ATTI del Convegno della rete delle Città Vicine a Verona

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ATTI del Convegno della rete delle Città Vicine a Verona
Atti del Convegno Città Vicine
La rete delle Città Vicine, il movimento dei Nuovi Municipi e la MAG, società Mutua per
l’Autogestione, domenica 13 novembre 2005, hanno deciso di incontrarsi:
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per un confronto di pratiche che restituiscono centralità alla cura del territorio, alla
preservazione dei beni e degli spazi comuni e all’opera di convivenza civile;
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per ragionare insieme sulle nuove forme dell’agire politico, dell’economia e del lavoro
anche in contesto di nuove povertà;
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per valorizzare modalità di governare e di pensare la città che si fondano sulle relazioni e
sul protagonismo delle e degli abitanti;
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per scommettere sulla possibilità di una politica che abbia origine dai liberi rapporti. Che
sappia cogliere la complessità, la creatività, le risorse, i problemi del contesto locale, alla luce
degli scambi con altre realtà e dei conflitti attualmente in atto nel nostro pianeta.
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Loredana Aldegheri
C’è qui oggi, una situazione geografica molto ricca. Come avete visto anche dall’invito, la presenza
forte è delle Città Vicine, infatti questo incontrarci è partito da un loro desiderio, in particolare da
Anna Di Salvo che, in un incontro a Milano, ha proposto di confrontarsi con altri soggetti che
potevano avere un’affinità con la pratica politica delle Città Vicine. In quell’occasione sono stati
individuati I Nuovi Municipi, un’aggregazione politica nata qualche anno fa, e la Mag, di cui sono
presidente, che esiste ormai da trent’anni circa e si occupa di economia sociale con un forte
radicamento a Verona e nel territorio circostante. A questa mia breve introduzione, che ha il
semplice scopo di darvi il benvenuto e di aprire il convegno, seguirà una relazione introduttiva di
Anna Di Salvo che, con Vivine Briante, ha dato vita anni fa alla rete delle Città vicine. Grazie a loro
e ai rapporti che hanno saputo costruire, è stato possibile realizzare questo convegno. Poi ci sarà una
relazione di Camilla Perrone dei Nuovi Municipi, seguita da un intervento di Maria Teresa
Giacomazzi per la Mag di Verona. Coordinerò la discussione, dando la parola a chi di volta in volta
vorrà intervenire. Ringrazio le suore che ci ospitano in questo luogo che abbiamo scelto perché al
centro della città di Verona e facilmente raggiungibile per chi viene da fuori. Insieme con le ragazze
del servizio civile, Elena, Paola, Annalisa ed Emanuela, abbiamo preparato le borsette di stoffa del
progetto “Macramè” che avete ricevuto al momento dell’iscrizione e nelle quali abbiamo inserito
documenti, volantini e materiali che illustrano attività e progetti in cui la Mag si è recentemente
impegnata. Per la pausa pranzo, ringrazio Giulia Pravato che ha organizzato un ricco buffet con
molti piatti caldi. Grazie ancora a voi presenti di essere qui e buon lavoro.
Anna Di Salvo
Le Città Vicine si sono rese visibili attraverso un intreccio di relazioni e scambi politici tra donne e
tra donne e uomini di città diverse, accomunate dalla pratica politica delle relazioni e aventi come
riferimento il pensiero della differenza sessuale.
Le Città Vicine nascono nell’agosto del 2000, durante un incontro stanziale ad Adelfia, che si trova
a Scoglitti in Sicilia, e sono costituite da una costellazione di città piuttosto articolata: Milano,
Roma, Bologna, Catania, Mestre, Spinea, Foggia, Pordenone, Catanzaro, Chioggia, Verona,
Firenze. Alcune di queste realtà erano da tempo in contatto tra loro, grazie a rapporti politici
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divenuti via via più stretti, alla luce della consapevolezza di aver individuato un amore comune per
la città e il desiderio di segnare i suoi spazi con le pratiche e il pensiero delle donne. Pratiche e
pensiero che sono frutto di un’attenzione speciale alla qualità dei rapporti di convivenza, alle
politiche di buon governo, a come ridisegnare spazi e architetture, utilizzare le risorse, nonché
riconoscere le metamorfosi provocate in città dalle nuove presenze di migranti. Le Città Vicine
quindi riescono a mettere in essere un lavoro di cura significativo che si estrinseca non solo nel
creare senso di accoglienza nei confronti delle nuove presenze, ma anche nel saper rilanciare le
risorse storico-artistico-ambientali dei luoghi nell’attualità del presente. Sono così entrate in circolo,
costituendo una ricchezza comune di esperienze di chi, ad esempio, aveva intrapreso rapporti o
aveva operato nelle istituzioni, di chi aveva realizzato iniziative o approfondito la questione di come
prendersi cura del territorio o di chi aveva messo in atto forme di autogoverno in città. Compito
delle Città Vicine è stato quello di aver riflettuto sugli aspetti che restituiscono bellezza anche ai
contesti più degradati. Questi aspetti sono stati riconosciuti, ad esempio, nelle relazioni che si
creano nei luoghi o in quelle espressioni spontanee ed originali che sbilanciano le situazioni statiche
e negative, immettendo positività simbolica, quindi speranza. Le Città Vicine hanno agevolato
l’incontro tra la differenza femminile con quella maschile e proposto una pratica non competitiva né
complementare, bensì asimmetrica, per interrogare, capire ed articolare le diverse modalità con cui
donne e uomini guardano la città nel farsi delle relazioni e nella costruzione dei rapporti di
convivenza. Le Città Vicine hanno attinto molto dalla pratica politica delle Vicine di casa di Mestre,
cercando di rilanciarla nella competenza delle relazioni che vengono a crearsi tra una città e l’altra.
Hanno riconosciuto come fonte originaria anche l’esperienza del gruppo “Vanda” di Milano che ha
saputo affermare già dall’inizio degli anni ’90 il senso femminile del pensare la casa, i luoghi e la
qualità dell’abitare.
Le pratiche politiche che ogni città vicina realizza nel proprio territorio, anche se differenti l’una
dall’altra, contengono un nucleo di verità che le accomuna. Ad esempio quello dell’attenzione alle
ricadute possibili e concrete che il lavoro di ognuna apporta nei propri luoghi. Le città al contempo
prendono coscienza di come le relazioni tra una realtà e l’altra incidano profondamente nel processo
di modifica di ognuna e come lo scambio delle pratiche e dei risultati porti a fare maggiore
chiarezza sul proprio agire.
La speranza che gli spazi e le forme di convivenza possano migliorare diversifica il modo di
procedere delle Città Vicine e lo distingue rispetto a quegli atteggiamenti catastrofici di chi pensa
che per alcune città non ci sia più nulla da fare, perché il degrado ambientale, l’arretratezza
culturale e l’involuzione dei rapporti hanno preso il sopravvento. Le speculazioni sul territorio, i
tentativi di mercificare i luoghi, gli scempi urbanistici, l’esasperazione del degrado urbano vengono
letti dalle Città Vicine come corpi estranei al desiderio originario di armonia delle città che portano
squilibrio e contraddizioni, ma con i quali occorre confrontarsi, cercando di capire e risolvere nel
profondo la ragioni di quel disordine.
Le Città Vicine promuovono due o tre incontri annuali, di cui uno stanziale in estate, per
approfondire le tematiche che stanno più a cuore o per incontrare altre realtà; ma si ritrovano anche
due o più città per volta per elaborare e concretizzare desideri e progetti che coinvolgono e toccano
solamente alcune. Con queste modalità le Città Vicine non possono essere intese come un semplice
coordinamento tra città, bensì come un luogo fertile di intrecci, sicuramente un vivaio di pratiche
che segnano le diverse città. Per questa creazione di energia vitale, per la volontà di scambiare
competenze e originalità, ma anche per il saper affrontare i conflitti, esternando critiche e giudizi
costruttivi, le Città Vicine possono essere intese simbolicamente come “città di pace”, non
competitive tra loro, né rivendicative o schierate su determinate questioni. L’aver scambiato
esperienze e narrazioni inoltre, ha fatto sì che nelle donne e negli uomini delle Città Vicine nascesse
una particolare attenzione non solo per la città dove risiedono, ma anche per le città delle altre e
degli altri, sino a considerarle quasi come proprie.
I recenti fatti di Bologna in merito allo sgombero delle baracche degli immigrati o i fatti di Locri, in
merito agli omicidi della “ndrangheta”, o i fatti della Val di Susa, in merito allo sventramento della
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montagna per il passaggio della T.A.V., ci hanno fatto molto riflettere, perché abbiamo sentito
come nostri quei luoghi e quelle città. Purtroppo, a proposito degli sgomberi delle baracche degli
extracomunitari, l’effetto “domino” che si estende da una realtà geografica ad un’altra ha toccato
anche Catania, la città in cui vivo, proprio in questi giorni, frantumando la difficile permanenza di
una comunità rumena e polacca che si era stanziata in uno spazio libero nel centro della città. Dopo
i fatti di Bologna e di Parigi, anche nella mia città le ruspe hanno spazzato via i poveri rifugi di quei
migranti che sono stati in seguito rispediti nelle loro terre d’origine.
A Catania sono impegnata politicamente con le donne e qualche uomo della “Città Felice”. Da
tempo avevamo avvertito la necessità di aprirci a scambi diversi con altre realtà politiche cittadine e
di altri luoghi per non sentirci confinate in una situazione di localismo che a volte connota i nostri
luoghi politici, bloccandoci in dinamiche ripetitive ed autoreferenziali. Nel 1998, con il convegno
“Oltre Catania”, abbiamo dato il via ai primi incontri-scambio con alcune realtà politiche di donne
che operavano in altre città, con le quali avvertivamo un forte senso di vicinanza, per aprire
orizzonti sempre più ampi alle nostre pratiche e alle nostre elaborazioni. Al contempo, nel contesto
cittadino una delle principali attività, forse il nostro merito più grande, è stata quella di aver saputo
scambiare esperienze ed analisi con alcune donne e uomini di comitati spontanei, libere
associazioni, sindacati, per ridefinire il senso di una città problematica come la nostra, toccata dalla
mafia, dalle speculazioni e dai giochi di potere. Abbiamo cercato di ritrovare la bellezza di questa
città, della sua storia, delle relazioni che in essa si intrecciano e creato così nuove possibilità di
comunicazione, percorsi comuni, cercando di sconfiggere l’estraneità e la diffidenza che a volte
divide una realtà da un’altra. E’ stato bello lavorare con “Città Felice” sul territorio e conoscere gli
abitanti di quartieri dove avevamo saputo tessere relazioni e lavorare al contempo anche in altri
quartieri insieme ad altre realtà politiche cittadine. Abbiamo messo in atto modalità originali di
intervento, come quelle di far dialogare un quartiere con un altro e capire le ricadute della vita di un
quartiere su un altro ancora e così via. Questo esserci aperte a nuove esperienze ci ha dato la
possibilità di concepire un quadro generale della situazione, ma soprattutto abbiamo capito meglio
le questioni e i problemi della nostra città, confrontandoci e intraprendendo scambi ed iniziative con
altre città: le Città Vicine.
Maria Pericolosi
Volevo dire in questo contesto che è stato aperto a Verona un osservatorio sull’urbanistica, inoltre
c’è stato qui in città un incontro sulla TAV, l’alta velocità, per cui penso che a molti comitati e
anche qualche partito potrebbe interessare sapere che esiste questa rete, questa modalità diversa di
incontrarsi fra città. Ci sono dei problemi generali che riguardano un po’ tutte le città, per esempio
la questione dei campi nomadi. A Verona ne hanno costruito uno recentemente. Io mi impegnerei a
diffondere queste nuove idee delle Città vicine.
Vivien Briante
Mi sento di precisare che le cose avvengono perché c’è un supporto politico e di intesa tra Città
Vicine che vede me ed Anna da molti anni insieme, grazie alla tradizione del movimento delle
donne che ha costellato l’Italia con esperienze oggi qui presenti come la “Libreria delle donne di
Milano”, “Diotima”, il gruppo di Catanzaro. Abbiamo pensato di venire fuori dalla “geografia
cittadina”, perché abbiamo sentito di dover dare più respiro alla nostra politica e di far circolare in
maniera creativa, senza appiattirci, le nostre ricchezze politiche locali, quello che avevamo
costruito. Un’altra cosa è che comunque la politica in città effettivamente sta valorizzando quello
che le donne in questi anni hanno saputo costruire, ma dov’è lo sbocco? A parte l’elaborazione nei
luoghi di origine, la città ed il territorio sono il contesto di questa possibile prospettiva, altrimenti il
pensiero e le nostre elaborazioni non hanno riscontro nella costruzione di relazioni né nella
costruzione di cambiamenti. La Mag e le nuove Municipalità sono state avvistate e individuate
come esperienze vicine politicamente.
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Maria Teresa Giacomazzi
Mi ero ripromessa di esporre le riflessioni che mi avrebbe suscitato il confronto tra le Città Vicine e
i Nuovi Municipi. Per adesso, darò alcuni rimandi su quanto hanno appena detto Anna e Vivien. La
Mag è un’esperienza di economia sociale nata vent’otto anni fa, levatrice, in seguito, della nascita e
del radicamento di altre esperienze di economia sociale. All’inizio le chiamavamo esperienze di
“autogestione lavorativa”. In quel momento dire “autogestione” significava andare oltre la pratica
della rivendicazione nei confronti di altri mondi del lavoro, dei servizi e delle politiche sociali.
Volevamo metterci in gioco insieme con altre e altri per inventare soluzioni più creative, che
rispondessero al bisogno di dare senso al nostro lavoro e alla nostra appartenenza ad un territorio.
L’obiettivo era esprimere il meglio di sé in relazione con altri e altre, nel contesto in cui l’impresa si
stava radicando. Questo forte bisogno di un lavoro sensato per sé era quindi in stretta connessione
con le relazioni e la comunità di appartenenza. Il termine aveva una forte connotazione lavorativa e
implicava anche il desiderio di una remunerazione soddisfacente. Si parla oggi di “economia
sociale”, di “terzo settore”: una realtà complessa, molto visibile, alla quale lo Stato e le Istituzioni
hanno affidato pezzi importanti della realizzazione dei loro fini istituzionali.
Volevo soffermarmi su come si sviluppa questa pratica dell’economia sociale. Noi della Mag,
grazie soprattutto alla collaborazione con Diotima, con la Libreria delle Donne di Milano,
recentemente con la Libera Università dell’Incontro, abbiamo collegato l’economia sociale al
pensiero e alla politica delle donne degli ultimi quindici anni. La Mag è nata con una forte presenza
di uomini. La relazione con loro è stata molto proficua e in seguito si è arricchita, grazie alla
politica delle donne. Loredana ed io dirigiamo da anni la Mag, facendo leva su questa cultura
politica delle donne. Il lavorare nell’economia sociale e nel terzo settore significa continuamente
ripensare a ciò che si fa e lo scambio con le Città Vicine, e oggi con i Nuovi Municipi, è
un’occasione per parlare delle contraddizioni che viviamo al presente. Vogliamo confrontarci su
queste ultime, piuttosto che sulle cose che vanno bene e sulle relazioni proficue e felici. Il senso
dell’incontrarci nei dibattiti è quello di andare in profondità sui nodi che fanno ostacolo, piuttosto
che sottolineare le cose positive, anche se per noi rimane buona la pratica di considerare ciò che va
bene, invece di ciò che non va, ciò che esiste, invece di ciò che manca. Bisogna però attraversare
anche le contraddizioni. Ci sono molte cooperative e associazioni che fanno servizi nel sociale e che
lavorano fortemente con l’ente pubblico. Sappiamo quanto sia importante che si diano risposte
concrete ai bisogni del territorio. L’impresa sociale che vuole assumersi servizi nuovi o perpetuare
quelli già esistenti ha grande bisogno di risorse economiche, anche risorse pubbliche. C’è una
necessità dell’impresa sociale di essere in stretto rapporto con la comunità, rispondendo anche al
bisogno di nuova occupazione. Dove ci si affida sempre più all’istituzione, che non è più solo l’ente
locale, ma la stessa impresa sociale, vediamo un’eccessiva pervasività nella nostra vita quotidiana
di regole e modalità lontane dal nostro modo di lavorare. Le nostre imprese vivono di relazioni, di
scambi non sempre monetizzabili. Sembra che oggi non si riesca a fare a meno di affidare a servizi
esterni il bisogno di stare bene, di ricevere cure adeguate quando stiamo male, di stare insieme con
gli altri. Le imprese sociali allora fanno “marketing sociale”, cercano di rendersi visibili sul
mercato. Noi alla Mag promuoviamo e sosteniamo una competenza imprenditoriale nel sociale, ma
questa cozza contro la contraddizione che non si può pensare una comunità dove tutte le risposte
siano date in questo modo. C’è dell’altro che va visto, riconosciuto e sostenuto. Si sta creando una
cultura in cui andiamo ad affidare all’impresa sociale le risposte ai bisogni della comunità, anziché
dire che è la vita delle relazioni umane la prima e la più importante risposta e casomai l’impresa può
essere di supporto. Ci sembra invece stia avvenendo il contrario e questo porta ad un
impoverimento. A noi interessa questo scambio con voi che nelle vostre pratiche parlate meno di
imprenditoria. L’imprenditoria può essere una potenzialità, ma va collocata nel giusto posto.
