettiva, l’altro
maggiormente orientato al rigore e alla correzione degli squilibri macroeconomici.
La manovra delle variabili monetarie segue logicamente le scelte di cui sopra,
dettando quindi un primo elemento di influenza sul funzionamento del sistema
finanziario.
Il secondo snodo cruciale, che definisce l’orientamento di cui sopra, è quello che
riguarda il “modo” in cui l’azione di governo viene esercitata, in particolare sul
fronte della scelta di un ragionevole punto di equilibrio tra efficienza e stabilità, due
obiettivi tra i quali, come ben illustrato nella letteratura di riferimento, esiste un
certo livello di trade off10.
L’orientamento all’efficienza si traduce in politiche atte a favorire una maggiore
concorrenza tra gli operatori, sul presupposto logico della diretta correlazione tra la
seconda e la prima; un portato di questa scelta è l’attribuzione di particolare
rilevanza al mercato e alle sue istituzioni, nella convinzione che esse sappiano
modulare il corretto livello di presidio dei rischi. L’orientamento alla stabilità, per
contro, genera modelli di governo strutturati su regolamentazione e controlli più
pervasivi, meno permissivi, maggiormente finalizzati a prevenire fenomeni di crisi
anche a costo di qualche sacrificio sul fronte dell’efficienza. In questo contesto si
collocano anche le scelte tra regolamentazione e autoregolamentazione, la prima
tipicamente top-down e la seconda maggiormente confidente sulla capacità di
aggiustamento “automatico” del mercato sotto la spinta di istituzioni all’interno di
esso spontaneamente sviluppatesi.
Passando da un contesto nazionale ad uno internazionale, quello sul quale
l’industria finanziaria ha sviluppato le proprie attività nel corso degli ultimi
vent’anni. Il quadro, ovviamente, si complica.
Iniziamo ricordando come le opzioni possibili per l’esercizio di una effettiva
azione di governo siano, in linea di principio, due. La prima, che considero la via
maestra, è la creazione di un organo di governo di natura sovranazionale al quale
affidare pieni poteri per l’esercizio delle proprie funzioni. La seconda è quella di
creare meccanismi di coordinamento tra gli organi di governo nazionali. In termini
astratti, è evidente come l’efficacia di questa seconda impostazione dipenda dal
grado di coordinamento che le autorità nazionali ritengono di dover raggiungere. In
forza di quello che ho in precedenza definito l’orientamento di fondo dell’organo di
governo, appare subito chiaro che il coordinamento rappresenta una sfida difficile.
Se è vero, da un lato, che tutte le autorità sono, in linea di principio, interessate al
buon funzionamento del sistema finanziario e per tale ragione lo sottopongono ad
una certa “quantità di regolamentazione”, è altrettanto vero, dall’altro, che la
definizione di tale “corretta quantità” è pur sempre lasciata alla valutazione
soggettiva delle autorità nazionali.
10
Carletti E., Hartmann P., “Competition and Stability: What’s Special About Banking?”,
ECB Working Papers, n. 146, 2002. Una riflessione sul tema della regolamentazione del
sistema bancario indotta dalla recente crisi è contenuta in Masera R. (ed.), The Great
Financial Crisis. Economics, Regulation and Risk, Bancaria Editrice, Roma, 2009.
184
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
Consideriamo ora la struttura operativa di quello che definiamo il sistema
finanziario internazionale. Essa è costituita da imprese11, vale a dire da sistemi,
ciascuna delle quali composta, a propria volta, da un organo di governo e da una
struttura operativa. Il primo è anche in questo caso soggetto, nelle proprie scelte di
fondo, a diversi fattori di influenza che, in termini generali, si possono ricondurre a
due categorie essenziali. Il primo fattore di influenza è quello esercitato dall’organo
di governo del sistema finanziario, come in precedenza definito, all’interno del quale
l’impresa (finanziaria) opera. Il contesto normativo generale, la disciplina specifica
in tema di attività finanziaria, la vigilanza, la regolamentazione civilistica, contabile
e fiscale, definiscono i gradi di libertà ovvero, i vincoli12, entro i quali l’organo di
governo compie le proprie scelte. Il secondo fattore di influenza è rappresentato
dall’attività degli stakeholder dell’impresa che si relazionano, secondo vari schemi,
con i soggetti ai quali sono affidati il governo e la gestione dell’impresa.
Su entrambi i fronti vi sono molte opzioni. Il modo in cui l’organo di governo
del sistema finanziario esercita la propria influenza sull’organo di governo delle
imprese finanziarie può essere ispirato ad obiettivi diversi e caratterizzato da
modalità di esercizio differenti, come si è già in precedenza accennato. Sul fronte
delle relazioni con gli stakeholder, l’influenza che questi ultimi possono esercitare è
fortemente dipendente dal complessivo assetto del modello di capitalismo entro il
quale l’impresa opera. Come è stato osservato, e come si dirà nel seguito, i citati
fattori di influenza possono determinare scelte diverse, da parte dell’organo di
governo, nella scelta di medio termine tra competitività e consonanza, producendo
differenti funzioni obiettivo. Su questo tema torneremo nella seconda parte della
relazione.
La struttura operativa delle imprese, che costituiscono a propria volta la struttura
operativa del cosiddetto sistema finanziario internazionale, è rappresentata da un
pool di risorse essenzialmente riconducibili a tre categorie, risorse materiali,
immateriali, umane. In sintesi, le risorse materiali sono le strutture fisiche e quelle
tecnologiche. Le prime possono avere incidenza diversa in funzione del modello di
business realizzato dalle diverse banche; sono maggiormente rilevanti nel banking
tradizionale (retail) - che si vale di strutture fisiche quali le reti di filiali - mentre
sono del tutto trascurabili nell’investment banking. Le risorse tecnologiche sono un
tratto comune di tutte le imprese di questa specie; la piattaforma tecnologica e i
sistemi informativi sintetizzano l’intelligenza dell’impresa e sono condizione
necessaria all’esercizio efficace del business. Complessivamente, le risorse materiali
rappresentano, presso la totalità degli operatori, una quota molto ridotta del totale di
bilancio delle imprese in oggetto13. Le risorse umane e quelle intangibili sono di
11
12
13
Assumiamo a rappresentazione della struttura operativa l’insieme delle imprese
finanziarie, così come rappresentato in Golinelli G.M., L’Approccio sistemico al Governo
dell’Impresa, Vol. II, La Dinamica Evolutiva del Sistema Impresa tra Economia e
Finanza, Cedam, Padova, 2000, p. 270.
Golinelli G.M., 2005a, op. cit., p. 202; Golinelli G.M., 2000, op. cit.
Per dare un’idea del fenomeno, osserviamo come, nel bilancio al 31.12.2008 di Goldman
Sachs e di UniCredit, banche espressive di modelli di business profondamente diversi, le
ENRICO COTTA RAMUSINO
185
difficile separazione in quanto le prime, con il loro saper fare, concorrono alla
creazione delle seconde. In un contesto operativo nel quale non esistono brevetti,
sono sempre meno frequenti le licenze, e sono rari i casi di processi tecnologici
distintivi, sono le decisioni strategiche assunte dalla coalizione manageriale di
comando a definire il posizionamento di mercato dell’azienda, la sua reputazione e,
in sintesi, la sua profittabilità. La dimensione degli intangibili trova sintetica
espressione nei valori di mercato, in particolare nel rapporto tra capitalizzazione e
valore contabile del patrimonio.
L’output della funzione di produzione è rappresentato da relazioni di debito e di
credito con i prenditori e i prestatori di fondi e, su entrambi i versanti, sono rilevanti
le presenze di altre imprese finanziarie. Il fatto che una quota rilevante degli attivi e
dei passivi delle grandi banche internazionali sia composta di rapporti di
debito/credito con altre banche conferisce a questa industria quell’aspetto
particolare, non rinvenibile in altri settori economici di attività, che nel gergo
comune definiamo “sistemico”14. Dalle argomentazioni precedenti emerge con
chiarezza come il termine sistema venga in questo caso utilizzato in modo non
appropriato; non di sistema si tratta ma di un’industria caratterizzata da forte
interrelazioni delle strutture operative delle aziende operanti. Manca, rispetto alla
visione sistemica, come si è visto, il requisito dell’organo di governo comune.
Proprio la forte interrelazione delle strutture operative è emersa con chiarezza
all’esplosione della crisi, come diremo fra breve.
Analizzando gli ultimi vent’anni, si vede come l’evoluzione dell’industria
finanziaria si sia realizzata attraverso la creazione di una immensa arena competitiva
nella quale sono discesi operatori provenienti da sistemi nazionali diversi, portatori
di differenti schemi di relazione con i propri stakeholder15, dunque di diverse
funzioni obiettivo, e di modelli differenziati di relazione con le proprie autorità di
controllo, e dunque di diversi gradi di libertà. In assenza di un’autorità
sovranazionale di governo e in presenza di un insufficiente livello di coordinamento
degli organi nazionali di governo, il sistema non si è compiuto ma, al contrario, è
rimasto in una fase di pericolosa transizione nella quale la solidità apparente celava
una strutturale fragilità.
14
15
attività materiali rappresentassero una percentuale di poco superiore all’1% dell’attivo
totale.
Riferendosi alle banche italiane, è possibile, sulla base dei dati contenuti nella relazione
della Banca d’Italia per il 2008, stimare il peso delle relazioni interbancarie in una quota
pari a circa il 25% del totale dell’attivo. Poiché il sistema bancario italiano è caratterizzato
da un livello di internazionalizzazione più basso rispetto ai maggiori paesi avanzati, la
percentuale ragionevolmente riferibile a questi ultimi è più elevata. Ancora, la percentuale
di dipendenza da altre banche si innalza in modo significativo nel caso delle banche prive
di reti di sportelli, totalmente dipendenti, per conseguenza, dalla raccolta interbancaria.
Cotta Ramusino E., “Conflitti e Trasformazioni nei Modelli di Governance”, Sinergie, n.
73/74, 2007; Cotta Ramusino E., 1998, op. cit.; Golinelli G.M., “Il Confronto tra
Capitalismi Nazionali: la Specificità Italiana”, Finanza Marketing e Produzione, n. 4,
1994.
186
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
Certamente più integrata, come anche la crisi ha dimostrato, è apparsa la
struttura operativa, imperniata su uno strettissimo sistema di relazioni - espresse
dalla molteplicità di intersezioni tra gli attivi e i passivi - tra imprese finanziarie che
hanno progressivamente accresciuto la propria dotazione strutturale e la complessità
del proprio operato fino a creare, per gli organi di governo, nazionali e
insufficientemente coordinati, oggettive difficoltà di lettura e comprensione delle
dinamiche in corso.
Il lungo cammino compiuto in questi anni sulla via della vigilanza finanziaria
internazionale ha prodotto risultati certamente apprezzabili ma, come la crisi
dimostra, assolutamente non conclusivi. La ragione è che tali sforzi hanno condotto
alla fissazione di regole limitate solo ad alcuni aspetti, pur rilevanti, ma parziali,
come le competenze dell’organismo che le ha emanate. È dunque emersa una
contraddizione palese tra un divenire sempre più internazionale dell’attività
finanziaria da un lato e l’assenza di istituzioni di governo su scala internazionale
dall’altro.
2.3 L’azzardo morale del paese guida
Le argomentazioni esposte in precedenza consentono di inquadrare e
comprendere il fenomeno della crisi che stiamo ancora vivendo. In relazione ad essa
conosciamo il luogo di manifestazione - il sistema finanziario statunitense - l’asset
class coinvolta - i mutui immobiliari successivamente cartolarizzati - i veicoli del
contagio - i titoli con garanzia ipotecaria originati dalle cartolarizzazioni e
successivamente strutturate in forme via via più complesse e distribuiti agli
investitori di tutto il mondo - gli effetti - una diffusa crisi tra le maggiori istituzioni
finanziarie del mondo, la cospicua iniezione di capitale pubblico nelle banche, la
contrazione del credito e la conseguente pesantissima recessione.
Ci soffermiamo brevemente sui principali snodi della crisi perché dal loro esame
possiamo trarre indicazioni sulla possibile configurazione che un organo di governo
internazionale dovrebbe avere per evitare il ripetersi delle esperienze passate.
Nella lunga fase di sviluppo che precede la crisi, l’azione di governo del sistema
finanziario statunitense ha seguito due principi ispiratori; da una lato essa ha fatto
proprio l’orientamento della politica a fissare come assolutamente prioritario
l’obiettivo della crescita economica del paese, grazie ad una politica dei tassi di
interesse finalizzata al sostegno dei consumi e degli investimenti; dall’altro essa ha
agito sulla struttura del sistema nella direzione di una sua sempre maggiore
liberalizzazione e deregolamentazione (o non regolamentazione)16.
16
L’orientamento alla deregolamentazione o alla non regolamentazione del sistema
finanziario è stato in qualche misura favorito dalla “contiguità” da molti autori segnalata
tra i massimi esponenti dell’industria finanziaria e il mondo politico istituzionale
statunitense. In questo modo i “regolati” sono riusciti ad influenzare, attraverso la
mediazione politica, il comportamento dei regolatori. Con diversi accenti, questa
impostazione è riportata in diversi contributi, tra i quali segnaliamo: Onado M., I Nodi al
Pettine, Laterza, Roma-Bari, 2009; Consumer Education Foundation, “Sold Out: How
ENRICO COTTA RAMUSINO
187
Sul fronte del sostegno alla crescita economica sono state compiute, soprattutto a
partire dall’inizio di questo decennio, scelte molto discutibili ma assolutamente
chiare in termini di finalità: una politica perdurante di tassi di interesse
artificialmente ridotti, finalizzati a sostenere la domanda interna e, per questa via, la
crescita del prodotto interno lordo. Il caso del mercato immobiliare rappresenta un
esempio paradigmatico dell’applicazione di queste scelte: l’enorme liquidità e i bassi
tassi di interesse hanno sostenuto i redditi delle famiglie, incentivandone
l’investimento immobiliare (una sorta di via finanziaria al sogno americano della
casa di proprietà); saturato il mercato “prime”, si è ben presto aperta la via a quello
“subprime”, mettendo a contratto debitori nuovi, che in tempi normali non
avrebbero ottenuto credito17. Il risultato è stato un rapido stravolgimento del mercato
dei mutui immobiliari statunitense, il più grande del mondo18:
- i mutui non conforming (o non Agency), sono cresciuti rapidamente in termini di
emissioni e consistenze19;
- una percentuale sempre maggiore di questi mutui “nuovi” è stata cartolarizzata,
finendo nei portafogli di numerosissime istituzioni finanziare in tutto il mondo.
Ricordo un dato che mi sembra significativo: nel 2006 i subprime rappresentano
il 22% dei mutui erogati e l’80% di essi viene cartolarizzato.
