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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 9 settembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DONNE E DIRITTI
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Del 9/09/2015, pag. 1-4
La “Marcia” dilaga da Venezia a tutta Italia
Il corteo per i migranti. Numerosissime le adesioni e le piazze parallele
in tante città. Ci sono pure Cgil, Cisl, Uil e Fiom. A piedi nudi: «Noi
stiamo dalla parte degli uomini scalzi, di chi ha bisogno di mettere il
proprio corpo in pericolo per poter sperare di vivere o di sopravvivere».
Antonio Sciotto
Si moltiplicano le adesioni alla Marcia delle donne e degli uomini scalzi di Venezia: già 300
organizzazioni e 1500 personalità del mondo della cultura, della politica e dello spettacolo
hanno aderito all’appello in favore dell’accoglienza ai migranti, spiegano gli organizzatori.
Ma l’11 settembre il corteo a piedi nudi non si terrà soltanto al Lido: verrà affiancato infatti
da tante altre marce in molte città italiane, ieri sera erano già 46. Da Alessandria a Catania, da Genova a Pisa, da Forlì a Napoli, a Trento, a Volterra, passando per Roma.
L’appuntamento veneziano è alle 17 al Lido Santa Maria Elisabetta, per marciare «fino al
cuore della Mostra», mentre per gli altri cortei in contemporanea nel resto d’Italia l’elenco
si può trovare sul blog in continuo aggiornamento donneuominiscalzi.blogspot.it.
Parteciperanno, e stanno mobilitando ovviamente i loro iscritti, i tre sindacati confederali:
la Cgil, tra i primi firmatari, ha aderito giovedì scorso, mentre lunedì sono arrivati gli ok di
Cisl e Uil. E in piazza ci saranno anche le tute blu Fiom.
L’idea è partita da un gruppo di artisti e personalità del mondo dello spettacolo, del giornalismo e della cultura, insieme a diverse associazioni: Lucia Annunziata, Marco Bellocchio,
Gad Lerner, Elio Germano, Ascanio Celestini, Roberto Saviano, Andrea Segre. E ancora:
Valerio Mastandrea, Jasmine Trinca, Fiorella Mannoia, Don Vinicio Albanese, Giulio Marcon, Toni Servillo, Mauro Biani. Con Amnesty, Terres des hommes, Emergency, Acli, Arci,
Medici senza frontiere, Mani tese. «Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi — recita
l’appello — Di chi ha bisogno di mettere il proprio corpo in pericolo per poter sperare di
vivere o di sopravvivere. È difficile poterlo capire se non hai mai dovuto viverlo. Ma la
migrazione assoluta richiede esattamente questo: spogliarsi completamente della propria
identità per poter sperare di trovarne un’altra. Abbandonare tutto, mettere il proprio corpo
e quello dei tuoi figli dentro a una barca, un tir, un tunnel e sperare che arrivi integro al di
là, in un ignoto che ti respinge, ma di cui tu hai bisogno».
Quindi la sollecitazione ad aprirsi a chi fugge, a soccorrerlo e ad accoglierlo: «Non è pensabile fermare chi scappa dalle ingiustizie, al contrario aiutarli significa lottare contro quelle
ingiustizie. Dare asilo a chi scappa dalle guerre, significa ripudiare la guerra e costruire la
pace. Dare rifugio a chi scappa dalle discriminazioni religiose, etniche o di genere, significa lottare per i diritti e le libertà di tutte e tutti. Dare accoglienza a chi fugge dalla povertà,
significa non accettare le sempre crescenti disuguaglianze economiche e promuovere una
maggiore redistribuzione di ricchezze».
Via via sono arrivate tante altre adesioni: Ettore Scola, Francesca Comencini, Francesco
Munzi (membro della giuria della Mostra del cinema di Venezia), Livia Turco, Pippo Civati,
l’eurodeputata ed ex ministra per l’integrazione Cecile Kyenge, Eleonora Forenza dell’Altra
Europa con Tsipras e Arturo Scotto di Sel. Ma ci sono anche don Luigi Ciotti di Libera, il
gruppo Feltrinelli, la Casa delle donne di Roma, l’associazione Ong italiane, l’Asgi. Il coordinamento Comunità d’accoglienza ha deciso di tenere il suo consiglio nazionale a piedi
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scalzi. Da segnalare, tra le quasi 50 marce, quella che si terrà a Roma: perché parte dal
Centro Baobab (via Cupa 5), dove tante volontarie e volontari assistono ogni giorno
i migranti in transito per la capitale.
La Cgil chiede che l’Europa «costituisca una politica europea dell’asilo», la Cisl
«l’immediato superamento del Regolamento di Dublino, per un’accoglienza sicura e rispettosa dei diritti umani dei profughi». La Uil annuncia per l’11 settembre «una giornata di
solidarietà e accoglienza in favore dei profughi e dei richiedenti asilo».
Oggi a Roma la conferenza stampa di lancio della Marcia, con la presidente della Camera
Laura Boldrini, le associazioni e gli artisti.
Da Redattore Sociale del 08/08/15
Migranti, la “Marcia degli scalzi” diventa
nazionale: 35 le città aderenti
Domani la presentazione dell’iniziativa dell’11 settembre a Venezia e in
tutta Italia, che in pochi giorni ha registrato l’adesione di moltissime
associazioni, artisti, politici, religiosi. Il regista Andrea Segre spiega
l'origine dell’idea e avverte: non può restare un atto simbolico
ROMA – Scalzi come chi ha perso tutto. In marcia come le migliaia di profughi che si sono
incamminati a piedi dall’Ungheria al confine con l’Austria, dimostrando nei fatti che i muri e
le frontiere si possono abbattere pacificamente.