Anna Di Salvo
Visto l’arrivo di Camilla Perrone dei Nuovi Municipi, riprendo il discorso sulle motivazioni
originarie di quest’incontro. Le Città Vicine hanno desiderato fortemente questo convegno perché
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hanno riscontrato nel lavoro dei Nuovi Municipi un grande senso di comunanza, dato dalla cura e
dall’attenzione che voi riservate alla città e al territorio, anche se noi delle Città vicine lo facciamo
con argomenti differenti, facendo riferimento alla ricaduta che la politica delle donne e la pratica
della differenza sessuale hanno nelle città. Quest’incontro non sarebbe stato possibile senza la
grande capacità organizzativa e di mediazione della Mag di Verona che è una presenza prestigiosa.
Loredana Aldegheri è venuta altre volte ai nostri incontri e ci auguriamo presto di fare un incontro
di Città Vicine che approfondisca il lavoro, l’attenzione e la dedizione che la Mag, con Loredana,
Maria Teresa e altre donne e uomini, riserva alla riqualificazione e alla modifica del senso del
lavoro nell’impresa sociale e nella cooperazione. Le Città Vicine sono tali più simbolicamente che
geograficamente, s’incontrano periodicamente per dirsi i guadagni, le sconfitte, ma soprattutto per
mantenere la soggettività e l’autonomia delle proprie pratiche, dato arricchente e originale che
abbiamo acquisito dalle Vicine di Casa di Mestre. Amiamo, come voi dei Nuovi Municipi,
scommettere sulla riqualificazione del territorio per un impiego intelligente delle risorse che non
causa sprechi. Apprezziamo la struttura a rete che vi siete dati a livello nazionale, che consente così
di conoscere e scambiare esperienze e sapere. Ci piace che abbiate messo in campo idee per forme
di buon governo e per un uso assennato delle risorse.
Camilla Perrone
Vi ringrazio per le parole d’introduzione. Sono qui con due ruoli: da una parte come rappresentante
e portavoce della rete dei Nuovi Municipi e del suo principale fondatore e responsabile che è il
professore Alberto Magnaghi di Firenze. Dall’altra parte sono portavoce di uno sguardo femminile
che molte di noi hanno all’interno della rete dei Nuovi Municipi. Voglio qui raccontare le cose
importanti che hanno favorito la nascita della rete e poi continuare con alcune riflessioni sulle
esperienze che stanno alla base di questa. Il senso della rete è l’attenzione ad alcuni aspetti del
territorio e la configurazione di un modello alternativo di sviluppo del territorio, attraverso la
valorizzazione di energie e risorse e la capacità di autorganizzarsi dei diversi attori che abitano il
territorio stesso. La costituzione della rete dei Nuovi Municipi è il passo conclusivo di un percorso,
nato molti anni fa, nel quale io, per questioni d’età, mi sono inserita ad un certo punto, ma dal quale
ho raccolto una consistente eredità sia sul piano scientifico e culturale che sul piano dell’esperienza
delle pratiche di trasformazione dei luoghi e del territorio. Con il primo forum sociale di Porto
Alegre un gruppo di professori universitari e ricercatori, di cui facevano parte i firmatari del
manifesto con cui la Rete esordisce, sentirono l’esigenza di trovare uno strumento che consentisse
di restituire un ambito di rilancio alle esperienze portate avanti da molti anni da gruppi di ricercatori
ed esponenti della società civile nell’ambito di esperienze concrete di amministrazione partecipata e
condivisa. C’era il desiderio di trovare un modo alternativo di raccontare il territorio, attraverso la
valorizzazione di pratiche sconosciute a molti. A questo punto ero già stata adottata dal gruppo di
lavoro e abbiamo deciso di scrivere un documento che si chiama “Carta dei Nuovi Municipi”. E’
stato il documento con cui ci siamo presentati al mondo. Dico “mondo” perché è avvenuta nel
forum sociale di Porto Alegre in cui i partecipanti erano davvero il mondo. È un documento
sintetico, fatto per slogan, in cui vengono sintetizzati i punti di base del nostro operare e della nostra
ricerca scientifica. Il punto cruciale della Carta, detto in sintesi, è l’attenzione alla creazione di un
modello alternativo di sviluppo: autosostenibile, autogestito e autogovernato, volto alla
valorizzazione delle risorse sul territorio e in grado di mettere in atto una gestione condivisa dello
sviluppo. Come fare tutto questo? Tra i punti che seguono ci sono gli ingredienti per raggiungere
tale obiettivo di produzione sociale.
Il primo punto riguarda le “nuove economie”. L’introduzione di questo termine ha portato a grandi
discussioni. Noi volevamo contrapporre a un modello di sviluppo liberista, che si basava sullo
sfruttamento delle risorse più che sul loro riconoscimento e sulla loro valorizzazione, un modello
alternativo che riconoscesse come “attori economici” le forme di cooperazione solidale, finanza
etica, artigianato, terzo settore.
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Il secondo punto affronta il tema delle differenze, trattato sotto diversi aspetti. Uno di questi è come
comportarsi di fronte all’immigrazione, fenomeno complesso, visibile ed emergente. Nella carta
compaiono alcune strategie che nel corso delle diverse esperienze sono state messe in atto.
Il terzo punto fa attenzione alle nuove forme di rappresentanza. Per proporre una modalità
alternativa alla rappresentanza è necessario infatti trovare un dialogo e un terreno comune d’azione
con la struttura alternativa che governa il territorio. Qual è l’organo che decide? Le amministrazioni
comunali che perpetuano il meccanismo della delega, oppure vogliamo assumerci le nostre
responsabilità e immaginare un governo diverso che consenta di agire direttamente sul territorio,
con la responsabilità di chi conosce e ha le risorse per farlo? Abbiamo optato per questa seconda
ipotesi. Nella carta si parla infatti di “istituti della partecipazione”. Sono dei luoghi, anche fisici, in
cui costruire, attraverso lo sguardo attento degli attori del territorio, un modello alternativo di
sviluppo. Sono istituti di democrazia deliberativa, capaci di una valutazione contestuale di come
muoversi, senza delegare la soluzione dei problemi ai politici lontani dalle fonti di conoscenza. La
prossimità delle politiche al “destinatario” è uno dei temi più importanti per noi. Pensando alle
periferie parigine di questi giorni, mi veniva in mente come la questione delle periferie sia oggi
emergente, ma non è una vera emergenza. Il problema infatti c’è da un sacco di tempo, dagli anni
Settanta ad oggi e diventa emergente a seconda dell’enfasi che i giornali mettono sull’argomento, se
fa attenzione a questo o a quel problema. Dei problemi delle periferie di Napoli, oppure “le Piaggie”
di Firenze o di altri luoghi si parla sempre dall’alto, se c’è qualche amministratore che ad un certo
punto si pone il problema delle periferie e pensa che deve trovare fondi, fare un piano di spese,
immaginare nuove infrastrutture nei piani regolatori. Tali bisogni probabilmente sono diversi, nel
senso che quello di cui ha bisogno “Scampia” è diverso da quello delle “Piagge”. Ieri pomeriggio
eravamo ad un dibattito su questo, ma veniva fuori che, di fatto, anche la sinistra, non cerca mai di
accostarsi al destinatario per capire qual è il problema vero, per trovare con questo una risposta al
suo problema. È probabile che vi sia un quadro di emergenze che non corrisponde alla realtà del
presente. Ad esempio, alle “Piaggie”mancano strade, case, spazio pubblico per bambini. Questo è il
quadro che può fare un’urbanista. Lì c’è bisogno di qualcuno che gestisca le relazioni tra il prete
delle “Piagge”, che è Don Santoro, e i vari gruppi sociali che si sono organizzati nel corso del
tempo. Dalla risoluzione di quel tipo di interazione potrebbe nascere poi anche la soluzione ad altri
problemi. Se nessuno dei politici si mette dentro al problema con i destinatari, inevitabilmente poi
decide in solitudine una strategia di soluzione e non se ne viene fuori. Come gruppo e poi come rete
ci siamo accorti che ciò che manca è la capacità di accostarsi ai problemi e alle persone per fare
insieme le strategie di valorizzazione e di responsabilizzazione. È una rete orizzontale che va
costruita. Il potere di una rete nasce dalla capacità di essere diffusa, di trovare tanti poli, di esserci
sul territorio. Il valore aggiunto sta nel fatto che trova forza da tre componenti: gli amministratori,
insieme agli altri politici con cui bisogna trovare una forma di dialogo; la società civile e le sue
organizzazioni (possono essere i centri sociali, gli immigrati delle case occupate, piccole
cooperative ecc.); i ricercatori e le università che con il loro sapere tecnico e specialistico possono
attivare un processo di pianificazione partecipata. Noi dei Nuovi Municipi ci mettiamo in gioco
come tecnici con “sapere esperto”, ma anche come cittadini, intendendo per cittadino colui che è
responsabile di quello che sta facendo e diventa tale per ciò che fa. Sono questi i soggetti che
possono tirare fuori in contesto la propria energia e creatività.
La forza, l’energia creativa e progettuale della società, l’amministrazione nelle sue configurazioni
illuminate, che talvolta riusciamo a trovare nel panorama contemporaneo, costituiscono insieme
l’energia di questa rete e forniscono una grande quantità di agganci e di appigli per altri soggetti.
Mirella Clausi
Sono della “Città felice” di Catania e penso che il successo di questo convegno sia confermato da
tante presenze ed interventi. Con Camilla ci siamo già incontrate al Congresso Internazionale
organizzato dal DAU (Dipartimento di Architettura ed Urbanistica) di Catania, a cui noi della “Città
Felice” siamo state invitate a parlare della nostra politica nella città. Il fatto di ritrovarci oggi in
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questo luogo per me assume il significato che c’è comunque un filo tra le nostre politiche. Alcune
cose che hai detto mi hanno fatto venire in mente il nostro modo di affrontare la politica della città a
Catania e volevo raccontare, in specifico, come noi portiamo la politica delle donne nel territorio.
La “Città Felice” è entrata nella città con tutto il suo bagaglio culturale e politico, senza venire
meno alla convinzione che partire da sé e dalle relazioni è l’unico modo di sostenere la politica di
cura del territorio, creando, come diceva Anna Di Salvo, delle relazioni sia con gli abitanti che con
altre associazioni, gruppi, università. Noi ci siamo prese cura di due territori in specifico: la Piazza
“Federico II di Svevia”, di cui molti hanno sentito più volte da me parlare, e il quartiere “San
Berillo”. La piazza “Federico II di Svevia”, è un posto molto bello e popolare, molto amato dai
cittadini, ma in cui c’è anche molto degrado e molti problemi. Il nostro intervento nella piazza è
partito dal desiderio verso questi luoghi e dalle relazioni che man mano riuscivamo a creare. Non
siamo partite dalla denuncia del problema, bensì dalla conoscenza del posto e dal cercare di fare
entrare nella piazza la città e fare uscire dalla piazza gli abitanti ghettizzati. Abbiamo organizzato
una serie di incontri, in cui gli abitanti hanno preso la parola, esprimendo il loro amore per la
bellezza di questi luoghi, della loro storia e del loro vissuto. Si sono sentiti anche in grado di
chiedere delle cose, di mostrare la loro consapevolezza.
Un altro posto che amiamo molto è il quartiere “San Berillo”, in cui lavoriamo insieme ad altre ed
altri all’interno di una un’associazione che si chiama “Babilonia”. A “Babilonia” e nel quartiere
siamo entrate mantenendo la nostra pratica politica, privilegiando la relazione sia con quelle e quelli
dell’associazione, sia con chi vive nel quartiere. “San Berillo” è un pezzo di centro storico, in una
parte della città distrutta dalla speculazione edilizia. Vicino a questo si sono formate le baracche
degli immigrati. È un pezzo di città che è rimasto più o meno disabitato, in cui negli ultimi anni
vivono solo transessuali e senegalesi, con forti contrasti tra loro e senza un minimo di relazione.
Siamo entrate fisicamente in questo posto, iniziando con delle “passeggiate” per far conoscere “San
Berillo” che è un luogo da cui i Catanesi non passano. In un secondo momento, abbiamo aperto una
sede come associazione e abbiamo instaurato relazioni positive con le comunità che vi abitano,
cercando anche di metterle in dialogo tra di loro. Ci sono i loro racconti, il loro sentirsi spesso
cittadini di serie b. La nostra presenza ed il nostro riconoscimento li fa sentire persone che possono
esprimere sentimenti e disagi. Ultimamente stiamo girando un video con un amico su questo
quartiere e sulla politica della Città Felice a “Babilonia” e la risposta dei transessuali, generalmente
schivi e sospettosi rispetto alle cineprese o ai registratori, è stata invece di grande disponibilità.
Poco fa Camilla ha parlato degli amministratori che si devono occupare dei quartieri, mi faceva
ripensare al fatto che a “San Berillo” il comune ha ottenuto un finanziamento ed ha iniziato i lavori
per rifare la rete fognaria, ma nella sciatteria che spesso contraddistingue le amministrazioni, non ha
pensato di approfittare dell’occasione per sistemare anche la rete idrica o di distribuzione del gas o
della luce. Solo grazie alla nostra attenzione queste altre cose sono state inserite.
In questo momento Catania sta vivendo il peggio di quello che avviene in Italia: gli immigrati sono
stati malamente buttati fuori dalle baraccopoli, con la distruzione dei loro effetti personali e senza
soluzioni alternative ed è in cantiere il raddoppio della linea ferroviaria, con un progetto che
comporterebbe il passaggio della ferrovia dal centro storico ed in specifico dalla Piazza “Federico di
Svevia”. L’attuazione di questo progetto porterebbe all’abbattimento di palazzi del Settecento e
Ottocento e quindi alla distruzione di uno dei posti più belli della nostra città. Noi della Città Felice
stiamo intervenendo, mettendo in gioco le nostre competenze di avvocate con quelle degli ingegneri
e degli urbanisti che ci sono vicini nella nostra pratica politica. Abbiamo avviato una discussione
con gli abitanti del quartiere con cui siamo in relazione ed abbiamo coinvolto i gruppi e le
associazioni che si occupano della città, spostando il problema dalla piazza alla città intera.
Gioia Virgilio
Faccio parte dell’associazione “Carovana” e dell’associazione “Orlando” di Bologna. Voglio
parlarvi di un laboratorio di progettazione partecipata che abbiamo fatto in un quartiere di Bologna,
in un’area che noi abbiamo chiamato “gasometro di idee”. “Carovana” è un’aggregazione mobile e
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aperta di cittadine e associazioni, nata all’interno di un percorso partecipativo di donne di Bologna e
provincia, diverse per età, formazione, attività lavorativa, che si sono interrogate sulla “città
desiderabile” e su come si potesse cambiare la vita nella città. L’esperienza si è tradotta, nel
dicembre 2004, in un’agenda politica di donne a Bologna. Ne ho portate due copie per chi volesse
vederla. In questo percorso abbiamo deciso di sperimentare delle forme di democrazia partecipata in
una delle aree oggetto di riqualificazione che il Comune di Bologna aveva identificato come aree
aperte alla partecipazione e particolarmente critiche. Abbiamo scelto un area strategica, prossima al
centro storico della città, nel pieno della cittadella universitaria. Quest’area è stata individuata da
una donna di “Carovana”, eletta consigliera di quartiere. Quest’area strategica ha la superficie di
circa 65.000 metri quadri, è di proprietà di una Società per Azioni. Per quest’area era già stato
progettato un accordo di programma che riguardava la trasformazione di un’ampia parte del
territorio, ma il consiglio del quartiere di San Vitale nel febbraio 2004 ha bocciato il progetto.
