un nemico per tutte le stagioni
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un nemico per tutte le stagioni
1 G. Luzzatto Voghera, Antisemitismo perché? (in Storia e dossier, maggio 1995) UN NEMICO PER TUTTE LE STAGIONI L'ostilità contro gli ebrei ha radici antiche: risale alla proclamazione del cristianesimo quale religione ufficiale dell'impero romano nel 313 d.C. e ha nei Vangeli un poderoso supporto dottrinario. Gadi LuzzattoVoghera ne individua origini e matrici ideologiche, spiegando come delle discriminazioni subite dal "popolo eletto" resti traccia oggi nel persistere di un antisemitismo latente ma diffuso. 1 termine "antisemitismo" venne coniato per la prima volta nel suo significato moderno nel 1879 dallo storico tedesco Wilhelm Marr. Naturalmente l'ostilità verso l'ebreo, espressa nella forma violenta dei massacri medievali e delle espulsioni, o nel più moderato sentimento di avversione nutrito di stereotipi e luoghi comuni sul senso reale dell'esistenza del popolo ebraico, ha radici assai più profonde e antiche. Ma nella sua accezione moderna, ricca di valenze politiche e simboliche, non c'è dubbio che l'ultimo quarto del secolo XIX sia da considerarsi il periodo centrale per la genesi di quel complesso di azioni politiche, interventi ideologici, strumentalizzazioni giornalistiche, pregiudizi religiosi, diffidenza e odio che è conosciuto oggi col nome di antisemitismo. Va subito precisato un elemento: l'antisemitismo non è la Shoah - termine ebraico che sta a indicare distruzione, oggi preferito al più noto ma impreciso "Olocausto"-, lo sterminio di milioni di ebrei compiuto dai nazisti e dai loro alleati (compresa l'Italia fascista) nel corso della seconda guerra mondiale. Si trattò certo di un massacro le cui dimensioni segnarono profondamente la storia dell'Europa e che fu probabilmente incoraggiato da un clima "favorevole" alla persecuzione degli ebrei. Ma la Shoah in nessun caso si può considerare l'evento conclusivo della triste vicenda dell'antisemitismo moderno. Le premesse teoriche di quest'ultimo, il suo linguaggio, i suoi temi e spesso le sue conseguenze sono sopravvissuti pressoché inalterati alla bufera bellica e - malgrado le reticenze di molti ad ammetterlo - mantengono nel presente tutte le caratteristiche di potenziali spunti di aggregazione politica e ideologica. Certo, oggi in Europa non vive che un decimo degli ebrei che c'erano all'inizio del nostro secolo, ma l'antisemitismo - è noto - costituisce un'idea che si autostruttura e che non sempre ha bisogno dell'esistenza reale del "nemico" per esprimersi. Per dare un sintetico quadro delle origini storiche dell'antisemitismo moderno, è utile procedere all'identificazione delle tre matrici ideali che fecero uso di questo strumento e che chiameremo teologica, socialista e liberale. Sono queste le medesime componenti che hanno contribuito alla costruzione dell'Europa moderna, ragion per cui non sarà eccessivo identificare l'antisemitismo come prodotto degenere delle nostre medesime categorie di pensiero. La matrice teologica dell'antisemitismo affonda le sue radici nel tradizionale antigiudaismo cristiano. La contrapposizione fra cristianesimo ed ebraismo vede le sue origini remote nelle prime azioni di proselitismo delle chiese paleocristiane. Si trattava di due mondi religiosi che facevano riferimento almeno in parte a un comune patrimonio di tradizioni, ed erano legati fra loro dal riconoscimento dei libri della Bibbia quale testo sacro dettato da Dio agli uomini e dal riconoscimento dell'esistenza di un unico Dio. All'iniziale contrasto, determinato sul piano teologico dal fatto che un gruppo - gli ebrei - rimaneva legato alla tradizionale attesa messianica, mentre l'altro - i cristiani - si fondava sul riconoscimento di Gesù Cristo come il Messia sceso in terra per compiere la salvezza degli uomini, si aggiunsero nel corso dei secoli dinamiche storiche che progressivamente configurarono l'antigiudaismo così come si manifestò nel mondo cristiano. Esistono comunque almeno due passi