Si svolgerà venerdì in tutta Italia la “Marcia delle donne e degli uomini scalzi”: un’iniziativa
in solidarietà con i richiedenti asilo che bussano alle porte dell’Europa, lanciata d un
gruppo di artisti e attivisti (Andrea Segre, Giulio Marcon, Ascanio Celestini e Gianfranco
Bettin) al Festival del cinema di Venezia, diventata in poche ore una vera e propria
manifestazione nazionale. Sono 35 le città che hanno aderito all’iniziativa, da Milano fino a
Pozzallo. Tantissime anche le adesioni che portano la firma di associazioni da sempre al
fianco dei migranti, c’è gran parte del mondo cattolico e non mancano le sigle sindacali,
con Susanna Camusso, che ha assicurato la sua presenza al lido, al fianco di Nichi
Vendola. Presenti, insieme a una corposa rappresentanza di migranti, anche diversi artisti,
uomini e donne del mondo cattolico e parlamentari di diversi schieramenti politici. I nomi e
i dettagli sullo svolgimento saranno resi noti domani in una conferenza stampa a Roma, al
termine della quale una delegazione di organizzatori sarà ricevuta dalla presidente della
Camera Laura Boldrini. L'appuntamento principale resta comunque venerdì 11 alle 17 in
piazza Santa Maria Elisabetta, al Lido di Venezia. In contemporanea in molte altre città
d’Italia.
“Non so bene cosa ci aspettassimo quando abbiamo lanciato l’iniziativa, che oramai è
diventata nazionale – sottolinea Andrea Segre, regista di diverse opere che trattano il
tema dell’immigrazione come “Io sono Lì” e "Mare chiuso". - Di certo abbiamo capito che
nel paese c’era un’urgenza e l’abbiamo catalizzata attraverso una simbologia chiara,
quella della marcia degli scalzi. Poi l’attualità è entrata con la sua forza, abbiamo visto tutti
le immagini dei profughi marciare da Budapest a Vienna. E questo ha fatto sì che molti
cittadini sentissero ancor più forte il bisogno di prendere la voce rispetto a quanto sta
accadendo in Italia e in Europa”. Il messaggio che verrà lanciato è chiaro: l’accoglienza dei
profughi è una sfida di dignità, di democrazia e di civiltà. Ma nelle intenzioni dei promotori
la manifestazione non deve restare solo un atto simbolico. Tra le ipotesi c’è che, dopo
venerdì, dalla partecipazione di piazza possa nascere un movimento per chiedere risposte
chiare al governo. “Le sfide che abbiamo davanti sono due – continua Segre – Innanzitutto
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dobbiamo riempire di contenuti questi appuntamenti per farli diventare obiettivi politici da
mandare avanti in maniera chiara. Bisogna capire, per esempio, cosa significa l’apertura
dei confini da parte della Germania, come cambiare Dublino e quali sono le conseguenze
della suddivisione dei rifugiati tra paesi. Sono tutti aspetti che vanno analizzati. L’altra sfida
è capire cosa vogliamo fare dal 12 settembre perché questa non resti solo una
manifestazione simbolica. Intanto venerdì inizieremo a dire in modo chiaro che
l’immigrazione non è un corpo estraneo con cui avere a che fare, ma fa parte di noi, per
questo marciamo scalzi. Poi rifletteremo su come andare avanti”.
Sono tantissime le persone del mondo politico e dello spettacolo che hanno deciso di
manifestare l’11 settembre in tutta Italia, ma alla testa dei cortei che si svolgeranno nelle
diverse città, ci saranno quei profughi che già oggi vivono nei nostri territori e faticano a
trovare un’accoglienza dignitosa. Una marcia partirà dal centro Baobab di Roma, nella
capitale, dove da due mesi sono i cittadini e i volontari a occuparsi di assicurare un pasto.
A Milano al fianco dei migranti manifesterà anche Emergency. Diverse iniziative sono
previste anche in Sicilia nei luoghi simbolo dell’immigrazione, da Palermo a Pozzallo.
L’iniziativa principale resta quella di Venezia, dove sfruttando i riflettori della Mostra del
cinema il messaggio di solidarietà ai richiedenti asilo avrà una valenza internazionale.
Durante il Festival, inoltre, verrà proiettato lo spot a sostegno della Giornata mondiale del
Rifugiato 2015, realizzato dalla Copeam (Conferenza Permanente dell’Audiovisivo
Mediterraneo) e dall’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati).
Oltre a Milano, Roma e Venezia la Marcia delle donne e degli uomini scalzi si terrà poi a
Genova, Palermo (il 10 settembre), Torino, Alessandria, Caltagirone e in altre trenta città.
Lo scopo è quello di chiedere un radicale cambiamento delle politiche sull'immigrazione. In
particolare, l'apertura di corridoi umanitari sicuri per vittime di guerre, catastrofi e dittature;
accoglienza degna e rispettosa per tutti; chiusura e smantellamento di tutti i luoghi di
concentrazione e detenzione dei migranti.
Valerio Mastandrea aderisce alla marcia dell'11 settembre a Venezia
Valerio Mastandrea per la marcia a Venezia dell'11 settembre di donne e uomini scalzi.
Tra i primi a sottoscrivere l’appello e ad aderire alla manifestazione: Lucia Annunziata, don
Vinicio Albanesi, Gianfranco Bettin, Marco Bellocchio, don Albino Bizzotto, Elio Germano,
Gad Lerner, Giulio Marcon, Valerio Mastandrea, Grazia Naletto, Giusi Nicolini, Marco
Paolini, Costanza Quatriglio, Norma Rangeri, Roberto Saviano, Andrea Segre, Toni
Servillo, Sergio Staino, Jasmine Trinca, Daniele Vicari, don Armando Zappolini. Numerose
adesioni stanno arrivando in quest ore, tra cui quelle delle suore Rita Pimpinicchi e
Filomena Scrocca, piccole sorelle di Jesus Caritas, impegnate nell’accoglienza di oltre 100
profughi nel seminario arcivescovile di Fermo. Tra le associazioni spiccano Arci, Cnca,
Emergency, Lunaria, il Forum del Terzo settore, la Cgil e la Cisl.