L’area è in parte abitata, vi sono attrezzature tecnologiche, c’è un vecchio e suggestivo gasometro
che si chiama “Mann”, perché è d’origine tedesca, però è inutilizzato. Quest’area presenta
un’emergenza geologica: nel sottosuolo infatti ci sono delle sostanze inquinanti che richiedono una
bonifica ambientale. Nel novembre 2004 si è organizzato un gruppo composto da associazioni,
comitati, singole persone che vivono nel quartiere e abitanti di Bologna interessati alla
valorizzazione dell’area. Si è deciso di dare vita a questo laboratorio. “Gasometro di idee” è
diventato il nome da un gruppo di ragazzi giovani, studenti universitari che avevano occupato
simbolicamente il gasometro. Il quartiere di San Vitale ci ha dato e ci dà tuttora delle sale a
disposizione per permetterci di riunirci. Abbiamo voluto sperimentare forme nuove di
partecipazione che prevedessero in particolare forme di “ascolto attivo”, una pratica che non è
molto chiara agli amministratori e che significa accogliere opinioni divergenti dalle proprie per
trovare delle soluzioni creative, forme di decisione diverse da quelle più tradizionali. Pensate alle
assemblee classiche dove parla chi sa parlare, ci sono posizioni contrapposte, si decide in base alla
maggioranza, scontentando la minoranza. Non volevamo percorrere esperienze come queste, né
proporre questionari dall’alto o instaurare rapporti passivi con gli esperti. Nel gennaio 2005 si è
organizzata una “passeggiata”, a cui Donatella Franchi delle Città vicine ha partecipato, nei luoghi
più significativi dell’area. Sono state coinvolte in questa iniziativa sessanta persone, tra cui
un’esperta di “camminate di quartiere”: Marianella Sclavi che ci ha guidato nel percorso e continua
a seguirci in quest’esperienza. Lo scopo era quello di coinvolgere anche persone generalmente non
rappresentate e di raccogliere diversi punti di vista, andando proprio sul luogo. Nell’aprile 2005,
con tutto il materiale raccolto, fotografie, cartine aeree, materiale storico, abbiamo organizzato una
mostra nel quartiere e una conferenza stampa, invitando tutti gli assessori competenti e
l’amministratore delegato della grossa azienda proprietaria del luogo. Lo scopo era di dare visibilità
al lavoro del gruppo, illustrare i contenuti e i futuri obiettivi del percorso di partecipazione. Il nostro
interesse era guardare sia all’area specifica sia al contesto del territorio. Questo è molto importante,
perché tutti i progetti che erano stati bocciati dal quartiere avevano appunto l’idea di fare una
cittadella chiusa, a compartimenti stagni, senza collegamenti con i parchi vicini. Questa differenza
ci caratterizzava. Nel corso della conferenza stampa, l’assessore all’urbanistica ha deciso di affidare
a “Carovana” la conclusione del percorso partecipativo. Così la nostra associazione è diventata
garante tra amministratori e cittadini della differenza femminile da applicare all’urbanistica. La
novità era che l’incarico non è stato affidato a dei professionisti, ma ad un’associazione che fa da
capofila e valorizza il lavoro svolto anche da comitati e associazioni che da anni lavoravano in
quell’area. È stato proposto di adottare un atto di delibera di giunta e una delibera di convenzione
del quartiere con “Carovana” che si pone quindi come soggetto anche giuridico. Adesso stiamo
proponendo al quartiere un progetto che cerca di valorizzare di più l’aspetto della partecipazione
sociale, oltre a quello strettamente di tipo urbanistico. Si è messa in piedi una ricerca. Si è avuta
così la formazione del gruppo “Gasometro” che ha cercato di avvicinare le persone che abitano nel
quartiere e preparare con loro un evento conclusivo, un’assemblea i cui risultati vanno poi portati
agli amministratori. Adesso siamo in un punto d’empasse, perché l’assessore all’urbanistica ha
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bloccato l’ordine del giorno in cui il quartiere doveva discutere del laboratorio “Gasometro” e
formalizzare il nostro rapporto. È ancora in corso la trattativa tra Comune, perché la Società
proprietaria dello spazio cerca di scaricare i costi della politica ambientale, una cifra altissima, sul
Comune. Quindi, in attesa della conclusione di tale trattativa, che dovrebbe concludersi a novembre,
viene rimandata la formalizzazione del laboratorio. Inoltre si annuncia una probabile riduzione
dell’area oggetto di intervento e quindi sono ancora incerti gli spazi che saranno messi a
disposizione dei cittadini e delle cittadine. Comunque, noi abbiamo deciso di andare avanti nel
progetto, anche se l’area di progettazione viene ridotta. E’ stato fatto un anno di lavoro e c’è stato
un grosso livello di partecipazione. Crediamo inoltre nei micro-laboratori, ovvero nelle esperienze
di crescita che permettono il contatto dei cittadini con il territorio e degli amministratori con i
cittadini. Sollecitata dall’intervento della Perrone, credo che il problema vero sia quello di
assicurare la partecipazione della cittadinanza nel lungo periodo. Quali sono i rapporti tra questa
cittadinanza attiva e la pubblica amministrazione? Una presenza continua di partecipazione attiva
che ricaduta ha sui processi decisionali? Questo è l’interrogativo che ci poniamo oggi.
Luciana Guffanti
Ascoltando Camilla Perrone e le altre, mi sono venute in mente le esperienze che ho avuto, anche di
scontro fisico, con le diverse amministrazioni di Milano. Siamo arrivate a fare addirittura una
denuncia all’Unione Europea per ottenere delle cose che sono giuste e che spettano alla città. Vorrei
ringraziare Marirì Martinengo, che è qui e che mi ha dato riconoscimento, battezzandomi “donna
del bosco” in un articolo di Via Dogana, rivista della libreria delle donne (Via Dogana n.69).
Qualcuno mi ha detto che di solito queste cose si fanno quando una persona è morta e io ho
risposto: “Sono ancora viva!”. Poi anche Donatella Franchi ha voluto un mio articolo per le Città
Vicine e anche quello lo ritengo un riconoscimento. Abito in un quartiere di Milano che per me è
stato come una prigione, nel senso che ci stavo male perché mancavano tantissime cose. In tutti
questi anni sono entrata a far parte di quattro comitati. I comitati nascono in città perché ci sono dei
problemi grossi che non possono essere risolti con una semplice richiesta. Ad esempio in un
quartiere di vecchia origine c’era il problema che, con l’avvento di nuove case, mancavano le
scuole materne e tutto quello che serve per i bambini. C’erano tante aree verdi disponibili nel nostro
quartiere, formato da circa venti palazzi, ma nel giro di sette anni tali aree sono sparite tutte, perché
sono sorte nuove case. Nell’ultimo spazio libero volevano metterci un campo di calcio e io non
potevo tollerare nel mio territorio il quinto campo di calcio. Io dicevo: “Campi ce ne sono tanti,
mentre ci vuole del verde per la gente”. Da lì è venuta fuori la storia di quest’area di 26.000 metri
quadri. Il consiglio di zona non poteva accontentarci, perché con i campi di calcio aveva
accontentato diversi partiti e con quest’ultimo campo doveva accontentarne un altro. Dopo varie
manifestazioni, ci siamo rivolti direttamente al sindaco e abbiamo ottenuto lo spazio verde. Nel giro
di cinque anni ho cominciato a vedere le piante e adesso c’è un bel parco che però verrà distrutto,
quando passerà la strada già delineata dal vecchio piano regolatore, pensato quando il quartiere era
una zona verde, ancora non abitata. Poi, nel giro di pochi anni, sono sorte un sacco di case e nel
1985 hanno deciso di far passare in città un’autostrada di 12 km. Tutti i quartieri che erano su quel
tracciato si sono ribellati e hanno formato dei comitati. Siamo riusciti per due anni a tenere testa,
però non eravamo all’altezza di fare proposte alternative. I fondi per fare quella strada il Comune li
doveva avere dall’ANAS. Nell’87 o i fondi venivano impiegati per realizzare il progetto o l’ANAS
non li avrebbe più dati. Così è stato. Nel ’98 però la cosa è ritornata ancora fuori. Questa volta noi
del comitato ci siamo avvalsi del Politecnico di Milano e un architetto con dei ragazzi che dovevano
presentare una tesi hanno fatto un progetto alternativo. Non è stato accettato. Per far discutere
quella proposta alternativa occorrevano cinquemila firme. Ne abbiamo raccolte ottomila e le
abbiamo portate al Consiglio comunale, ma la maggioranza dei consiglieri non ci ha ascoltato. Si
sono alzati e sono rientrati in aula alla fine della seduta. Hanno detto no, senza aver ascoltato la
nostra proposta. Noi allora abbiamo organizzato tante manifestazioni di protesta in piazza, nei
luoghi del quartiere. I giornali non hanno dato rilevanza alla nostra lotta. Ad un certo punto
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abbiamo pensato di ricorrere ad un legale, solamente che i soldi erano pochi. Abbiamo fatto ricorso
e poi presentato una denuncia all’Unione Europea. Quando c’è una decisione importante da
prendere in città, i cittadini devono essere consultati, invece questo non avviene normalmente.
Adesso, per esempio, il primo tratto di quella strada famosa è già in atto e hanno già fatto uno
scempio nel parco a Nord, non lontano dal nostro. Hanno già buttato giù molti alberi, pur avendo
ricevuto due messe in mora dall’Unione Europea. Non si sono fermati, sono disposti anche a
pagare. Se non mi sbaglio l’Unione Europea non può obbligare lo Stato italiano a fermarsi. Le
multe vengono pagate e tutto finisce lì. Alla fine quelle multe le pago anch’io che ho lottato per non
avere quella strada!
Lia Cigarini
Io vorrei cogliere l’invito di Maria Teresa Giacomazzi di partire dalle contraddizioni, più che dalla
descrizione delle cose che si fanno e che sono difficili da seguire per chi non sa per esempio che
cos’è la piazza “Federico di Svevia” o per chi non è di Milano. Una contraddizione che io ho sentito
saltata da Anna Di Salvo è quella emersa quando è stato portato l’esempio di Bologna che caccia i
rumeni dalle sponde del Reno. Fermo restando che l’appello alla sola legalità è insensato, io ho una
preoccupazione che non si sviluppino forme di razzismo. Quindi, non sono per uno schieramento
puro e semplice, uno schieramento contro. In nome della pratica di relazione, mi era sembrata
esemplare la pratica di Mestre dove le Vicine di Casa, davanti all’insurrezione del quartiere contro
l’insediamento di un campo nomadi, la prima cosa che hanno fatto è stata stabilire relazioni con le
donne del quartiere. Non hanno detto è sbagliato togliere di mezzo o mettere lì l’accampamento
Rom. In questo senso io credo che nella periferia di Milano le donne siano spaventate dagli
agglomerati di immigrati, in maggioranza maschi senza famiglie. Io penso che si deve tenere
presente, oltre all’accoglienza, anche la paura delle donne. Si deve evitare in tutti i modi che si crei
razzismo e quindi la pratica delle relazioni non è a senso unico. E’ molto più efficace ascoltare e
parlare con le donne di quel quartiere che organizzare comitati di protesta o raccogliere firme. Io
eviterei gli schieramenti, anche sulla questione della TAV, l’alta velocità. Il nostro approccio tiene
conto della complessità, non penso che debba essere quello dello schieramento più ovvio, quello
contro.
Wanda Tommasi
Volevo dire con simpatia ad Anna di Salvo che è sì giusto puntare sul positivo, però tenendo
presente tutte le difficoltà e le contraddizioni che poi emergono. Riguardo a questo incontro, ho
pensato che Città Vicine mi andava bene, ma “Città Felice” mi sembrava troppo. Io abito a Verona,
in una città che è molto bella, ma dove ci sono anche molti problemi. Mi chiedo se non ci sia modo
di tener presente tutti i problemi, pur non perdendo l’orientamento verso quello che ci si sente di
fare. Tra la cose che ho letto in questi giorni su Parigi una cosa mi è parsa significativa: lì sono
venute a mancare le reti di associazioni che facevano in qualche modo da mediazione. Tempo fa
sono entrata in uno di questi luoghi dove fanno i kebab nel quartiere di “Veronetta”. C’erano solo
uomini. Se non fossi stata con un’amica, non avrei avuto il coraggio di mangiarmi quel kebab. Il
problema quindi ce l’abbiamo molto vicino. Il mio è un invito a tener presente il problema. Accanto
al nostro orientamento di guardare al positivo della realtà, è bene ascoltare anche le difficoltà di chi
sta in prossimità del negativo.
Maria Luisa Gizzio
Vivere a Roma oggi è una sfida continua all’esistenza per possibilità di gioia e una sfida continua
alla resistenza di mantenere quella gioia, nonostante tutto. Una sfida che comincia e finisce nello
stesso luogo: gli ospedali. C’è un disprezzo per la vita negli ospedali dove si nasce e dove si muore.
Come si può convivere con questa situazione che inizia negli ospedali e continua nel modo di
lavorare e nel modo di vivere. Le donne delle Città Vicine sono in relazione e sono attente alle
situazioni, si muovono per rispondere a questa provocazione contraria alla vita e assumono un
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atteggiamento di speranza e uno sguardo amorevole verso la vita della città. A Roma ci sono donne
e uomini che hanno dato risposte diversificate a tutto questo, partendo dalla soggettività e dallo
stare in relazione con altri e altre che vivono lo stesso problema. Ci sono delle situazioni di lotta, dei
quartieri in cui sono nati negli anni diversi comitati. Volevo sottolineare che ci sono delle differenze
anche tra i comitati, perché nascono con un’esigenza precisa, come ad esempio impedire che ci sia
la costruzione di una strada, senza tener abbastanza conto del tipo di pratica da attuarsi per
realizzare l’obbiettivo di una migliore qualità di vita. Le Città vicine, invece, pensano di trovare le
soluzioni ai diversi problema individuati, partendo dalle relazioni. L’impostazione è quella di creare
immediatamente il piacere dello stare insieme per fare poi delle scelte e delle iniziative politiche.
Un’altra cosa importante è collegare le realtà vicine per avere una visione più ampia che rimanda a
qualcosa che è oltre l’immediatezza del problema sentito. Per esempio, uno dei luoghi con cui io ed
altre abbiamo avviato un confronto è stato il “Socialforum” di Roma che ospita anche il “Potere
rosa”, un’organizzazione che si occupa di un’alimentazione più sana e mette in rete gli agricoltori
biologici, cercando contemporaneamente di avere relazioni con altre modalità di lotta, anche
lontane, su questo campo, mette quindi in relazione abitanti di città lontane con una visione
complessa che tiene conto dei problemi che ci sono e non si limita alla ricerca di soluzioni
immediate.
Gisella Bassanini
Ascoltando gli interventi fino ad ora, vorrei dire brevemente due cose. La prima è una domanda che
volevo fare da tempo a qualcuno dei Nuovi Municipi e cioè se in questo contesto esiste un pensiero
e una pratica che le donne hanno sviluppato autonomamente, rispetto ai “padri fondatori” del
movimento, come Magnaghi, che hanno una propria storia culturale e politica. Io arrivo da una
facoltà dove Magnaghi insegnava e c’è una grossa differenza tra il suo modo di pensare la città e la
mia. Questo dei Nuovi Municipi l’ho sempre pensato come un movimento molto maschile, perciò,
per essere chiari, ho delle resistenze nel leggere i suoi materiali.
L’altra questione invece la pongo in quanto donna che per anni si è impegnata in progetti partecipati
in aree dismesse. Riguarda il rapporto problematico tra i progetti di partecipazione e di ascolto
attivo della cittadinanza e i poteri forti, i processi decisionali. In questa fase della mia vita non
voglio più fare progetti partecipati se non ho la garanzia che vengano assunti. Chi mi ha pagato in
questi anni è stato un ente locale, un assessore o un sindaco. Mi hanno fatto andare sul territorio, mi
hanno fatto animare i “portatori di interessi” senza voce, tanto per usare dei linguaggi tecnici che
poi non sono così tecnici. Abbiamo elaborato insieme documenti che potevano segnare le scelte
amministrative e di sviluppo della città e poi tutto rimaneva sulla carta. Questo è per me un tema
che va affrontato! Siamo disposte a stare a questo gioco che il più delle volte è veramente
demagogico, anche per le amministrazioni di centro-sinistra, oppure diciamo no? Quando ci
sediamo con i portatori di interessi deboli, quelli che non hanno voce, vogliamo anche avere a
fianco i portatori forti, per chiarire subito le cose. Fino a questo momento mi sono astenuta dal
partecipare a questo gioco demagogico. Credo che come donne possiamo prendere una posizione
rispetto al progetto partecipato che oggi è diventato di moda e che in realtà è un gioco a cui non
dovremmo prestarci.