tratti dai Vangeli, sui quali si fondano l'ostilità e la condanna degli ebrei così come viene interpretata dalla tradizione cristiana. Il primo è quello contenuto in Matteo (27, 25), dove gli ebrei si sarebbero assunti in quanto popolo la responsabilità della crocifissione di Cristo («E tutto il popolo rispose "Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli"»); il secondo in Giovanni (8, 44), nel quale Gesù polemizzando con i giudei li accusa di essere figli del diavolo. Basandosi su questi e altri passi delle scritture neotestamentarie i Padri della Chiesa elaborarono distinte teorie tendenti in gradi diversi all'esclusione o marginalizzazione della presenza ebraica dalla società. L'interpretazione più benevola, che in qualche misura fece da scudo e da parziale protezione fisica alle comunità ebraiche, fu rappresentata dal ricorrente richiamo al verso 12 del Salmo 59 (che recita «Non ucciderli, perché il mio popolo non dimentichi, disperdili con la tua potenza e abbattili»), dove "il mio popolo" diventavano i cristiani, cioè il verus Israel; e il "non ucciderli e disperdili" era riferito agli ebrei perfidi, cioè increduli. Alla base del pregiudizio c'è l'infamante accusa di deicidio In seguito all'Editto di Costantino (313 d.C.) la Chiesa, diventando il cristianesimo una religione ammessa nell'impero romano, assunse una posizione di forza politica che fino ad allora non aveva avuto. Da quel momento non si contano gli atti di persecuzione religiosa e fisica che gli ebrei dovettero subire da parte della Chiesa cristiana. Il paradigma teorico creato dalla Chiesa istituzionale per combattere e condannare le comunità ebraiche e l'ebraismo si fondò sull'accusa di deicidio. Gli ebrei avrebbero cioè in maniera volontaria e premeditata fatto uccidere Gesù, Dio fattosi uomo, e l'ira del Signore si sarebbe manifestata "storicamente" in maniera quasi immediata per mano delle armate romane che nel 70 d.C. distrussero il Tempio di Gerusalemme ed eliminarono militarmente la presenza politica ebraica in Terrasanta provocando la dispersione del popolo ebraico fra le genti. Il paradigma che da ciò scaturì fu quindi il seguente: gli ebrei sarebbero responsabili di deicidio; Dio avrebbe condannato il popolo ebraico alla dispersione e all'abbrutimento per tutte le sue generazioni fino alla redenzione finale. 2 G. Luzzatto Voghera, Antisemitismo perché? (in Storia e dossier, maggio 1995) D'altra parte l'esistenza del popolo ebraico rimane necessaria proprio per rammentare agli uomini la forza della punizione divina. Se c'è un fenomeno storico, legato a un progressivo stratificarsi di pregiudizi e convenzioni, al quale è possibile applicare senza timore di essere smentiti il concetto di longue durée (lunga durata) coniato dallo storico francese Fernand Braudel, questo è proprio il caso dell'antigiudaismo di matrice cristiana. La sua storia, infatti, attraversa le vicende d'Europa nel corso di oltre sedici secoli e stratifica una tradizione di linguaggi, superstizioni, luoghi comuni, modi di dire, insomma una memoria collettiva talmente radicata da rendere questa componente dell'antisemitismo di gran lunga la più importante e più difficile da rimuovere. Fondamentale in quanto - a causa della sua lunga durata sfugge in fin dei conti alla stessa dimensione storica per trasformarsi in elemento costitutivo, dal punto di vista antropologico, dell'uomo europeo. Relegati in quartieri separati e chiusi dal resto della città Decine di generazioni di uomini e donne assistono per secoli e secoli al rinnovarsi nelle chiese dell'intero continente delle prediche e dei riti religiosi nei quali l'ebreo compare come "perfido giudeo"; nel corso degli stessi riti religiosi quest'ultimo è identificato come l'uccisore del Messia e sulle pareti affrescate delle chiese l'immagine dell'ebreo assume sempre connotati negativi. A questa pratica religiosa si affiancano provvedimenti giuridici per cui gli ebrei (i soli "infedeli" frammisti alla popolazione cristiana) vengono esclusi dal possesso di beni