L'elenco di tutti gli aderenti e gli aggiornamenti sulla manifestazione si possono seguire a
questo link. (ec)
Da Redattore Sociale del 08/09/15
Lettera alla Meloni, a rischio il presidente
dell’Unar. La solidarietà dell’Arci
Dopo la protesta della leader di Fratelli d’Italia, possibili conseguenze
per direttore dell’Unar Marco De Giorgi. L’Arci: “Ci auguriamo che non
prevalgano ancora gli interessi della cattiva politica ma quelli dei
cittadini e delle istituzioni democratiche”
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ROMA - L’Arci esprime solidarietà al direttore dell’Unar (Ufficio nazionale
antidiscriminazioni razziali). Scrive l’associazione in una nota: “Apprendiamo da fonti
giornalistiche che il direttore dell’Unar, Marco De Giorgi, sarebbe stato sottoposto a
procedimento disciplinare e il rinnovo del suo incarico sarebbe fortemente a rischio a
causa di una lettera inviata alla presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni per le sue
affermazioni pubblicate da un quotidiano online”. Nella lettera la Meloni viene invitata a
considerare l’opportunità per il futuro di trasmettere alla collettività messaggi di diverso
tenore. Un invito che, secondo l’Arci, “rientra dunque appieno nelle competenze assegnate
all’Unar, che deve vigilare e intervenire nel caso ravvisi l’esistenza di fenomeni o
comportamenti discriminatori. La parlamentare l’ha però presa malissimo, si è rivolta al
presidente del consiglio e addirittura ha chiesto di essere ricevuta dal presidente della
Repubblica, sostenendo di essere stata vittima di censura e inscenando una protesta con
tanto di bavaglio davanti a Palazzo Chigi”.
Ricordiamo che, nella lettera al presidente della Repubblica, Giorgia Meloni affermava: “In
sostanza scopro che esisterebbe un ufficio del governo capitanato da un burocrate di
stato, consigliere Marco De Giorgi, che si arroga il diritto di sindacare - ed eventualmente
censurare - le opinioni espresse delle persone, parlamentari compresi. Ne rimango
scioccata”. La parlamentare aveva dunque denunciato le pressioni subite, considerate una
sorta di censura, e manifestato imbavagliata, lanciando poi sui social l’hashtag
#bavagliodistato. Afferma oggi l’Arci: “Il presupposto è il solito: i politici possono
permettersi tutto, mica sono normali cittadini suscettibili di richiami! Anche se molto garbati
come in questo caso. E Renzi si è prontamente schierato dalla parte della Meloni,
condividendone evidentemente la convinzione che un parlamentare può dire ciò che vuole
senza conseguenze e meditando di far fuori il responsabile di un simile sgarbo”.
Per l’Arci “la vicenda dimostra una volta di più quanto sia importante garantire che l’Ufficio
antidiscriminazione sia effettivamente un organismo indipendente, così come prevede la
Direttiva europea che lo istituisce e rispetto alla quale l’Italia è inadempiente, poiché ne
assegna la responsabilità alla presidenza del consiglio. L’Arci, che ha avuto modo di
collaborare in più occasioni con De Giorgi, apprezzando la correttezza e la serietà con cui
ha portato avanti il suo incarico, non può che esprimergli la propria solidarietà,
augurandosi che non prevalgano ancora una volta gli interessi della cattiva politica ma
quelli dei cittadini e delle istituzioni democratiche”.
Da Corriere Sociale del 9/09/2015
Solidarietà a Marco De Giorgi (Unar),
colpevole di correttezza
di Francesca Chiavacci*
Apprendiamo da fonti giornalistiche che il direttore dell’Unar (Ufficio nazionale
antidiscriminazioni razziali), Marco De Giorgi, sarebbe stato sottoposto a procedimento
disciplinare e il rinnovo del suo incarico sarebbe fortemente a rischio a causa di una lettera
inviata alla presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni per le sue affermazioni pubblicate
da un quotidiano online.
Nella lettera la Meloni viene invitata a considerare l’opportunità per il futuro di trasmettere
alla collettività messaggi di diverso tenore. Un invito che rientra dunque appieno nelle
competenze assegnate all’Unar, che deve vigilare e intervenire nel caso ravvisi l’esistenza
di fenomeni o comportamenti discriminatori.
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La parlamentare l’ha però presa malissimo, si è rivolta al presidente del consiglio e
addirittura ha chiesto di essere ricevuta dal presidente della Repubblica, sostenendo di
essere stata vittima di censura e inscenando una protesta con tanto di bavaglio davanti a
Palazzo Chigi.
Il presupposto è il solito: i politici possono permettersi tutto, mica sono normali cittadini
suscettibili di richiami! Anche se molto garbati come in questo caso.
E Renzi si è prontamente schierato dalla parte della Meloni, condividendone
evidentemente la convinzione che un parlamentare può dire ciò che vuole senza
conseguenze e meditando di far fuori il responsabile di un simile sgarbo.
La vicenda dimostra una volta di più quanto sia importante garantire che l’Ufficio
antidiscriminazione sia effettivamente un organismo indipendente, così come prevede la
Direttiva europea che lo istituisce e rispetto alla quale l’Italia è inadempiente, poiché ne
assegna la responsabilità alla presidenza del consiglio.
L’Arci, che ha avuto modo di collaborare in più occasioni con De Giorgi, apprezzando la
correttezza e la serietà con cui ha portato avanti il suo incarico, non può che esprimergli la
propria solidarietà, augurandosi che non prevalgano ancora una volta gli interessi della
cattiva politica ma quelli dei cittadini e delle istituzioni democratiche.
