l`esilio nel dolore superstite: nelly sachs

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l`esilio nel dolore superstite: nelly sachs
 ® F RONTIERA DI P AGINE
LETTERATURA CONTEMPORANEA
FRONTIERA DI PAGINE
POESIA CONTEMPORANEA
L’ESILIO NEL DOLORE SUPERSTITE:
NELLY SACHS
DI ANDREA GALGANO
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PRATO, 28 NOVEMBRE 2012
“
La Sachs non conosce straniamento o
calcolo, la sua poesia non è né rebus
né crittogramma. Abbiamo qui a che
fare con enigmi che non si esauriscono nella loro
soluzione, ma mantengono un resto, e proprio
questo resto ciò che conta. L’interpretazione può
essere inadeguata. Questa poesia pretende dal
lettore più modestia che acume; non vuole essere
fissata in concetti, non vuole essere interpretata,
ma esperita con pazienza e precisione”.
Scriveva così Hans Magnus Enzensberger, indicando nella potenza e nell’abbandono di
Nelly Sachs (1891-1970), premio Nobel nel 1966, l’origine di un calore inscindibile e
profondo.
Di famiglia ebraica, dalla Germania, dopo aver sperimentato la violenta persecuzione
nazionalsocialista e la morte dei familiari nei campi di sterminio, fuggì in Svezia insieme
alla madre nel 1940, dove conobbe la scrittrice Selma Lagerlöf, il suo porto salvifico.
Anni di dolore indicibile e di inaudite sofferenze, con la degenza in un ospedale
psichiatrico per sintomatologia psicotica fino al 1963, e poi dal 1968 al 1969.
Ma la sua anima è insondabile come il suo nascondimento. Sembra quasi che
nell’incontro con l’altro, si incastrino perfettamente lo sfregio e il fregio di un abisso, come
scrive al suo amico Paul Celan, con il quale condividerà lo stesso paesaggio d’interno:
«Presto ormai giungerà il momento della dimissione dall’ospedale e mi trasferirò in una
casa di cura per la convalescenza. Forse la notte è davvero passata e la sentinella annuncia
ormai il mattino. Da otto giorni il dottore è contento, poiché finalmente riesco di nuovo a
mangiare e i tormenti peggiori sono cessati. Così non ho più bisogno di sottopormi alla
terapia con l’elettroshock».
L’accentuarsi dei disturbi psichici, le sagome di terrore allungano lo strazio del suo
abito, in una unione micidiale di sofferenza e strazio malato, come scrive ancora a Celan:
«Ciò che ho avvertito con chiarezza in questo percorso catartico, è che a tutti coloro che
erano implicati in questa triste storia e che mi avevano sottratto la fede in ogni cosa e in me
stessa (…) a tutti loro dovevo porgere la mano. Dove può mai portare questa lotta contro le
razze e i popoli, mentre gli esseri umani, come persone, non si conoscono nemmeno tra
loro».
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Andrea Galgano. L’esilio nel dolore superstite: Nelly Sachs 28.11.2012.
II
Il dolore, la sofferenza, la malattia e poi, la malinconia, la fragilità, la nostalgia, la
follia divengono il manto di una latitudine che sfolgora, che rinviene un passaggio di
conoscenza interiore e che in un barlume, si fa interezza di popolo e singolarità.
Condividendo il destino della ferita ebraica e del suo oltraggio, per male e violenza,
Nelly Sachs perde la sua anima nella parola, ma in un attimo nelle sue linee schive e
dolorose, affiora un ritrovamento nascosto, curvilineo, come scrive Ida Porena: “Nelly
Sachs ha sperimentato nel corpo e nell’anima il dolore in tutta la sua indicibilità, ne è stata
più volte sopraffatta ma è riuscita a dargli voce e questa voce giunge fino a noi dal più
atroce dei silenzi, è lo strumento attraverso il quale risuona per noi il dolore maturato nei
luoghi dello sterminio trasformato alchenicamente nel dolore del mondo”.
Quando anche il silenzio non ha voce, quando la follia più dura si muove dalla sventura
che uccide l’anima, come scriverà Simone Weil, la morte rappresenta, come il morire, la
dimora, ma mai l’annichilimento o il sospiro ventoso di una deflagrazione: «Oh, i camini /
sulle ingegnose dimore della morte, / quando il corpo di Israele si disperse in fumo / per
l’aria - / e lo accolse, spazzacamino, una stella/ che divenne nera / o era forse un raggio di
sole? // Oh, i camini! / Vie di libertà per la polvere di Job e Geremia - / chi vi ha inventato
e, pietra su pietra, ha costruito / la via per i fuggiaschi di fumo? Oh, le dimore della morte, /
invitanti per la padrona di casa / altrimenti ospite - / oh, dita / che posate la soglia / come
un coltello tra la vita e la morte - // oh, camini, / oh, dita, / e il corpo di Israele in fumo per
l’aria!».
Il corpo del popolo è il corpo di Nelly. Rinasce da una grande angoscia, e la sua ferita
insanabile tocca la scintilla che conosce le notti dei bambini, allattati dalla paura, il gelo
della sabbia e infine l’esilio: «Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe, / quando doveste
alzarvi per morire? / La sabbia che Israele ha riportato, / la sabbia del suo esilio?/ sabbia
rovente sul Sinai, / mischiata alla polvere inquieta dei serpenti, / mischiata a grani di
salomonica sapienza, / mischiata all’amaro segreto dell’assenzio».