immobili, costretti a esercitare alcune determinate professioni quali il commercio e il prestito di denaro su pegno e infine vengono relegati a vivere in case e quartieri separati e chiusi dal resto della città. Quando tutto ciò si compie, allora il piano antropologico e quello storico si legano strettamente a creare un monumento di odio verso il diverso per antonomasia, l'infedele, il traditore che vive fra noi, in un sol termine l'"ebreo'', sul quale l'immaginazione popolare - spesso coadiuvata in ciò dall'autorità ecclesiastica - inventa fantasie che rispondono all'immagine diabolica in un continuo gioco perverso di autoconferme. Nascono così alcune leggende che faranno da colonne all'antiebraismo popolare e che causeranno nel contempo una lunga catena di lutti per il popolo ebraico: l'accusa di omicidio rituale, l'avvelenamento dei pozzi, la profanazione dell'ostia, l'adorazione del dio mammone (cioè il denaro), la perversione morale, il tradimento. Si diffonde lo stereotipo dell'ebreo sfruttatore e usuraio La seconda componente fondante dell'antisemitismo moderno è quella che abbiamo chiamato socialista. In realtà un termine più appropriato per definire le origini ideologiche di questo fenomeno potrebbe essere "anticapitalismo finanziario", una formula che però richiede almeno una schematica spiegazione. Innanzitutto questa forma di antiebraismo trova una sua collocazione geografica piuttosto precisa, parzialmente in Germania e Inghilterra, ma anche e soprattutto in Francia (in Italia solo di riflesso). Da lì naturalmente l'eco di una simile impostazione raggiunse il resto d'Europa, ma li nacque e li si sviluppò. Gli elementi costitutivi di questo filone non marginale dell'antisemitismo sono in sostanza riducibili a due. Da una parte il legame preliminare con il pregiudizio stratificato nel corso dei secoli di un particolare attaccamento degli ebrei al denaro. Generalmente gli storici spiegano la nascita di questo preconcetto facendola risalire al Medioevo e alla successiva epoca dei ghetti, durante la quale gli ebrei d'Europa vennero costretti per legge nella maggior parte dei casi a esercitare il prestito di denaro su pegno (vietato ai cristiani). Questo tipo di attività - immediatamente percepita in maniera negativa dalla popolazione che ricorreva al prestito per necessità - avrebbe creato nell'immaginario collettivo lo stereotipo dell'ebreo sfruttatore legato al denaro. Una spiegazione - è bene precisarlo - nata come una sorta di analisi sociologica del passato, ma non basata in realtà su dati certi. D'altra parte non esiste - come vorrebbe far credere tanta letteratura antisemita - nessun luogo della tradizione scritta e orale ebraica che faccia riferimento a un uso particolare del denaro in forma negativa di sfruttamento con l'inganno verso il non ebreo; perfino la frase della Bibbia «allo straniero potrai prestare a interesse» (Deuteronomio 23, 21) -tante volte messa sotto accusa dalla propaganda antisemita - non prevede in alcun modo un precetto di frode verso il prossimo. Dare quindi una spiegazione precisa ed esauriente della nascita di questo pregiudizio risulta operazione proibitiva. Nell'affare Dreyfus esplode l'antisemitismo diffuso nella Francia del secolo XIX Il secondo elemento di questo filone antisemita investe in pieno le basi costitutive del capitalismo moderno; con la nascita del capitalismo finanziario, delle borse di scambio, con lo sviluppo delle attività bancarie e assicurative, legate strettamente alle dinamiche della rivoluzione industriale, si assiste a una progressiva crescita dell'incomprensione popolare relativamente ai nuovi fattori economici che regolano la modernità incipiente. Fino a tutto il XVIII secolo la mentalità produttiva era intimamente legata alla produzione agricola. Un uomo semina il proprio campo, e con l'abilità del suo lavoro fisico riesce a moltiplicare il frutto della terra che coltiva. Abolito per secoli dal magistero della Chiesa, il concetto che il denaro possa fruttare un guadagno per il solo fatto di circolare, il capitale