Una simile condotta, che possiamo ben definire “aggressiva”, sul fronte
macroeconomico, tradottasi nell’asservimento del sistema finanziario agli obiettivi
di crescita del sistema reale, avrebbe dovuto trovare un proprio logico contrappeso
in una più rigorosa azione di governo. Declinando in termini più specifici il concetto
di governo del sistema fin qui utilizzato per introdurre la discussione, possiamo
ricordare come esso si componga, in tempi normali, di due elementi essenziali: la
regolamentazione che definisce, a monte, il quadro di riferimento per l’operatività
degli attori e la vigilanza, a valle, che verifica la compliance dei comportamenti
posti in essere rispetto alla normativa. All’emergere della patologia, il governo del
17
18
19
Wall Street and Washington Betrayed America”, www.wallstreetwatchdog.org. In questo
secondo contributo vengono esaminate le attività di lobbyng condotte dai rappresentanti
dell’industria finanziaria e i contributi da questa corrisposti, in modo peraltro conforme
alla normativa e trasparente, a diversi rappresentanti del mondo politico.
Nel segmento dei clienti subprime sono spesso presenti individui non in grado di valutare
con oggettività le proposte di mutuo ricevute dagli intermediari finanziari, con la
conseguenze di una asimmetrica distribuzione del potere negoziale che ha condotto
all’accettazione di condizioni di mutuo che, nel complesso, determinavano una riduzione
netta del benessere del cliente. È questa la cosiddetta pratica del “predatory lending” oggi
oggetto di indagine anche da parte dell’FBI. Cfr. Morgan D.P., “Defining and Detecting
Predatory Lending”, FED of New York Staff Report, n. 273, 4 maggio 2005.
Cfr. Gorton G., “The Subprime Panic”, www.ssrn.com, 2008; Ashcraft A.B., Shuermann
T., “Understanding the Securitization of Subprime Mortgage Credit”, www.ssrn.com,
2008; Caprio G., Demirguc K.A., Kane E.J., “The 2007 meltdown in structured
securitization: searching for lessons not scapegoats”, World Bank Policy Research
Working Paper, n. WPS 4756, pp. 4-17, 25-29, 48-56, 5 settembre 2008.
Ashcraft A.B., Shuermann T., 2008, op. cit.; Gorton G., “The Subprime Panic”,
www.ssrn.com, 2008.
188
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
sistema si arricchisce di una terza componente altrettanto importante, quella che
riguarda le modalità di gestione delle crisi delle imprese finanziarie, un’azione che
deve essere condotta con l’obiettivo di minimizzarne l’impatto sulla stabilità
complessiva del sistema (o della struttura operativa).
Anticipando le conclusioni alle quali porta il nostro ragionamento, possiamo
affermare che, al contrario, una regolamentazione sempre più permissiva si è
coniugata con una vigilanza del tutto inadeguata e con modalità di gestione della
crisi, se possibile, ancora peggiori.
2.3.1 Gli snodi della crisi
Cerco ora di declinare, per punti essenziali, le argomentazioni che supportano la
precedente affermazione.
a) l’impalcatura del sistema finanziario statunitense è stata modificata in modo
strutturale con un provvedimento legislativo, il Financial Modernization Act20
del 1999, che ha di fatto abolito il Glass Stegall Act del 1933, allora istituito allo
scopo di creare una netta separazione tra le attività e i rischi tipici
dell’investment banking e il sistema dell’intermediazione bancaria tradizionale
(c.d. “pure commercial banking”). La rimozione di questa barriera e la
conseguente creazione di giganteschi conglomerati (“too big to fail” o “too big to
be saved”?) non può certo essere considerata causa diretta della crisi. Non c’è
mai stato un Glass Stegall Act in Germania e anche nell’Unione Europea, in
forza della legge bancaria varata all’inizio degli anni Novanta, non esiste
separazione tra le differenti attività del banking; ciononostante, l’adozione del
modello di banca universale non ha impedito alle banche europee di crescere e di
svilupparsi in condizioni di maggiore stabilità (direi di stabilità al netto del
“contagio”). Ciò che ha pesato è l’“effetto somma” di questa modificazione
istituzionale con gli altri fattori esposti nel seguito.
b) La vigilanza sul sistema bancario è stata nei fatti suddivisa tra la Banca Centrale,
competente sulle banche e sulle Bank Holding Companies, e la Securities and
Exchange Commission competente sulle banche di investimento. Queste ultime
si sono poi rivelate l’epicentro della crisi - tre delle cinque maggiori in vita prima
della crisi oggi non esistono più come entità autonome, una è addirittura fallita e
le due rimanenti si sono trasformate in Bank Holding Companies - accumulando
posizioni di rischio sempre più insostenibili a fronte di riserve patrimoniali del
tutto inadeguate. La ragione ormai acclarata è che, in presenza di un buco
legislativo in tema di competenze di vigilanza su queste istituzioni, esse sono
state, a partire dal 2004, assoggettate al cosiddetto Consolidated Supervised
Entities, un programma di supervisione su base volontaria amministrato dalla
SEC21; un portato di questa impostazione era che le investment banks potessero
20
21
Cfr. il c.d. Gramm-Leach-Bliley Act, emanato dal Congresso americano il 12 novembre
1999.
Securities and Exchange Commission, “Final Rule: Alternative net Capital Requirements
for Broker - Dealers that Are Part of Consolidate Supervised Entities”, June 21, 2004;
ENRICO COTTA RAMUSINO
189
determinare i propri requisiti patrimoniali attraverso modelli di calcolo
proprietari, internamente sviluppati. Questa impostazione non appare, in sé, priva
di fondamento; nello spirito degli accordi sulla vigilanza internazionale promossi
dal Comitato di Basilea, infatti, le banche possono optare per il calcolo dei
requisiti di vigilanza prudenziale attraverso algoritmi di calcolo internamente
sviluppati. Il corollario fondamentale di questa impostazione, peraltro, è che le
autorità di vigilanza debbano verificare e validare questi modelli per accertarsi
che le banche mantengano adeguati presidi nei confronti delle diverse tipologie
di rischio. Questo è esattamente quello che non è stato fatto; nessuno ha
effettivamente vigilato sulla bontà dei modelli e ciò ha consentito alle banche di
investimento - prima di allora chiamate a mantenersi al di sotto di un rapporto di
leverage complessivo pari a 15 sulla base di un criterio empirico, criticato dai
membri di questa industria per il suo carattere di grossolana approssimazione - di
dilatare il rapporto tra attivo e patrimonio fino a superare soglie elevatissime
(pari a 30 o 40). Il risultato è quello che tutti abbiamo potuto vedere; dopo il
fallimento di Lehman Brothers il Presidente della Sec ha riconosciuto il
fallimento di questa impostazione di vigilanza22 ed il controllo dei soggetti
rimasti in vita è passato alla Banca Centrale.
c) Un altro pilastro del processo di modernizzazione del sistema è rappresentato dal
Commodity Futures Modernization Act (CFMA), varato nel 2000, con il quale si
è data via libera alla crescita del mercato dei derivati “over the counter”,
strumenti negoziati direttamente tra le parti, invece che in una borsa. La
differenza tra le due opzioni è chiara. Le negoziazioni all’interno di un mercato
regolamentato sono maggiormente trasparenti (in termini di prezzi, volumi,
standardizzazione e liquidità, delle tipologie contrattuali, natura delle controparti,
etc.), sono maggiormente monitorabili dalle autorità di vigilanza e, da ultimo,
beneficiano, sotto il profilo del rischio, del ruolo centrale svolto dalla Clearing
House che, attraverso un sistema di garanzie applicato a tutti gli operatori attivi
sul mercato, solleva ciascuno di questi dal rischio di controparte. L’approvazione
del CFMA segnò il prevalere di una impostazione, quella secondo la quale lo
sviluppo dell’innovazione finanziaria doveva essere lasciato completamente
nelle mani del “mercato”, su un orientamento alternativo che, invece, proponeva
una sua più stretta e trasparente disciplina. L’oggetto della disputa non era
teorico ma, al contrario, un mercato in carne ed ossa che stava crescendo in
modo vertiginoso e che, a giugno 2008, avrebbe raggiunto la rispettabile
dimensione di 683 trilioni di dollari23. Scelta la via della non regolamentazione il
22
23
Securities and Exchange Commission, “Sec’s Oversight of Bear Stearns and Related
Entities: the Consolidated Supervised Entity Program”, Office of Inspector General
Report n. 446-A, September 25, 2008.
Securities and Exchange Commission, “Chairman Cox Announces End of Consolidated
Supervised Entities Program”, September 26, 2008.
Il dato riportato, al quale comunemente ci si riferisce, anche per la sua impressionante
capacità evocativa (il valore citato è pari ad oltre 11 volte il prodotto mondiale lordo del
2008) è espresso in termini di “notional amount outstanding”, vale a dire il valore del
190
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
mercato si è sviluppato attorno ad un sostanzialmente ristretto numero di dealer,
riconosciuti sulla scena internazionale come veri e propri “market makers su
questo segmento di mercato, con ovvie ripercussioni sistemiche (la crisi di uno di
questi operatori poteva coinvolgere tutti gli altri).
d) Se regolamentazione e vigilanza non hanno prodotto i risultati sperati, anche
altre istituzioni - che potremmo definire “di mezzo” - fondamentali nella
struttura del sistema, mi riferisco in particolare alle agenzie di rating24, hanno
completamente mancato rispetto ai compiti loro assegnati. Giova ricordare che
questi soggetti rivestono un ruolo fondamentale nel funzionamento dei mercati
finanziari in quanto i giudizi valutativi da essi espressi sono rilevanti anche ai
fini della regolamentazione dell’attività bancaria internazionale. Gli accordi
sull’adeguatezza patrimoniale su base internazionale, meglio noti come “Accordi
di Basilea”, attribuiscono ai rating delle agenzie una valenza formalmente
rilevante ai fini della ponderazione dei rischi che le banche possono assumersi.
Un asset valutato dalle agenzie con rating massimo può essere acquisito dalla
banca con minimo assorbimento patrimoniale; se, a posteriori, tale giudizio si
rivela infondato, la conseguenza è che il presidio patrimoniale posto dalla banca
a fronte di questo rischio si rivela insufficiente. L’operato delle agenzie di rating
ha rappresentato uno snodo cruciale per il propagarsi della crisi: i mutui
immobiliari di qualità scadente sono stati trasformati in titoli negoziabili che le
agenzie hanno valutato in modo totalmente slegato dall’effettivo merito
creditizio. La valutazione positiva ha prodotto conseguenze importanti ai fini del
24
capitale nozionale al quale i contratti si riferiscono, comportando scambi di cash flow pari
ad una piccola percentuale del capitale nozionale stesso (mai oggetto di scambio, peraltro,
ad eccezione di alcune tipologie di contratti aventi ad oggetto valute). Un altro dato
relativo alla dimensione del mercato, regolarmente pubblicato dalla Banca dei
Regolamenti Internazionali, è quello che si riferisce al cosiddetto “gross market value”,
inteso come costo che ciascun operatore dovrebbe sostenere per smontare le operazioni in
essere; il “gross market value”, maggiormente rappresentativo del profilo di rischio a
carico degli operatori del mercato rispetto al “notional amount outstanding”, era pari, alla
data del 30 giugno 2008, a 20,4 trilioni di dollari, meno di un trentesimo rispetto alla
dimensione del notional amount outstanding ma sempre pari, per dare un ordine di
grandezza, a circa 9 - 10 volte il prodotto interno lordo dell’Italia. Un’ultima grandezza
che può aiutare a comprendere il reale profilo di rischio al quale sono esposti gli operatori
di mercato è la cosiddetta “gross credit exposure”, nella quale, partendo dalle esposizioni
lorde di cui al punto precedente viene effettuato il “netting” delle esposizioni di segno
opposto tra le parti. Di questa grandezza, di dimensioni ovviamente più ridotte rispetto
alla precedente, non sono disponibili statistiche su base sistematica. Cfr. BIS, Monetary
and Economic Department, “OTC Derivatives Market Activity in the Second Half of
2008”, May 2009; International Swao & Derivatives Association, Research Notes, n. 1,
Autumn 2008.
Il riferimento coinvolge anche altri soggetti, quali gli analisti attivi nella valutazione dei
titoli quotati sulle borse internazionali, dimostratisi incapaci di distinguere tra creazione di
valore sostenibile e comportamenti speculativi di breve termine, così come all’efficacia
delle attività svolte dalle società di revisione.
ENRICO COTTA RAMUSINO
191
contagio: da un lato i titoli nominalmente sicuri sono stati acquisiti dagli
investitori internazionali, accelerando il contagio anche ad operatori usualmente
riluttanti ad assumere rischio, dall’altro, la positiva valutazione delle agenzie ha
fatto sì che i titoli potessero essere riacquistati dalle banche stesse che, potendo
contare sul basso assorbimento patrimoniale di questo investimento, hanno
potuto dilatare gli attivi a consistenza patrimoniale pressoché inalterata25. Sul
tema del riacquisto da parte delle banche dei titoli poi rivelatisi “tossici”, un
ulteriore tassello si aggiunge a questo sconfortante quadro; mi riferisco alla
circostanza che le banche hanno riacquistato questi titoli attraverso veicoli
societari all’uopo creati, che la normativa civilistico contabile ha consentito di
non consolidare in bilancio, con la creazione di un vero e proprio “shadow
banking system”26. Esistono oggi rapporti dettagliati che documentano le
evidenze di questo fallimento27, e proposte di regolamentazione di cui
attendiamo gli sviluppi concreti28. Ciò che colpisce è il valore simbolico di
questo fallimento: si è molto discusso del conflitto di interesse che può alterare il
buon funzionamento del processo di rating - dove il valutatore del rischio è
pagato dal soggetto valutato - ma a questa visione “maliziosa” si usava
contrapporre l’affermazione che, fondando le agenzie il proprio business sul
prestigio e la reputazione nel mercato, il conflitto in oggetto veniva superato
dall’interesse delle agenzie stesse a mantenere intatto il proprio avviamento29.
Nuovamente, il mercato conteneva in sé, secondo i suoi sostenitori, gli enzimi
atti a garantirne il buon funzionamento30. Le indagini condotte dalla Sec dopo lo
25
26
27
28
29
30
Foglia A., “The Risk on Banks’ Books”, Swiss Finance Institute, Occasional Paper Series,
n. 08-01, 2009.
Adrian T., Shin H.S., “The Shadow Banking System: Implications for Financial
Regulation”, Federal Reserve Bank of New York Staff Report, n. 382, July 2009.
Securities and Exchange Commission, “Summary Report of Issues Identified in the
Commission’s Staff Examinations of Selected Rating Agencies”, July 2008; Securities
and Exchange Commission, “Proposed Rules for Nationally Recognized Statistical Rating
Organizations”, June 2008.