*presidente Arci nazionale
http://sociale.corriere.it/solidarieta-a-marco-de-giorgi-unar-colpevole-di-correttezza/
Da il Giornale.it del 08/09/15
Silurato il censore della Meloni
Non verrà rinnovato l'incarico al capo dell'ufficio anti razzismo di
Palazzo Chigi. Scrisse alla leader FdI: "Modera i toni"
Gian Maria De Francesco
Roma. L'inquisitore di Palazzo Chigi è arrivato a fine corsa. Fonti del governo ieri hanno
reso noto che il segretario generale di Palazzo Chigi, Paolo Aquilanti, ha chiesto
chiarimenti a Marco De Giorgi, direttore dell'Unar, l'ente antidiscriminazione che pochi
giorni fa ha censurato il presidente di FdI, Giorgia Meloni, per alcune dichiarazioni sulla
questione-rifugiati, invitandola a «trasmettere alla collettività messaggi di diverso tenore».
Secondo quanto si apprende, il premier Matteo Renzi avrebbe espresso disappunto per la
vicenda, considerando l'opinione di un parlamentare insindacabile. Anche per questo
motivo, circola l'ipotesi che il mandato in scadenza di De Giorgi possa non essere
rinnovato.
L'indiscrezione è circolata dopo che la stessa leader di Fratelli d'Italia aveva lamentato «il
silenzio totale» del presidente del Consiglio Renzi sullo spiacevole episodio che aveva
visto l'ufficio antidiscriminazione dipendente dal governo «censurare le opinioni di un
italiano e di un parlamentare, tutelate dalla Costituzione». Lunedì scorso, infatti, Giorgia
Meloni è stata ricevuta dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in quanto
capo dello Stato e garante della Carta, ha dichiarato all'esponente FdI di considerare «una
anomalia la lettera di un ufficio del governo che richiama un parlamentare per le posizioni
espresse». Ieri, invece, Meloni ha reso nota la risposta del presidente della Camera, Laura
Boldrini, alle proprie sollecitazioni. «A prescindere da ogni valutazione sul merito di tali
dichiarazioni, non posso non concordare sull'esigenza da Lei rappresentata della massima
tutela della libertà di espressione dei membri delle Camere in coerenza con il dettato
costituzionale», ha scritto l'inquilina numero uno di Montecitorio. Boldrini ha aggiunto che
«in una fase tanto delicata della vita politica e sociale del nostro Paese e dell'Europa a
coloro che ricoprono incarichi pubblici è richiesto il massimo senso di responsabilità
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nell'esercizio delle proprie funzioni». In difesa di De Giorgi è intervenuta l'Arci,
associazione organica alle frange antirenziane del Pd. «Non prevalgano ancora una volta
gli interessi della cattiva politica - si legge in una nota -ma quelli dei cittadini e delle
istituzioni democratiche».
http://www.ilgiornale.it/news/politica/silurato-censore-meloni-1168446.html
Da Redattore Sociale del 09/09/15
Stabilità 2016, “ecco a cosa destinare i fondi
per l’immigrazione e l’asilo”
Basta con l’accoglienza straordinaria, ampliare la rete Sprar, rinforzare
le commissioni per l’asilo, più soldi all’integrazione e a una operazione
di salvataggio in mare. Cosa prevedere nella prossima legge di bilancio
secondo Arci e Caritas italiana
ROMA – Portare a 60mila i posti per l’accoglienza gestita dalla rete Sprar (Sistema di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati); ampliare il numero delle commissioni territoriali
che decidono sulle richieste d’asilo; incentivare i programmi per l’integrazione e avviare un
Mare nostrum 2, per la ricerca e il salvataggio in mare. A questi quattro punti dovrebbero
essere destinati i fondi per l’immigrazione e l’asilo, previsti nella prossima legge di stabilità,
secondo le organizzazioni che da sempre si occupano del tema.
Basta con l’accoglienza straordinaria, ampliare la rete Sprar
“Innanzitutto il Governo dovrebbe stanziare i fondi necessari a mettere su un piano di
accoglienza ordinaria – sottolinea Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas
italiana – che permetta di uscire dal bisogno di ricorrere a posti in accoglienza
straordinaria. Le previsioni sugli arrivi nel 2015 parlano di 200mila persone entro la fine
dell’anno, non tutte si fermeranno in Italia, ma non possiamo permetterci di farci trovare
ancora una volta impreparati”. Dello stesso avviso anche Filippo Miraglia, vicepresidente
di Arci nazionale che sottolinea anche la necessità di passare a un’accoglienza in piccole
strutture, superando il modello dei grandi centri, come il Cara di Meneo. “Questi mega
centri vanno chiusi – afferma – l’unica soluzione è aumentare i posti del servizio Sprar,
portarli a un minimo di 60mila, che se gestiti con un turn over adeguato possono
accogliere in un anno fino a centomila persone”.
Snellire le richieste d’asilo, maggiore turn over nei centri
Un investimento che andrebbe fatto con le risorse previste dalla legge di stabilità riguarda
le commissioni territoriali che decidono sulle richieste d’asilo. “Le persone non possono più
aspettare anni per completare l’iter della loro domanda di protezione – spiega Miraglia – il
governo deve inserire un capitolo di spesa su questo. Investire nell’ampliamento delle
commissioni territoriali permette, infatti, il turn over all’interno dei centri di accoglienza:
riconosciuti come richiedenti asilo i profughi possono accedere alla seconda accoglienza.
Invece siamo continuamente in una situazione di stallo, dovuta alle lungaggini
burocratiche, ma anche alle decisioni sbagliate che fanno aumentare i ricorsi e allungano i
tempi”.
Più fondi per i progetti di integrazione
Il terzo punto su cui si dovrebbero dirottare le risorse sono, secondo le associazioni i
progetti di integrazione. “Troppo spesso la politica sull’accoglienza si ferma alla prima fase
– aggiunge Forti- è invece necessario anche investire nella fase successiva”. Questo è un
punto imprescindibile anche per l’Arci: “Bisogna lavorare bene sui programmi di
integrazione perché le persone una volta uscite dal circuito dell’accoglienza siano
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finalmente autonome – aggiunge Miraglia -. Sempre più spesso i richiedenti asilo, una
volta usciti dai centri, si ritrovano in strada senza gli strumenti necessari a costruirsi un
futuro. Questa è una politica sbagliata, bisogna metterli invece nella condizione di poter
fare da soli”.