nato da attività puramente finanziarie (quindi anche non immediatamente visibili, ma nascoste, oscure, non controllabili) viene demonizzato. Diversi pensatori generalmente militanti nelle file dei movimenti dei lavoratori o comunque considerati loro referenti ideologici, identificano su queste basi l'ebreo come figura paradigmatica del borghese improduttivo che si arricchisce con segrete manovre finanziarie sfruttando il lavoro altrui. «Io chiamo ebreo - scriveva per esempio il francese 3 G. Luzzatto Voghera, Antisemitismo perché? (in Storia e dossier, maggio 1995) Alphonse Toussenel a metà del secolo scorso ogni trafficante di denaro, ogni parassita improduttivo che viva della sostanza e del lavoro altrui. Ebreo, usuraio, trafficante sono per me sinonimi». Del processo che portò il pensiero anticapitalistico a sconfinare progressivamente nell'antigiudaismo economico non sono state finora offerte analisi esaurienti. Alcuni pensatori hanno tentato di interpretare l'antisemitismo come fenomeno marginale di una tendenza ideologica più importante quale quella anticapitalistica. Ma questi tentativi di privare l'antisemitismo di un suo statuto autonomo e di relegarlo a ruoli marginali nascondono al loro fondo l'incapacità di comprendere in pieno i meccanismi dell'ostilità antiebraica. In realtà la corrente anticapitalistica dell'antisemitismo, considerata per decenni con simpatia da ampie frange dei movimenti dei lavoratori, assume una sua centralità nel momento in cui - con la sua specificità di linguaggio "antico" rielaborato in chiave moderna - riesce a coagulare componenti politiche e sociali differenti e spesso antagoniste. L'interpretazione classica che lega le sorti dell'antisemitismo modano alla tradizione socialista fa riferimento al celebre saggio di Karl Marx su La questione ebraica, che fa esplicito riferimento all'esistenza di una stretta interdipendenza fra lo spirito del giudaismo e il capitalismo. Certamente questo tipo di approccio, che per l'ambito in cui veniva espresso e il pubblico a cui era rivolto significava un esplicito invito a liberarsi insieme di capitalismo e giudaismo, ebbe una certa influenza sui pensatori socialisti. Ma sarebbe fuorviante limitare alle idee espresse in un saggio di poche pagine l'intera responsabilità di un coinvolgimento ideologico ben più rilevante e profondo. Di fatto, oltre e malgrado Marx, la maggior parte dei leader del movimento socialista del secolo XIX in Francia, Germania e Inghilterra effettuarono un collegamento logico astratto, acritico e astorico, fra le figure del capitalista e dell'ebreo, mantenendo viva tale connessione almeno per tutto l'Ottocento, fino alla svolta dell'affare Dreyfus (1894-1906). La chiave di lettura che abbiamo chiamato `"liberale" dell'antisemitismo si lega in maniera inscindibile con i concetti di nazione e di cittadinanza così come vengono elaborati nei nascenti Stati borghesi dell'Ottocento. Dal punto di vista storico, parlare di antisemitismo di matrice liberale potrebbe sembrare un paradosso; in effetti l'origine stessa dell'emancipazione ebraica si deve collocare nella decisione dell'Assemblea nazionale francese nel 1791 di riconoscere agli ebrei come singoli cittadini il diritto di godere delle libertà civili. Questo tipo di deliberazione, però, prevedeva implicitamente una, se non automatica, per lo meno progressiva dissoluzione delle differenze culturali e religiose fra gli ebrei e il resto della popolazione europea. Ora, se c'è una cosa che non può essere eliminata per decreto legislativo, questa è sicuramente da individuare nell'identità culturale e tradizionale di un gruppo umano. E di fatto gli ebrei di tutta Europa, che nella loro totalità avevano rinunciato di buon grado a qualsiasi tipo di rivendicazione in materia di identità nazionale, non abbandonarono le loro usanze religiose e tradizionali nelle quali per secoli avevano ritrovato la fonte stessa della propria identità. L'anomalia non si dissolse e gli ebrei continuarono - in diverse forme a costituire una componente