Schede film discussi insieme 2010

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Schede film discussi insieme 2010
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Lebanon
Lebanon
regia
SaMUEl MaoZ
sceneggiatura
SaMUEl MaoZ
fotografia
Giora BEJach
montaggio
ariK lEiBovich
musica
nicolaS BEcKEr
interpreti
Tay Tiran, Zohar STraUSS, yoav donaT,
MichaEl MoShonov
nazione
iTalia
durata
92’
SAMUEL MAoz
1962 - Hebrew (Israele)
2009
lebanon
Lebanon 183
La storia
Il film si svolge interamente all’interno di un carro armato, mentre
quello che succede al di fuori è visto sempre attraverso il mirino,
accompagnato dal rumore dei motori della torretta. Le drammatiche azioni di guerra nel mondo esterno diventano così quasi virtuali
per i quattro soldati israeliani dell’equipaggio. Il tessuto dei rapporti
si sviluppa in modo teatrale, con dinamiche alimentate dalla frequente apertura del portello da cui calano o si issano: un ufficiale
superiore a far sentire il pugno di ferro della disciplina, il cadavere
di un soldato israeliano in attesa dell’elicottero che lo evacuerà, un
prigioniero di guerra siriano che rimarrà incatenato nel carro, un
falangista che si presenta in modo ambiguo come alleato degli israeliani. Si delineano via via i personaggi di soldati fondamentalmente
inetti, il capocarro indeciso, il puntatore ancora troppo rivolto alla
sua infanzia per poter sparare, il servente dall’umanità schietta ma
indisciplinato, il guidatore che vorrebbe solo tornare a casa, mentre
si vengono a trovare in situazioni sempre più drammatiche. A fare
da contraltare, fuori del carro, l’ufficiale Jamil, soldato a tutti gli
effetti, coraggioso ma anche spietato, come quando concorda un
nome in codice per dare l’ordine di usare bombe al fosforo, appena
vietate dalla convenzione sulle armi non convenzionali.
La critica
Straordinaria sofferta opera «prima» di Samuel Maoz che parte
come “Valzer con Bashir” da un dato autobiografico. Il film vincitore a Venezia c’è, l’inferno buio della guerra vissuto claustrofobico
all’interno della «pancia» del carro armato dove sono asserragliati
quattro militari israeliani, guerra in Libano 82. Come in “Belva di
guerra” di Reynolds, si producono laceranti ferite anche morali: occhio nel mirino, sperduti nel buio, rimossi e contagi arrivano intatti,
la realtà fuori non esiste più.
Maurizio Porro, il corriere della Sera, 23 ottobre 2009
Vincitore dell’ultima Mostra di Venezia, “Lebanon” di Maoz è la definitiva dimostrazione che il cinema israeliano si sta affermando come
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Lebanon
DISCUSSI INSIEME
uno dei migliori del mondo: forse il migliore in assoluto di questi anni.
È un film implacabile, duro e calcolato al millimetro, ma anche pieno
di verità: non ti illustra una tesi, preferisce buttarti in faccia le evidenze. Durante la prima guerra del Libano, nell’estate del 1982, un
plotone di paracadutisti e un carro armato devono perlustrare una
città bombardata. Tutti sui vent’anni, i carristi sono Assi, il comandante; Shmuel, l’artigliere; Ygal, il conducente; Herzl, che carica le armi.
Nessuno di loro è un guerriero, la disciplina non si può dire ferrea.
Quando gli israeliani perdono il controllo della situazione e sono circondati dalle milizia siriane, i carristi si ritrovano in uno spaventoso isolamento. Se il “film di carro armato” è un filone del warmovie
(“Belva di guerra”), mai si era visto utilizzo più impressionante della
claustrofobia che lo contraddistingue. Con il rumore della ferraglia
nelle orecchie, l’eco delle detonazioni più lontano, lo spettatore si
sente intrappolato nell’angusto spazio interno del corazzato, condivide l’ottica dei soldati, che è (ecco il segreto stilistico del film) un’ottica
monca, limitata a una sola porzione dello spazio circostante, ma che
pure permette di vedere le vittime del carro armato osservare loro
quattro, i carnefici. Senza mai barare, il film gioca serrato con i nervi
del pubblico, al quale è facile identificarsi con quattro giovani dalle
belle facce precipitati nell’ orrore. Storia di perdite dell’innocenza (di
alcuni giovani, di una nazione...), “Lebanon” è un’opera senza sconti,
che non ti lascia per molte ore dopo la visione.