Commission of The European Communities, Communication from the Commission,
“European Financial Supervision”, Bruxelles, 2009. Commissione delle Comunità
Europee, “Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo alle
agenzie di rating del Credito”, Bruxelles, 12.11.2008; ESME, “Role of Credit Rating
Agencies”, Esme’s Report to the European Commission, June 2008; United States Senate
“Committee on Banking, Housing and Urban Affairs, Hearings on, Examining Proposals
to Enahance the Regulation of Credit Rating Agencies, August 5, 2009.
SY A.N.R., “The Systemic Regulation of Credit Rating Agencies and Related Markets”,
IMF Working Paper, June 2009; OPP C.C., OPP M.M., “Rating Agencies in the Face of
Regulation: Rating Inflation and Regulatory Arbitrage”, www.ssrn.com, May 2009; Maris
P., “The Regulation of Credit Rating Agencies in the Us and Europe: Historical Analysis
and Thoughts on the Road Ahead”, www.ssrn.com, 2/27/2009.
L’idea che il mercato sia in grado di trovare comunque un equilibrio e, dunque, di
preservare la propria stabilità senza la necessità di un intervento di autorità regolatrici è
fortemente ed efficacemente contestata in un recente saggio di Akerlof e Shiller. Cfr.
Akerlof G.A., Shiller R.J., “How “Animal Spirits” Destabilize Economies”, McKinsey
192
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
scoppio della crisi ci consegnano una realtà ben diversa da quella prospettata dai
sostenitori dell’aggiustamento automatico attraverso i meccanismi di mercato.
e) L’ultimo anello nella filiera dei controlli è rappresentato dagli organismi e dalle
funzioni interne alle banche, mi riferisco alle funzioni di risk management, ai
comitati di controllo interno e ai consigli di amministrazione, incaricati di
supportare da un lato e vigilare dall’altro sull’operato del top management. Per
sintesi, mi limito a rilevare il fallimento di questi meccanismi di controllo; a
dispetto della forte evoluzione e della crescente sofisticazione degli strumenti
manageriali disponibili, la crescente intelligenza degli operatori è stata asservita
alle istanze degli organi di linea, interessati in modo esclusivo allo sviluppo del
business, mettendo in secondo piano le finalità del presidio del rischio. Sulle
ragioni di questa evoluzione31, che si colloca coerentemente nel quadro della
governance delle aziende coinvolte nella crisi, dirò nella seconda parte della
relazione.
2.3.2 La gestione della crisi
Le modalità di gestione della crisi hanno ulteriormente evidenziato la
frammentazione e il disordine sottostanti un’infrastruttura globale all’apparenza
sistemica. Come risulta evidente dalle premesse, i primi fenomeni di instabilità
nascono nel mercato dei titoli originati dai mutui immobiliari di bassa qualità; al
crescere delle insolvenze su questi ultimi si abbina il crollo dei valori di mercato dei
primi. I downgrade delle agenzie di rating si succedono rapidamente32 - prova di
quanto infondate fossero le valutazioni espresse poco tempo prima - ed entrano
immediatamente in crisi gli operatori che avevano investito a leva in questi titoli. Il
2007 archivia la crisi di Northern Rock nel Regno Unito e quella di due hedge fund
promossi da Bear Stearns. L’incapacità delle autorità di governo di stimare le
dimensioni e le conseguenze della crisi appaiono chiare nelle espressioni ufficiali. Si
dichiarano perdite presunte che non sono che una piccola frazione di quelle che poi
risulteranno le effettive33. Nella primavera del 2008 si registra il salvataggio di Bear
31
32
33
Quarterly, n. 3, 2009.
Cfr. Senior Supervisors Group, “Observations on Risk Management Practices during the
Recent Market Turbolence”, 6 marzo 2008; Economist, “Confessions of a Risk Manager”,
7 agosto 2008; G 20 Working Group 1, “Enhancing Sound Regulation and Strenghtening
Transparency”, Final Report, March 25, 2009.
Inizia Moody’s nel giugno 2007 con il downgrade di 131 emissioni (250 vengono messe
sotto osservazione per un successivo downgrade). A luglio S&P effettua downgrade su
titoli di importo complessivamente pari a 7,3 miliardi di dollari, seguita da Moody’s con
downgrade per 5 miliardi di dollari. Negli stessi giorni iniziano ad essere messe sotto
osservazione le emissioni di CDO; Fitch annuncia il downgrade di 33 classi di emissioni
di strutturati. Moody’s annuncia la revisione dei criteri di stima dell’expected loss sui
titoli garantiti da mutui Alt-A. Le revisioni proseguono incessantemente, e sempre più
estese, nell’autunno. Cfr. Borio C., “The Financial Turmoil of 2007 - ?: a Preliminary
Assessment and some Policy Considerations”, Bis Working Papers, n. 251, marzo 2008.
Ci riferiamo alle dichiarazioni del presidente della Fed, Ben Bernanke, che quantifica in
ENRICO COTTA RAMUSINO
193
Stearns - acquisita da J. P. Morgan grazie ad una finanziamento della banca centrale
americana - e, nell’estate, quelli di Freddie Mac e Fannie Mae, agenzie
semipubbliche cruciali per il funzionamento del mercato dei mutui immobiliari
statunitense. In queste condizioni si arriva allo snodo cruciale della crisi, con il
fallimento di Lehman Brothers. Di fronte all’insolvenza della terza banca di
investimento statunitense le autorità di quel paese hanno ritenuto di sospendere la
politica dei salvataggi e di dare libero sfogo alle forze di mercato, ritenendo di
sottoporre così a giusta sanzione l’agente economico che aveva sbagliato.
La questione è chiara dal punto di vista teorico: i salvataggi, secondo alcuni,
eliminando il rischio di fallimento, pongono il management in una situazione di
azzardo morale nella quale beneficiano degli effetti positivi dei propri
comportamenti senza sopportarne le conseguenze negative. Sulla base di questo
semplice ragionamento si è deciso di lasciare Lehman al proprio destino. Ritengo
questa scelta assolutamente sciagurata in quanto la sanzione non si è scaricata (solo)
su Lehman ma sull’intero sistema finanziario internazionale. È stato demolito un
bene pubblico, la fiducia nelle istituzioni finanziarie, e la crisi ha subito una drastica
escalation a livello mondiale, come dimostrato dal prosciugarsi del mercato
interbancario internazionale, dal crollo del prezzo delle attività finanziarie e
dall’innalzamento verticale dei premi per il rischio.
L’effetto Lehman
Il fallimento di Lehman, come documentato nei grafici che seguono, determina
una escalation della crisi e una accelerazione formidabile dei meccanismi di
contagio34. Il primo effetto è l’ascesa verticale dei premi per il rischio pretesi dal
34
50 – 100 miliardi di dollari le perdite connesse ai subprime, e alle stime formulate il mese
successivo dal Fondo Monetario Internazionale, che alzano le stime a circa 200 miliardi di
dollari. Queste circostanze evidenziano come la complessità del sistema fosse
straordinariamente cresciuta andando al di là della capacità di comprensione diretta e
immediata di soggetti qualificati e interni al sistema stesso. Una molteplicità di operatori
disseminati sulla scena mondiale - e pertanto soggetti a regole diverse sotto il profilo
normativo e di vigilanza, a differenti discipline contabili e fiscali - ma profondamente
integrati in un sistema di scambi organizzato largamente al di fuori di mercati ufficiali e
avente per oggetto prodotti dalle strutture tecniche e giuridiche molto sofisticate, aveva di
fatto dato vita ad un’entità di complessità tale da non risultare leggibile neppure da
esponenti autorevoli collocati all’interno di essa. Sul tema della complessità dei sistemi si
vedano, Faggioni F., Simone C., 2009, op. cit.; Barile S., 2009, op cit.
Il contributo di Proietti e Quattrociocchi documenta la manifestazione dei meccanismi di
contagio e, riferendosi al caso della crisi finanziaria, evidenziano correttamente come esso
si sia limitato alle banche maggiormente esposte sulla scena internazionale, non
estendendosi, per contro, a quelle maggiormente inserite in circuiti finanziari locali.
Ritengo di dover aggiungere che tale effetto si è manifestato solo grazie alla decisione
delle autorità dei vari paesi di intervenire in soccorso delle banche maggiori,
maggiormente esposte rispetto alla crisi. In assenza di tale intervento il contagio sarebbe
proseguito raggiungendo, in una fase successiva, anche le istituzioni inizialmente non
194
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
mercato sui titoli di debito di tutti gli operatori. Il drastico aumento coinvolge
pesantemente i titoli AAA, in linea di principio i più sicuri negoziati sul mercato; il
premio per il rischio rispetto ai titoli governativi sale da circa 80 punti base a luglio
2007 a 180 nel luglio 2008 fino a superare i 400 punti con una crescita pressoché
istantanea dopo il fallimento di Lehman (Figura 1). Il terzo grafico evidenzia come
la volatilità degli spread di questi titoli sia maggiore di quelli con rating inferiore
(Figura 3). Il secondo grafico mostra come l’innalzamento degli spread sia ancora
più marcato per i titoli di debito emessi dalle imprese finanziarie (Figura 2).
La conseguenza di questo innalzamento dei premi per il rischio è, ovviamente, la
caduta verticale dei prezzi delle attività finanziarie iscritte nei bilanci degli
intermediari finanziari; nella catena della crisi, questo fenomeno provoca dubbi sulla
tenuta del sistema. Il significato della decisione presa con riguardo a Lehman è, in
questo quadro, molto preciso: gli operatori hanno maturato la convinzione che il
circuito vizioso della crisi potesse non avere più termine.
Fig. 1: Spread dei titoli AAA sui titoli governativi
Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg
coinvolte. Cfr. Proietti L., Quattrociocchi B., 2009, op. cit.
ENRICO COTTA RAMUSINO
195
Fig. 2: Spread delle obbligazioni bancarie sui titoli governativi
Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg
Fig. 3: Spread dei titoli “investment grade” sui titoli governativi
Investm ent Grade Spread Volatility
350
300
250
AAA
200
AA
A
150
BBB
100
50
Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg
05/22/2009
11/30/2008
06/11/2008
12/18/2007
06/29/2007
01/05/2007
07/17/2006
01/24/2006
08/02/2005
02/10/2005
08/20/2004
03/01/2004
09/10/2003
03/21/2003
09/27/2002
04/10/2002
10/16/2001
04/24/2001
10/31/2000
05/11/2000
11/19/1999
06/02/1999
12/10/1998
06/22/1998
12/31/1997
0
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
196
Un’analisi complementare alla precedente è quella che esamina l’evoluzione dei
prezzi dei contratti espressivi del saggio di rischio attribuito dai mercati alle grandi
banche internazionali. È evidente la natura sistemica del fenomeno della crisi: essi
schizzano verso l’alto simultaneamente dopo il fallimento di Lehman e si riducono
solo dopo che in diversi paesi vengono annunciati e varati piani di intervento a
sostegno delle banche (Figura 4). Due verifiche empiriche sull’andamento dei “CDS
premia” appaiono interessanti: da un lato essi paiono legati più alla capacità di
intervento del paese d’origine della banca che al rischio specifico di questa;
dall’altro si rileva un effetto positivo incrociato in quanto i premi dei CDS delle
banche dei vari paesi beneficiano dell’intervento varato in altri paesi35. Nella
propagazione e nella cura della crisi, dunque, il sistema pare perfettamente coeso.
Fig. 4: Quotazioni dei credit default swap sul debito senior delle banche
Banks CDS (Senior Debt)
400
350
300
250
A SNR
200
C SNR
B SNR
150
100
04/08/20…
21/05/20…
09/03/20…
24/12/20…
10/10/20…
29/07/20…
15/05/20…
03/03/20…
19/12/20…
05/10/20…
24/07/20…
10/05/20…
26/02/20…
13/12/20…
29/09/20…
18/07/20…
04/05/20…
20/02/20…
07/12/20…
23/09/20…
12/07/20…
28/04/20…
14/02/20…
30/11/20…
16/09/20…
05/07/20…
21/04/20…
05/02/20…
19/11/20…
05/09/20…
24/06/20…
08/04/20…
23/01/20…
24/10/20…
06/08/20…
0
13/05/20…
50
Fonte: Elaborazioni su dati Bloomberg
Le autorità statunitensi non hanno tardato a pentirsi della scelta operata. Lo
dimostra il fatto che il giorno successivo alla decisione presa su Lehman, il colosso
assicurativo AIG è stato salvato con una iniezione di 85 miliardi di dollari, seguita
da altre cospicue sovvenzioni nei giorni e nei mesi successivi.
Dopo il tentennamento delle autorità statunitensi tutti i paesi coinvolti dalla crisi
decidono di intervenire per salvare quello che resta del sistema finanziario
35
Cfr. Panetta F., Faeh T., Grande G., Ho C., King M., Levy A., Signorelli F. M., Toboga
M., Zaghini A., “An Assessment of Financial Sector Rescue Programmes”, Banca
d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, Occasional Papers, luglio 2009.
ENRICO COTTA RAMUSINO
197
internazionale. Un recente studio, riferito ai primi undici paesi coinvolti nella crisi,
evidenzia le dimensioni degli interventi programmati e realizzati: i primi
ammontano ad un totale di 5 trilioni di dollari, con punte di 2,5 trilioni negli Stati
Uniti, pari al 18,6% del prodotto totale dei paesi considerati; i secondi, gli aiuti
erogati, ammontano invece a 2 trilioni, pari al 7,6 del prodotto lordo dei citati
paesi36.
2.3.3 Considerazioni conclusive
Queste argomentazioni evidenziano a nostro avviso con chiarezza la natura
incompiuta di quello che definiamo il sistema finanziario internazionale. Se la sua
struttura operativa è evoluta nel tempo verso un sempre maggiore grado di
integrazione, il sistema di sistemi della autorità di governo non ha tenuto il passo
con questa evoluzione, dimostrando un grave ritardo che la crisi ha puntualmente
evidenziato.
Quando anche, in un simile contesto, le autorità di un paese si convincano che i
comportamenti delle autorità di altri paesi possano produrre un rischio di portata
mondiale, quali strumenti avrebbero per esercitare non un controllo o una influenza
in grado di produrre qualche risultato? La risposta è semplice: nessuno. L’Unione
Europea o il Giappone, a titolo di esempio, non erano nelle condizioni di esercitare
alcuna influenza sulle autorità statunitensi su questioni tanto cruciali quali la
vigilanza sulle banche di investimento, il controllo delle agenzie di rating o, per
continuare negli esempi, la gestione della crisi. Da questi punti essenziali, come
evidenzierò nelle conclusioni, è necessario partire oggi per la costruzione del
sistema.