interna e nello stesso tempo "altra" della società europea. Il risultato fu non certo catastrofico, ma in qualche misura non esattamente rispondente ai progetti di emancipazione e integrazione che avevano accompagnato la concessione dei, diritti di cittadinanza agli ebrei. Con la nascita e lo sviluppo in Europa, con tempi e modalità differenti, delle diverse identità nazionali, gli ebrei si trovarono a vivere da liberi cittadini e fervidi patrioti in paesi dei quali condividevano solo parte del patrimonio culturale. Lo Stato liberale tutela i cittadini ebrei ma li discrimina in quanto comunità Dopo la crisi europea del 1848 - durante la quale si mescolarono elementi di rivolta sociale e aspirazioni di indipendenza nazionale - l'idea di nazione così come era stata concepita negli anni della rivoluzione francese venne progressivamente decadendo; al prevalere del sentimento di solidarietà come base per la creazione di una nazione omogenea, si andò sostituendo un nuovo spirito nazionalistico più aggressiva ed esclusivista. Fu dalle frange più estremistiche di questo nuovo nazionalismo che nacquero le prime sollecitazioni riguardanti una presunta diversità "costitutiva" dell'ebreo rispetto al cittadino comune; diversità che con lo sviluppo del positivismo e delle teorie evoluzionistiche si trasferì dal campo culturale al campo biologico. Se quindi lo Stato nazionale, il potere politico continuava a riconoscere piena fiducia agli ebrei sul piano individuale e su quello religioso, la loro realtà (o apparenza) di gruppo transnazionale allarmava e provocava l'ostilità delle emergenti borghesie nazionali. Vale a dire: nonostante la generale convinzione che il liberalismo avesse condotto a una totale e definitiva emancipazione ebraica, di fatto quest'ultima veniva concepita e realizzata solo dallo Stato liberale in quanto istituzione. Le forze sociali e politiche che a esso facevano riferimento, invece, non sempre furono disposte a riconoscere gli ebrei come parte integrante della nazione e non furono rari - anche in Italia - casi di aperta malsopportazione degli elementi di diversità culturale, quando non si udirono accuse di "doppia nazionalità" (quindi di potenziale tradimento) rivolte agli ebrei. A proposito dell'atteggiamento omologatore del mondo liberal-democratico nei confronti di qualsiasi diversità, sono significative le affermazioni del filosofo e scrittore francese Jean-Paul Sartre nella sua opera L'antisemitismo: «Gli ebrei hanno però un amico: il democratico. Ma è un misero difensore. Indubbiamente egli proclama che tutti gli uomini sono uguali nei loro diritti, ma egli non ha occhi per le sintesi concrete che la storia gli presenta. Tutte le collettività le risolve in elementi individuali. Ne segue che la difesa dell'ebreo salva l'ebreo in quanto uomo e lo annienta in quanto ebreo». 4 G. Luzzatto Voghera, Antisemitismo perché? (in Storia e dossier, maggio 1995) L'elemento che maggiormente caratterizza l'antisemitismo moderno, che trae origine dai miti tradizionali dell'antigiudaismo e nel medesimo tempo li alimenta in un continuo giro di autoconferme, è senza dubbio l'accusa e il timore dell'esistenza di un "complotto giudaico". L'idea su cui si era basato in origine questo mito è particolarmente semplice e di straordinaria efficacia perché poggiava su enunciati e collegamenti logici (impropri!) che non possono per loro stessa natura essere verificati e provati con argomenti certi. Due furono gli elementi fondamentali di questa costruzione: in primo luogo la constatazione dell'esistenza un po' in tutti i paesi del mondo di comunità ebraiche più o meno numerose; il secondo elemento accessorio fu la nascita nel corso del secolo XIX di una nuova forma di capitalismo finanziario apparentemente incontrollabile, che seguiva dinamiche e leggi sue proprie di difficile lettura. Su questi due elementi - constatazioni di una realtà di fatto preesistente e indipendente dalle dinamiche antisemite - si innestarono una serie di fattori e di avvenimenti che nel loro complesso diedero