Roberto Nepoti, la repubblica, 23 ottobre 2009
Gruppo di guerra in un interno. Ormai è chiaro, c’è un «nuovo cinema israeliano», acuto, con molte cose da dire. Qui si fa cinema in
una gabbia per tutta la durata del film. La paura, l’onore, la morte
di 4 soldati israeliani inesperti, chiusi in un carro armato (1982). Si
guarda fuori soltanto dal mirino. E fuori c’è una missione incerta,
con attacchi insensati (dettagli di un musulmano a pezzi o di una
famiglia sterminata), superiori incombenti (il capitano che pretende
le vietate «bombe al fosforo»), falangisti cristiani selvaggi (il militare
che spiega al prigioniero siriano come gli taglierà il pene). L’ambientazione claustrofobica è una sfida, impressiona e informa, ma è
accompagnata dall’evidenza di un artificio non temperato. Ha vinto
la Mostra di Venezia e ha diviso la critica.
Silvio Danese, Quotidiano nazionale, 23 ottobre 2009
Film-metafora su un paese corazzato e in trincea perenne, che vaga
in spazi horror pericolosi e ostili. Ma sopravvive, in questo caso,
siamo nel 1982, giocano duro. Siamo prima di Sabra e Chatila, e del
lavoro sporco mercenario. L’operazione si chiamava «fuoco ardente»
o, decriptando, bombe al fosforo bianco (proibite dalle convenzioni
internazionali) sganciate anche da inaffrontabili bombardieri israeliani, per rimuovere intralci geografici tipo insignificanti villaggi
libanesi brulicanti di feddayn vigliacchi (ma giusto per introdurre la
scena più ridicola, con tanto di donna snudata, giustamente considerata dai Cahiers du cinema un bel «tocco di porno bellico»)...
L’opera prima è basata sulle traumatiche esperienze da carrista
dello sceneggiatore-regista Samuel Maoz, intrappolato nel panzer
dietro le linee nemiche, all’ inizio dell’invasione di 27 anni fa, con
4 altrettanto inesperti commilitoni (sognanti mamme, licenze o
maestre dalle grandi tette, o pronti a impazzire). Anche qui l’unico
insensibile, freddo torturatore (trucchetto da western) sarà l’alleato maronita che dovrebbe soccorrerli, ma non vede l’ora prima di
cavare l’occhio con un cucchiaio o tagliare cristianamente il pene
a un prigioniero siriano (?)... Insomma ci si autoassolve, per aver
eseguito gli ordini superiori - le bestie sono altre - dopo avere rievocato, oniricamente, l’incubo di ogni guerra: sparare su donne, vecchi
e bambini, fare a pezzi un contadino e i suoi polli, mentre l’asino
piange solitario sul selciato... L’assalto è vissuto dentro il panzer supertecnologico, che resiste anche a un bazooka che lo becca da 5
metri. Ritmato, con accademica scienza drammaturgica, da «esterni» catturati tramite i sistemi visuali di puntamento, più qualche incursione «out». Premiata a Venezia con generosità eccessiva questa
pellicola ha convinto Sight and Sound per il suo peggiore difetto,
cioé perché sarebbe «formalmente innovativa». Forse per le facce dei
soldati trasfigurate, sporche di petrolio, rigate di lacrime, soffuse di
luce divina? Ma le forme sono ben cotte solo dal buon senso, mai
dal senso comune. Comprensibile, comunque, la soddisfazione, per
una piccola cinematografia, di brillare nel «genere bellico», filone
sommergibili, stile U-boot, che è sempre stata la grande specialità
tedesca, anche d’epoca Ufa, più ancora che di Hollywood. Il film
d’azione claustrofobico, dal punto di vista grafico, acustico e narra
è un difficile oggetto d’esportazione. Invece la trilogia funziona, e
qui, dopo Valzer con Bashir e Fortezza di Beaufort c’è un motivo di
orgoglio particolarmente sbandierato in più. L’eroe è il carrarmato?
Ebbene il carro armato è oggi proprio la fierezza dello stato di Israele. Lo hanno costruito da soli, è tecnologia solo «stella di David». Da
quando gli Usa non glieli regalano più.