3. Comportamenti imprenditoriali, incentivi e dissonanza sistemica
La seconda via lungo la quale si sviluppa la presente analisi è quella dei
comportamenti imprenditoriali, anch’essa particolarmente ricca di elementi causali
rispetto al fenomeno della crisi.
Vale subito precisare che l’attributo “imprenditoriale” si riferisce, nel caso delle
imprese di cui si tratta, caratterizzate per una strutturale separazione tra proprietà e
controllo, alle azioni poste in essere dalla coalizione manageriale alla quale è
affidato il governo delle imprese, finanziarie in questo caso. Queste imprese
costituiscono, come si è detto, la struttura operativa del sistema ma sono a loro volta
composte da un organo di governo e da una struttura operativa. È alla razionalità
dell’organo di governo di queste imprese che dobbiamo guardare per comprendere
pienamente la crisi. Abbiamo in precedenza affermato come le imprese di cui si
36
I paesi analizzati sono Stati Uniti (2.491 miliardi di dollari impegnati; 825 erogati), Gran
Bretagna (845; 690), Francia (368; 104), Germania (700; 151), Olanda (265; 99), Italia
(10; 2), Spagna (31 erogati), Giappone (113; 3), Svizzera (31 erogati), Australia (62
erogati) e Canada (0). Cfr. Panetta F. et al., 2009, op. cit.
198
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
tratta si sono incontrate nell’arena competitiva internazionale portando con sé
orientamenti imprenditoriali assai differenti in virtù dell’appartenenza a sistemi
nazionali differenziati, ciascuno dei quali sintesi dello schema delle relazioni che
ciascuna di essa aveva con i propri regulator da un lato e con i propri stakeholder
dall’altro.
La tesi che si intende sostenere è che il perverso funzionamento dei meccanismi
di incentivazione manageriale, distorcendo i comportamenti imprenditoriali, ha
progressivamente posto in contrasto interessi individuali e collettivi. In questo
quadro, lo sviluppo dell’intelligenza individuale degli operatori si è realizzato in
totale spregio dell’obiettivo della consonanza sistemica, concentrandosi
esclusivamente sugli interessi dell’elite o, se si preferisce, della lobby manageriale
di governo.
Questa situazione si è determinata attraverso un processo di evoluzione e di
stratificazione storica, accentuatasi nel corso dei due ultimi decenni, che ha
interessato complessivamente il modello della public company; nel caso particolare
delle imprese finanziarie fattori specifici si sono aggiunti, esasperandoli, a quelli di
ordine generale.
3.1 Il “tradimento” della public company
Tra le radici remote della crisi trova indubbiamente posto, in posizione di
preminenza, il malfunzionamento della democrazia societaria ed economica che ha
caratterizzato, con asprezza crescente, il modello di governance delle grandi imprese
statunitensi. Il tema non è circoscrivibile a quel sistema economico ma è di quelli
rilevanti ai fini della comprensione delle future dinamiche evolutive delle istituzioni
del capitalismo su scala globale. Questa affermazione si motiva con il fatto che
risulta in tutta evidenza crescente il numero delle imprese che, anche in sistemi
economici diversi da quelli di matrice anglosassone, assume una veste strutturale di
questa specie, particolarmente connaturata a sostenere i processi di crescita delle
imprese su scala mondiale. Una corretta gestione dei processi di governance
all’interno di questo modello rappresenta, in sintesi, un elemento essenziale per
garantire un equilibrato soddisfacimento degli interessi degli stakeholder dell’elite
dimensionale delle imprese mondiali, con conseguente beneficio sulla stabilità
complessiva del sistema. Al contrario, il perdurare di assetti quali quelli che ci
hanno condotto alla crisi e la loro esportazione su scala globale - attraverso processi
imitativi già avviati, seppur in scala ben minore, in altri sistemi - determinerà un
probabile ritorno alla situazione che oggi stiamo vivendo.
3.1.1 Le ragioni, le evidenze e le conseguenze
In cosa consiste quello che ho chiamato il tradimento della public company? In
sintesi, esso si sostanzia in una ormai palese inadeguatezza del modello, così come
declinato negli Stati Uniti, a rappresentare in modo equilibrato le istanze e le
esigenze delle due categorie di stakeholder che qualificano questa struttura, gli
ENRICO COTTA RAMUSINO
199
azionisti e i manager; un processo evolutivo iniziatosi a far tempo dalla metà degli
anni Ottanta del secolo scorso ha infatti profondamente modificato la distribuzione
di quello che noi definiamo il “potere contrattuale”, a tutto vantaggio dei secondi. La
questione non interessa solo ai fini di una valutazione di equità ovvero, pur
rilevante, di ordine etico. Ciò che maggiormente preme in questa sede - ove
argomentiamo di instabilità, crisi e recessione - è rilevare come gli sviluppi
intervenuti abbiano oggettivamente posto in discussione il postulato dell’efficienza
economica che sembrava naturalmente sotteso a questa architettura d’impresa37.
Cercherò in via sintetica di porre in luce, di questo fenomeno, le radici logiche,
le evidenze empiriche dello scostamento rispetto alle premesse e alle promesse, le
ragioni strutturali di tale scostamento.
Il modello della public company ha origine per motivazioni storicamente
acclarate: la crescita dimensionale molto rapida delle imprese, l’apertura degli
assetti proprietari, la scomparsa dell’azionista di riferimento, la proprietà che diviene
conseguentemente diffusa, il controllo totalmente affidato alla coalizione
manageriale.
Quest’ultima ha regole d’ingaggio molto chiare: la legittimazione del suo ruolo
poggia sulla capacità di dimostrare come il suo operato sia in linea con gli interessi
degli azionisti e, dunque, della collettività38; la dimostrazione di tale capacità viene
misurata con le performance economiche dell’impresa, valutate, nel tempo, con una
metrica progressivamente sempre più sofisticata.
Di qui il principio della creazione di valore, sul quale mi preme fare
un’osservazione. In conseguenza della crisi abbiamo assistito a numerosi attacchi al
principio della creazione di valore per gli azionisti; si è detto che esso sta alla radice
degli atteggiamenti speculativi delle banche che hanno originato la crisi e che tale
principio andrebbe sottoposto a una dura revisione. Pur non avendo nulla contro le
revisioni, se ci conducono ad un miglioramento, mi permetto di osservare che
colpevole non è il principio che, anzi, non ha a mio avviso alternative credibili, ma
la sua declinazione. Come dimostrano diverse ma convergenti evidenze empiriche il
management ha prevalentemente operato al fine di creare valore per sé, non per
l’azionista39.
Torniamo al tema generale dell’evoluzione strutturale del modello della public
company.
Per verificare il rispetto, da parte del management, delle regole di ingaggio sopra
citate, il modello prevede, in linea di principio, tre modalità:
- il controllo del management attraverso i processi interni di governance
dell’impresa, imperniati sul ruolo del board, lunga mano degli azionisti;
- il varo di piani di incentivazione tesi ad allineare gli interessi (i compensi in
termini più prosaici) dei manager a quelli degli azionisti;
37
38
39
Cfr. Becht M., Bolton P., Roell A., “Corporate Governance and Control”, National
Bureau of Economic Research, Working Papers Series, n. 9371, December 2002.
Golinelli G.M., “Recenti Sviluppi nelle Relazioni tra Economia e Finanza nel Governo
dell’Impresa”, Sinergie, n. 67, 2005. Cotta Ramusino E., 2007, op. cit.
Cfr. infra, par. 3.1.2
200
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
-
e, da ultimo, la disciplina posta dal mercato (vale a dire dai grandi investitori),
con l’estrema ratio del takeover ostile pendente, come una spada, sul capo dei
manager non performanti.
L’evoluzione storica ci ha mostrato, con chiarezza, che questo insieme di
meccanismi ha smesso da tempo di funzionare. Se vogliamo fissare la fase
temporale nella quale ha avuto inizio il disinnesco di questi deterrenti possiamo
andare alla seconda metà degli anni Ottanta. Da allora il potere manageriale è
cresciuto incontrastato e la proprietà è parallelamente scomparsa. Le ragioni sono
diverse e sono state messe in risalto dagli studi scientifici in materia40.
I. Il funzionamento dei board - che dovrebbero realizzare la prima forma di
controllo sul management, determinando un bilanciamento dei poteri di questo
rispetto a quello degli azionisti - non ha, secondo molti osservatori, espresso il
necessario grado di efficacia41. È stato sottolineato come il crearsi di strette relazioni
tra membri del board - frequentemente eletti in base a liste predisposte dal
management - e top management tenda a rendere i primi eccessivamente
acquiescenti nei confronti dell’operato dei secondi42. Nemmeno il requisito
dell’indipendenza degli amministratori - caratteristica della maggior parte delle
società quotate43 - è apparso sufficiente a garantire né un adeguato livello di
controllo sull’operato del management, né la necessaria “distanza” dallo stesso, né
concreti effetti sulla performance di medio lungo termine dell’impresa44. Le analisi
condotte su significative popolazioni di consiglieri di amministrazione rivelano
come tali soggetti siano i primi ad essere consapevoli del gap tra il modo in cui essi
esercitano il proprio ruolo e le attese che su di essi si concentrano45.
40
41
42
43
44
45
Bebchuk L., “The case for increasing shareholder power”, Harvard Law Review, Vol.
118, n. 3, pp. 833-917, 2005; Bebchuk L., “The myth of shareholder franchise”, Harvard
Law School, Discussion Paper, Vol. 565, n. 11, 2006; Bebchuk L., Audizione presso il
Committee on Financial Services della Camera dei Rappresentanti, 8 marzo 2007; Cotta
Ramusino E., 2007, op. cit.
Cfr. tra gli altri, Becht M., Bolton P., Roell A., 2002, op. cit.
Cfr. Bebchuk L., Fried J.M., “Pay without performance: overview of the issues”, Journal
of Applied Corporate Finance, Vol. 17, n. 4, pp. 8-23, 2005.
Molte società quotate hanno consigli composti da amministratori nominalmente
indipendenti per oltre due terzi; le “listing rules” del NYSE e del NASDAQ prevedono
che vi sia maggioranza di amministratori indipendenti e in molte società quotate si
possono osservare consigli composti per intero da amministratori indipendenti, ad
eccezione del CEO, che talvolta coincide con la figura del Presidente. In aggiunta a ciò, si
deve ricordare come le verifiche empiriche non conducano in alcun modo a conclusioni
univoche in tema di relazioni tra composizione del Board e performance dell’impresa.
Cfr. sul tema in oggetto, Dallas G.S. e Scott H.S., “Mandating corporate behavior: can
one set of rules fit all?” Panel discussion programm on international financial systems,
Harvard Law School and Standard & Poors, New York, 2005.
Cfr. Bhagat S., Black B.S., “The uncertain relationship between board composition and
firm performance”, Journal of Corporation Law, Vol. 27, n. 2, pp. 231-274, 2002.
In un survey del 2002 citato dal National Bureau of Economic Research è stato rilevato
ENRICO COTTA RAMUSINO
201
Da ultimo, alcune prassi diffuse in molte public company, quali, ad esempio,
quella dei cosiddetti “staggered board”46, al contrario, fanno sì che gli stessi
consiglieri vengano a porsi quale ostacolo all’iniziativa degli azionisti, con il
risultato di lederne gli interessi economici47.
II. Anche il secondo meccanismo di ricomposizione dei conflitti, quello degli
incentivi azionari attributi ai top manager allo scopo di allinearne gli interessi a
quelli degli azionisti, non ha conseguito i risultati attesi. I piani di incentivazione si
sono diffusi in modo pervasivo nelle public company a partire dalla metà degli anni
Ottanta sul presupposto logico che manager/azionisti - attuali o potenziali potessero essere maggiormente stimolati a porre in essere comportamenti coerenti
con il principio della creazione di valore. L’osservazione delle pratiche poste in
essere e delle conseguenze che ne sono derivate ci porta a conclusioni lontane dalle
attese, per ragioni di natura diversa, che cerco ora di illustrare.
La prima considerazione che ci sentiamo di proporre sul tema in oggetto ha
carattere generale. In linea di principio è ragionevole pensare che tali piani
dovrebbero essere il risultato di una serrata negoziazione, tra manager e azionisti, in
forza della quale i secondi dovrebbero validare, attraverso l’operato del board, la
congruità dei piani in oggetto rispetto ai propri interessi. Nuovamente, viene anche
in questo caso coinvolto il funzionamento della democrazia societaria poiché se
l’azionista non è sufficientemente presente e il board che lo rappresenta non svolge
in modo adeguato la propria funzione di controllo, è facile ipotizzare che tali piani
46
47
che molti amministratori (il 71% degli intervistati) ritenevano che sarebbe stato opportuno
potenziare l’attività di monitoraggio svolta dal Consiglio (per esempio organizzando
“executive sessions” con il CEO, che si verificavano solo nel 45% dei casi); inoltre, il
60% degli intervistati riteneva che sarebbe stato opportuno avere una figura di “lead
director” (presente solo nel 37% dei casi). Cfr. Kaplan N.S., Holstrom B., “The State of
Us Corporate Governance: What’s Right and What’s Wrong?”, NBER Working Paper
Series, n. 9613, April 2003. Un survey realizzato da Mc Kinsey nel febbraio di quest’anno
e focalizzato sulle modalità con le quali i board hanno affrontato la crisi, nuovamente,
rivela uno stato di ampia insoddisfazione circa la distanza tra le attese e i risultati concreti.
Il dato appare interessante perché fondato su rilevazioni effettuate presso gli stessi
componenti dei board; cfr. Mckinsey Quarterly, “Governance in the Crisis”, n. 3, 2009.
Questa fattispecie ricorre quando una società ha consiglieri eletti per differenti orizzonti
temporali, cosicché la loro scadenza non si realizza in un unico istante. Il potenziale
acquirente (ma anche gli azionisti che promuovono un’azione finalizzata al ricambio del
board) non ha pertanto la possibilità di sostituire la maggioranza dei membri in una sola
assemblea annuale ma deve ricorrere ad almeno due assemblee, l’una ad un anno
dall’altra. Questa prassi di governance, diffusa presso molte imprese quotate, riduce la
loro vulnerabilità ad attacchi esterni e, di conseguenza, la loro contendibilità. Studi
condotti su questo tema evidenziano una correlazione negativa tra valore dell’impresa e
presenza di “staggered boards”. Cfr. Bebchuk L., Cohen A., “The cost of entrenched
boards”, Journal of Financial Economics, Vol. 78, pp. 409-433, 2005.
Cfr. Bebchuk L., Coates J.C. IV, Subramanian G., “The powerful antitakeover force of
staggered boards. Theory, evidence and policy”, National Bureau of Economic Research,
Working Papers Series, n. 8974, 2002.