Fernanda Minuz
Parlo su sollecitazione di Lia Cigarini che ci invita ad evitare gli schieramenti. In questa polemica
abbastanza triste sulla legalità che si è sviluppata a Bologna una parte di noi ha scritto una lettera
con una presa di posizione simile proprio a questa. Viviamo noi stesse direttamente in situazioni di
degrado urbano. Quello che non troviamo giusto è ridurre il dibattito a una questione di legalità,
quando il tema vero è quello della convivenza cittadina. Nel mio intervento volevo brevemente
richiamare tre pratiche che sono legate ad episodi molto specifici che hanno toccato la città. Il
primo è stato un caso di violenza sessuale per opera di un immigrato che ha aggredito una giovane
coppia in un parco cittadino. Questo fatto ha paralizzato la città. Dico “paralizzato”, perché in
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questo momento Bologna mi sembrava si stesse risvegliando da una sorta di stupore che l’ha colpita
dopo l’elezione della nuova Giunta e in certi casi è stata incapace di agire di fronte alle cose. Questa
è una mia valutazione personale, ma vedo che anche le altre di Bologna assentono. C’era questa
immobilità e la Lega aveva organizzato una manifestazione del suo stampo nel parco in cui era
avvenuta la violenza. La notizia di questo stupro ci è giunta mentre era in corso una riunione di
associazioni di donne. La decisione è stata quella di creare una mobilitazione, cercando di
ricondurre l’episodio all’atto di violenza sessuale maschile, a prescindere dal fatto che il
protagonista della violenza era un immigrato, rifiutandoci di creare il nemico. Abbiamo organizzato
nel parco un’assemblea, un incontro tra reti e realtà diverse, dalle organizzazioni tipo quella di “Via
Bassa” fino al Centro Progetti dei Gesuiti. Abbiamo ritenuto importante riconoscersi in una visione
della città in termini di convivenza e non di conflittualità. Il secondo episodio riguarda il problema
di come portare in città le pratiche delle donne, le pratiche di relazione. Si è creato all’interno di
questo gruppo informale “Carovana”, a cui prima Gioia faceva riferimento, un gruppo che
chiamiamo “Immigranti attivi” che si riunisce e la cui pratica è proprio quella di individuare luoghi
e momenti di creazione di civiltà. La prima pratica che abbiamo individuato insieme, che è stata una
richiesta immediata delle nostre amiche straniere, era quella della vergogna delle file di stranieri
alla Questura per i permessi di soggiorno. Si è cercato di cucire una relazione con tutti coloro che
credono che sia un fatto di civiltà non avere delle file di persone davanti alla Questura e abbiamo
coniato “in coda contro le code”. Noi italiane ci siamo messe in coda davanti alla Questura, avendo
le straniere come nostre garanti nei confronti degli immigrati che erano in fila. Abbiamo così
ribaltato in un certo senso la situazione e messo in evidenza come in realtà, attraverso la costruzione
della relazione quotidiana e attraverso l’ascolto di bisogni che possono sembrare minimali rispetto
alle grandi strategie di politiche sociali, in realtà emergono pezzi di civiltà, di coesistenza, di
coabitazione pacifica. Abbiamo avuto un riscontro sui media superiore alle aspettative, dato il
minimalismo della nostra azione. Ho citato questi due episodi perché evidenziano come queste
pratiche nascono in un contesto che vede tutte le associazioni di donne di Bologna che da tempo si
sono poste il compito di creare uno spazio pubblico per la società civile femminile che è fatto di
luoghi e momenti di incontro, di relazioni, di reti, ma è anche un luogo fisico, finalmente
individuato nella sala di un palazzo centrale della città. L’accesso a questo spazio, che ha ospitato
per anni tante donne, è oggi fortemente messo in discussione: l’amministrazione vuole revocarlo.
Questo spazio pubblico della società civile esiste da anni ed è conosciuto anche dalle organizzazioni
miste. Abbiamo ospitato infatti centinaia di associazioni e di eventi in questo periodo. L’ultimo
progetto-programma dell’associazione “Orlando” si chiamava “Il convento e la città”, una metafora
per indicare il convento come luogo di riflessione e la città come luogo dell’agire in comune.
Adesso rischiamo di perdere questa sala che è stata delle donne per una ventina d’anni ed è stata
sempre gestita in autonomia dall’associazione “Orlando”. La motivazione è che non ci sono i soldi e
quindi la sala verrà data in affitto. La notizia è dell’altro ieri, quindi non c’è certezza. Faremo presto
un’assemblea cittadina su questo. Come noi donne abbiamo voluto essere simbolicamente nel cuore
della città, di fianco al Municipio, forti di un pensiero sulla città, così adesso l’amministrazione sta
istituzionalizzando tutti i luoghi fisici attorno alla Piazza Maggiore. È necessario tenere presente
che niente di quello che è stato acquisito può esserlo una volta per sempre, ma è sempre necessario
conservarlo, ricrearlo. Qual è l’impatto nel lungo periodo? Quali sono le garanzie di continuazione
delle pratiche che mettiamo in campo?
Filippa Di Marzo
Sono un’avvocata. Sono venuta qui con le mie amiche di Città Felice perché l’argomento della
relazione con la città tocca molte di noi di Catania che su questo abbiamo molto lavorato e
continuiamo a farlo. Vorrei intervenire sulle emozioni e le sensazioni che gli interventi precedenti
mi suscitano, in particolare sulle cose dette riguardo alle contraddizioni. Vorrei partire
dall’osservazione molto efficace di Lia Cigarini che, se ognuna di noi racconta le sue esperienze
cittadine, finiamo per parlare di luoghi che non tutte conoscono. L’altro punto su cui è stato messo
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l’accento riguarda le storie di accoglienza, le forme di razzismo, la paura che le donne hanno dei
migranti. Sono tutti argomenti che meriterebbero un approfondimento e di cui io intendo cogliere le
contraddizioni. Il problema dell’immigrazione riguarda tutti quanti, anche gli uomini. Il diverso ci
fa paura. Il problema, tornando all’intervento di Anna Di Salvo, è il nostro operare in città. Fin
quando il diverso arriva in città e poi viene ghettizzato e collocato in container o in periferie, e
questo può valere sia per gli extracomunitari che per noi cittadini italiani, il conflitto è aperto. Per il
meridione c’è un problema di ghettizzazione e io penso possa colpire ancora oggi la paura di chi
viene dalla Sicilia e dal meridione. Nella politica dell’accoglienza ci sono tre pratiche che mi
sembrano fondamentali: l’incontro, l’incrocio tra istituzioni, l’università come luogo di sapere e
conoscenza. A questo punto vorrei dire soltanto che la competenza tecnica non è solo quella
dell’università. Io, avvocata mi sento una professionista competente sui problemi della città.
Ognuno può dire la sua ed è quello che sto dicendo a Catania e su cui sto lavorando con la Città
Felice. Ci sono competenze molto più ampie che includono non solo quelle di tecnici e ingegneri,
ma anche di avvocati o di altri. Come facciamo a conoscerci fra città vicine, se non parliamo di noi,
delle nostre vite? Come facciamo a non schierarci, se non conosciamo i problemi? Questo è il luogo
in cui possiamo conoscerci: io racconto di Catania, lei racconta di Bologna e l’altra di Milano. Io,
ascoltando quelle che sono intervenute prima di me, mi sono resa conto che può cambiare la piazza,
la città, ma i problemi sono comuni. Questo avviene perché ci confrontiamo, raccontando ognuna,
ognuno di noi, delle esperienze personali e cittadine. Penso che noi dobbiamo prendere posizione,
perché solo così possiamo dire la nostra. Se poi lo facciamo sulla base di un partito preso, questo è
un altro discorso. Se ho delle linee guida, mi faccio una mia idea e intervengo. Volendo ora
raccontare di me, dico che sono una donna che vive immersa nelle relazioni. Però le relazioni
possono essere indifferenziate, nel senso che tutti ci relazioniamo ogni giorno con l’altro, l’altra, ma
forse non abbiamo la consapevolezza di come ci relazioniamo e dell’importanza di queste nostre
relazioni. Ho sempre avuto piacere nel relazionarmi, ma da qualche anno, da quando ho incontrato
nella Città Felice la politica delle donne, il mio modo di guardare alle cose che mi stanno intorno
sia nella città sia come avvocata è più attento. Quando nello studio vengono i miei clienti, il loro
caso giuridico può diventare un caso umano fuori dallo studio. Anche l’attraversamento del doppio
binario nel centro storico di Catania mi ha coinvolta come donna, ma a maggior ragione mi sta
coinvolgendo come avvocata. Insieme ad una mia collega mi sono fatta carico, come esperta, di
guardare i problemi dal punto di vista giuridico e metto a disposizione le mie competenze per Città
Felice e per la Città di Catania. Tutti ci dobbiamo spendere in nome della relazione, in prima
persona e insieme all’altra, all’altro.
Vita Cosentino
Nell’intervento precedente ho sentito una forte esigenza di lottare e lo condivido in pieno. Poi penso
che siamo in una fase di discontinuità epocale e tutta una serie di termini e di questioni ha bisogno
di essere ripensata. Prendere una posizione significa fare anche un lavoro di pensiero e quindi non
cercare delle scorciatoie o appoggiarci ai vecchi modi di pensare che ci portiamo dentro. Penso ad
esempio alla contraddizione che poneva Gisella nel fare tutta questa bellissima iniziativa
partecipativa, spendendo tante energie e poi rischiando di vedere tutto finire in niente.
Parliamo di relazioni, ma quello che è messo in dubbio forse, da quest’epoca che ci trascina verso
un fortissimo individualismo, sono proprio le relazioni. Per esempio una discussione che abbiamo
fatto a Verona, all’interno del progetto EC.CO.MI che si occupa di microcredito per le nuove
povertà, riguarda gli operatori sociali che diventano sempre più dei professionisti del sociale e
perdono la sensibilità al contesto, la capacità di capire le cose. Abbiamo conosciuto dei percorsi che
insegnavano alle persone ad attaccare le cinture lampo, a fare tutto, tutto, in modo autosufficiente,
ma mancava l’idea che tra di loro ci poteva essere una che sa fare la sarta, per cui farà lei le
riparazioni e attaccherà le cinture lampo, un altro che sa fare il falegname e così via. Anche
l’economia sociale si può indirizzare a dei modelli sempre più forti, basati sull’autosufficienza,
sull’individualismo, non c’è niente di relazionale in tutto questo. Le cose sono un po’ più
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complicate e noi non abbiamo alcuna soluzione, però stiamo cercando di porre i problemi e anche di
indicare un cambiamento nel modo di vedere le cose.
Nella borsetta che ci è stata regalata questa mattina dalla Mag c’è il fascicolo intitolato Un piatto di
riso. Lì noi che abbiamo collaborato al progetto cerchiamo di interrogarci su che cosa sia oggi la
povertà e in che termini c’è ricchezza nelle nostre vite, cerchiamo di capire qualcosa di essenziale.
Per esempio nei paesi cosiddetti poveri del terzo mondo, se io ero falegname, anche se non c’era
denaro, mi si permetteva di vivere, perché scambiavo la mia professione con altro. Il capitalismo
invece crea una miseria assoluta, è all’origine delle problematiche delle periferie che conosciamo,
in cui le persone perdono tutto, perdono la loro stessa capacità lavorativa. Ci sono delle
discontinuità profonde da riprendere in mano, ma noi tendiamo a cercare sempre una soluzione
individuale alle cose così andiamo dall’avvocato o facciamo una graduatoria. Le stesse nostre
professionalità devono essere ripensate, perché noi siamo intrappolate dentro.
L’ultima contraddizione che pongo è che, con tutta questa discontinuità, abbiamo anche il
problema, ed è quello che mi pongo di più, di come passare nelle mani delle generazioni più giovani
i nostri percorsi. Per questo mi fa molto piacere vedere qui una giovane donna come Camilla
Perrone,
Vincenzo Benciolini
Io mi occupo di portare avanti il discorso delle reti di economia solidale in contesti che sono simili,
a quanto ho sentito, al movimento dei Nuovi Municipi.
Cerco di vivere in modo positivo la mia vita. Non è facile. Vedo molte contraddizioni. Durante le
ore di lavoro molti servono il sistema del gigantismo economico e produttivo; poi, nelle ore di
libertà, con il volontariato cercano di riparare i danni che si fanno.
Mi domando che cos’è che ci serve di tutto quello che offre questa nostra società cosiddetta
civilizzata. Secondo me, molto poco. Tanto di quello che abbiamo non è ricchezza, ma zavorra di
cui ci dobbiamo occupare, portandocela dietro per tutta la vita. Ebbene, se si riuscisse a vederci
chiaro e sbarazzarci di molte cose, avremmo più libertà, più tempo per le relazioni.
Stefano Freddo
Volevo anch’io partire dalle contraddizioni. Mi sembra proprio che dovremmo cominciare da quella
che riguarda il rapporto tra uomini e donne. Bisogna saperli vedere i conflitti che viviamo in noi,
nel locale e a livello generale; è necessario cominciare a fare dei pensieri che siano radicati nella
vita e che ci aiutino a muovere dei passi insieme. Ho sentito parlare di individualità in senso
negativo. Secondo me Non si deve demonizzare l’individualità. L’individuo è quello che si scopre
nella relazione. Voglio citarvi una frase semplicissima tratta da “Lettera a una professoressa” della
scuola di Barbiana: “Ogni ragazzo è diverso, è diverso in ogni momento, è diverso di ora in ora”.
Qui mi sembra che bisognerebbe cominciare a fare dei pensieri su ciò che significa coltivare la
persona, l’individuo nella relazione, sul fatto che nella vita educativa, dove la persona acquisisce la
capacità di conoscere la realtà, si coltivi l’obiettivo di lavorare per vivere, invece di liberare le
capacità creative dell’individuo. Il mio lavoro, quando è remunerato, diventa merce, ma questo
lavoro è anche altro, è in relazione alla mia dignità di essere umano. Come portare le capacità dei
singoli ad essere vitali per la comunità? Queste sono domande a cui si può cominciare a dare delle
risposte, senza aspettare la riforma della politica. Nel territorio è possibile trovare lo spazio
pubblico dove le iniziative creative individuali si possono liberamente esprimere.
Si è parlato prima di competenza pratica e le si è dato molto valore. Il pezzo di carta, è stato detto
dalla signora Perrone, vale poco rispetto al fatto di essere radicati nella vita. Dice ancora il testo dei
ragazzi di Barbiana: “I ragazzi perdono l’amore per ciò che studiano, perché hanno il voto,
l’interrogazione, il diploma e il diploma è uguale a quattrini”. Siamo alla radice di un “conflitto di
interessi” che noi viviamo continuamente nella nostra persona.
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Mi domando se è sano continuare a lasciare che i servizi di educazione e di sanità siano prodotti e
gestiti a livello pubblico. Non sarebbe meglio, invece, farsi carico come comunità dei problemi di
ogni singola persona, lasciando la libertà ad ognuno di esprimere i propri orientamenti?
Anna Di Salvo
Ho avuto un compito difficile oggi, quello di introdurre il tema della politica delle Città Vicine,
collegandola ad alcune questioni che chi segue il discorso dell’abitare i luoghi conosce. A questo
proposito vorrei ricordare un mio scritto pubblicato su Via Dogana n. 71, nel quale propongo una
riflessione sulle relazioni intercorse nella piazza dove abito tra migranti e abitanti che via via si
erano affezionati molto a quelle donne e uomini accampati nella piazza. Questi si lavavano nella
fontanella, si sedevano nelle panchine e a volte vi dormivano. Avevamo imparato a conoscerli e
accettare le loro abitudini e la loro presenza; quando sono stati trasferiti altrove abbiamo sofferto. Io
abito al centro storico di Catania, ho frequentato la baraccopoli di cui parlavo prima, abbiamo
sostenuto e lottato insieme ai rumeni e ai polacchi, affinché avessero un’accoglienza migliore.
Anche nell’intervento che ho proposto nel Duemila a Roma ad un convegno di insegnanti
dell’Autoriforma gentile sulla competenza dell’esserci e che aveva come titolo “Cosa giova al farsi
del pubblico: vi racconto le Città Vicine”, parlavo della creazione di un nuovo senso del “pubblico”,
alla luce delle pratiche e del desiderio delle donne, dell’esperienza e intraprendenza femminile che
travalica la dimensione del privato e si mette in gioco nei fatti concreti della città, costruendo, ad
esempio, ponti tra donne catanesi e donne curde, in occasione di uno sbarco improvviso di migranti
a Catania. Come diceva Gisella Bassanini, credo quindi che la politica delle donne in questo
momento stia lanciando una grossa scommessa, un salto di qualità, proponendosi oltre che come
creatrice ed indicatrice di senso, come protagonista di eventi concreti, significativi delle pratiche
delle donne.
Camilla Perrone
Cerco di riprendere i punti che questa mattina non sono riuscita ad articolare. Prima di tutto volevo
rispondere alla domanda che mi era stata fatta se esiste un percorso autonomo femminile all’interno
della rete. Da una parte sì, dall’altra no. In effetti, fin dall’inizio, il pensiero che ha portato alla
costruzione della rete dei “Nuovi Municipi” e alla stesura della carta è stato un pensiero maschile,
portato avanti da professori e ricercatori etc. Nel corso del tempo però, man mano che le idee
venivano scritte e sperimentate dalla rete, questa apertura verso la differenza c’è stata. Ho visto
certe persone all’interno della rete, ci sono anch’io tra quelle, cercare di diffondere uno sguardo
diverso sulle cose, con una sensibilità diversa, probabilmente femminile, non lo so. Comunque si è
rilevata la capacità femminile di fare attenzione a cose di cui il pensiero maschile non si accorge.
Insieme con Paola, che è una professoressa di scienze, abbiamo scritto su questo all’interno di un
testo che raccoglie una serie di contributi sui temi della Rete (la comunità, l’identità, la
partecipazione, lo sguardo omosessuale sulle cose, le esperienze di partecipazione e un sacco di
altre cose) ed è per noi come una specie di “Bibbia” perché contiene i riferimenti essenziali e tutto il
percorso del movimento.