Roberto Silvestri, il Manifesto, 23 ottobre 2009
I commenti del pubblico
da PrEMio
CArLA CASALINI Estate 1982, prima guerra del Libano, un carro
armato israeliano attraversa un villaggio nemico bombardato. Il
film registra, sintetizza, metaforizza la situazione specifica e nello
stesso tempo ne prescinde, acquistando un valore universale. Così
i quattro soldati imprigionati nel carro armato, con la visuale ridotta allo spiraglio di un mirino, sono il mio papà “ragazzo del 99”
costretto diciassettenne nelle trincee del Piave, che per tutta la
vita ha rimosso rifiutando di ricordarle e di parlarne. Sono i combattenti di tutti i terribili conflitti del ventesimo secolo. E, sempre
più indietro, sono i soldati di tutte le guerre portati a combattere
e uccidere senza sapere chi e perché. Poche altre volte ho provato
tanto disagio nel partecipare, seduta comodamente in poltrona,
all’angoscia e all’orrore. Con qualche barlume di speranza: come
il gesto di pietosa fraternità del soldato israeliano che aiuta il
prigioniero siriano a fare la pipì. O come l’effimero azzurro che
avvolge il carro armato approdato in un campo di girasoli, dove
però i girasoli sono piegati e appassiti, perché l’orrore della guerra
è irreversibile.
oTTiMo
MArIAGrAzIA GorNI Un film che scortica l’anima con immagini,
personaggi e situazioni che non potremo mai più dimenticare. Girato in modo tecnicamente eccellente e molto coinvolgente per lo
spettatore, ha come ossessiva colonna sonora il volutamente fastidioso rumore del mirino che si sposta. Molto bravi gli attori.
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MICHELE zAUrINo “Lebanon”ovvero la guerra come forse non
l’abbiamo mai vista. Entriamo nel carro armato con i quattro giovani ed inesperti carristi israeliani e non ne usciamo più. L’abusato
termine claustrofobico calza a pennello a questo film che come ambientazione ricorda i vari U-BOAT, quella che cambia è la prospettiva
limitata ai visori del sistema di puntamento del carro ma che consente uno sguardo impietoso sugli orrori bellici. Opera difficile, di
non facile digeribilità ma al contempo coraggiosa, sincera e lontana
da facili moralismi.
ANNA PICCININI Non è un film contro la guerra. Bensì un film sulle nostre presunzioni e sulle nostre paure. Una frase è scritta dentro al carro armato: L’uomo è di acciaio, il carro armato è ferraglia.
Crediamo di farci paravento con il nostro orgoglio, che ci fa credere
invincibili, con le ideologie e le religioni, che ci fanno dichiarare le
guerre; invece siamo scoperti, indifesi e bersaglio dei cecchini del
mondo esterno. L’unica nostra forza è quella dello spirito, che sa,
senza difese, affrontare le guerre o decidere di non farle.
LUISA ALbErINI Fuoco al centro, diritto e senza distrazioni:
l’obiettivo è chiuso come il mirino di un’arma, completamente
orientato sulla visione data a chi ha un solo compito, riprendere
l’immagine su cui concentrarsi. Sono lontani i grandi spazi, e come
riferimento il campo dei girasoli privo di ogni limite. Il luogo da
mostrare è quello in cui visibile e immaginazione si sovrappongono, e il tempo dell’azione è solo il presente. È la guerra. Tutt’intorno il terribile scenario di un luogo dove uomini e case portano
i segni di un appena avvenuto combattimento. Dentro al carro
amato quattro uomini vivono immersi nella stessa esperienza.
Non c’è più bisogno di dire altro. Sui volti dei soldati trasformati
in maschere gli occhi conoscono e trasmettono lo stesso orrore
del fuori, raccontano la paura e la sofferenza, l’angoscia e l’attesa,
l’inspiegabile o forse inutile ragione di tanto dolore. Poi tutto finisce e il carro armato ormai pura ferraglia si adagia abbandonato
nell’immensità del campo giallo. E la distanza tra quelle due dimensioni diventa ancora più inconciliabile: Il ferro vecchio è morto, il campo dei girasoli è lì, e domattina con il sorgere del sole, i
fiori avranno, come sempre, la testa alzata.
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tErESA DEIANA È come un micidiale pachiderma metallico dalla
vista solo orizzontale quello che si muove sferragliando, monocolo,
col suo carico di uomini costretti nell’abitacolo. Unica luce, quella
fioca che emana dai quadranti del cruscotto. Unico orizzonte, quello
visibile attraverso il mirino; gli ordini perentori arrivano, impersonali, via radiotrasmittente. Forse il carro armato è metafora di Israele,
del suo dibattersi fra nemici che lo assediano e che attacca per sopravvivere. Di certo il film, claustrofobico e durissimo, esemplifica
molto efficacemente e senza retorica patriottarda gli orrori della
guerra. Come corollario ne descrive anche le prevaricazioni, le obbedienze forzate, e ribellioni impotenti che fatalmente coinvolgono
anche chi per natura la condannerebbe.