vita e origine all'intera teoria del "complotto giudaico". La montatura della polizia zarista diventa uno dei pilastri dell'antisemitismo Sul piano prettamente storico l'idea del complotto ebbe una genesi ben precisa. Nel corso dell'Ottocento si verificarono alcune convergenze che vennero manipolate in funzione antiebraica contribuendo nell'insieme a dare una parvenza di credibilità a questa teoria. In ordine cronologico si potrebbero indicare approssimativamente in questo modo: a) nel 1860, nascita dell'Alliance Israélite Universelle, organizzazione franco-ebraica transnazionale, creata per venire in aiuto - secondo criteri tipici della filantropia borghese - alle popolazioni disperate e perseguitate degli Shtetl (villaggi o quartieri ebraici dell'Europa orientale); nel 1870, compimento dell'unità d'Italia e successiva fine del potere temporale del papato, che diede luogo alla successiva rottura .fra mondo cattolico e liberalismo; b) nel 1881 ad ambienti ebraici viene attribuita la responsabilità del complotto ordito per uccidere lo zar di Russia Alessandro II; c) nel 1882-1885, la serie di scandali finanziari in Francia che coinvolgono alcuni finanzieri ebrei. Tali avvenimenti vennero interpretati come segnali di un segreto complotto ebraico (spesso collegato a connivenze liberali e massoniche) anticristiano e - nei diversi Paesi -antinazionale. Una "trama segreta" che negli ultimi due decenni dell'Ottocento favorì la nascita di diverse leghe dichiaratamente antisemite e provocò in ultimo l'esplosione di quel fondamentale momento di scontro ideale e politico che fu l'affare Dreyfus. In seguito, nel corso di questo secolo, l'idea di complotto ebraico subì forti modifiche, anche se mantenne l'intera gamma dei temi elaborati nel corso dell'Ottocento. Il testo fondamentale attorno al quale riprese vitalità la teoria del complotto furono i tristemente famosi Protocolli dei savi anziani di Sion. Questo testo, elaborato dalla polizia segreta zarista Okhrana sulla base di un libello francese antibonapartista della metà del secolo XIX, veniva presentato come la relazione segreta in 24 capitoli di un piano per la conquista del mondo da parte di un fantomatico e segretissimo gruppo di dirigenti ebrei. In esso venivano ripercorse a grandi linee le tappe storiche che avrebbero portato il popolo ebraico a stringere il mondo in una morsa mortale, rivisitando in quest'ottica le vicende storiche religiose dell'Occidente. Questa "rivelazione", che riproponeva tutto il patrimonio di pregiudizi, superstizioni e falsità storiche che avevano caratterizzato la nascita della teoria del complotto ebbe un successo editoriale strepitoso a partire dalla fine della prima guerra mondiale. In Italia il primo a pubblicarla fu il direttore del mensile «La vita italiana», l'ex-sacerdote cattolico e poi fascista della prim'ora Giovanni Preziosi. Venne utilizzato come testo di grande divulgazione - per quel che riguarda l'Italia - soprattutto negli anni 1937-1938, all'epoca della promulgazione delle leggi razziali antiebraiche da parte del regime fascista. Più tardi venne ristampato in maniera più o meno clandestina dagli ambienti neofascisti negli anni Settanta e Ottanta. In particolare l'introduzione all'edizione italiana del 1937 a firma dell'ideologo Julius Evola fu adottata come testo tradizionale del fascismo italiano dagli ideologi dei gruppuscoli nazifascisti - segnatamente Franco Freda e Claudio Mutti. L'idea del complotto è l'elemento dell'antisemitismo moderno che ha ottenuto il maggior radicamento sul piano politico e che nel corso del dopoguerra ha prodotto i "mostri" più visibili. Se ne possono osservare esempi […] A ciò si aggiunge la continua produzione di luoghi comuni sul ruolo del sionismo e dello Stato d'Israele che, lungi dall'esser giudicati nella loro reale e problematica dimensione storico-politica, sono incastonati su base ideologica in un più generale quadro precostituito, per cui spesso e volentieri vengono presentati come prodotto e strumento di un segreto disegno imperialista.