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III
La «sabbia rovente del Sinai», sabbia del deserto che conduce a Dio, polvere d’ali di
farfalla, è la calce dell’esilio, la via e la partecipazione di una struttura cosmica che
frantuma detriti e disperde il suo battito nel vuoto. Ma anche l’immagine degli Ebrei che,
dinanzi alle dimore della morte, si tolgono le scarpe abitate dalla sabbia, prima di entrare
nelle camere a gas.
Il misticismo cabalistico della Sachs si afferma nella concretezza del dato di realtà, non
fugge mai da questo, anzi, sulla soglia del suo tempo, spesso oscuro, si adagia il commiato
di un’umanità silenziosa, fragile e nomade.
Nel suo viaggio cosmico la oggettualità acquista una dimensione rituale e interiore in
cui “quel mondo però è senza nome, non è definito. Con esso ha a che fare il mistero di
un’opera che sempre, come la parola divina, è un mistero ‘rivelato’, estraneo a
mistificazioni e a false profondità” (H. M. Ezensberger).
Il simbolo, pertanto, costituisce la meta dei vari piani di realtà, rappresenta il
documento di una domanda, che impregnata della tradizione della mistica medievale
ebraica, proclama il suo grido, distillando la lezione segreta del mondo, laddove persino
“gli stessi scadimenti di tono, che così spesso le sono stati rimproverati, le appartengono
come in natura l’inappariscente è il risvolto dello splendore” (Ida Porena).
Il silenzio colora la notte dei ricordi, come un’incrinatura e una inclinazione di
nostalgia in schegge nere e in un esercizio sospeso: «Dove sono i dolci rabdomanti, / angeli
di quiete, che toccano per noi / la segreta fonte che dalla stanchezza/ stilla nella notte».
Spesso l’impostazione poetica assume forme di eleganza stilistica e aerea: «Nulla/ sulle
acque / e già sospesa a un battito di ciglia/ la geometria di un cigno/ radicata nell’acqua/
s’inerpica/ e si china nuovamente. /Inghiottendo polvere/ e misurando con l’aria /
l’universo-».
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IV
La Sehnsucht dimora nelle stille dell’aria, nei segmenti che uniscono l’universo con le
cose, dove la follia e la malattia si attenuano, come portici che grondano le orme sulla
polvere: «Chi/ viene dalla terra/ a toccare la luna/ o altro minerale celeste/ che fiorisce –
colpito7 dal ricordo/ salterà in aria/ per esplosiva nostalgia».
Le ombre fuggiasche e superstiti sono dolori viandanti. Quando nel 1960, Nelly Sachs
è in un ospedale psichiatrico a Stoccolma, scrive queste liriche potenti, visionarie e
lacerate. Sono un vestito slabbrato che l’avvicina all’inquietudine di Trakl: «L’angelo
pietrificato/ grondante ancora memoria/ di un precedente universo/ senza tempo/ errante tra
le inferme/ rinchiuso nella luce ambrata/ visitato da una voce primigenia/ anteriore al
peccato/ cantando di verità/ nell’aurora», e ancora «Nell’azzurro settentrione / vegliando di
notte/ un bocciolo di morte sulle palpebre // avanti così verso la fonte».
La parola dello sterminio, ridotta e scarnificata in una sperdutezza di palpebre,
sacrificate all’orlo della storia e del nomadismo stanziale, apre il dolore alla sua trasparenza
V
vitale e alla sua ansia metafisica.
Le tenebre di Nelly Sachs lasciano una trasparenza nei piccoli varchi di un’attenuata
sopravvivenza, non si annullano mai nel «passaggio tenebroso» della interiorità oscura,
anzi si attestano nella sua sonora gentilezza: «- nell’uscire/ aprì rabbrividendo gli occhi/ gli
occhi dove una nuova stella/ ha lasciato il suo riflesso».
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AL DI LÀ DELLA POLVERE
Pendente dal cespo della disperazione
eppure in attesa che la leggenda dei fiori
avveri la sua profezia –
Esperto di magia
d’un tratto il biancospino fuori di sé
dalla morte s’è trovato nella vita
Voi che amate,
voi che anelate,
udite, voi, malati di commiato:
siamo noi che cominciamo a vivere nei vostri sguardi,
nelle vostre mani che vanno in cerca nella luce azzurra –
siamo noi che odoriamo di domani.
Già ci aspira il vostro fiato,
ci trae giù nel vostro sonno
nei sogni, che sono il nostro regno
dove la buia nutrice, la notte,
ci fa crescere.
Ma sotto il fogliame
di un assoluto isolamento
che muore solo per se stesso
dove si spegne ogni sguardo estraneo
rifiutando ogni incontro
anche d’amore
tu
che scruti nell’ignoto con i quattro volti del vento
sei re sui campi dell’intangibile
univoco come la dentatura dei morti
che ha resistito al disfacimento
e serviva solo a masticare
nel suo regno
VI
- tramontato
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