Quindi direi che uno sguardo al femminile c’è nella rete e che la forza della rete è questo sguardo
che cerca di essere ovunque e non si circoscrive in un ambito specifico, ma cerca di permeare tutte
le azioni. Tuttavia, su richiesta di una persona in particolare e poi di altre che l’hanno seguita, a un
certo punto del percorso è stata aperta una commissione sui temi sentiti dalle donne in generale e
quindi sul ruolo che il pensiero femminile può avere nella discussione e sperimentazione dei
concetti che sono nella carta dei Nuovi Municipi. Non so bene a che punto siano i lavori di questa
commissione sinceramente, perché io sono trasversale a questi aspetti per cui l’aggiornamento
ultimo non lo so. Però sul sito della rete ci sono i contatti eventualmente per chi vuole saperne di
più. Nei Nuovi Municipi c’è una riflessione sul concetto di identità che viene considerata come un
processo, qualcosa che si costruisce in corso d’opera, non un obiettivo, ma semplicemente ciò che
cambia durante un processo comune. Che cos’è l’identità, che cos’è la comunità per una donna che
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lavora quotidianamente, forse più di un uomo, a contatto con i problemi? Qualcosa di molto
concreto. La visione maschile tende invece ad enfatizzare, ad astrarre il concetto di identità o di
comunità. Le donne misurano il senso di quei concetti nella pratica quotidiana, nei percorsi di
arricchimento che ciascun abitante, ciascuna comunità mette in pratica costruendo se stessa.
La differenza nel pensiero maschile è un concetto ancora molto strutturato. Spesso si dà la colpa
alla differenza, se ci sono conflitti e fraintendimenti. Il pensiero maschile dice che è importante
stare attenti alla comunicazione, alle relazioni e al conflitto con l’altro, ma non si interroga su come
opera il pensiero femminile, un pensiero che si confronta con quello che c’è nella realtà di tutti i
giorni, con la differenza e la paura dell’altro. Come faccio a scendere in campo e ad affrontare la
paura dell’altro? Qualcuna diceva stamani di aver avuto paura in un kebab dove era capitata, perché
si era trovata in una situazione che non si aspettava: c’erano solo uomini. Tutti uomini, quindi
diversi, diversi da me perché uomini, in più di un’altra cultura, quindi imprevedibili. Allora che
cosa faccio? C’è una soluzione più a lungo termine, di cui non vedrò sicuramente l’effetto il giorno
dopo, ma nel tempo. Tratto questa paura, tratto il problema della paura dell’altro come una malattia
e punto sul valore terapeutico della cura della mia paura dell’altro. Se io mi metto in quest’ottica,
allora cerco di trovare una terapia per affrontare la mia paura e la terapia non è fatta da soluzioni
radicali, è fatta da tanti passaggi progressivi. Ho paura dell’altro? Ho paura di andare in quel kebab?
Faccio un incontro, cerco di capire se la paura è mia o è di qualcun altro. Cerco di sapere chi è che
gestisce quel kebab, chi sono le persone che ci lavorano, come si chiamano, che ruolo hanno.
Istruisco un “processo”, un percorso di cambiamento in cui affronto la paura. Qui vedo la differenza
tra un approccio maschile al problema e quello femminile. Non voglio dire che la soluzione
maschile non funziona. Dico che ci debbono essere entrambe, perché l’una senza l’altra zoppica,
non ce la fa.
Ultimo concetto: io sono un’urbanista, lavoro dieci giorni al mese, che alterno con altro, certo non
in maniera schizofrenica. Ho la fortuna di fare un lavoro che mi consente anche di fare
un’esperienza di vita in cui credo, per cui non è che quando smetto di lavorare, poi cerco di riparare
i danni che ho fatto nelle ore precedenti nel mondo maschile. Prima qualcuno diceva che i saperi e
gli esperti vanno cercati nel territorio. Il gioco sta proprio qui: sei radicale, sei soggettivo, sei
interattivo, sei specifico, efficace soltanto se riesci ad interagire sul terreno della conoscenza
radicata a livello locale. In un pensiero di Marianella Sclavi, che è stata citata stamani, questa figura
è chiamata “danzatore politico”. E’ bellissima questa definizione, perché il danzatore politico è una
figura poetica di una semplicità ed efficacia incredibile. Ci offre l’immagine di uno che danza, che
fa le coppie, le coreografie, va da una parte all’altra con la musica, tenendo i passi nella maniera più
corretta che può, ma in più persegue un’armonia, sa quando inizia il movimento e non sa come
finisce, danza e si sposta da una parte ad un’altra.
Un ultimo punto. Come si fa ad essere efficaci? Siamo stanchi di questi processi partecipativi che
non arrivano in fondo. Anch’io la ricetta in tasca sinceramente non ce l’ho. Però mi chiedo perché
abbiamo deciso di farci rete? Perché siamo qui oggi con tutte queste reti? Stiamo marciando nella
stessa direzione? Perché percepiamo questo scollamento incredibile tra desideri e opportunità?
Noi abbiamo cercato di ridurre a zero la distanza che c’è tra amministrazioni e cittadinanza.
Pensiamo che fino a che l’amministrazione sta da una parte e la società dall’altra non si riuscirà mai
ad agire in modo efficace. Sarà per esempio molto difficile che la proposta di un comitato, anche se
ben costruita, documentata, anche con il parere degli esperti, venga esaminata e accolta da
un’amministrazione. I politologi ci spiegano che le dinamiche politiche e sociali di una macchina
amministrativa così strutturata non possono aprirsi ad accogliere organismi di questo tipo.
Allora qual è il gioco? Metterci tutti dalla stessa parte! Come rete abbiamo cercato un luogo di
incontro tra amministratori, società civile e università. Volevamo che a decidere fossero
amministratori, società civile e università insieme, che non si avanzassero proposte solo da una
parte o dall’altra. Questa non è più l’epoca del consenso degli anni Settanta e non è più nemmeno
l’epoca delle tecniche applicate al sociale. Ci siamo scocciati di fare i “facilitatori”, di andare in
campo a sperimentare tecniche di tutti i tipi. Chi lavora sulla partecipazione sa benissimo di cosa
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parlo. La progettazione interattiva, come ci piace chiamarla, deve avere la sua efficacia e per dare
efficacia non c’è altra strada che mettersi tutti dalla stessa parte, ognuno diverso, perché è giusto
che ci siano ruoli e compiti diversi, però tutti dalla stessa parte. Se non è così, secondo me, non se
ne esce da questa situazione. Sono d’accordo con chi sostiene l’interdipendenza delle decisioni,
cioè afferma che quello che faccio io influenza necessariamente l’altro e, se non faccio attenzione,
rischio di perdere il gioco. Se sono in una squadra e non mi so coordinare con gli altri che sono
della stessa squadra, rischio di perdere e non perdo solo io, ma tutta la squadra. Il senso è quello
della cooperazione, del collaborare a qualcosa, alla vita della città, ma per cooperare devo fare
qualcosa assumendomene la responsabilità.
In ogni caso il processo è lento, non avviene in un giorno, ci vuole tanto tempo. La cultura
amministrativa sta cambiando, ma prima di vent’anni, secondo me, una riforma radicale non la
vedremo. Però nelle città che aderiscono alla rete abbiamo fatto delle esperienze significative in
questo senso. E’ stato possibile, perché noi eravamo accanto agli amministratori, con tutti i loro
difetti, le difficoltà, certo, però abbiamo sperimentato insieme un modello diverso di azione. Sta qui
il valore della nostra rete.
Vivien Briante
Quello che mi preme di più è di riprendere quello che diceva Lia Cigarini, la questione delle
contraddizioni. Questa precisazione di Lia secondo me è utile e si ricollega al grande desiderio di
narrazioni. In maniera un po’ cruenta Vita Cosentino diceva che, se io non racconto quello che
sono, chi sono e quello che mi appartiene, come posso inserirmi o farmi capire o farmi conoscere o
dare significato a quello che sto facendo? Però, è anche vero che una narrazione così può avere dei
rischi, cioè occupare lo spazio che va lasciato, secondo me, anche ad altro. Quindi, sì al contenuto
di una narrazione, ma tirando fuori il rilancio e i termini di confronto più che il racconto fedele
degli eventi, perché comunque è vero che è faticoso da seguire. Biografie continue danno anche un
po’ di stanchezza all’ascolto. Credo che la nostra politica conviva fortemente con alcune
contraddizioni. Rispetto ai Nuovi Municipi quello che ci interessa è la vicinanza utile, proficua che
possiamo avere con questa realtà. Anche qui dobbiamo trovare quella giusta misura, giusto stimolo,
quella possibilità che questa vicinanza ci permette di costruire. Adesso, io la butto così perché non
ho avuto modo di fare ulteriori riflessioni, però mi piacerebbe, e credo che sia anche il senso del
nostro incontro, lavorare proprio su contrapposizioni che comunque ci appartengono.
Franca Fortunato
Sono venuta, qui, con grande entusiasmo, mi interessava molto questo confronto con i Nuovi
Municipi, anche perché, nella mia regione, noi delle Città Vicine abbiamo avuto, in una certa fase,
un contatto con alcuni uomini che fanno riferimento al progetto e ai programmi della rete dei
Municipi. Avevamo avviato un confronto, perché avevamo visto delle vicinanze con quanto uno di
loro, Mario Alcaro, docente dell’università di Cosenza, aveva espresso nel suo libro “L’identità
meridionale”, dove poneva l’accento su una politica di rinnovamento e di sviluppo del Mezzogiorno
che facesse leva sul positivo della Calabria, sulle relazioni, viste come una forma di politica, di
convivenza sociale. Pur riconoscendo il valore politico delle relazioni, questi uomini nella mia
regione, finiscono sempre con il privilegiare la pratica della rappresentanza, per cui il
coinvolgimento della società civile per loro passa attraverso le rappresentanze dei Sindacati o delle
associazioni e la rete è sempre una rete di rappresentanza. Questi uomini, poi, parlano di relazioni
con la società civile e con le istituzioni, ma mai a partire dalle relazioni tra loro. Quando lo fanno, lo
fanno sempre riferendosi ad altri, in termini di eticità e di regole di comportamento da sottoscrivere.
Insomma, quello che non viene mai fuori è la relazione tra di loro che condividono lo stesso
progetto politico. Hanno scritto un documento che hanno chiamato “Progetto Calabria”, hanno idee
e progetti, ma manca loro la pratica del partire da sé, dalle relazioni tra di loro.
In Calabria, in questi giorni, è accaduto qualcosa che, penso, abbia a che fare con la nostra politica e
con noi. Mi riferisco alla manifestazione di Locri. In quell’occasione, tutti hanno sottolineato la
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grande novità rappresentata dai ragazzi e dalle ragazze di Locri. Dieci anni fa, quando Angela
Casella venne in Calabria per chiedere la liberazione del figlio sequestrato dalla “ndrangheta”,
chiese aiuto alle donne dei mafiosi, ma non ottenne risposta. Ci furono manifestazioni organizzate
dai sindacati e dai partiti politici e chi vi andò, come me, vide che nel paese, a San Luca, eravamo
tutta gente venuta da fuori. A San Luca i giovani e le giovani non c’erano a manifestare con noi. A
distanza di dieci anni, in Calabria è successo qualcosa di nuovo, di inaspettato. C’è stata una scesa
in campo di studenti e di studentesse, in particolare. La cosa mi ha molto colpita. Ho pensato che
queste ragazze sono le nostre figlie, sono le giovani nei confronti delle quali ci siamo poste il
problema di come trasmettere loro il femminismo. Non so come, ma questo è arrivato loro, è
passato, lo hanno ereditato. Avrà inciso, forse, anche il lavoro che in Calabria, nelle scuole, nelle
università, sui giornali, tante di noi facciamo.
Io stessa sono quindici anni che lavoro nella scuola e da sei scrivo come giornalista pubblicista sul
“Quotidiano della Calabria”, dove cerco di far passare una lettura sessuata della realtà calabrese.
Nelle manifestazioni di Locri non c’era uno spirito rivendicativo, non c’era astio, né tristezza. Le
ragazze ballavano e cantavano, sfilavano con i fiori tra i capelli o in mano e mi hanno fatto pensare
alle manifestazioni femministe degli anni Settanta.
Ho riflettuto sul fatto che tutti i giornali, gli studiosi, gli esperti di ‘ndrangheta’ continuavano a
ripetere ovunque, in televisione, sui giornali, nei convegni, che la forza della ‘ndrangheta’, di questa
organizzazione criminale, sono i rapporti familiari e parentali. Per cui la famiglia è la forza su cui la
‘ndrangheta’ si è organizzata e si regge, senza pentitismi. Ora, la famiglia sono le donne, le mogli,
le figlie. Le ragazze che hanno manifestato a Locri sono le compagne delle figlie dei mafiosi. Io non
so se quel giorno in piazza c’erano e quante erano le figlie dei mafiosi, però sicuramente queste
ragazze frequentano le stesse scuole. Se le loro compagne hanno espresso una grande
consapevolezza di sé, una coscienza nel non voler accettare nessun controllo sul proprio corpo, di
non voler avere paura, anche alle figlie dei mafiosi sarà arrivato tutto questo. Se questo è vero,
come penso sia, allora io dico che la forza della ‘ndrangheta, di questa ‘ndrangheta, è destinata a
finire. Potrà anche trovare altre forme di organizzazione, ma questa che fa leva sulla famiglia, sui
rapporti familiari, sull’omertà delle figlie e delle mogli, è destinata a finire. Da qui il mio appello a
non lasciare sole le figlie dei mafiosi. La mafia finirà, perché è finito il patriarcato.
Donatella Massara
Voglio riprendere quello che ha detto Franca, che è molto importante. Pongo la questione
dell’eredità del femminismo al Nuovo Municipio, perché mi sembra che questa rete, se vuole parlare
delle donne, deve riconoscere questa eredità, sapere che c’è stato un movimento che è iniziato
molto indietro nel tempo, ma localizzato agli anni Settanta e da lì in avanti ha generato quello che
ha detto adesso Franca. Abbiamo visto delle ragazze, un modo di porsi - anche attraverso la
televisione arrivava la forza di quello che stava succedendo - che per me che vivo nel nord, era
inaspettato e imprevisto. Vuol dire che è successo qualche cosa che, probabilmente, è partito da
relazioni personali ed è uscito fuori, erompendo. Il femminismo è stato un movimento che aveva
quelle caratteristiche di uscire dalle strade tracciate, dalle concezioni politiche tradizionali, nuove o
vecchie che fossero, ed è andato avanti, ripartendo da una propria pratica, da esigenze personali
molto forti. Ho letto sul sito il vostro documento e, invece, non ho trovato questo. Non c’è questa
coscienza, oppure c’è, ma non viene detta. Un’altra cosa. Si parlava delle pratiche, di fare delle cose
in cui immetti energia - diceva Bassanini - e lo fai perché sai che hai qualcosa in cambio. Mi
piaceva la formulazione che diceva: “Mettiamoci tutti insieme, noi dell’università e voi che vivete
nella città, artigiani, casalinghe, immigrati e abbiamo grandi energie”. Non capisco l’autocoscienza
tua, se non che sei lì che ascolti, magari un po’ meglio di qualche amministratore. Se mi parli che
stiamo tutte e tutti dalla stessa parte, lì vedo un modo di proporti diverso, che non è più
contrapposizione, non è più schieramento, c’è un gioco più sottile dove ti poni in una interrelazione.
E questo mi sembra già più interessante. Sul piano del potere, del fare delle cose dove poi non solo
fai circolare le energie, ma vedi anche dei risultati concreti, mi venivano in mente le librerie delle
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donne. Una volta, negli incontri femministi, si parlava della pratica tra donne, di creare luoghi come
librerie, case, consultori. Qui oggi ci siamo noi di Milano, le donne di Bologna, e ci sono anche
queste “pratiche femminili”. E’ importante vedere che l’eredità del femminismo è passata attraverso
questi luoghi e che vendere libri non è solo una questione di vendita.
Sto leggendo “Le pazze” della Padoan sulle madri de Plaza de Mayo. Resto attonita nel leggere
questo testo, perché quelle donne, sulla forza di un progetto, grandioso e terribile (che non posso
avere io, perché di figli non ne ho e non ne ho neanche persi), hanno continuato a lottare per tenere
vive se stesse, le parole, e la speranza di rivedere i figli e figlie, a fare delle pratiche in una
situazione orribile con migliaia di persone scomparse (sono stati 15.000 i desaparecidos, uomini e
donne di cui non hanno saputo più nulla). Mi piacerebbe che questo libro avesse diffusione, perché
ne sto traendo ricchezza.
L’anno scorso, ho visto un documentario di due registe sull’Argentina – mi interesso di regia
femminile – che sono andate a documentare le elezioni fatte da una radio che agisce dentro un
manicomio e ha fatto votare i pazzi e le pazze. Quel servizio non serviva a niente, perché i pazzi
non hanno diritto di voto. E’ stato straordinario, però, vedere come loro interagivano con loro.