202
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
vengano strutturati secondo l’interesse prevalente del management. Quando i
contratti di opzione interessano quantitativi molto elevati di azioni - e l’esercizio
delle stesse comporta remunerazioni nell’ordine delle decine, talvolta centinaia di
milioni di dollari - si torna al problema centrale della governance: chi stabilisce le
regole di distribuzione del valore creato?
La seconda osservazione è di natura più specifica e riguarda la struttura e la
distribuzione temporale degli incentivi. Questo aspetto non può essere derubricato al
rango di questione tecnica in quanto la sua declinazione può largamente influenzare
la patologia nel funzionamento di questi meccanismi. Due distinte fattispecie
rilevano su questo fronte. La prima è riconducibile alla circostanza che la stretta
correlazione tra remunerazione del top management e andamento dei corsi azionari
può indurre il management a porre in essere azioni che, indipendentemente
dall’effetto di medio lungo periodo sul posizionamento competitivo dell’impresa,
massimizzino l’andamento dei prezzi azionari nel breve termine (o sull’orizzonte
temporale rilevante per l’esercizio delle opzioni)48; è il tema dello “short termism”,
sul quale tornerò fra breve. La seconda declinazione della patologia ha carattere
molto più concreto e si riferisce essenzialmente ai comportamenti fraudolenti che il
management, mosso dall’avidità, potrebbe essere indotto a porre in essere.
Manipolazioni contabili e falso in bilancio sono esempi tragicamente concreti
attraverso i quali il management cerca di produrre un artificioso rialzo dei corsi
azionari49. La recente emersione di una serie molto diffusa di casi definiti di
“options’ backdating” - una pratica in forza della quale i board di molte società, su
pressione dei rispettivi top manager, avrebbero accettato di retrodatare i contratti di
stock option di cui questi ultimi erano i beneficiari, allo scopo di collocarne la
decorrenza in istanti temporali favorevoli50 - rappresenta un altro esempio di
48
49
50
Intendiamo in questo modo riferirci al tema dell’orientamento a breve termine del
management, diffusamente trattato in letteratura, indicatore dei negativi effetti dei mercati
finanziari sul comportamento delle imprese. Cfr. Cotta Ramusino E., “Imprese e sistema
finanziario in Italia, problemi e prospettive”, Sinergie, n. 38, pp. 51-72, 1995. Tra i
contributi ivi citati, si segnala, in particolare: Stein J.C., “Efficient Capital Markets,
Inefficient Firms: A Model of Myopic Corporate Behaviour”, The Quarterly Journal of
Economics, Vol. 104, n. 4, November 1989.
I piani di stock option vengono in questa prospettiva accusati di massimizzare il beneficio
riveniente dal comportamento fraudolento.
Si tratta, in pratica, di retrodatare le opzioni allo scopo di collocarne la decorrenza in
momenti di prezzi azionari particolarmente bassi, in modo da attribuire ai manager contrariamente alla prassi tradizionalmente seguita in passato di conferire le opzioni ai
prezzi correnti - contratti di opzione aventi già in partenza un valore intrinseco positivo.
Questo modo di procedere rende ovviamente molto più probabile, quando non certa, la
convenienza all’esercizio futuro. La pratica contempla numerose e differenziate
fattispecie, talune illegali, in specie quando si associano alla mancata trasparenza sui
benefici concessi al management e sui relativi costi a carico dell’impresa, e altre che, pur
non violando espliciti obblighi di legge, sono invece in aperto conflitto con il principio di
fiducia in forza del quale il management dovrebbe operare nell’interesse degli azionisti.
Al momento in cui si scrive, ad inizio 2007, vi sono oltre 200 società indagate per
ENRICO COTTA RAMUSINO
203
comportamento fraudolento. Tutto ciò non ha fatto che esacerbare il dibattito sulla
liceità dei compensi dei top manager e ha diffuso la consapevolezza in merito alla
scarsa efficacia dei meccanismi di controllo sul loro operato.
III. Il terzo meccanismo in grado di risolvere i conflitti di agenzia è rinvenibile
nella cosiddetta “disciplina di mercato”, elemento centrale nella regolazione del
funzionamento di un sistema capitalistico fondato sul modello della public company.
Esso si declina in due distinte fattispecie, l’attivismo degli investitori chiamati a
controllare in itinere l’operato e i risultati del management da un lato, e la minaccia
dei takeovers ostili dall’altro.
In merito al primo aspetto non possiamo non rilevare una discrasia tra quanto
ipotizzabile in termini astratti e una prassi che si rivela, non di rado, assai distante.
Poichè le analisi empiriche dimostrano come i grandi investitori istituzionali siano
strutturalmente51 i principali azionisti delle imprese statunitensi52 e poiché le
partecipazioni che essi detengono sono finalizzate alla produzione del massimo
rendimento per i risparmiatori che ad essi si affidano, si tende ad ipotizzare che
questi soggetti si impegnino in azioni di monitoraggio sull’operato del management,
finalizzate ad ottenere il massimo sforzo, da parte di questi, nel perseguimento
dell’obiettivo di massimizzazione del valore per l’azionista. L’attivismo diviene, in
questa prospettiva, un’azione nell’interesse dello stesso investitore; la probabilità
51
52
l’esercizio di queste pratiche. L’Institutional Shareholder Services pubblica sul proprio
sito le evoluzioni del fenomeno e i consigli agli investitori in merito ai comportamenti da
tenere nel caso essi abbiano investito in società coinvolte in queste pratiche. Il fenomeno è
seguito costantemente dalla stampa internazionale ed è oggetto di valutazione da parte
della Securities and Exchange Commission. I primi studi empirici, che iniziano a
comparire sull’argomento, rilevano come tali prassi si verifichino con maggiore frequenza
in imprese caratterizzate da modesti standard di governance. Collins, Gong e Li (2007)
analizzano un articolato set di indicatori di corporate governance e li correlano con
l’incidenza delle pratiche di backdating. Il tema, inoltre, era già stato affrontato da Lie
(2005) - che rinveniva rendimenti anomali negativi prima della data di conferimento delle
opzioni e rendimenti anomali positivi dopo questa data - adombrando il sospetto che
molte delle opzioni fossero, come poi infatti si è scoperto, retrodatate. Cfr. Collins D.W.,
Gong G., Li H., “Corporate governance and backdating of executive stock options”,
www.ssrn.com, 2007; Lie E., “On the timing of CEO stock option awards”, Management
Science, Vol. 51, 2005; cfr. anche Fried J., “Option Backdating and its Implications”,
www.ssrn.com, 2008.
Con questa affermazione intendiamo sottolineare come gli investitori istituzionali tendano
a mantenere le proprie partecipazioni nelle imprese in modo sostanzialmente durevole. A
supporto di questa affermazione possiamo citare ragioni essenzialmente legate agli stili di
gestione di portafoglio seguiti da questi soggetti. A maggior ragione nel caso di gestione
orientata alla replicazione di indici ma anche nel caso di stili maggiormente attivi, gli
investitori di questa specie non possono azzerare le proprie partecipazioni in società
rilevanti nei diversi mercati in quanto queste azioni tenderebbero naturalmente ad
allontanare la performance di gestione da quello di investitori comparabili. Si tratta di un
rischio che non molti investitori intendono assumere.
Cotta Ramusino E., 2007, op. cit.
204
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
che esso si impegni nell’azione di monitoraggio del management è proporzionata
alla sua forza relativa e ai risultati che questi comportamenti sono ipotizzati
produrre.
Se, in linea di principio, questa argomentazione pare fondata su solide basi di
razionalità, l’osservazione empirica ha invece portato molti studiosi a concludere
come l’attivismo dei grandi investitori risulti, nella pratica, assai inferiore
(insufficiente, secondo molti) rispetto a quello che sarebbe logico attendersi53.
Le ragioni dello scarso attivismo sono state ampiamente indagate in numerosi
contributi ai quali rinviamo, limitandoci a dare conto di alcune conclusioni sulle
quali si rileva forte convergenza di opinioni54. In primo luogo occorre ricordare che
tra i fondi pensione e le compagnie di assicurazione - detentori, nel 2005, del 26%
delle azioni delle società statunitensi55 - solo i fondi di natura pubblica (detentori del
10,3%) mostrano significativi segnali di attivismo56. La cautela e lo scarso attivismo
dei fondi di investimento - detentori del 25% delle azioni delle imprese statunitensi viene spesso imputata alla volontà di non pregiudicare, con i propri comportamenti
di opposizione, le relazioni con le imprese che rappresentano potenziali clienti per i
servizi di asset management o di investment banking, offerti dai gruppi finanziari ai
quali i fondi stessi appartengono57.
53
54
55
56
57
Si veda Black (1998): “I survey corporate governance activity by institutional investors in
the United States, and the empirical evidence on whether this activity affects firm
performance. A small number of American institutional investors, mostly public pension
plans, spend a trivial amount of money on overt activism efforts. They don’t conduct
proxy fights, and rarely try to elect their own candidates to the board of directors. Legal
rules, agency costs within the institutions, information costs, collective action problems,
and limited institutional competence are all plausible partial explanations for this relative
lack of activity. The currently available evidence, taken as a whole, is consistent with the
proposition that the institutions achieve the effects on firm performance that one might
expect from this level of effort - namely, not much”. Cfr. Black B.S., “Shareholder
activism and corporate governance in the United States”, in Newman P. (ed.), The New
Palgrave Dictionary of Economics and the Law, 1998 e, dello stesso autore, “Shareholder
passivity reexamined”, Michigan Law Review, Vol. 89, pp. 520-608, 1990.
Cfr. Holton G.A., “Investor suffrage movement”, Financial Analysts Journal, Vol. 62, n.
6, pp. 15-20, 2006; Gillan S.L., Starks L.T., “Corporate Governance, Corporate
Ownership and the Role of Institutional Investors: A Global Perspective”, Journal of
Applied Finance, n. 2/2003.
Board of Governors of the Federal Reserve System.
Si veda Holton G.A., 2006, op. cit. L’autore rileva peraltro come i fondi pensione di
natura pubblica debbano essere cauti nelle loro azioni di intervento. Comportamenti di
eccessiva opposizione al management aziendale potrebbero essere interpretati come un
atteggiamento “antibusiness” e sottoposto a pressioni di natura politica. In merito ai fondi
pensione privati, Holton rileva, semplicemente, che essendo essi gestiti da manager, è
ragionevole attendersi una scarsa azione contro altri manager. Le osservazioni, recenti, di
Holton riprendono e confermano un’analisi già effettuata da Black nel 1990. Si veda
anche, Smith M.P., “Shareholder activism by institutional investors: evidence from
Calpers”, Journal of Finance, Vol. 5, n. 1, pp. 227-252, 1996.
La circostanza viene rilevata e confermata, in istanti diversi, dai lavori di Black (1998),
ENRICO COTTA RAMUSINO
205
Non stupisce, in questa prospettiva, lo scarso attivismo. L’operatore che decida
di agire pregiudica le proprie potenziali relazioni di clientela per ottenere vantaggi
che vanno divisi tra tutti gli azionisti. Gli investitori inattivi, per contro, beneficiano
del risultato dell’azione di quello attivo senza sostenerne i relativi costi; il movente
per compiere il primo passo appare, pertanto, oggettivamente debole.
In tempi recenti si sono avuti segnali concreti di attivismo da parte di altre
categorie di investitori, i fondi di private equity e gli hedge fund. In forza delle loro
particolari caratteristiche, queste categorie di investitori sembrano in grado di
rendersi protagonisti58, di comportamenti maggiormente attivi rispetto ai tradizionali
investitori istituzionali. Questi sviluppi stanno generando differenti reazioni; mentre
da un lato si segnala la crescente influenza di questi operatori sui comportamenti
delle imprese, non mancano, da parte di queste ultime, espressioni di
preoccupazione per i comportamenti estremamente aggressivi e l’orientamento al
breve termine espresso da questi soggetti59. Benché per una valutazione più
ponderata sia necessario attendere gli esiti delle evoluzioni in corso - con la ulteriore
crescita del comparto a livello mondiale potremo verificare, nel tempo, il permanere
delle attitudini all’attivismo sul fronte della corporate governance60 - la dimensione
complessiva dei patrimoni gestiti da questi soggetti non è ancora in grado di portare
ad influenze diffuse sui comportamenti delle imprese61.
58
59
60
61
Gillan e Starks (2003) e Holton (2006).
L’assenza di obblighi di diversificazione del patrimonio, la possibilità di utilizzare
strumenti derivati e leva finanziaria, la possibilità di procurarsi diritti di voto attraverso
operazioni di prestito titoli, rappresentano elementi che, uniti alla minore dimensione e
alla circostanza che i gestori sono i beneficiari primi delle performance prodotte, possono
agevolare comportamenti attivi e particolarmente aggressivi. Sul tema si vedano, tra gli
altri: Klein A., Zur E., “Hedge fund activism”, European Corporate Governance Institute,
Working Paper Series in Finance, n. 140, 2006.
Cfr. Dallas G.S., Scott H.S., 2005, op. cit.
Segnaliamo come l’industria europea degli hedge fund si vada arricchendo di tipologie di
fondi che dichiarano, in termini di strategia di investimento, la propria specializzazione
nei comportamenti “attivi” nella governance delle imprese. Casi anche eclatanti di
interventi attivi di fondi di private equity e di fondi hedge si sono recentemente avuti,
oltre che negli Stati Uniti, anche in Europa. Si pensi, tra gli altri, ai casi di Deutsche
Börse, Sainsbury, ABN AMRO, Carrefour, etc.
Il contributo di Klein e Zur (2006) pone in luce come questi fondi tendano ad investire in
modo diverso rispetto allo schema tradizionale che prevede l’intervento in aziende poco
performanti allo scopo di rilanciarne la gestione; le evidenze presentate rivelano,
piuttosto, come gli hedge fund tendano ad investire in aziende profittevoli caratterizzate
da ampie disponibilità di cassa. L’obiettivo sembra essere quello di estrarre le risorse
finanziarie in eccesso inducendo le aziende partecipate a pagare dividendi straordinari;
questa manovra ha l’effetto di ridurre i conflitti di agenzia legati al “free cash flow” (le
risorse finanziarie in eccesso rispetto al fabbisogno di investimento dell’impresa che i
manager dovrebbero restituire agli azionisti, mentre, nei fatti, viene spesso trattenuto per
realizzare progetti che non sempre arrivano a massimizzare gli interessi degli azionisti
stessi). Sul tema si veda: Jensen M.C., “The agency costs of free cash flow: corporate
finance and takeovers”, American Economic Review, Vol. 76, n. 2, pp. 323-329, 1986.
206
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
Anche i takeover paiono essere uno strumento maggiormente efficace nella
teoria che nella pratica. Gli studiosi che hanno analizzato l’evoluzione storica di
medio lungo periodo delle operazioni in oggetto hanno posto in chiara luce la
fondamentale trasformazione avvenuta tra gli anni Ottanta e il periodo successivo,
che arriva fino a noi.