Una Mare nostrum 2 per la ricerca e il salvataggio
Infine una parte delle risorse dovrebbe essere destinata alla ricerca e al salvataggio in
mare dei profughi che attraversano il Mediterraneo. “Nonostante il governo si stia
adoperando con la Marina militare anche in acque territoriali libiche, riteniamo che l’Italia
dovrebbe far partire un programma specifico di ricerca e salvataggio, una Mare nostrum 2
– conclude Miraglia -. Una quota delle risorse dovrebbe servire anche a mettere in campo
un’azione di arrivi protetti, veri e propri canali umanitari, da gestire in collaborazione con
l’Unhcr”. (ec)
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ESTERI
Del 9/09/2015, pag. 14
Lo scenario
Washington lancia l’allarme: i ribelli che combattono contro i jihadisti
stanno collezionando una sconfitta dopo l’altra. Così si moltiplicano i
progetti per una inedita alleanza militare: Parigi ha già mandato in
avanscoperta i suoi caccia, Londra ipotizza un intervento. Il dilemmaPutin: pronto ad agire, ma troppo vicino ad Assad
Russia, Usa ed Europa prove di guerra per
strappare la Siria allo Stato islamico
FEDERICO RAMPINI
C’È UN ALTRO DISASTRO in Siria. Oltre a quello umanitario, c’è la débacle dei ribelli che
avrebbero dovuto prima combattere Assad, adesso contrastare lo Stato Islamico.
L’America li addestra da un anno e ammette: con risultati pessimi. La Russia di fatto si
candida a intervenire militarmente in modo diretto. Francia, Inghilterra e Canada
riesaminano anche loro il profilo delle rispettive partecipazioni alla coalizione anti- Is. La
crisi dei rifugiati rimette in movimento un Grande Gioco anche sullo scacchiere militare
nell’area. L’allarme Usa sui ribelli. Lo ha rivelato il New York Times : la Casa Bianca e il
Pentagono sono preoccupati per «la pesante indaguatezza» dei ribelli che dovrebbero sul
campo combattere l’avanzata jihadista in Siria. È significativo un episodio recente, rivelato
da alti dirigenti dell’Amministrazione Obama: un gruppo di 54 combattenti addestrati dagli
americani sono stati sbaragliati dalla fazione Al Nusra (affiliata con Al Qaeda). La Voice of
America cita l’ex ambasciatore James Jeffrey: «Questo programma di addestramento ci
sta costando mezzo miliardo di dollari, dovremmo avere formato 5.000 combattenti, non
50». Per di più incompetenti: l’analisi del Pentagono sostiene che il reparto filo-Usa non
aveva appoggi sul terreno tra la popolazione locale, e ha lanciato la sua offensiva durante
una festività religiosa in cui altre reclute erano assenti.
La vicenda mette in luce i limiti dell’azione americana: i raid dal cielo che durano da un
anno sembrano abbastanza efficaci (ancora nello scorso weekend la coalizione guidata
dagli Usa ne ha lanciati 11 contro le postazioni dell’Is), ma non spostano i rapporti di forze
sul terreno. Obama-Putin, il duetto si ripete. Washington osserva con inquietudine quelli
che sembrano i preparativi di un intervento militare russo in Siria, ovviamente a sostegno
del vecchio alleato di Mosca, Assad. L’America ha chiesto alla Grecia di negare il sorvolo
del suo territorio agli aerei russi che trasportano forniture militari in Siria. Il portavoce di
Obama, Josh Earnest, ha dichiarato che «qualsiasi sostegno al regime di Assad è
destabilizzante e controproducente».
Si ripete il confronto Obama- Putin sulla Siria. All’inizio di settembre del 2013, il presidente
americano fu quasi sul punto di lanciare un bombardamento contro Assad per punirlo per i
massacri di civili con le armi chimiche. Obama era riluttante, voleva chiedere un voto al
Congresso che probabilmente lo avrebbe bocciato, quando al G20 di San Pietroburgo
spuntò la proposta Putin di una situazione diplomatica (ritiro controllato delle armi
chimiche). Che forse salvò Assad.
Riflettori sulla strategia russa. Putin continua a ribadire che Assad va aiutato, il vero
nemico da battere è lo Stato Islamico. «Dobbiamo creare una vera coalizione
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internazionale contro il terrorismo e l’estremismo », ha dichiarato il presidente russo.
Poiché quella coalizione esiste già, queste parole si possono interpretare come un’autocandidatura della Russia ad unirsi agli Stati Uniti. «Stiamo consultando gli americani, ho
parlato personalmente con Obama», ha detto Putin. Ma l’ingresso della Russia non
sarebbe indolore, sposterebbe gli equilibri della coalizione an- ti-Is rischiando di
trasformarla in una coalizione pro-Assad. La Russia è l’unica potenza straniera ad avere
tuttora una base militare in Siria, i suoi rapporti con Damasco sono antichi e solidi. Putin
non nasconde di «fornire importanti aiuti militari alla Siria», anche se finora non ha
confermato l’azione diretta di reparti militari russi sul terreno. Offrendo i suoi servizi alla
coalizione guidata dall’America, Putin può inseguire diversi obiettivi: ottenere un
allentamento delle sanzioni per l’Ucraina, uscire dall’isolamento, al tempo stesso
dimostare che è stata la Russia a capire per prima la vera minaccia islamica. Dalla guerra
in Afghanistan negli anni Settanta fino a quella in Cecenia, per concludere con l’appoggio
ad Assad, per Putin c’è un filo rosso che tiene unite le sue crociate contro il
fondamentalismo. Francia, Inghilterra e Canada. Tutto il fronte occidentale della coalizione
anti-Issi rimette in movimento per lo shock umanitario e politico dei profughi. Ieri i caccia
Rafale dell’aviazione francese hanno effettuato missioni di ricognizione sulla Siria «in
preparazione per attacchi contro lo Stato Islamico», secondo l’annuncio del presidente
François Hollande. I raid offensivi saranno affidati ai Mirage 2000 di base in Giordania.