Pensando ai dati sulla violenza, mi sono detta che sono terribili. Muoiono più donne per violenza
che soldati in Afghanistan. In Russia nel 2004 sono morte 13.000 donne, il 75% per violenze in
famiglia, 14.000 sono i soldati morti in Afghanistan.
Sono convinta che avere dei luoghi pubblici di incontro, fare degli incontri, anche non avendo delle
illuminazioni straordinarie da portarsi a casa, serva moltissimo per risolvere contraddizioni.
Giannina Longobardi
Il problema col quale ero venuta a questo convegno era la relazione tra la politica delle donne e le
amministrazioni, chi governa la città. Devo dire che lo pensavo, senza sapere come leggere bene la
cosa, rispetto a quel piccolo progetto, che però a me sta molto a cuore, che è l’apertura di questa
casa “Leonetta” che si trova nel quartiere di cui si è parlato prima. Una casa che è stata aperta dal
Comune, ma è gestita insieme al Comune dall’Associazione di donne italiane e straniere di cui sono
presidente.
Seguendo il desiderio di avere un luogo di incontro, le cose sono andate avanti senza che io le
avessi ben pensate nella loro dinamica. Nella formulazione fatta da Camilla Perrone è apparsa una
lettura, quella della non contrapposizione, di un rapporto che non deve, per forza, essere un rapporto
rivendicativo, che mette pezzi di società civile, di proposte, di desideri di cittadini da una parte e chi
invece rappresenta le istituzioni dall’altra. Attraverso la sua lettura di mettere tutti dalla stessa parte,
ho capito meglio quello che era successo in una relazione con l’assessora alla cultura e alle
differenze. Certamente non è stato fatto – stando alla realizzazione di un progetto condiviso – un
lavoro di consultazione democratica, ma pensando che fosse una buona idea per rispondere a un
bisogno (ancora non sono sicura che è stata proprio un’idea buona).
Mi veniva in mente anche quando, insieme con Wanda Tomasi, si discuteva delle cooperative che
assumevano lavoro per le amministrazioni, si diceva quale deve essere la relazione, la garanzia, il
controllo e una delle soluzioni, che mi sembra avevamo trovato, era quella della relazione, della
fiducia, della coprogettazione, in modo che l’amministrazione non delegasse con controlli
solamente burocratici e formali la gestione di un servizio, ma che si andasse ad una relazione che
continuava nel tempo.
Quando mi preoccupo di come andrà a finire questa piccola iniziativa, penso che, se cambia la
giunta, ce la chiuderanno, ma poi penso all’altra cosa che, in quel momento, c’eravamo detti, cioè
che il Comune, le amministrazioni sono fatte solo in piccola parte da persone elette e che vanno
avanti sui giochi dei partiti, del Consiglio Comunale, ma sono fatti anche di funzionari che,
probabilmente, amano la cosa di cui si occupano e che questi, per fortuna, restano più stabilmente.
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Daniela Bettella
Nel racconto di alcune questa mattina mi colpiva la pratica che non punta primariamente sul
coinvolgimento di amministratori e istituzioni, perché è una pratica profonda, che sa mettere in
moto la consapevolezza, rendendo ad ognuno, ognuna la capacità di diventare protagonisti e di far
tesoro dei desideri. Alcuni racconti successivi, quello per esempio della lotta per il parco vicino a
casa o delle trattative con il Comune di Bologna per il recupero di aree degradate che richiedono
una bonifica ambientale, pur affascinanti, perché mostravano grande passione, tenacia e
coinvolgimento emotivo, mi sembravano invece deboli. Consegnavano infatti tutto il senso del
percorso alla risposta delle istituzioni, dal quartiere alla Comunità europea. Ne ho ricavato un senso
di precarietà, di impoverimento della politica. Secondo me il significato di una lotta non può essere
tutto consegnato al raggiungimento dell’obbiettivo, alla formalizzazione di un rapporto con
l’amministrazione, altrimenti non si vedono quei risultati ben più importanti che si misurano a
livello di relazioni, di maggior libertà. Anni fa è circolata l’idea di agire per il “massimo di autorità
con il minimo di potere”. Vita Casentino lo ha scritto in un articolo su Via Dogana. Conviene essere
fedeli a questa impostazione, sicure che poi il nostro desiderio ci porterà comunque avanti, perché è
sempre il desiderio a farci superare gli ostacoli che sembrano insormontabili, a rendere possibili le
cose che ci sembrano impossibili. Penso che si debba avere la consapevolezza che stiamo facendo
un lavoro sul simbolico e forse non sappiamo fino in fondo dove ci spingeremo. La nostra è una
scommessa sul senso, c’è da mettere in conto il rischio che possiamo anche perdere una lotta, ma
non il suo significato e le motivazioni profonde da cui era nata. Solo così possiamo poi rilanciare.
Adriana Sbrogiò
Questa mattina mi hanno colpito quelle tre categorie di distinzione che ha fatto Camilla Perrone. Mi
sono chiesta che cosa significa il termine “destinatario” applicato solo alla società civile. Penso che
bisognerebbe mettere i soggetti tutti insieme, probabilmente con espressioni diverse dai lavori che
ciascuno fa o dai ruoli che ognuno svolge.
I “destinatari” a volte possono essere gli stanziali, altre volte sono gli immigrati, qualche volta è la
società civile con il suo vivere e, in certi momenti, anche gli amministratori stessi e altri ricercatori.
Io faccio parte dell’associazione “Identità e Differenza” che quest’anno compie diciotto anni e
abbiamo sempre lavorato a livello culturale e politico per una politica “altra”. Abbiamo cercato di
metterci insieme agli amministratori della città e anche alla società civile per trasmettere quei valori
che abbiamo imparato dalla politica delle donne, che è costruire una società dello scambio. Penso
che tutte/i abbiamo qualcosa di eccellente e che tutte/i abbiamo qualcosa da scambiarsi, perché se
da un parte abbiamo l’eccellenza, da un’altra parte magari difettiamo. Quando è nata l’associazione,
nata per desiderio di alcune donne, poche di noi allora avevano la vocazione per l’amministrare,
mentre avevamo la vocazione di creare una nuova cultura, una nuova politica.
Dopo un po’ di anni l’associazione è stata aperta anche agli uomini e anche con questi cerchiamo di
incarnare, mediando a partire dalla politica delle donne, quei valori che sono quelli dello scambio.
Le donne hanno creato questa civiltà dello scambio; è la cultura femminile.
Prima, Anna di Salvo faceva notare come sia un valore importante per le Città Vicine che questa
rete di relazioni si allarghi. Anche per la vostra rete dei Nuovi Municipi è un valore quello di
allargarsi, quindi dobbiamo pensare che cosa facciamo noi con voi e voi con noi. Come scambiamo
quello che abbiamo di nostra ricchezza, di nostro già guadagnato e cosa riceviamo per andare
ulteriormente avanti. Alcuni discorsi oggi sono già stati fatti, per cui ci è chiaro che bisogna essere,
non intercambiabili, assolutamente no, ma comunque consapevoli che abbiamo la necessità dello
scambio. E forse anche cambiare quel termine: “destinatario”.
Ho letto tutta la vostra “Carta” e mi sono detta: “Qui sono tutti uomini che scrivono, il linguaggio è
maschile. Non possono essere le donne che scrivono con quella forma lì”.
Camilla Perrone
In parte l’ho scritto io. Il pezzo sull’immigrazione è tutto mio.
20
Adriana Sbrogiò
Sì, infatti, quando parli di differenza, nomini gli immigrati. Invece nel linguaggio delle donne delle
Città vicine e di altre associazioni presenti qui oggi, quando si parla di differenza, si dice la
differenza sessuale prima di tutto, poi ci sono anche altre differenze e diversità, come gli immigrati,
ma prima di tutto partiamo dalla differenza sessuale. Tenere sempre presente questa differenza è
difficile ed è un compito duro quello di fare la mediazione delle politiche delle donne con gli
uomini. Molte di noi trovano una difficoltà grandissima a lavorare con gli uomini, che sono anche
bravi, ma comunque fanno fatica a capire, o meglio ad assumersi un modo di pensare altro dal loro,
quello delle donne. Anche se ormai da più di dodici anni la nostra associazione è composta da
donne e uomini, le donne non hanno mai rinunciato a ritrovarsi soltanto tra di loro. Il luogo
d’incontro di sole donne ce lo siamo riservato. Parliamo liberamente tra di noi e non solo tra quelle
che si conoscono da tanto tempo, ma anche con altre. Ci siamo accorte che la paura del maschile, la
paura della violenza, dello sconosciuto che usa la forza c’è in tutte le donne, non soltanto in quelle
che purtroppo hanno vissuto violenza. Anche gli uomini hanno paura delle donne, anche loro hanno
una forma di paura: temono che venga tolto loro il potere. E’ un altro tipo di paura, non certo della
forza bruta, della violenza. Anche se certe donne, bisogna dirlo, a volte anche loro fanno un po’ di
paura. Volevo chiederti: senti questo impegno, tu come donna, non tanto come parte del Nuovo
Municipio, senti la spinta di comunicare agli uomini con cui ricerchi e lavori l’importanza della
distinzione tra differenza sessuale e le altre differenze. Io faccio parte della rete di relazioni delle
Città Vicine, ma ho relazioni anche nella mia città e nell’associazione nominata prima e quindi il
mio impegno rispetto alla politica delle donne c’è ogni volta, in ogni momento, sia negli incontri
pubblici che in quelli privati. Cerco di fare mediazione tra il linguaggio, il modo d’essere, il sentire
femminile e quello maschile, perché sono d’accordo con te che senza gli uomini non si può andare
avanti. Il mondo è fatto di due sessi e dobbiamo trovare insieme il modo stare insieme. Se non ce la
facciamo, siamo già arrivati al capolinea.
Alessandra De Perini
Ringrazio Anna di Salvo per il riconoscimento che nei sui interventi ha voluto dare alle “Vicine di
casa”, un’associazione di donne, nata a Mestre nei primi anni Novanta. “Città vicine” sono oggi per
me Milano, dove due o tre volte l’anno mi reco per partecipare alla redazione allargata della rivista
“Via Dogana” e dove posso condividere con alcune amiche della Libreria l’amore per la storia delle
donne, insieme all’impegno di continuare ad intrecciare lo studio e la ricerca storica con la passione
politica; c’è poi Verona, dove si svolge ogni anno il grande seminario di Diotima, un punto di
riferimento per chi vuole continuare a pensare e praticare la differenza. A Verona da alcuni anni
sono invitata a parlare alla Mag da Loredana Aldegheri che mi riconosce la capacità di comunicare
in modo chiaro e semplice il pensiero e le pratiche della differenza. In questo contesto metto in
gioco le competenze e il sapere guadagnato con le Vicine di Casa. Infine c’è Mantova dove, in
rapporto con Annarosa Buttarelli della Comunità filosofica Diotima, ho potuto rielaborare negli
anni il senso della mia esperienza politica e cercare di capire dove stavo andando, come rilanciare il
mio desiderio. Queste oggi sono le città a me più vicine, luoghi dove vivo momenti intensi di
relazione e di riflessione. Con le “Vicine di casa” ho riflettuto molto sul senso dell’abitare in città,
sulle problematiche, le contraddizioni, le profonde lacerazioni nei contesti urbani del mondo attuale.
Continuano ad appassionarmi libri, soprattutto quelli scritti da donne, che parlano della città, dal
punto di vista lavorativo, politico-amministrativo, economico, urbanistico, artistico. Da anni
raccolgo documenti, immagini e articoli e sono sempre molto attenta a quello che accade nelle
diverse città del mondo: Sarajevo, Napoli, New York, Parigi, Calcutta, Bagdad. Ci sono città che
meritano un’attenzione particolare, città significative per la storia contemporanea, icone della
modernità. Assediate dalla volontà di morte e distruzione, bombardate, minacciate dai giochi di
potere, dallo sradicamento, tante città oggi sono in ginocchio, gridano aiuto. Lì la capacità
inventiva, la compassione delle e degli abitanti si sono messe in movimento e tradotte in azione
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quotidiana. I fatti che accadono provo ad interpretarli, mettendomi sempre dal punto di vista
delle/degli abitanti, cercando di capire cosa farei io al loro posto, assumendo come riferimento
soprattutto quello che dicono le donne, le loro ragioni, il loro punto di vista. Faccio attenzione al
lavoro di cura, all’opera quotidiana di civiltà, alle pratiche di relazione che si realizzano, nonostante
tutto, in ogni parte del mondo. Come altre che hanno parlato qui oggi, non do eccessivo peso ai
discorsi catastrofici sul degrado, l’immigrazione clandestina, la violenza giovanile, la criminalità, la
prostituzione in aumento. So che ci sono, ma preferisco spostare lo sguardo e interrogarmi su quello
che gli abitanti e le abitanti fanno concretamente per affrontare i problemi, cerco gli elementi
positivi, le invenzioni, le pratiche, i punti - luce che si possono riconoscere in ogni situazione, anche
la più disperata, la più difficile e contraddittoria. È fondamentale avere una visione grande della
città in cui si vive, che vada oltre i problemi del quartiere, del proprio condominio. Riguardo alla
relazione di Camilla Perrone, voglio dire che il suo modo di parlare mi ha fatto venire in mente una
giovane ricercatrice della facoltà di urbanistica di Venezia che anni fa, nell’ambito di un progetto
chiamato “Urban Center”, avviato a Venezia dal professor Crosta, aveva chiesto di incontrare noi
“Vicine di casa” per approfondire una indagine sulla realtà delle associazioni presenti nel territorio
e verificare la possibilità di collegarle sotto un unico “ombrello” simbolico. Nel rivolgersi a noi, lei
aveva ben salda dentro di sé come riferimento di autorità la figura del suo professore. Quella
ragazza utilizzava un linguaggio simile a quello che ho sentito qui oggi da te, Camilla: un modo di
dire le cose ben articolato, dove tutto sembra molto convincente, con punti di contatto con il mio,
quando per esempio parli dell’importanza della partecipazione attiva degli abitanti, delle politiche
di relazione, ma che non accende in me alcuna scintilla. Mi sono chiesta perché, forse, mi sono
detta, ho paura che mi si porti via l’eredità, il primato. No, non è questo, anzi sono contenta se le
pratiche, i linguaggi circolano, se altri vanno avanti, io faccio un passo indietro. Forse però
percepisco un pericolo, temo che le cose capite e praticate dalle donne dieci, venti anni fa passino
tradotte in altri contesti, senza più alcun contatto con l’origine e vengano a poco a poco stravolte,
ridotte a “tecniche”, neutralizzate, svuotate dall’emozione, dal forte investimento soggettivo che le
aveva rese possibili. Per esempio il termine “passeggiata”. Noi vicine di casa, quando c’era un
problema andavamo sul posto a vedere, parlavamo con altre vicine e, se era necessario, aprivamo un
conflitto, prendevamo la parola pubblicamente. La nostra non era una “passeggiata”: noi eravamo le
“vicine di casa”, conoscevamo la città, il territorio da vicino, perché vi abitavamo e sapevamo
riconoscere chi in città operava per la mediazione dei conflitti. I Nuovi Municipi parlano di
“pratiche di buon governo” e teorizzano come una formula vincente la necessità di tenere insieme
tre importanti “attori”del territorio: amministrazione, società civile e Università. Alcuni anni fa
queste cose le diceva anche l’Urban Center che ci aveva contattate tra gli “attori” del territorio,
insieme ad altre associazioni di volontariato, di giovani dei centri sociali, di anziani, comitati di
quartiere, cooperative e associazioni non profit. La sorpresa del professor Crosta, durante un
incontro all’università con le “vicine di casa”, fu di non trovarsi di fronte a delle semplici
casalinghe in lotta contro l’amministrazione, soggetti “deboli” e rivendicativi, ma delle donne in
forte relazione tra loro, capaci di affermare una propria idea di città e di convivenza civile. Ritengo
più appassionante la politica che, invece di formule, “attori” o “passeggiate”, parla di pratiche di
relazione, di donne e uomini con desideri veri, scommesse personali, sentimenti e conflitti da
interrogare, storie da raccontare. Partire da sé è un criterio forte della politica delle donne. Su questo
piano può, secondo me, avvenire l’incontro e la relazione tra realtà politiche diverse. Se vogliamo
nominare in maniera corretta una contraddizione, un problema, bisogna capire quali sono i fili
diretti e indiretti che ci legano alla questione, esplicitare il punto di vista da cui segnaliamo quella
contraddizione e aver presente il contesto dove questa vive, si alimenta, spesso senza trovare alcuna
soluzione. Non tutti i problemi sono risolvibili o comunque non lo sono nell’immediato: sapere
questo è un atto di umiltà necessario, altrimenti c’è questa presunzione, questo ottimismo di voler
risolvere sempre tutto e poi finisce che lo si fa solo a parole, astrattamente. Con le vicine di casa ho
capito l’importanza del contesto: lì si trovano, di volta in volta, le forze e le risorse dell’azione
politica, lì ci sono le figure della mediazione, le disparità e le competenze che rendono possibile uno
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scambio più alto. Se manca la conoscenza del contesto, delle relazioni fra donne e fra uomini e
donne che agiscono in contesto, non si capisce niente di quello che accade in città, si fanno progetti,
programmi e discorsi astratti sulla testa delle e degli abitanti, si portano avanti politiche deboli che
ingannano e fanno disordine, perché non passano per i contesti reali dove si svolge la vita
appassionante e complessa dei rapporti.