Mentre gli anni ottanta sono stati caratterizzati da una grande ondata di takeover
(spesso) ostili (prevalentemente finanziati con debito)62, a partire dagli anni
Novanta, le operazioni ostili sono divenute più difficili e oggi sono considerate
eventi piuttosto rari63.
Tra le ragioni addotte per spiegare questo cambiamento ricordiamo gli
impedimenti di natura giuridica alle operazioni di scalata ostile. Le legislazioni
antitakeover promulgate da numerosi stati alla fine degli anni Ottanta hanno
consentito alle imprese di dotarsi diffusamente di meccanismi anti scalata64.
3.1.2 Potere manageriale e debolezza della proprietà
Le argomentazioni fin qui sviluppate hanno posto in luce le ragioni logiche di
una evoluzione di lungo periodo in forza della quale la democrazia societaria che
caratterizza la public company sarebbe progressivamente degenerata determinando
uno sbilanciamento di poteri tra azionisti e manager, a tutto vantaggio dei secondi
rispetto ai primi. Due sono le evidenze empiriche a supporto delle affermazioni
precedenti: l’evoluzione dell’executive compensation da un lato, fenomeno già posto
62
63
64
Cfr. Kaplan N.S., Holstrom B., “Corporate governance and merger activity in the United
States: making sense of the 1980s and 1990s”, Journal of Economic Perspectives, Vol.
15, n. 2, 2001; Burkart M., Panunzi F., “Takeovers”, European Corporate Governance
Institute, Working Paper Series in Finance, Vol. 118, 2006.
Cfr. Becht et al., 2002, op. cit. Nello studio si sostiene che a) anche nel periodo di
massima diffusione di queste operazioni - gli anni Ottanta - la percentuale di imprese
quotate oggetto di scalata non eccedette mai la percentuale dell’1,5%; b) la percentuale di
operazioni ostili sul totale, in quel periodo, non fu mai superiore al 30%; c) tra il 1990 e il
1998 solo il 4% delle operazioni fu di carattere ostile. Si veda anche Kaplan N.S.,
Holstrom B., 2001, op. cit.
Cfr. Becht et al., 2002, op. cit., p. 71. In conseguenza di queste evoluzioni, il numero di
takeover ostili è molto diminuito e la loro probabilità di successo si è molto ridotta. Nello
stesso senso si esprimono Bebchuk et al., 2002, op.cit. I meccanismi antiscalata
comprendono, oltre al già citato esempio dei cosiddetti “staggered boards”, le cosiddette
“poison pills”, strumenti variamente disegnati, usati dalle imprese per rendere difficile,
finanche impossibile, la realizzazione di scalate ostili da parte di potenziali acquirenti.
Comparsi sulla scena all’inizio degli anni Ottanta, questi strumenti consentono al
consiglio di amministrazione - frequentemente senza il bisogno di un’approvazione da
parte dell’assemblea dei soci, come nel caso della legge dello stato del Delaware, una tra
le più utilizzate dalla società americane - di prevedere azioni che riducono la convenienza
dell’acquirente (ostile) a portare a termine l’operazione (il caso più tipico è quello della
previsione di emissione di nuove azioni riservate ai vecchi azionisti che ha l’effetto di
diluire la quota acquisita dallo scalatore).
ENRICO COTTA RAMUSINO
207
in luce da numerosi studi empirici pubblicati ben prima della crisi, e la stabilità del
vertice manageriale dall’altro.
Sul primo fronte, quello della management compensation, disponiamo di dati
molto chiari, che evidenziano due fenomeni. Il primo è quello della crescita
vertiginosa, realizzatasi a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, dei
compensi dei manager apicali delle public company, accompagnato da una struttura
della remunerazione caratterizzata da una componente sempre maggiore di
incentivazione azionaria (restricted shares e stock option).
Senza entrare in eccessivo dettaglio, ricordo solo un dato che illustra in modo
chiaro le proporzioni del fenomeno di cui si discute: il rapporto tra compenso del
CEO e stipendio medio del lavoratore, pari a 40 negli anni Settanta, a 69 negli anni
Ottanta, sale a 187 negli anni Novanta e a 367 nei primi anni di questo secolo65.
Il secondo fenomeno è quello della correlazione tra compenso e performance
dell’impresa, argomento centrale nel funzionamento di questo modello di
capitalismo, nel quale il bravo manager/imprenditore può legittimamente ricevere
compensi ricchissimi in quanto il suo ruolo è quello di creare ricchezza per tutti.
Numerosi studi empirici hanno mostrato invece come il management sia
progressivamente riuscito, grazie al potere accumulato nel tempo, a rompere la
correlazione in oggetto. In altre parole, numerosi studi hanno dimostrato la capacità
del management di percepire ricchi compensi anche indipendentemente dalle
performance espresse dall’impresa gestita66. I tentativi di trovare una spiegazione
teorica al fenomeno di cui si tratta67 non hanno a nostro avviso prodotto risultati
convincenti.
65
66
67
La stima è contenuta in Frydman C., Saks R., “Historical trends in executive
Compensation 1936-2003”, Harvard University, Mimeo, web.mit.edu/frydman/
www.research.htm, 2004. Altre stime sono quelle operate dal National Bureau for
Economic Research (NBER) secondo il quale il rapporto tra la remunerazione del CEO e
lo stipendio medio dei lavoratori, compreso in un intorno tra 15 e 20 in Europa, supera il
valore di 400 negli Stati Uniti; Cfr. Kaplan N.S., Holstrom B., 2003, op. cit. Evidenze
analoghe sono rinvenibili in altri contributi, tra i quali citiamo i seguenti: Bebchuk L.,
Grinstein Y., “The growth of executive pay”, Oxford Review of Economic Policy, Vol. 21,
n. 2, pp. 283-303, 2005; Dallas G.S., Scott H.S, 2005, op. cit. Evidenze simili sono citate
in un saggio di Buck, Shahrim e Winter (2004), che fanno riferimento ad analisi condotte
da Tower Perrin sulle imprese statunitensi con più di 500 milioni di dollari di fatturato;
per queste imprese la retribuzione totale media dei CEO è stata, nel biennio 2000/2001,
pari a 1,93 milioni di dollari, un valore pari a 531 volte la retribuzione media dei
dipendenti delle stesse imprese. Stime basate su differenti metodologie ma che conducono
a conclusioni simili sono state pubblicate nel numero dell’Economist del 20 gennaio
2007. Cfr. Buck T., Shahrim A., Winter S., “Executive stock options in Germany: the
diffusion or translation of US - style corporate governance?”, Journal of Management and
Governance, Vol. 8, n. 2, pp. 176-186, 2004.
Cfr. in particolare, Bebchuk L., Fried J.M., 2005, op. cit.; Bebchuk L., Grinstein Y., 2005,
op. cit.; Frydman C., Saks R., 2005, op. cit.
Cfr. Thomas R.S., “Explaining the international CEO pay gap. Board capture or market
driven?”, Vanderbilt University Law School Law and Economics, WP, n. 03-05, 2005.
208
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
Sul fronte della stabilità dei manager apicali, studi recenti evidenziano con
puntuale precisione una realtà della quale si ha, peraltro, una percezione già
abbastanza chiara a livello intuitivo. Due contributi pubblicati nel corso degli ultimi
due anni68 hanno mostrato, tra i tanti, due risultati rilevanti, la tendenza del
management a permanere nella propria posizione anche in presenza di performance
insoddisfacenti e la riduzione del ricambio nel contesto della crisi69. Queste evidenze
empiriche ridimensionano pesantemente la stilizzazione generalmente accettata di
un top management costantemente alle prese con una disciplina di mercato rigorosa
puntuale e minacciosa.
3.2 Lo “short termism”
Queste premesse aiutano a mio avviso a collocare in una dimensione corretta il
tema dello short termism, un aspetto tanto rilevante quanto difficile da valutare e
ambiguo nelle sue manifestazioni.
Il modello anglosassone è stato ripetutamente accusato di soffrire l’eccessiva
pressione dei mercati finanziari e di produrre, come conseguenza, comportamenti
manageriali/imprenditoriali, eccessivamente orientati ad enfatizzare le performance
finanziarie a breve termine delle imprese e, parallelamente, un eccessivo grado di
instabilità70.
68
69
70
Karlsson P.O., Neilson G.L., Webster J.C., “Ceo Succession: The Performance Paradox”,
Strategy + Business, n. 51, Summer 2008; Karlsson P.O., Neilson G.L., “Ceo Succession:
Stability in the Storm”, Strategy + Business, n. 55, Summer 2009.
Nel secondo dei due studi citati alla nota precedente, basati sulle risultanze delle analisi di
Booz & Co., una delle maggiori società di consulenza a livello mondiale, si rileva come il
tasso di sostituzione dei CEOs delle 2.500 maggiori public company del mondo sia stato
del 14,4% (361 sostituzioni su 2.500 imprese), in leggero calo rispetto al 2007, vicino ai
livelli del 2006. Al fine di meglio comprendere il significato di questo dato occorre
rilevare che di queste 361 sostituzioni 180 sono da considerarsi “pianificate”
(pensionamenti, sostituzioni da tempo pianificate, malattia, etc.), 54 sono state la
conseguenza di operazioni di fusione/acquisizione e solo 127 sono state decise dal board
in forza di performance economico finanziarie insoddisfacenti da parte dell’impresa.
Tra la seconda metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso si
sviluppò un acceso dibattito sulla (presunta) debolezza intrinseca del modello di mercato,
ritenuto strutturalmente affetto da un orientamento eccessivo al breve termine. Questa
circostanza era, nelle valutazioni che allora venivano formulate, destinata a determinarne
un progressivo indebolimento e una irrimediabile perdita di competitività da parte degli
Stati Uniti rispetto a due potenze emergenti, il Giappone e la Germania, rappresentanti del
modello alternativo, definito stakeholder oriented, fondato sulla mediazione tra
stakeholder, meno influenzato dall’andamento dei mercati finanziari e più incline a
preservare la competitività di lungo periodo delle imprese. Cfr. Porter M., “Capital
Disadvantage: America’s failing Capital Investment System”, Harvard Business Review,
Vol. 70, n. 5, 1992; Stein J.C., 1989, op. cit.; Cable J., 1985, op. cit.; “Capital Market
Information and Industrial Performance: the Role of West German Banks”, Economic
Journal, Vol. 95, n. 3, 1985; Cotta Ramusino E., 1995, op. cit.; Ellsworth R.R., “Capital
Markets and competitive decline”, Harvard Business Review, Vol. 68, n. 5, 1985;
ENRICO COTTA RAMUSINO
209
Rispetto a questa rappresentazione ci sentiamo di proporre due considerazioni e
una domanda.
La prima considerazione riguarda la natura e la rilevanza del fenomeno. In
presenza di separazione tra proprietà e controllo, gli azionisti conferiscono al
management una delega alla gestione dei mezzi della produzione di cui sono
proprietari. Il delegante ha un ragionevole interesse a controllare, in itinere, il
delegato in relazione all’esercizio della delega e tale controllo si esplica valutando le
performance prodotte dall’impresa. Secondo la visione maggioritaria, pertanto, un
esercizio impaziente dell’azione di controllo produce la tanto citata “pressione” sul
management e, di conseguenza, la tendenza di questo a concentrarsi sui risultati di
breve periodo. La questione è rilevante. Il ruolo dei manager all’interno di una
struttura societaria nella quale l’azionista proprietario diviene progressivamente
meno presente e visibile assume chiaramente contenuto imprenditoriale. Un efficace
esercizio di questa funzione implica, ovviamente, il possesso da parte del
manager/imprenditore di capacità e di competenze adeguate al compito, ma ciò può
non essere sufficiente se manca il tempo necessario a realizzare il progetto
imprenditoriale; se l’orientamento al breve termine dell’azionista induce chi governa
l’impresa a concentrarsi primariamente sull’estrazione di valore dall’assetto in
essere dell’impresa e non ad investire sulla creazione di capacità di creazione di
valore sostenibile è il sistema economico nel suo complesso che rischia di subire una
perdita netta.
La seconda considerazione riguarda la nostra capacità di cogliere, in termini di
verifica empirica la dimensione di questo fenomeno, tanto chiaro da esporre in
termini astratti. Tradizionalmente, i contributi scientifici sul tema in oggetto
assumono quali indicatori (proxies) dello “short termism” variabili che colgono solo
parzialmente la manifestazione del fenomeno.
Un processo logico diffuso nelle verifiche empiriche è quello che si fonda
sull’osservazione di grandezze quali gli investimenti in ricerca e sviluppo - tipologia
di investimento atta a produrre effetti nel medio lungo termine - e che, dalla loro
dimensione ed evoluzione, cerca di trarre conclusioni sull’orientamento
dell’impresa. Questa impostazione non risulta a nostro avviso esaustiva, per due
ordini di ragioni. In primo luogo l’intensità di questi investimenti varia in funzione
del settore di operatività dell’impresa. In secondo luogo, e più importante, vale
ricordare come lo “short termism” possa essere dall’impresa declinato attraverso
altri e numerosi comportamenti, scarsamente visibili, e dunque rilevabili, all’esterno.
Poste sotto pressione dai mercati finanziari, le imprese possono reagire declinando i
propri comportamenti in modo più o meno orientato al breve termine in aree
(politiche di prodotto e di prezzo, investimenti materiali e nella comunicazione,
politiche del personale, etc.) che non si prestano ad una lettura (o almeno ad una
lettura univoca) da parte dell’analista esterno. Il fenomeno, in altre parole, tende per
sua natura a sfuggire alla verifica empirica. Complessivamente, le evidenze che ci
Strickland D., Wiles K.W., Zenner M., “A Requiem for the Usa: Is Small Shareholders
Monitoring Effective?”, Journal of Financial Economics, Vol. 40, pp. 329-338, 1996.
210
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
vengono consegnate, spesso contraddittorie, non consentono di trarre conclusioni
univoche sull’esistenza e sugli effetti dei comportamenti di questa specie71 anche se
resta forte, nell’esperienza concreta, la sensazione che molte delle decisioni
strategiche delle imprese quotate siano influenzate in modo determinante dai mercati
finanziari.
L’elemento di novità introdotto dai fenomeni che abbiamo esposto in precedenza
si sostanzia invece in una domanda: quali sono i soggetti orientati al breve termine?
Nella sua versione tradizionale, il fenomeno dello short termism rappresenta un
tratto del comportamento degli azionisti che, eccessivamente orientati ai rendimenti
a breve termine, porrebbero eccessiva pressione sul management influenzandone in
modo pernicioso l’operato.