La Francia era stata la prima nazione occidentale a unirsi alla coalizione guidata da
Obama, ma finora si era limitata a raid aerei sull’Iraq. La svolta e l’allargamento alla Siria è
giustificata così da Hollande: «È dalla Siria che vengono organizzati attacchi terroristici
contro di noi». La frase allude al ritorno in Europa di terroristi addestrati dai jihadisti. A
Londra il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha invocato la necessità di
«affrontare il dramma dei profughi alla sua origine ».
Memore del disastro politico del 2013 quando il Parlamento inglese bocciò l’intervento
militare, stavolta il premier David Cameron vuole un accordo con l’opposizione laburista. In
Canada resta forte l’emozione per la tragica morte di Alan Kurdi, il bambino di tre anni
morto annegato durante la traversata del Mediterraneo. Ai suoi era stato negato il visto
canadese, malgrado che dei parenti residenti in Canada avessero offerto garanzie
economiche. Il leader conservatore Stephen Harper si è difeso dalle accuse: «Non si può
rifiutare l’intervento militare. Milioni di persone sono massacrate dallo Stato Islamico.
Bisogna fare di più per affrontare le cause, e noi faremo di più».
del 09/09/15, pag. 10
L’Iran apre a un tavolo di pace con Usa e
sauditi «Negoziamo per fermare i massacri in
Siria»
Iniziativa del presidente Rouhani. Ora si attendono le mosse di Putin,
l’altro grande alleato di Assad
WASHINGTON Profughi disperati, combattimenti feroci, manovre per sostenere i ribelli,
Mosca che puntella Bashar Assad con altre armi. Quadro nero dove c’è chi pensa valga la
pena tentare un’altra strada. Il presidente iraniano Hassan Rouhani, ricevendo il suo
omologo austriaco Heinz Fischer, ha affermato che il suo Paese è pronto a trattare con
Usa e sauditi per trovare una soluzione negoziata alla crisi siriana.
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«L’Iran si siederà a qualsiasi tavolo con protagonisti regionali e grandi potenze se
l’obiettivo sarà un futuro stabile e democratico per la Siria», ha osservato chiedendo anche
alla comunità internazionale un approccio diverso. La priorità deve essere la fine dei
massacri — ha aggiunto — piuttosto che chiedere un cambiamento al vertice del Paese:
«La questione non è quale governo o personalità appoggiare». Visione interessante e
interessata. Gli iraniani sono i principali alleati di Damasco, senza il loro aiuto (insieme a
quello russo) il regime sarebbe crollato. E in questi mesi hanno favorito il flusso di
materiale bellico ai militanti sciiti, una risposta al sostegno delle monarchie sunnite agli
insorti.
L’idea del negoziato, formulata da Rouhani in risposta alla domanda di un giornalista, non
è nuova. Più volte Usa, Russia e lo stesso Iran hanno avuto contatti discreti in questo
senso. Di recente Vladimir Putin ha sostenuto che Assad è pronto a condividere il potere
con l’opposizione «buona». Non tutti però sono convinti che il negoziato abbia reali
possibilità di successo, in quanto ci saranno sempre forze in grado di ostacolarlo. Gli
osservatori hanno anche interpretato le mosse russe in Siria, con l’ampliamento della loro
presenza, come il tentativo di rafforzare Damasco con una doppia chiave. Nel caso che la
situazione diventi più difficile per gli Assad oppure proprio in vista di una trattativa per dare
garanzie all’amico siriano. I segnali del presidente Rouhani si inseriscono poi sulla scia
dell’accordo nucleare con gli Stati Uniti. Intesa che potrebbe favorire il dialogo anche su
altri nodi internazionali. Ieri la Casa Bianca ha annunciato, con soddisfazione, di poter
contare sul voto a favore di almeno 41 senatori. Uno schieramento che dovrebbe
respingere i tentativi dei repubblicani di bocciarlo.
G.O.
del 09/09/15, pag. 10
Hillary: “Gli Stati del Golfo aprano le porte ai
profughi”
Paolo Mastrolilli
Il dramma dei rifugiati siriani «è una crisi globale». A dirlo è Hillary Clinton, mentre la
mobilitazione accelera anche fuori dall’Europa.
La Casa Bianca ieri ha dichiarato che sta considerando una serie di misure per intervenire
in maniera più significativa nell’emergenza profughi, mentre il segretario generale dell’Onu
Ban Ki moon ha passato il fine settimana a chiamare i leader europei più restii ad
accogliere le persone in fuga dalla guerra. Il suo portavoce, Dujarric, ha allargato ieri il
richiamo ai ricchi Paesi del Golfo Persico, a partire dall’Arabia Saudita, che finora non
hanno aperto le porte neppure a un rifugiato: «Le leggi internazionali - ha detto - sono
chiare. Non basta dare aiuti finanziari, bisogna fare la propria parte per soccorrere le
persone». Ban ha convocato un vertice per affrontare la crisi delle migrazioni politiche ed
economiche, che si terrà il 30 settembre, quando al Palazzo di Vetro ci saranno tutti i capi
di Stato e di governo venuti per l’Assemblea Generale.
«Crisi globale»
Hillary ha parlato di questa emergenza prima con l’Ap, e poi in una intervista con Andrea
Mitchell della televisione Msnbc. «Noi - ha detto - dovremmo fare la nostra parte, così
come gli europei. Questa però è una crisi più ampia, globale. Abbiamo il numero più alto di
rifugiati in molti anni, credo dalla Seconda Guerra Mondiale. È una cosa che spezza il
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cuore. Il mondo intero ora vede che non ha un impatto solo sui siriani, ma su tutti noi. È
quello che ho detto per anni».