Laura Minguzzi
Vorrei fare alcune riflessioni sulla questione della TAV in Val di Susa. In un articolo per “Via
Dogana” ho scritto del “Corridoio 5”, il famoso tratto ferroviario che da Lione congiunge la Francia
a Kiev. Avevo visto la realizzazione di quel progetto come una possibilità di avvicinamento e di
scambio con un paese che amo, in particolare con le donne di quel paese che studiano l’italiano che
amano l’Italia, un possibile viaggio e scambio con altre persone che potrebbero venire in Italia o io
o loro andare in altri paesi. Chi fa questi progetti di alta velocità che hanno sventrato tutta l’Italia,
probabilmente ha necessità di vendere in altri paesi, non pensa alle cose che penso io, ma ha in
mente ragioni di mercato, come la possibilità di smerciare in altri mercati quello che è
sovrabbondante per noi. C’è una contraddizione quindi tra quello che desidero io, le istanze delle
persone che abitano quei monti e che non vogliono assolutamente che gli si rovini il paesaggio e
questo progetto capitalista e liberista dell’alta velocità. Dove abito io, un giorno esco di casa e trovo
vicini e vicine che stanno raccogliendo firme perché stanno costruendo un parcheggio sotterraneo e
quindi stanno sventrando tutta la strada con le “rogge” cementate negli anni Sessanta, mettendo in
pericolo tutti gli edifici. Il giorno dopo, incontro altri vicini della casa accanto che d’improvviso
non vogliono più il Luna Park che si trova da tanto tempo in uno spazio libero e dove i bambini si
divertono, ma adesso vicino alle giostre hanno messo un accampamento di colombiani, tutti maschi,
che fino alle quattro del mattino fanno caos, mettono musica a tutto volume, birra a fiumi. Quindi
gli abitanti non ne possono più, non riescono più a dormire di notte e allora se la prendono con le
giostre. L’amministrazione purtroppo pensa a mantenere il proprio potere, invece di risolvere i
problemi; non prevede soluzioni che richiedono una prospettiva a lungo termine, perché mancano i
tempi, ci sono le scadenze elettorali. Chi non ha questa prospettiva, ma guarda lontano,
probabilmente riesce a tenere insieme tutti gli aspetti che possono essere anche contraddittori e
trovare poi delle soluzioni che possono soddisfare più “attori”, come li chiami tu.
Antonietta Lelario
Vorrei fare un intervento che mi costa un poco, per questo ci ho pensato e ripensato perché è un
intervento a nemmeno un’ora dalla fine dell’incontro, con il quale, anziché raccontare di
contraddizioni, vorrei mettere le mani sulle contraddizioni che sento vivere qui. Prima ho aspettato
che l’insoddisfazione che provavo si sciogliesse, ho aspettato di orientarmi con l’aiuto della altre,
come sempre è successo negli incontri nazionali. Io vengo da Foggia e, in cambio della fatica fatta
per venire, mi sono sempre riportata a casa una maggiore capacità di orientamento, energia, forza,
intelligenza della realtà e quindi in questi anni è sempre valsa la pena.
Perché oggi, invece di trovare maggiore forza, sto sentendo una maggiore debolezza e perché ho
deciso di dirvelo? Non mi piace lamentarmi, quindi non lo faccio con questo scopo. Ho provato,
anche consultandomi con Katia Ricci, a mettere a fuoco l’elemento di squilibrio più importante che
vedo in quest’incontro e che consiste nell’assenza di uno scambio. Infatti molte di noi, La
Merlettaia, Le Città Vicine, ci siamo informate sulla Rete dei Nuovi Municipi, ma non ho sentito la
stessa attenzione da parte di Camilla Perrone che appartiene a questa rete. Non mi è sembrato che
qui si facesse riferimento alla nostra pratica del partir da sé, alla politica del mettersi in gioco là
dove si é, quella in cui si può vincere qualcosa, anche quando si perde, perché si è modificato
qualcosa di te o degli altri, alla politica del simbolico, che in questi anni ci ha dato la forza di andare
avanti anche quando apparentemente perdevamo. Questa assenza di riferimenti (forse abbiamo
saputo farli vedere poco, non ci colloca in una posizione di scambio e, senza scambio, non si
capisce come si possa procedere a fare una scommessa comune. E nemmeno, senza entrare in
relazione e creare scambio, può esserci conoscenza reciproca vera. Io a Foggia, in cui si vivono
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tutte le contraddizioni del Sud, continuamente mi chiedo: ma quale potrebbe essere la scommessa
nell’economia? perché è quello il terreno che mi manca. Sono venuta qui, avendo un’esperienza di
dodici anni su altri piani, in cui ho registrato una grande debolezza sul terreno dell’economico e del
rapporto con le istituzioni. Su questi aspetti ho una domanda inevasa. E sono pronta, anzi ansiosa, di
mettere in gioco le mie carenze, ma non sono disposta ad essere vista e a sentirmi come un vaso
vuoto, come se non avessi esperienze e riflessioni da portare. Né mi basta comportarmi come se
fossi un vaso pieno, capace solo di puntare il dito contro le carenze dell’altro. Questo non è
scambio. Un altro squilibrio che con Katia abbiamo notato è nel rapporto fra la narrazione
dell’esperienza e il pensiero che ne nasce. Noi delle Città Vicine esageriamo sul piano del racconto
e non riusciamo sempre a mettere in circolo il frutto simbolico e politico dell’esperienza fatta, però
da parte dei Nuovi Municipi mancano completamente i racconti; io non ho capito che esperienze
sono avvenute a Pesaro o altrove. Questa mancanza di narrazione impedisce di vedere se per loro è
importante qualcosa di ciò che per noi è irrinunciabile. Ad esempio noi, a Foggia, abbiamo tentato
di aprire lo scenario della differenza nelle scuole, mostrando la possibilità di muoversi in un’ottica
di autoriforma, con libertà e con pratiche di ascolto del proprio desiderio e di quello di ragazzi e
ragazze. Abbiamo riaperto lo scambio tra alcune gallerie d’arte cittadine e artisti e fruitori di mostre
per ripensare l’insegnamento che viene dall’arte. Abbiamo organizzato eventi politici con le
istituzioni locali - Biblioteca provinciale, Amministrazione comunale e provinciale - e con altre
associazioni pacifiste, presentando libri, indicendo convegni su figure della memoria della nostra
città (Liliana Rossi) o, al contrario, su donne di realtà molto lontane, nel tempo (Simone Weil, Etty
Hillesum, la Yourcenar) o nello spazio (donne dell’associazione afgana RAWA). Ma sappiamo
bene che non conta solo ciò che si fa, ma come lo si fa. Conta ciò che rimane dentro di noi e in
coloro che si avvicinano; conta la lingua utilizzata, fino a non molto tempo fa, costretta ad una forte
formalizzazione ed esteriorizzazione, negli usi pubblici; conta l’autorità che, come donne, ci
sappiamo prendere e quella che sappiamo dare; conta il saper fare pulizia rispetto ai mille luoghi
comuni sul femminile e a quelli più recenti sul maschile; conta anche farci capire e far sentire la
bellezza di un cambiamento che nasca dallo scambio; conta quanto, ciò che si fa o si dice, vive nella
nostra vita, in una pratica riconoscibile e inseparabile dal pensiero. Le iniziative possono cambiare,
i soggetti con cui entriamo in relazione anche, cambiano i problemi che di volta in volta si devono
affrontare, ma la tensione a raggiungere questo “come” deve poter vivere ogni volta, essere messa
sempre in scena e ricordata anche a noi stesse e noi stessi.
Io soffro molto quando coloro che lavorano politicamente con noi cancellano questo aspetto della
nostra politica. Soffro quando non riusciamo a farlo trapelare in qualche modo. Per questo sono così
impaziente: vedo la mia incapacità di far vivere qualcosa di ciò per cui lavoriamo, di interagire con
l’esperienza dei Nuovi Municipi. Ho visto cadere il tentativo di Adriana Sbrogiò di portare
l’attenzione sul linguaggio, quello di Sandra De Perini di far vedere come non si possano costruire
contesti in cui le persone sono indifferenti, perché alcune, per la loro capacità di mediazione, sono
più importanti, quello di Vita Cosentino che, raccontando della collaborazione fra la MAG e la
Libera Università dell’incontro, tentava di far vedere l’importanza del lavoro sul simbolico, quello
di Giannina Longobardi sulla capacità di mettere in piedi collaborazioni con le istituzioni senza
pretendere la sicurezza della continuità e di altre. Ma non ho visto raccogliere questi spunti. Vedo
una debolezza nel dire la politica che pure ha permesso di andare avanti in questi anni ad alcuni
uomini e a tante donne. Politica che era invece molto visibile negli interventi qui della MAG, si
vedeva che lì uno scambio negli anni deve essere avvenuto. È vero, come dice Camilla Perrone, che
è difficile raccontare le esperienze, perché sono diversissime dappertutto, ma la diversità nelle
esperienze non implica la loro cancellazione, anzi oggi la sfida è proprio nel conservarle in qualche
modo. Certo non raccontando sempre i fatti per filo e per segno (giustamente Lia Cigarini ci
chiedeva di fare attenzione a questo pericolo), ma sapendo vedere, e far vedere, la differenza fra
avere un pensiero sull’esperienza e “far quadrato nella propria testa”, pericolo quest’ultimo su cui
vigilare perché nessuno di noi ne è immune (anche su questo Lia Cigarini sollecitava la nostra
attenzione, invitandoci a dire le contraddizioni che viviamo).
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Clara Jourdan
Voglio partire da ciò che diceva Antonietta Lelario. Ho paura che ci sia stato un equivoco riguardo
al senso di questo incontro che è stato voluto dalle Città Vicine proprio per conoscere qualcuno dei
Nuovi Municipi, per avere uno scambio. Non è stata una decisione reciproca, come pensava
Antonietta, che forse si aspettava, venendo qui, di incontrare in massa persone di quel movimento.
Sono le Città Vicine che hanno voluto incontrare i Nuovi Municipi, proprio perché hanno visto che
nel loro lavoro politico ci sono aspetti che ci possono interessare. Camilla Perrone, che intanto io
ringrazio di essere venuta qui oggi, ci ha detto diverse cose, ci ha dato degli elementi di riflessione
che possono interessare sia la politica che fa Giannina a Verona sia anche Sandra a Mestre. Vedo
questo incontro come un buon inizio di relazione. Per aprire una relazione non bisogna mai
aspettarsi che il desiderio sia reciproco, altrimenti non ci sarebbe quasi nessuna relazione. Le
relazioni non cominciano da due uguali, anzi nella pratica, il desiderio muove da una parte, poi, se
si crea la relazione, il rilancio coinvolge anche l’altra parte. A me sembra che questo scambio sia
stato ottimo, che ci sia stata una buona interlocuzione, perché Camilla ha rappresentato molto
chiaramente le posizioni e ha avviato uno scambio. Certo è un inizio.
Un altro elemento interessante è il riferimento alla depressione; se questa ha portato ad un
intervento così, è un espediente retorico parlare di depressione; ci sono stati degli elementi più o
meno interessanti, ma il tuo intervento Antonietta non era certo di depressione.
L’elemento importante che dobbiamo sviluppare è quello delle contraddizioni. Questa, secondo me,
è la via per capire la realtà dei contrasti e sviluppare un modo di agire più vicino alla realtà e anche
più efficace, altrimenti si rischia di fare ideologia. Capisco anche che la contraddizione a volte può
essere un po’ deprimente, impedisce di vedere le cose o così belle o tutte negative. Una
contraddizione mi può lasciare appesantita, però non c’è altra strada. Per questo è stato positivo
quest’incontro.
Loredana Aldegheri
Volevo anch’io portare la mia riflessione, ho promosso quest’iniziativa insieme alle Città Vicine, mi
aspettavo delle persone che non sono venute e questa assenza ha lasciato un vuoto, perché aveva il
valore di avviare un certo scambio. Aspettavamo amministratori dei Nuovi Municipi che stanno
sperimentando in alcuni comuni d’Italia delle pratiche di innovazione amministrativa e di
sburocratizzazione, di relazione creativa con la società. Quindi mi sarebbe piaciuto ascoltare
esperienze pratiche. Tutte e tutti abbiamo sentito l’esigenza di avvicinarci a queste amministrazioni
locali. Qui c’è anche il nostro assessore, l’avvocato Dalla Mura, e mi ha fatto piacere che sia venuto
ad ascoltare, per la sua competenza amministrativa e per la sua vicinanza al terzo settore.
Voglio dire anche una cosa sui contenuti che sono emersi qui oggi, riprendendo quello che è stato
detto da Lia Cigarini stamattina. Ovvero: non facciamo schieramenti. Poi c’è stata la posizione di
chi ha detto no, dobbiamo schierarci per essere più nella verità. Io sento che per due grosse realtà
che stiamo seguendo alla Mag, più che parlare di schieramenti come dati estremi, quello che ci
viene chiesto è di integrare in noi qualcosa che nasce come antinomia. Mi spiego. Stiamo lavorando
sul microcredito alle nuove povertà. Ci sono anche nel nostro territorio delle sacche di povertà e
siamo state interpellate dal bisogno. Abbiamo detto di sì a questo problema, ma nell’affrontarlo
abbiamo visto, fin dall’inizio, che bisognava chiamare altri. Allora abbiamo chiamato le Acli, l’Arci,
la Ronda della carità, la Libera Università dell’Incontro, il Comune di Verona. Per affrontare
questo problema delle nuove povertà e per trovare delle risposte possibili dovevamo metterci in
relazione tra mondi diversi. Questa è una necessità, non perciò una cosa ideologica, perché da sola
la Mag non ce l’avrebbe mai fatta. La Mag aveva un sapere sulla finanza etica, ma mancava di tanti
altri pezzi essenziali. La necessità di affrontare un problema ha quindi stimolato la relazione. In
questo caso è stato importante avere chiaro il proprio limite ed abbandonare un attaccamento ad un
vecchio modo di intervenire.
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Nello stesso tempo, nel fare il percorso con Vita Casentino di Milano, Giannina Longobardi della
Libera università dell’incontro e altre, ci siamo chieste: che cosa significa oggi povertà? È la sola
assenza di denaro o è il denaro che ci ha resi poveri di tante altre dimensioni? Infatti ci stiamo
rendendo conto, facendo un lavoro culturale e leggendo delle testimonianze di chi sa operare con
beni non monetari, relazionali, che nei nostri contesti sono andate perdute quasi tutte le forme di
sostegno non monetario.
Quindi è sì povero quello che non ha i viveri in alcuni momenti, ma c’è una povertà anche nostra, di
noi che viviamo nei paesi ricchi occidentali, di cose importantissime per la vita. Quindi
nell’affrontare la povertà altrui vediamo, riconosciamo la nostra povertà e anche noi impariamo.
Nel risolvere problemi che consideriamo di altri c’è anche, nello stesso tempo, la possibilità per noi
di arricchimento culturale. L’esperienza ci consente un cambiamento antropologico. Da più di un
anno sto facendo, anche grazie a Stefano che ci porta alla Mag ogni settimana la verdura biologica,
esperienza di uno scambio non monetario. Prima andavo al supermercato a comprare tutto fatto.
Adesso con i prodotti biologici di Stefano invece ho avuto l’occasione di riprendere un nuovo, ma
al tempo stesso antico, rapporto con i beni alimentari, cercando di non buttare via la roba, cercando
di considerarla sacra. Quest’esperienza mi ha consentito di ricominciare a pensare ad un’economia
non monetaria possibile.
Nello stesso tempo, come ha detto Teresa Giacomazzi, sulla cooperazione sociale e sul negoziare
con le istituzioni locali per delle convezioni, per investire, ad esempio, in un centro infanzia o per
servizi a persone con disabilità, abbiamo il grosso problema della giusta contrattazione del denaro e
su questo ci sentiamo in difficoltà, perché tendenzialmente ci verrebbe da dire, basta essere brave e
ci riconosceranno. Invece, dobbiamo imparare bene a chiedere, imparare bene a fare i conti, ad
accedere al danaro pubblico e, se chiediamo, non stiamo rivendicando qualcosa, ma proponendo
una redistribuzione dei soldi comuni. Per esempio, nei commenti sui recenti fatti di Parigi che ho
sentito, un po’ tutti concludevano dicendo che lì in questi ultimi anni sono stati tagliati i soldi degli
investimenti sociali e la deriva è stata anche questa, quasi come dire che anche certi investimenti in
denarohannoun’utilità.