In un simile scenario il top management diverrebbe prigioniero del mercato,
essendo da questo “obbligato” a produrre con continuità le performance attese dagli
investitori, con la sanzione della dismissione nel caso questa obbligazione non
venisse onorata. Portando avanti il ragionamento, il risultato economico - il profitto
attuale e quello atteso che, attualizzato definisce il valore - smetterebbe di essere
grandezza residuale per divenire, in qualche modo, grandezza “contrattualizzata”.
Le evidenze empiriche che abbiamo in precedenza presentato raccontano però
una realtà diversa. Un top management sempre più potente, privo di un reale
contradditorio, compensato in misura sempre maggiore e ragionevolmente stabile
mal si adatta a ricoprire il ruolo del prigioniero. Di più, la componente azionaria
71
Bhojraj S., Libby R., “Capital Market Pressure, Disclosures Frequency - Induced
earnings, Cash Flow, Conflict and Managerial Myopia”, Accounting Review, Vol. 80, pp.
1-20, 2005; Bushee B.J., “The Influence of Institutional Investors on Myopic R&D
Investment Behavior”, Accounting Review, Vol. 73, pp. 305-334, 1998; David P., Hitt
M.A., Gimeno J.G., “The Influence of Activism by Institutional Investors on R&D”,
Academy of Management Journal, Vol. 44, pp. 144-157, 2001; Fuller J., Jensen M.C.,
“Just Say No to Wall Street: Putting a Stop to the Earning Game”, Journal of Applied
Corporate Finance, Vol. 14, n. 4, 2002; Graham J.R., Harvey C.R., Rajagopal S., “The
Economic Implications of Corporate Financial Reporting”, www.ssrn.com, 2005; Hansen
G.S., Hill C.W.L., “Are Institutional Investors Myopic? A Time Series Study of Four
Technology Driven Industries”, Strategic Management Journal, Vol. 12, n. 1, 1991; Mc
Connell J.J., Wahal S., “Do Institutional Investors Exacerbate Managerial Myopia?”,
Journal of Corporate Finance, Vol. 6, 2000; Wahal S., “Pension Funds and Firm
Perfornance”, Journal of Financial and Quantitative Analysis, Vol. 1, n. 3, 1996; Hutton
A., “Beyond Financial Reporting - An Integrated Approach to Corporate Disclosure”,
Journal of Applied Corporate Finance, Vol. 16, n. 4, 2004; Marginson D., Mcaulay L.,
“Exploring the Debate on Short Termism; a Theoretical and Empirical Analysis”,
Strategic Management Journal, Vol. 29, pp. 273-292, 2008; Rappaport A., “CFOs and
Strategist: Forging a Common Framework”, Harvard Business Review, Vol. 70, n. 3,
1992; Samuel C., “Does Shareholder Myopia lead to Managerial Myopia? A First Look”,
Applied Financial Economics, Vol. 10, pp. 493-505, 2000; Samuel C., “Stock Market and
Investment: the Signalling Role of the Market”, World Bank Policy Research Working
Paper, n. 1612, Washington DC, 1996; Bar-Gill O., Bebchuk L.A., “Misreporting
Financial Performance”, John M. Olin Center for Law, Economics and Business”,
Harvard University, Discussion Paper, n. 400, December 2002.
ENRICO COTTA RAMUSINO
211
della remunerazione ha reso il management azionista dell’impresa, ma quale tipo di
azionista? Poiché il diavolo è sempre nei dettagli occorre rifuggire dalle
generalizzazioni e calarsi con pazienza nello studio dei contratti di incentivazione
azionaria. In generale possiamo affermare che, nella misura in cui tali contratti
offrano la prospettiva di realizzo a breve di forti plusvalenze, il rischio che il
management si comporti come azionista finanziario impaziente sale in modo
rilevante; aggiungiamo che tale eventualità è realisticamente possibile perché, a
differenza di quanto accade all’imprenditore proprietario, i contratti di
incentivazione azionaria contemplano solo il rischio di upside e non anche quello di
downside. La figura stilizzata del mercato impaziente che impedisce al manager di
realizzare strategie di lungo respiro orientate ad una sostenibile creazione di valore
esce da questo ragionamento fortemente ridimensionata nella sua effettiva capacità
esplicativa. Al contrario, gli schemi di incentivazione largamente adottati nell’elite
dimensionale delle public company sono certamente responsabili dello short
termism manageriale più di quanto non lo siano gli atteggiamenti degli azionisti (del
mercato).
Per queste ragioni la crisi ha palesato chiare esigenze di ripensamento di questi
meccanismi di incentivo; se non emergeranno spontaneamente, dal basso, proposte
serie di riforma, i pubblici poteri non dovranno aver paura di intervenire attraverso
la regolamentazione. Come si vedrà nel seguito, l’esempio dell’industria finanziaria
ben rappresenta le degenerazioni del fenomeno e le necessità di riforma.
Nuovamente, chiedere l’abolizione dei meccanismi di incentivazione rappresenta
una posizione demagogica e pertanto non realistica, destinata ad essere abbandonata
con l’uscita dalla crisi. Al contrario, occorre, impegnarsi pazientemente in un’opera
di riprogettazione dei meccanismi stessi e le direzioni sono chiare: occorre
disciplinare l’orizzonte temporale di applicazione degli incentivi e introdurre, nel
contempo, qualche forma di corresponsabilizzazione a fronte del rischio di
downside.
3.3 Il “caso peculiare” delle imprese finanziarie
I comportamenti imprenditoriali espressi dalle imprese finanziarie protagoniste
della crisi vanno inquadrate in questo contesto di riferimento. Le maggiori banche
statunitensi sono, infatti, public company e tale struttura ha progressivamente
connotato lo sviluppo di pressoché tutte le altre grandi banche internazionali. Le
considerazioni esposte ai precedenti paragrafi sulle disfunzioni del modello si
applicano pertanto anche a questa tipologia di imprese. Sbilanciamento nella
distribuzione del potere e del valore creato tra azionisti e manager, difficoltà da parte
dei primi nel controllare i secondi, sono stati, come nelle altre public company, i
tratti caratteristici dell’evoluzione di questi ultimi anni, con qualche elemento di
esasperazione che ha contraddistinto l’industria finanziaria rispetto agli altri
comparti del sistema produttivo72.
72
Evidenze di un differenziale positivo di remunerazione tra settore finanziario e settore
212
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
La crisi ha evidenziato due elementi sui quali occorre riflettere, uno di portata
più generale, riferibile all’intero universo delle public company, e l’altro, invece,
caratteristico di queste particolare categoria di imprese.
Il primo riguarda la declinazione, presso le imprese finanziarie, della relazione
tra performance delle imprese e retribuzioni del top management. Questo elemento,
diffuso anche nel sentire comune, è stato analizzato con rigore e chiarezza in uno
studio pubblicato lo scorso mese di agosto da Andrew Cuomo, procuratore generale
dello Stato di New York73.
Focalizzandosi sulle nove banche che hanno per prime ricevuto gli aiuti di Stato
nell’ambito del Troubled Asset Relief Program (TARP), lo studio esamina sull’arco temporale 2003 - 2009 e concentrandosi in modo particolare sul 2008,
anno di erogazione degli aiuti di Stato - l’andamento delle retribuzioni e dei risultati
aziendali, allo scopo di verificare la effettiva esistenza del principio “pay for
performance”.
Le tabelle sotto riportate offrono una risposta sufficientemente chiara che non
necessita di essere ulteriormente argomentata. Solo due osservazioni possono essere
utili, anche ai fini delle conclusioni.
La prima, riferita al 2008, evidenzia come il totale dei bonus erogati sia prossimo
al 20% dei fondi ricevuti nell’ambito del TARP, con punte molto elevate per alcune
singole istituzioni.
Tab. 6: Utili, bonus e aiuti presso nove maggiori banche statunitensi
(dati riferiti al 2008)
>3 >2 >1
EARNINGS/ BONUS
TARP MIL MIL MIL
EMPLOYEES
LOSS
POOL
(1) (2) (3)
4
3,3
45
28 65 172 0,265
243
0,11%
BANK OF AMERICA
1,4
0,945
3
12 22 74 0,108
42,9
0,25%
BANK OF NEW YORK
-2776
5,3
45 124 176 739 1,039
322,8
0,32%
CITIGROUP
2,3
4,8
10 212 391 953 1,556
30
5,19%
GOLDMAN SACHS
5,6
8,7
25 200
1626 1,826
225
0,81%
JP MORGAN
-27,6
3,6
10 149
696 0,845
59
1,43%
MERRILL LYNCH
1,7
4,5
10 101 169 428 0,698
47
1,49%
MORGAN STANLEY
1,8
0,47
2
3
8 44 0,055
28,5
0,19%
STATE STREET
42,9 (1)
0,98
25
7 22 62 0,091
281
0,03%
WELLS FARGO
Note: (1) Include le perdite dell’acquisita Wachovia.
Fonte: A. Cuomo, 2008
73
reale dell’economia sono riportate in Philippon T., Reshef A., “Skill Biased Financial
Development: Education, Wages and Occupation in the U.S. Financial Sector”,
www.ssrn.com, 2007.
Cuomo A.M., “No Rhyme or Reason: the “Heads I Win, Tails You Lose” Bank Bonus
Culture”, New York, 2008.
ENRICO COTTA RAMUSINO
213
La seconda osservazione nasce dall’esame della tabella 7, ove si evidenzia come
il livello della compensation sia strutturalmente rigido e non, come spesso si
sostiene, legato strettamente alle performance aziendali; l’evoluzione del rapporto
tra questa grandezza e il risultato aziendale sale in modo vertiginoso nell’anno della
crisi a fronte della contrazione degli utili. Anche in caso di perdita, peraltro, le
banche considerate continuano a pagare bonus significativi.
Tab. 7: Compensi al personale / utile netto (%)
BANK OF AMERICA
BANK OF NEW YORK
CITIGROUP
GOLDMAN SACHS
JP MORGAN
MERRILL LYNCH
MORGAN STANLEY
STATE STREET
WELLS FARGO
2003
97,1
173
116,1
250,1
169,5
255,8
208,4
239,7
143,9
2004
96,3
161,4
134,5
212
324,8
238,9
207,8
245,2
120,4
2005
91,4
162,5
104,8
209
213
240,7
217,6
266,2
136,3
2006
86,2
92,7
140,6
172,6
146,7
224,9
187,2
239,8
142,8
2007
125,2
202,1
952
174,1
147,7
(2)
515,8
258,2
165,9
2008
458,4
369,1
(1)
470,9
405,8
(2)
720,9
212,1
487,4
2009 IQ
206,4
315,9
403,9
259,8
354,4
(2)
(3)
153,6
212,9
2009 IIQ
241,6
281,2
149,6
193,3
254,2
(2)
2617,4
(4)
212,1
Note:
(1) A fronte di compensi per 32,4 miliardi di dollari, la banca ha registrato perdite per 27,7
miliardi.
(2) A fronte di compensi per 1,9 e 14,8 miliardi di dollari nel 2007 e 2008, la banca registra
perdite per 7,8 e 27,6 miliardi. Nel 2008 viene assorbita da Bank of America.
(3) A fronte di compensi per 2,1 miliardi di dollari nel I quarter del 2009, la banca registra
perdite per 0,2 miliardi.
(4) A fronte di compensi per 0,7 miliardi di dollari nel I quarter del 2009, la banca registra
perdite per 3,2 miliardi.
Fonte: A. Cuomo, 2008
Se la capacità del management di tutelare i propri interessi a scapito di quelli
degli azionisti appare un tratto comune al mondo delle public company - e in questo
caso la questione viene esasperata in quanto si hanno evidenze di appropriazione
non solo del valore creato ma anche di quello non creato - una specificità delle
public company finanziarie deve essere a nostro avviso posta in luce.
Ci riferiamo al tema dell’azzardo morale di fronte al quale si sarebbero trovati i
manager delle imprese finanziarie, un aspetto che, secondo una visione che sta
guadagnando crescente consenso, avrebbe contribuito ad accelerare il passo degli
eventi, concorrendo in modo significativo allo scoppio della crisi74.
74
Bebchuk L.A., Friedman W.J., Townsend Friedman A., “Written Testimony Before the
Committee on Financial Services, United States House of Representatives Hearing on
Compensation Structure and Systemic Risk”; June 11, 2009. Sulle stesso tema, cfr.
Bebchuk L.A., Spamann H., “Regulating Bankers’ Pay”, J. Olin Center For Law,
Economics and Business, Harvard University, Discussion Paper, n. 641, June 2009.
214
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
La questione è stata declinata con chiarezza nella finanza aziendale75 facendo
riferimento al caso particolare di imprese molto indebitate. In presenza di un elevato
livello di indebitamento gli azionisti di un’impresa potrebbero essere indotti a
scegliere progetti di investimento ad elevato rischio, consapevoli che il buon esito di
questi fornirebbe loro ritorni molto elevati mentre in caso di esito negativo si
genererebbero perdite che coinvolgerebbero anche i creditori. Questi ultimi, pur
consapevoli del potenziale azzardo posto in essere dagli azionisti, non hanno
possibilità di agire sul loro comportamento; essi non possono che agire in via
preventiva, impedendo all’impresa di accumulare eccessivi livelli di indebitamento.
L’azzardo morale degli azionisti viene in effetti enumerato nella finanza aziendale
come un deterrente all’uso eccessivo del debito (Tabella 8).
Le imprese finanziarie sono strutturalmente caratterizzate, anche in tempi
“normali”, da elevati livelli di leverage e nel periodo antecedente la crisi questi
livelli di leverage sono cresciuti vorticosamente per le ragione spiegate nella prima
parte della presente relazione. Nel patrimonio di vigilanza delle banche, inoltre, sono
computabili, seppur entro certi limiti, strumenti di debito, subordinati rispetto agli
altri debiti ma pur sempre senior rispetto alle azioni. È evidente come il
manager/azionista venga a trovarsi, in presenza di simili condizioni di partenza, in
una situazione ricca di tentazioni. Queste ultime divengono ancora più forti nel caso
il manager detenga, in luogo di azioni, opzioni sulle stesse.
Tab. 8: Valutazione di progetti di investimento in presenza di azzardo morale
INVESTIMENTO
1000
STRUTTURA FINANZIARIA
1000
DEBITO
900
EQUITY
100
GRADO DI RISCHIO (crescente)
1
2
3
4
SCENARIO
RISULTATO
RISULTATO
RISULTATO
RISULTATO
FAVOREVOLE (50%)
1200
1600
2000
1900
SFAVOREVOLE (50%)
1000
600
200
100
Valore atteso dell’impresa
1100
1100
1100
1000
Valore atteso del debito
900
750
550
500
Valore atteso dell’equity
200
350
550
500
RENDIMENTO EQUITY
100%
250%
450%
400%
Fonte: nostra elaborazione
L’esempio sopra riportato, che pur espone in termini stilizzati ed esasperati il
concetto dell’azzardo morale dell’azionista, può aiutare nel ragionare sui fatti
75
Cfr., ad esempio, Ross S.A., Westerfield R.W., Jaffe J.F., Finanza Aziendale, Il Mulino,
Bologna, 1996, cap. XV.