GIUSEPPE GArIo L’esperienza dei combattenti, non la spettacolarità dei combattimenti, è il registro narrativo, anche in questo caso,
dei film di guerra senza obiettivi di propaganda. È un grande merito
non solo formale di Samuel Maoz che con finezza pone il paradosso
dello stato di Israele, nato in forma nazionale quand’essa si estingueva in Europa dopo la seconda guerra mondiale, come dice lo
storico Roberto Vivarelli, per trasformarsi nella società aperta scelta
dagli USA e poi da tutto l’Occidente. Lo stato nazionale è la scelta di
una comunità chiusa, che non ha futuro ma che in Italia, in particolare, stentiamo a superare. Guarda la bellezza del mondo in pace,
dice Maoz nella scena finale, dopo aver mostrato che una società
chiusa, neppure se blindata come un carro armato, è al sicuro dai
conflitti che essa stessa provoca e si porta in casa in veste di alleati disumani (il falangista) e di prigionieri (il siriano). Leone d’oro
meritato. A sua volta merita il Premio San Fedele “Il nastro bianco”,
analoga riflessione per noi europei di oggi sugli errori tragici e sulle
false sicurezze nazionali dei nostri avi.
BUono
MArIo LAzzAroNI Ho trovato originale ed efficace il mostrare
le vicende esterne attraverso il mirino del cannone. Ben espressa la
battaglia interiore tra senso di patria/dovere e principi etici. In ultima analisi avrei però preferito la focalizzazione sulla strage, piuttosto che sul travaglio dei carnefici.
MArIA CoSSAr È un film difficile, drammatico, giocato su una
bella fotografia e dei primi piani espressivi, la mano del regista è
esperta e molto singolare. Dentro il vente di ferro di un carrarmato seguiamo la storia, ne siamo costretti, è la descrizione di una
profonda difficolta, senza futuro, con la consapevolezza di dare ed
assistere alla morte. Ho identificato in quella macchina da guerra
che è il carrarmato il popolo di Israele che per vincere una guerra
deve diventare carnefice. Il film mi ha molto coinvolto.
ALESSANDrA CASNAGHI “Lebanon” non è un film politico, è
un film contro la guerra. I soldati hanno paura, sono coinvolti in
un’estrema eperienza di combattimento. È un film duro, difficile,
atroce: in quella regione si vive con la spada in pugno. Ho visto
in quei giovani umanità e tormento, non certo desiderio di autoassoluzione o irresponsabilità. La scenografia claustrofobica è appropriata, ma mi ha tolto lucidità di giudizio. Qualche circostanza
grottesca mi è parsa inopportuna.
ELENA CHINA-bINo Forse constretti a tutto ciò gli Israeliani? Di
sicuro lo erano quei quattro poveri Cristi intrappolati in quell’inferno, che risulta essere il carro armato. D’altra parte un vero inferno è
anche la realtà esterna. Non ricevono aiuti veri né dalle truppe ufficiali né dai falangisti. L’istinto di sopravvivenza esplode con la necessaria violenza nelle ultime scene, quando finalmente il puntatore
non solo punta ma spara sempre e comunque. Prende in mano la
situazione riuscendo a far agire il manovratore, oramai paralizzato
dal panico. Il regista ha indugiato (a mio parere, esagerando) sulle
scene brutali della prima mezz’ora del film. Anche la scena della
madre mi suona poco convincente e tirata troppo per le lunghe.
Un unico momento poetico è dato dall’asino che piange: bellissimo.
Metafora dello Stato di Israele o esclusivamente uno sguardo crudo
su di una missione di seconda linea? Opterei per questa seconda
ipotesi. Due aggettivi riassumono il mio sentire circa questo film:
devastante e illuminante.
PIErFrANCo StEFFENINI Un altro film che ci propone gli orrori della guerra. Anche questo proviene da Israele e la cosa non
sorprende, visto che quel Paese si trova ad affrontare con dram-
matica continuità fasi di conflitto aperto intervallate da periodi
di relativa pace, segnati però da attentati terroristici. La novità
in questo caso è costituita dalla prospettiva originale da cui la
guerra è vissuta, vale a dire l’interno di un carro armato, nel quale si trovano stipati quattro militari, che partecipano agli eventi
bellici attraverso una sorta di periscopio puntatore. Il film ci presenta una serie orrenda di atrocità, anche se non mancano fugaci
episodi di umana pietà. In effetti, l’unico personaggio totalmente
negativo, di una crudeltà ripugnante, è, vedi caso, il falangista
cristiano. Come di prammatica per questi film, l’intento è quello
di suscitare un moto di repulsione per la guerra e una convinta
adesione ai valori della pace e della convivenza tra i popoli. Solo
che l’overdose di film siffatti desta il sospetto che alle spalle ci
sia prevalentemente (auguriamoci di no) un’enfasi ideologica o,
peggio ancora, una spruzzata di sadismo.