L’impegno dell’America
La Clinton ha sentito la necessità di intervenire perché è candidata alla Casa Bianca (nei
sondaggi è scesa al 42%, meno 10 punti rispetto a un mese fa), e perché all’inizio della
guerra siriana era segretario di Stato, e ora potrebbe essere accusata di non aver fatto
abbastanza per fermare il conflitto. Hillary ha detto che la causa del conflitto non è stata la
politica estera di Obama, ma «le politiche del mondo».
In effetti tutti ci hanno messo del loro: gli Usa evitando l’intervento, la Russia difendendo
Assad, la Turchia attaccandolo, il Qatar e l’Arabia finanziando direttamente o
indirettamente gruppi terroristici sunniti come Isis e al Nusra, per arginare l’espansione
sciita-iraniana nella regione. «Io - ha notato Hillary - avevo sostenuto una politica più
robusta», riferendosi alla proposta di armare gli oppositori siriani laici, «ma giudicando
oggi non posso dire che avrebbe fatto la differenza, perché doveva essere uno sforzo
internazionale».
Gli Stati Uniti hanno promesso di accogliere circa 8.000 rifugiati nel 2016, ma ora
potrebbero fare di più, anche se il problema di fondo resta trovare il modo di fermare la
guerra.
del 09/09/15, pag. 11
I dubbi di Obama
Non si fida dei partner locali e non vuole impelagarsi in conflitti di lunga
durata
La guerra dai cieli
Distrutte 2577 trincee nemiche, uccisi molti capi dell’Isis
Ma le incursioni della coalizione non bastano per vincere
Guido Olimpio
WASHINGTON I raid da soli non bastano, ma senza le incursioni chissà quali sarebbero
ora i confini dello Stato Islamico. Di certo hanno salvato Kobane anche se è costata
macerie e profughi. Di certo hanno rallentato l’avanzata in alcuni settori e tolto di mezzo
molti jihadisti. Dai 10 mila ai 15 mila mujaheddin. Gli ultimi a farlo i britannici, con un target
killing per sbarazzarsi di un paio di terroristi ed esperti di cyber-propaganda. Le bombe,
però, non hanno sconfitto il nemico. Perché la scelta di affidarsi all’aviazione è stato pur
sempre un ripiego. Un contenimento — con forze ridotte — per evitare perdite. L’America
di Obama ha optato per la scelta minima, comunque costosa. Il conto provvisorio è di 3,7
miliardi di dollari, 9,9 milioni al giorno, dei quali 4,6 in missili, razzi e bombe.
Ripartiamo proprio dai numeri. Dall’8 agosto di un anno fa la coalizione ha condotto oltre
6600 «strikes» in Siria e in Iraq. Sono stati sganciati 23 mila ordigni e sono state eseguite
23 mila missioni di rifornimento in volo. In agosto la media giornaliera delle sortite è stata
di 23,6. Quasi zero rispetto ad altri conflitti. Cifre dietro le quali c’è un fatto chiaro: la
maggior parte del lavoro è ricaduta sugli Stati Uniti, nonostante l’alleanza sia composta da
una dozzina di Paesi.
La Francia, che ora ha iniziato le ricognizioni in Siria per preparare gli attacchi, ha coperto
solo il 2,6 per cento, limitandosi all’Iraq. Alcuni Stati hanno mandato i loro caccia ma non è
chiaro se abbiano «aperto il fuoco». Washington ha fatto finta di nulla. Serviva uno
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schieramento internazionale per evitare l’unilateralismo. Non una guerra «amerikana»,
bensì un impegno corale. Anche se poi tutti chiedono spiegazioni agli Stati Uniti.
La campagna ha avuto due fasi. La prima ha preso di mira le strutture militari. E spesso gli
aerei statunitensi hanno distrutto materiale made in Usa. I tank, i fuoristrada Humvee, i
blindati che l’esercito iracheno ha abbandonato nelle mani del Califfo. Messi fuori
combattimento anche 119 carri armati, 2.577 postazioni di combattimento.
Successivamente il Comando centrale si è dedicato all’apparato economico dello Stato
Islamico: 196 gli impianti petroliferi inceneriti. Nei primi mesi del 2015 si è passati alla
seconda fase per eliminare i quadri del movimento. Missioni che hanno portato a risultati,
anche se l’Isis rimpiazza in fretta i suoi «martiri».
L’uccisione di numerosi esponenti è stata legata al successo dell’intelligence che ha
violato il sistema di sicurezza dell’avversario ed ha contato su buone informazioni. Azione
combinata della Cia — con un centro a Langley — e del comando speciale Jsoc a Fort
Bragg, North Carolina. Gli agenti segreti hanno fatto da battitori con spie e occhi
elettronici. I militari hanno chiuso la trappola con i droni. Due le basi: Incirlik (Turchia), al
Salti (Giordania).
Le vittorie dei «mietitori senza pilota» hanno bilanciato gli aspetti negativi. C’è un’indagine
per capire se siano stati gonfiati gli esiti dei blitz. In diverse occasioni i velivoli sono
rientrati senza essere riusciti a scovare il bersaglio in quanto non c’erano elementi a terra
in grado di guidarli. Ancora: l’Air Force avrebbe colpito pochi campi d’addestramento
(appena il 3%) per evitare danni collaterali, che pure ci sono. Stessa prudenza per i lunghi
convogli di mezzi.
I difensori della strategia hanno replicato sostenendo che il processo di ricerca-e-distruggi
è complesso. Tutto inizia con la ricognizione che raccoglie i dati, migliaia di ore di video,
registrate da droni, velivoli, satelliti che confluiscono in «fusion center» per l’analisi. Come
a Shaw, in South Carolina, dove le immagini sono studiate per poi essere inviate al
Centcom e allo snodo Jfacc, dislocato in Kuwait. Altre informazioni sono rastrellate dagli
avamposti sul terreno, a Erbil, a Bagdad e pochi altri siti. Infine l’attacco. Con i suoi tempi:
tra le 2 e le 3 ore di volo prima per raggiungere l’area di intervento. Ora che Ankara ha
messo a disposizione Incirlik sono sufficienti 20-30 minuti.