Nell’affrontare i percorsi dobbiamo perciò comprendere questi due poli, che possono aprire
contraddittori. Una volta potevo dire: il denaro, non mi interessa, mi basta il piacere, il desiderio.
Adesso ho più coscienza che mi interessa l’economia non monetaria, ma che altrettanto mi interessa
l’economia monetaria, dove il denaro diventa una risorsa e che può avere senso lottare anche per il
denaro equo e perché trovi collocazione negli investimenti sociali.
Per alcune cose si può anche disinvestire sull’aspetto monetario e parlare di “libero scambio” nei
termini in cui ne parlava Vita stamattina. Non è facile, ma credo che questa sia la porta stretta che
richiede un cambiamento antropologico, una capacità di affrontare le contraddizioni in modo più
più articolato e complesso.
Anna Di Salvo
Due parole per ricordare il convegno del dipartimento di Urbanistica a Catania, tenutosi in Giugno
dove ho avuto modo di conoscere Camilla Perrone, Giancarlo Paba del Nuovo Municipio con cui in
quei giorni abbiamo stabilito una certa comunicazione. Io e Mirella abbiamo potuto seguire il
Convegno per tutta la sua durata e la mia è stata l’unica voce a parlare della politica delle donne,
delle Città Vicine, delle relazioni, e ho ricevuto un grande ascolto, un grande interesse. Bianca
Bottero qui presente, docente presso il Politecnico di Milano in quell’occasione ci ha continuamente
ricordate nei suoi interventi e ci ha molto gratificate. Nell’incontro “Nuovi agitamenti” di gennaio
2005 a Milano abbiamo manifestato un grande interesse per il Nuovo Municipio e abbiamo preso la
decisione che le Città Vicine incontrassero i Nuovi Municipi per scambiarsi delle pratiche ed
esperienze. C’è stata questa intenzione e abbiamo colto l’interesse dei Nuovi Municipi nei confronti
della Politica delle donne. Quindi oggi mi ha fatto piacere rivedere Camilla, non mi aspettavo
proprio lei, però sento che è scoccata una scintilla di desiderio reciproco.
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Camilla Perrone
Ringrazio tutti, sia chi si è dato da fare nell’accoglienza, sia chi ha mosso un ascolto critico. Credo
che la rete dei Nuovi Municipi sia un organismo molto complesso ed è molto difficile sintetizzare
cosa voglia dire, come si sia costruita e che cosa faccia in poche battute, in parte dedicate anche alla
risposta delle domande. Certo oggi dovevano essere qui più persone, così come Alberto Magnagni
mi aveva presentato la cosa. La rete dei Nuovi Municipi avrebbe dovuto essere rappresentata da tutti
i suoi componenti, ovvero alcuni amministratori che lavorano attivamente nella costruzione di
nuovi municipi e poi anche alcuni di noi che lavorano nell’Università e che hanno competenze
diversificate. Doveva per esempio esserci Andrea Calori per parlare del tema delle nuove economie,
delle reti, dei distretti, di tutto quell’aspetto che io ho appena accennato e che non ho sviluppato.
Doveva esserci qualcuno a parlare del bilancio partecipativo, qualcun altro a parlare dei problemi
ambientali, qualcun altro a parlare della partecipazione, io a parlare delle questioni
dell’immigrazione. Doveva esserci un gruppo nutrito di persone, proprio per restituire la
complessità di quest’organismo costituito da queste tre anime che ormai hanno una loro economia
che è anche difficile comprendere.
Provo a rispondere alle domande: una delle prime riguardava l’uso della parola “destinatario”. Io
avevo usato questa parola parlando delle politiche ovvero di come si fa politica più o meno vicini al
destinatario, è un gergo. Non so quale sia la parola più giusta da utilizzare, certamente ciascuno di
noi è destinatario a seconda della situazione in cui ci si trova. Forse basterebbe parlare di abitanti, di
cittadini, non lo so. Noi per comodità e per semplificare parliamo di “attori” e poi ci mettiamo di
fianco un aggettivo per dire da dove vengono questi attori a quali realtà appartengono, forse è una
semplificazione, forse non è giusto, però a volte bisogna rinunciare ad una certa complessità.
Poi mi è stato chiesto com’ è il mio rapporto personale con il tema della differenza sessuale. Non ho
abbastanza anni per avere partecipato attivamente ad una cultura della differenza nella sua
configurazione iniziale, quando era battaglia, pensiero critico, quando era tutte queste cose, quello
che però penso di avere costruito sul passato, sugli scritti di altre donne, quello che penso di avere
maturato è una sensibilità rispetto al valore aggiunto che c’è nel guardare e nell’agire nel mondo
delle donne. Non ci so entrare nella logica della differenza, perché non è il mio percorso, però la
voce che io porto personalmente come donna per la rete dei Nuovi Municipi è questa. Ci credo
molto al richiamo all’attenzione per lo sguardo al femminile, con la ricchezza che questo comporta
rispetto alle cose che accadono. Tutti i giorni lavoro con tante donne e con tanti uomini e vedo
quando questo lavoro aggiunto al femminile entra in campo.
La seconda cosa: la paura. Qualcuno prima diceva che ci dobbiamo confrontare con le idee che
vengono dalle nuove generazioni, ma io vi devo confessare che non ho paura della forza dell’uomo,
sarà che sono cresciuta con un’altra formazione. Non ho paura della forza dell’uomo in quanto tale,
quello di cui ho paura sono le cose che non conosco bene, ma è un’altra paura.
Il pensiero al femminile dovrebbe tenere conto anche di questi passaggi generazionali, infatti molte
giovani credo che la pensino come me.
A chi mi diceva che ritrova nel mio il linguaggio dell’esperienza veneziana con il professore Crosta
rispondo: meno male! Ho detto che l’esperienza dei Nuovi Municipi e l’esperienza della rete in
realtà sono un punto di arrivo per noi e lo è stato realmente, perché noi siamo una rete che prima di
fare ciò che fa, era una rete di ricerca accademica, che teneva insieme Milano, Venezia, Firenze,
Roma, Napoli. Tutte realtà che portavano avanti parallelamente ragionamenti affini, ma con risvolti
diversi, perché naturalmente ogni contesto accademico ha i suoi riferimenti culturali, le sue sponde
scientifiche, però il sentire comune c’era ed era condiviso. Sono felice quindi di sentire che
l’esperienza veneziana, nella costruzione di un Urban Center, ha un modo comune a quello dei
Nuovi Municipi di affrontare le cose. Le cose scritte, i linguaggi devono arrivare alle persone e, se
questo strumento può essere la rete, ben venga.
Altro punto, penso di dirlo a nome dell’intera rete, riguarda il fatto che prima ho accennato alle fasi
della partecipazione negli anni Settanta e Ottanta, in cui la partecipazione è stata tecnica, esisteva la
figura del mediatore, come mediatore neutro che si distaccava da ciò che accadeva e ogni tanto
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interveniva anche a mettere banalmente pace tra le parti. Noi non crediamo più a questa figura,
pensiamo che, nel contesto in cui viviamo, pure così complesso, non abbia più ragione di esistere.
Viceversa pensiamo sia fondamentale una figura che agisca come un “attivatore” di politiche.
La nostra idea di partecipazione ci porta ad alcuni concetti fondamentali: il primo è l’interattività,
cioè per partecipare bisogna essere in grado di interagire a tutti i livelli; il secondo è la soggettività,
cioè nelle cose ci devi essere e non come mediatore e basta, ma come promotore di un’idea; la
radicalità, andare alla radice delle cose, ad esempio con i laboratori, non solo con le tecniche
tradizionali. Nel sito della rete dei Nuovi Municipi c’è un atlante di esperienze raccontate e schedate
con tutte le informazioni possibili.
Dopo il convegno Anna Di Salvo scrive un testo di riflessione che viene pubblicato nel sito
delle Città Vicine.
“Le città vicine rilanciano”
di Anna Di Salvo
L’incontro di Verona del 13 Novembre 2005, chiesto dalle Città Vicine al Nuovo Municipio, e per la
precisione ad Alberto Magnaghi e altri uomini di quella rete, quali amministratori provinciali,
comunali e urbanisti, é stato reso possibile grazie alla mediazione di Loredana Aldegheri, Maria
Teresa Giacomazzi, e altre e altri della M.A.G. che sono con questi in contatto da tempo.
Pur consapevoli che la rete delle Città Vicine e quella del Nuovo Municipio sono il frutto di due
politiche diverse, segnate dalla differenza femminile e dalla differenza maschile e che si
diversificano tra loro per linguaggio, elaborazione di pensiero e forme delle rispettive pratiche, ci
interessava conoscere e scambiare col Nuovo Municipio storie, strategie ed analisi. Avevamo infatti
individuato con questo, una comunanza di desideri in merito alla cura della città e del territorio e
alla messa in opera di esperienze concrete di “buon governo” in quartieri, circoscrizioni comunali,
città, ecc. Credo che ci interrogheremo per qualche tempo ancora, sul perché, non tanto Alberto
Magnaghi che stava poco bene, ma altri del Nuovo Municipio, che avevano accolto sin dall’inizio di
buon grado l’idea del convegno ( mi riferisco anche agli annunci dell’evento apparsi sul n. 40 della
rivista “Carta” (7-13 nov. 05) e sul sito del Nuovo Municipio ), abbiano poi deciso di non
intervenire personalmente. Quello che so per certo è che siamo rimaste disorientate per
quell’assenza, trovandoci nella necessità di dare tempestivamente forma e indirizzo differenti
all’incontro.
La presenza dell’urbanista Camilla Perrone, che avevo conosciuto a Catania ad un convegno sulla
partecipazione, e che ha accettato in breve tempo, con senso di responsabilità, l’indicazione da parte
dei suoi compagni di percorso ad essere lei quella che avrebbe portato al convegno l’esperienza e i
saperi del Nuovo Municipio, ci ha fatto intendere che l’incontro con quell’urbanista, innamorata
della gente e dei luoghi, sarebbe stata un’occasione da non perdere e da mettere sicuramente a
frutto. Camilla, oltre a descrivere l’impegno e gli intenti che muovono il Nuovo Municipio, ha
approfondito aspetti interessanti del lavoro di questa rete, quali ad esempio l’attenzione ad un
“modello autosostenuto di sviluppo”, ad un “sapere esperto”, l’individuazione di modalità efficaci
per trovare forme di dialogo con gli amministratori nella gestione della città e come docenti e
ricercatori del mondo universitario stiano sempre più entrando in contatto e lavorando insieme a
donne e uomini della cosiddetta “società civile”. Durante l’incontro, Camilla, ha accettato di buon
grado le osservazioni che le venivano rivolte, ad esempio rispetto all’uso del linguaggio neutro o
riguardo al dato che le elaborazioni e le pratiche del Nuovo Municipio non tengono conto della
differenza donna - uomo né delle relazioni di differenza. Ha cercato di rispondere alle osservazioni
partendo da sé, donna trentenne con tutt’altra storia da quella femminista, consapevole comunque
che noi donne sappiamo trovare sempre risposte e soluzioni differenti da quelle degli uomini per
affrontare le cose. Di seguito, si sono rivelate preziose le occasioni di confronto e scambio, offerteci
dalle presenze di donne e uomini di realtà politiche di cui conosciamo da tempo storia e operato,
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molte delle quali trasmettono linfa vitale con la loro esperienza e il loro sapere all’intreccio
relazionale delle Città Vicine (la Libreria delle donne di Milano, La comunità filosofica Diotima di
Verona, architette del Politecnico di Milano e di altre istituzioni accademiche, che agli inizi degli
anni ’90 hanno dato vita al gruppo “Vanda”, l’Autoriforma gentile della scuola, le Vicine di casa di
Mestre, la M.A.G. di Verona, la libreria delle donne di Bologna, Identità e Differenza di Spinea, la
Merlettaia di Foggia, l’associazione Orlando di Bologna, la Città Felice di Catania, l’associazione
Isthar di Verona, la rete che donne tessono da Roma a Catanzaro sino a Chioggia e l’esperienza del
parco delle fate di Milano ). Queste realtà sono intervenute in riferimento a come la pratica delle
relazioni possa risultare fertile per la creazione di civiltà di rapporti, forme architettoniche
armoniose e un uso assennato degli spazi nelle città e nei territori. Il termine, “partecipazione” é
stato portato in ballo più volte, come centro dell’esperienza di alcune, che amano prendersi cura
della città; una pratica, quella della partecipazione, che a volte si rivela poco efficace nella
contrattazione con chi amministra i luoghi, (Gisella Bassanini) ed é con questa pratica, sostanziata
nel tempo da esperienze e apporti teorici, che sta entrando in comunicazione e conflitto una pratica
differente sulla città, quella creata dalla politica delle donne, che punta maggiormente sull’efficacia
delle relazioni autentiche che vengono a crearsi tra donne e tra donne e uomini in contesto, e punta
sul protagonismo consapevole delle e degli abitanti. Molto interesse durante l’incontro é stato
suscitato anche dagli interventi di donne e uomini di realtà di cui sino a quel momento poco
sapevamo, come ad esempio l’esperienza di alcune donne del gruppo “Carovana” di Bologna, che
nella loro città stanno mettendo a nudo e affrontando contraddizioni e difficoltà procurate dalla
presenza di troppi uomini migranti soli. Si é ragionato sulla necessità di mettere in essere una
qualità autentica della convivenza, che non risenta di formule preconcette quali gli eccessi
ideologici d’ospitalità o di contro, di espressioni di razzismo e rifiuto irriducibile nei confronti degli
immigrati. Proprio su questo passaggio, Lia Cigarini ha sottolineato la necessità di affrontare ogni
questione, sia quella dei migranti, sia quella ad esempio dello sventramento di città o territori per
consentire il passaggio dei treni ad alta velocità, senza assumere posizioni drastiche o di
schieramento, che non lasciano spazio al dialogo e non consentono la risoluzione delle
contraddizioni esasperandole. Ha fatto da cornice al convegno la bella accoglienza preparata da
Loredana, Maria Teresa, giovani donne e uomini che effettuano il servizio civile alla M.A.G. che
con il loro calore, il pranzo squisito, il dono delle borse di stoffa con i materiali, hanno saputo
creare un clima di amorevole accoglienza. In più mi preme sottolineare, come sia giunta proprio da
Maria Teresa Giacomazzi, che insieme a Loredana Aldegheri, fa quotidianamente i conti con le
problematiche di un lavoro che prende forma nell’impresa sociale come quello della M.A.G., la
sollecitazione ad esplorare e dipanare la contraddizione che esse vivono in prima persona,
riconoscendo la differenza tra un lavoro di cura significato da relazioni, rapporti, affetti e un lavoro
di cura affidato al terzo settore e alle cooperative di servizi, nel timore che la monetizzazione di
questa funzione, possa impoverire il simbolico che le relazioni e i desideri creano.
A tutto questo fermento di idee, analisi, narrazioni, critiche costruttive, che hanno via via suscitato
sollecitazioni, curiosità, condivisione e sentimenti contrastanti anche nei giorni seguenti al
convegno, si è aggiunta qualche riflessione anche in merito a quale potrebbe essere la direzione da
prendere per le Città Vicine in vista di una sempre maggiore apertura e scambio con realtà diverse.
Mi sembra buona a questo proposito l’idea di Katia Ricci che tra le Città Vicine circoli
maggiormente il patrimonio politico acquisito da ogni singola città o esperienza, come ad esempio
quella dell’Autoriforma della scuola, che tra le proprie pratiche annovera l’arte di promuovere,
prima di ogni convegno, vari incontri per potersi conoscere e comunicare meglio. Ma forse è
opportuno riflettere a questo proposito, come nel chiedere incontri a realtà come quelle del Nuovo
Municipio, di stampo prevalentemente maschile (quindi poco informati delle nostre pratiche ), si
vada incontro ad esperienze diverse da quelle dell’Autoriforma che da sempre interloquisce con il
mondo delle e degli insegnanti, composto per lo più da donne e quindi più vicino ad un sentire
femminile. Occorre quindi a mio avviso, individuare modalità d’incontro che vadano bene anche
per coloro a cui chiediamo o che ci chiedono lo scambio. Per l’incontro di Verona con il Nuovo
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Municipio, si é pensato ad esempio che almeno inizialmente potesse andare bene la forma del
convegno, in quanto le relazioni si sarebbero potute costruire in seguito. Alla luce di quanto emerso
e di quanto emergerà, credo si renda visibile che caratteristica delle Città Vicine, oltre che rendere
viva la pratica della vicinanza tra loro, sia quella di sapersi mantenere aperte nell’analizzare e nel
raccogliere istanze di realtà nuove e nell’accogliere la presenza propositiva di quelle e quelli che
mancano da tempo.
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