EDoArDo IMoDA Passato il sacro furore dei padri fondatori, attenuatosi con il tempo l’eco della guerra dei “Sei Giorni” di vent’anni
più vecchia di quella raccontata nel film, e vissuta in prima persona
dai loro padri; l’attuale generazione di mezza età israeliana si domanda, a distanza di anni, a cosa siano servite tutte le guerre che
lo stato ebraico ha fatto nei confronti dei suoi vicini e quali siano
stati i reali risultati ottenuti. Per farlo il regista sceglie la guerra
del Libano del 1982 proprio una “non guerra” visto che era diretta
non verso gli eserciti di paesi confinanti, ma verso l’organizzazione
palestinese OLP che allora viveva a Beirut. Assistiamo quindi alle
non facili avventure di un gruppo di soldati, fra riservisti e di leva, in
missione nel territorio nemico. Lasciato il lavoro “sporco” agli alleati
falangisti (piccolo, ma preciso riferimento alle stragi di Sabra e Chatila che di fatto segnarono, in maniera indelebile, quella guerra e le
persone coinvolte) assistiamo al dramma che si svolge fra quattro
mura, pardon tra quattro pareti di latta come sta scritto e più volte
“sottolineato” dal regista. Ma, contrariamente alle stesse lapidarie
affermazioni, gli uomini non sono di ferro, sono persone con le proprie paure e le proprie debolezze. Ottima la decisione del regista
di farci osservare l’esterno attraverso il mirino telescopico del mitragliere, quasi che sia il singolo che operava, che lo stato per cui
combatteva, avessero avuto una visione troppo settaria e limitata
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dei problemi da affrontare. Alla fine il carro armato, dopo una corsa
incontrollata nella quale non si capisce bene chi siano gli amici e chi
i nemici (altro riferimento alla situazione reale di quegli anni) torna
al punto di partenza, nel campo di girasoli come a dire che da quella
guerra poco si ottenne e che il vento che muove i girasoli si portò
via come conseguenza di quella “non guerra” un’intera generazione
di politici israeliani. Purtroppo mi sembra che, ancor oggi, da quelle
parti, a differenti livelli di responsabilità politica e militare, ci sia
una certa tendenza a “seguire il sole” nel trattare con le popolazione
vicine, con cui, mi confessò tanti anni fa un israeliano, “dobbiamo
pur convivere e fare affari”…
GIULIo KoCH Film molto particolare, dato il pesante condizionamento che deriva dalla scelta di far vedere le immagini attraverso il
ridotto campo visivo del mirino del cannone, “Lebanon” colpisce lo
stomaco dello spettatore per la sua durezza, ma tocca anche alcune
corde del cuore. Il regista vuole rappresentare ciò che ha vissuto,
senza compiacimenti, ma fino all’ultimo dettaglio sia visivo che di
parola: e ci riesce con una fotografia asservita allo spazio ristretto, e
con dei dialoghi efficaci e disperati che i 4 civili, trasformati in guerrieri in una guerra disumana, si scambiano urlando. Fra loro dominano la paura, la frustrazione di non capire la logica degli ordini, il
desiderio di tornare a casa, il ricordo dei cari, gli interrogativi su una
violenza disumana (sono proiettili fumogeni, non al fosforo), l’orrore. Incontrastato eroe è il carro armato, resistente a tutto e capace
di proteggere i suoi ospiti (eccetto uno) dalla violenza, ma capace
anche di generare in loro l’orrore, il sentimento che si porteranno
appresso per il resto della loro vita: metafora questa di una tecnologia perfetta ma disumanizzante che, se mal usata, rovina proprio coloro che dovrebbe favorire... Comprimari e vittime allo stesso
tempo sono i quattro occupanti; i paracadutisti che accompagnano,
i civili offesi senza un perché, i terroristi, i falangisti, il siriano catturato: tutti capitati come per caso nella storia. La sceneggiatura è
povera, le musiche sostanzialmente assenti, la recitazione un po’
approssimativa, la regia forse troppo legata all’obiettivo che vuole
raggiungere, i valori umani sono fin troppo complessi per uno spazio cosi piccolo: bel tentativo, ma rimane a mio avviso pur sempre
un tentativo, neanche tanto ben riuscito.
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diScrETo
GIUSEPPINA rEGGIorI tArDIvELLo Film, a mio parere, tecnicamente perfetto, ma costruito solo con la testa e del tutto privo
di cuore: o sono io che, avendo ormai visto tante efferratezze, non
riesco più ad emozionarmi? A questo punto non so proprio come
classificarlo: discreto?