ENRICO COTTA RAMUSINO
215
concreti. Manager molto remunerati e scarsamente controllati potrebbero essere
indotti a guardare alla componente azionaria della propria remunerazione come ad
un’opzione il valore della quale ricade sotto la loro stretta influenza. Se l’opzione è
esercitabile nel breve periodo e poiché essa comporta, in quanto opzione, solo
“upside”, l’intrapresa di progetti ad alto rischio rischia di diventare troppo attrattiva
in quanto combina possibilità di massimizzazione del valore dell’opzione (caso
positivo) con una situazione nella quale le perdite vengono condivise con soggetti (i
creditori) che non partecipano all’upside.
Secondo una visione alternativa, l’azzardo morale dovrebbe essere stemperato
dalla circostanza che il manager/azionista, avendo una quota significativa della
propria ricchezza legata alle sorti dell’impresa (non essendo in altre parole un
investitore diversificato), dovrebbe essere massimamente interessato al destino di
quest’ultima e, quindi, operare per la sua prosperità di lungo periodo.
Questa obiezione merita, a mio avviso, di essere confutata con due controobiezioni.
La prima riguarda la quota di ricchezza del manager azionista legata
all’andamento delle azioni della società; per quanto elevata essa possa essere, la sua
utilità marginale non è slegata dalla situazione patrimoniale di partenza del soggetto
decisore. In questi casi non possiamo ragionare come nel caso dell’investitore
razionale medio; qui l’utilità è oggettivamente meno elastica e scatta solo per grandi
upside, essendo sostanzialmente indifferenti a perdite modeste.
La seconda contro obiezione riguarda il timing delle opzioni; nella realtà, a
differenza dell’esempio, l’assunzione di rischio e la verifica dei risultati non si
realizzano in un’ottica uniperiodale. Pensiamo al caso, emblematico, dei mutui
subprime, ove l’accumulo del rischio è avvenuto su un orizzonte di anni prima che
gli effetti si producessero con l’intensità che abbiamo visto. È assolutamente
evidente che i manager/azionisti hanno potuto incassare tutti i risultati dell’upside
delle quotazioni senza essere minimamente coinvolti economicamente nel
successivo crollo.
4. Considerazioni conclusive
4.1 Sulle logiche sistemiche
La crisi ha dimostrato come sia insostenibile la coesistenza tra un divenire
sempre più internazionale dell’attività finanziaria e l’assenza di regole di fondo atte
a garantire che tale divenire si realizzi in una prospettiva sistemica. Le condizioni di
contesto in essere prima della crisi dipingono l’immagine di un’industria
profondamente integrata, non di un sistema, tantomeno di un sistema vitale. Per
raggiungere questo assetto non sono sufficienti riforme parziali ma scelte politiche
incisive che pongano come prioritaria la creazione di un organo di governo dotato
delle attribuzioni necessarie a garantire il funzionamento del sistema in una
prospettiva di sostenibilità.
216
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
Le azioni da intraprendere sono logicamente conseguenti alle carenze poste in
luce nella precedente esposizione e si sintetizzano, a nostro avviso, in due domande:
chi sarà l’organo di governo e quali saranno le sue attribuzioni?
Sul primo fronte, il punto ideale d’arrivo, non realisticamente raggiungibile nel
breve termine, è rappresentato dalla creazione di un’entità sovranazionale alla quale
affidare le azioni di regulation, vigilanza e gestione della crisi su scala
internazionale.
Ragionevolmente, è lecito sperare, nel breve, in un aumento significativo del
grado di concertazione tra autorità nazionali. I lavori del Financial Stability Board76
e il riconoscimento politico che le indicazioni emerse da tali lavori hanno avuto
nelle recenti riunioni del G 20 aprono opzioni interessanti, in grado di innescare un
processo virtuoso.
Il ruolo dell’Unione Europea è, in questa prospettiva, cruciale; le proposte in
discussione77 dettano un percorso che va, a nostro avviso, nella corretta direzione, se
realizzato con la necessaria incisività. La rilevanza del ruolo giocato dall’Unione
Europea è anche legata alla sua capacità di influenza nei confronti degli Stati Uniti.
Un accordo bilaterale tra queste due entità può davvero avviare un percorso virtuoso
di medio termine.
Sul fronte delle competenze dell’emergente organo di governo occorre
realisticamente tenere conto delle posizioni fortemente differenziate che tuttora
permangono. Abbiamo rilevato come una prima forma di influenza che l’organo di
governo del sistema su scala nazionale subisce è quella che proviene dalle autorità
politiche nazionali.
Gli impulsi che al sistema derivano dalle scelte di politica economica resteranno
largamente di pertinenza dei governi nazionali (o sovranazionali come nel caso
76
77
Financial Stability Forum, “Report of the Financial Stability Forum on Enhancing Market
and Institutional Resilience”, 7 April 2009; Financial Stability Forum, “FSF Principles for
Cross Border Cooperation on Crisis Management”, 2 April 2009; Financial Stability
Forum, “Committee on the Global Financial System Joint Working Group, The Role of
Valuation and Leverage in Prociclicality”, March 2009; Financial Stability Board,
“Principles for Sound Compensation Practices”, 25 September 2009; Financial Stability
Board, “Improving Financial Regulation”, Report of Financial Stability Board to the G20
Leaders, 25 September 2009; Financial Stability Board, “Overview of Progress in
Implementing the London Summit Recommendations for Strenghtening Financial
Stability”, Report of Financial Stability Board to the G20 Leaders, 25 September 2009.
Sui temi trattati nei lavori del FSB e rilevanti ai fini delle riforme finalizzate alla
stabilizzazione dei sistema si vedano anche, Financial Services Authority, “A Regulatory
Response to the Global Banking Crisis”, Discussion Paper, n. 09/02, March, 2009;
European Central Bank, “OTC Derivatives and Post Trading Infrastructures”, September
2009;. Cecchetti S.G. Gyntelberg G., Hollanders M., “Central Counterparties for the Over
- the - Counter Derivatives”, BIS Quarterly Review, September 2009.
De La Rosiere Group, “The High Level Group on Financial Supervision in the EU”,
Report, Bruxelles, 25 febbraio 2009; Commission Of The European Communities,
Communication from the Commission, “European Financial Supervision”, Bruxelles,
2009.
ENRICO COTTA RAMUSINO
217
dell’Unione Europea). Più realistico pare l’obiettivo di condividere i temi della
regolamentazione, della vigilanza e della gestione della crisi su scala globale.
L’eccessivo grado di indebitamento delle banche, il sistema bancario ombra nato
con i veicoli non consolidati, l’accountability delle società di rating, la
regolamentazione del mercato dei prodotti derivati, rappresentano aree nelle quali
potrebbe essere trovato un consenso tra le authority nazionali in un consesso
internazionale in grado di garantire il necessario grado di coordinamento. Le azioni
debbono a nostro avviso essere intraprese rapidamente facendo leva sugli stimoli
che vengono dall’esperienza della crisi. Con il passare del tempo, la ripresa della
fiducia accresce il rischio di diluire il carattere di necessità degli interventi.
4.2 Sui comportamenti imprenditoriali
Analizzando i comportamenti imprenditoriali espressi dalle imprese epicentro
della crisi abbiamo avuto modo di porre in luce le lacune di un modello di governo
delle imprese - in particolare di quelle finanziarie - potenzialmente in grado di
accentuare i profili di instabilità. Gli interventi su questo fronte sono a nostro avviso
più difficili dei precedenti perché intervenire su un assetto di governance significa
incidere sui valori e sugli orientamenti di fondo di un modello di capitalismo. Così
come sul fronte “sistemico”78 occorre agire con incisività per accelerare la
trasformazione, su questo versante ci sembra invece più ragionevole procedere per
gradi, evitando che la ricerca di un obiettivo troppo ambizioso generi una inevitabile
sconfitta. Cerco di argomentare questa affermazione attraverso due considerazioni.
Il dibattito in corso sul tema dei compensi ai vertici delle imprese finanziarie ha
assunto toni molto accesi e non mancano posizioni radicali, spesso demagogiche,
dalle quali è irrealistico attendersi ricadute concrete. Riteniamo più ragionevole
percorrere una strada diversa. Partendo dalle imprese finanziarie, crediamo si possa,
seguendo le linee guida emanate dal Financial Stability Board, chiedere agli
organismi di vigilanza nazionali di inserire la valutazione dei programmi di
incentivazione del management nella propria tradizionale attività di supervisione. Si
tratta di una innovazione rilevante che tali organismi sono pienamente in grado di
realizzare79. Occorre prendere in esame i singoli programmi di incentivazione,
studiarne l’attitudine a generare comportamenti eccessivamente orientati al rischio,
imporre le eventuali correzioni. Ottenuto questo risultato - e confidenti sulla
maggiore stabilità delle imprese finanziarie - potremo attendere con pazienza gli
sviluppi dei progetti di riforma di portata più generale sull’assetto delle public
company. Il problema riguarda in primo luogo gli Stati Uniti, dove la politica e i
78
79
L’aggettivo sistemico esprime in questo caso l’obiettivo legato alla trasformazione in
sistema di quella che oggi può solo definirsi un’industria profondamente integrata.
Coerentemente con quanto espresso dal Financial Stability Board, nel nostro paese, la
Banca d’Italia ha emanato direttive che chiedono alle banche di esplicitare i criteri ai quali
esse ispirano le proprie politiche di remunerazione del top management, accentuando i
profili di sostenibilità delle remunerazioni stesse ed enfatizzando la circostanza che tali
politiche non debbano incentivare il management all’assunzione di rischi eccessivi.
218
LA FINANZA TRA LOGICHE DI SISTEMA E COMPORTAMENTI IMPRENDITORIALI
regulator devono valutare se intervenire in modo più complessivo e generalizzato
sul modello al fine di introdurre riforme che ripristinino un maggiore equilibrio negli
interessi degli stakeholder80. Subordinare gli interventi sull’industria finanziaria a
questo secondo sviluppo mi sembra un errore strategico.
4.3 Regole, responsabilità d’impresa e responsabilità individuali
Nel presente contributo, coerentemente con le finalità dello stesso, è stata posta
particolare enfasi sul tema delle “regole”, intese come quadro generale di
riferimento in grado di orientare i comportamenti degli attori e di trasformare
un’“industria fortemente integrata” in un sistema vitale. L’ultima considerazione che
desidero esplicitare allarga l’orizzonte dell’analisi recuperando elementi di
riflessione sui quali abbiamo avuto modo di esprimere la nostra opinione in un
recente contributo pubblicato su questa stessa rivista.
Abbiamo allora sostenuto81, e lo confermiamo in questa sede, che dalla crisi non
si esce solo per via regolamentare; è a nostro avviso necessaria una più forte
assunzione di responsabilità tanto a livello di impresa quanto a livello individuale.
Tra regole e responsabilità non vi è alcuna contraddizione ma solo una virtuosa
sinergia. Un quadro regolamentare solido ed esaustivo riduce il costo che le imprese
debbono sostenere per esprimere comportamenti responsabili.
Quello che abbiamo definito il “sistema della responsabilità sociale”82, emendato
delle debolezze che la crisi ha posto in luce e che abbiamo puntualmente rilevato,
rappresenta, dunque, una sorta di “difesa di secondo livello” rispetto al rischio di
degenerazione del sistema.
Non dobbiamo però commettere l’errore di ritenere che i due livelli di difesa
sopra indicati - il framework regolamentare e il sistema della responsabilità sociale siano così efficaci da esimere gli individui dall’assunzione di una responsabilità
diretta, personale.
Esisterà sempre uno spazio per l’azione individuale discrezionale, nel quale i
risultati sono conseguenza dei valori dell’individuo chiamato ad agire e, se
80
81
82
Due interventi sui processi di governance sono oggi in discussione. Da un lato si dibatte
sul tema del voto degli azionisti sui pacchetti di remunerazione del management; per
un’analisi dell’esperienza inglese, dove è stato introdotto il voto consultivo degli azionisti
sui compensi dei management si vedano: Ferri F., Maber D., “Say on Pay Votes and Ceo
Compensation: Evidence from the UK”, www.ssrn.com, 2008; Gordon J. N., ““Say on
Pay”: Cautionary Notes on the UK Experience”, The Center for Law and Economic
Studies, Columbia University School of Law, Working Paper, n. 343, August 2009.
Dall’altro si discute su come agevolare gli azionisti di minoranza nella presentazione di
propri candidati ai consigli di amministrazione. Si tratta di due esempi concreti di
miglioramento della democrazia societaria che, se adottati, potrebbero innalzare
significativamente gli obblighi di accountability del management, restituendo agli
azionisti parte del potere che l’evoluzione storica ha loro progressivamente sottratto.
Cotta Ramusino E., “Quale Governance dopo la Crisi? Stato, Mercato, Responsabilità.
Per l’Apertura di un Dibattito”, Sinergie, n. 79, maggio - agosto 2009.
Ibidem, pag. 165.
ENRICO COTTA RAMUSINO
219
accettiamo l’idea che l’individuo sia sensibile solo agli interessi economici,
dobbiamo accettare già da oggi l’idea di una sconfitta.
Regole, responsabilità d’impresa e responsabilità individuale sono tutte
condizioni ugualmente necessarie. In assenza di regole i comportamenti responsabili
divengono eccessivamente costosi e le imprese sono disincentivate a porli in essere;
senza assunzione diretta di responsabilità da parte dell’impresa gli individui che
operano nell’organizzazione non hanno, a propria volta, adeguati incentivi a
comportarsi in modo responsabile; ma anche soddisfatte le due precedenti
condizioni, nemmeno buone regole e assunzione di responsabilità a livello di
impresa ci difendono dal rischio di degenerazione se anche i comportamenti
individuali - per la porzione lasciata alla loro discrezionalità - non si ispirano a
principi di responsabilità. È possibile progettare un miglior quadro regolamentare e
definire un più efficace sistema della responsabilità d’impresa che premi e sanzioni
gli operatori in conseguenza dei comportamenti ma non riusciremo mai a definire un
quadro complessivo che annulli la responsabilità individuale. Possiamo però operare
sui primi due livelli in modo da minimizzare, al terzo livello, il costo del
comportamento virtuoso.
I paesi più avanzati nel mondo occidentale stanno vivendo un processo di
accelerata integrazione con economie emergenti destinate ad accrescere
ulteriormente la propria importanza nell’immediato futuro. Abbiamo la
responsabilità di proporre loro un modello che non può essere quello che la crisi ha
fatto emergere.
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