Sono poi nati patti operativi per singole battaglie. A Kobane i curdi hanno beneficiato di un
rapporto quasi diretto con gli Usa attraverso i peshmerga iracheni. Fissavano le coordinate
e le passavano al comando per raid precisi. Scenario che si è ripetuto di recente a Tuz,
strappata all’Isis dall’offensiva congiunta di curdi e alleati, con 72 incursioni dalla fine di
luglio ad oggi.
Proprio la collaborazione in Kurdistan è usata da chi invoca lo schieramento di militari che
possano illuminare i bersagli. Un coinvolgimento di reparti che la Casa Bianca ha sempre
escluso autorizzando però azioni delle forze speciali. Colpi di mano per liquidare un capo
terrorista o per cercare di liberare gli ostaggi.
Episodi di guerra leggera che riflettono due preoccupazioni di Barack Obama. 1) La
sfiducia nei partner locali, tutti molto ambigui. Alcuni dicono di partecipare all’offensiva
però non lo fanno, ma al tempo stesso offrono le piste per gli aerei. O — si pensi alla
Turchia — sono nemici dei migliori alleati di Washington, i curdi. 2) La volontà di non
impelagarsi, di nuovo, in un conflitto di lunga durata. Almeno sotto il suo mandato. I cocci,
parafrasando l’ex segretario di Stato americano Colin Powell, restano. La lotta al Califfo è
un dossier che brucia tra le mani. E toccherà al prossimo presidente decidere se basterà
affidarsi ancora all’aviazione o decidere di mandare gli «scarponi sul terreno » .
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Da Avvenire del 09/09/15, pag. 15
Truppe turche in Iraq: colpiti i curdi del Pkk
Dopo i raid dei jet, Ankara «sconfina» Bombe fanno strage di soldati
nell’Est
MARTA OTTAVIANI
Mancano ancora quasi due mesi alle elezioni anticipate in Turchia, ma il clima interno è
quasi da guerra civile e la reazione di Ankara agli attacchi del Pkk ha varcato i confini
nazionali. Ieri mattina le truppe di terra della Mezzaluna hanno attaccato via terra,
invadendo di fatto il Nord Iraq, per andare a colpire le postazioni del Pkk, il Partito dei
lavoratori del Kurdistan, considerato un’organizzazione terrorista sia dall’Europa che dagli
Stati Uniti e che da oltre un mese ha ripreso una serrata lotta armata.
Già dalla notte prima, una cinquantina di jet si era alzata dalle basi di Incirlik e Diyarbakir,
entrambe nel sudest del Paese, per andare a bombardare le postazioni del gruppo
separatista: una quarantina i terroristi uccisi secondo le autorità di Ankara. L’intervento di
terra è partito nella prima mattina di ieri, condotto da due battaglioni dell’esercito e otto
squadre dei Reparti speciali. Fonti della sicurezza hanno riferito ai media locali che si è
trattato di «una misura eccezionale », di un «blitz per impedire ai guerriglieri del Pkk di
scappare».
Ma nel Paese il clima che si respira è quello di una situazione di elevatissima tensione.
L’attacco di terra e il bombardamento sono arrivati dopo che, fra domenica e ieri, il Pkk ha
assassinato in diversi attentati oltre una trentina fra militari e poliziotti turchi: l’attacco più
grave (con 14 agenti uccisi) a Igdir, nell’Est. Le ostilità si sono riaperte ufficialmente lo
scorso 20 luglio, quando un kamikaze vicino alo Stato islamico si è fatto esplodere a
Suruc, a pochi chilometri dal confine con la Siria. Hanno perso la vita 34 persone, per la
maggior parte studenti curdi e aleviti, che cercavano di portare aiuti a Kobane, la cittadina
divenuta il simbolo della resistenza curdo-siriana allo Stato islamico. Il Pkk ha accusato lo
Stato turco di non aver fatto nulla per proteggere i giovani e lo ha accusato di essere il
mandante morale dell’attacco e in combutta con il Califfato, promettendo che avrebbe
messo a ferro e fuoco il Paese. Da quel momento gli attacchi dei separatisti curdi e la
risposta militare della Mezzaluna sono andati di pari passo. Ma negli ultimi giorni il
problema ha assunto una nuova dimensione. In molte città del sud-est del Paese, dove la
minoranza curda è più numerosa, ci sono stati diversi scontri di piazza, non solo con la
polizia, ma anche con gruppi islamici. Tre sedi dell’Hdp, il Partito curdo per il popolo
democratico, che siede in Parlamento, sono state attaccate in meno di 24 ore da gruppi
nazionalisti. Da venerdì, a Cizre, sulla frontiera con la Siria, c’è lo stato di allerta a causa
degli scontri fra la polizia e la popolazione, con le forze dell’ordine che hanno aperto il
fuoco contro manifestanti pro Pkk, ferendone a decine. Stessa situazione a Yuksekova,
dalla parte del confine iracheno, dove sabato è stata arrestata per la seconda volta
Frederike Geerdink, giornalista olandese specializzata sulla questione curda che era lì per
assistere agli scontri, accusata di essere legata all’organizzazione separatista.
Una parte del Paese accusa il presidente Recep Tayyip Erdogan – che ieri ha ribadito
dopo la strage di poliziotti che non abbandonerà mai «il futuro della nazione nelle mani di
tre o cinque terroristi» – di fomentare una vera e propria guerra interna per screditare il
partito curdo, exploit delle scorse elezioni, e riconquistare la maggioranza assoluta al voto
anticipato del prossimo primo novembre. L’Akp, il partito del capo dello Stato, ha fatto in
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modo di non riuscire a chiudere un accordo per un nuovo esecutivo con l’opposizione,
rendendo necessaria una nuova convocazione dei comizi.
Del 9/09/2015, pag. 5
Truppe in Iraq
Uccisi 60 del Pkk
D opo gli attacchi tra le montagne di Qandil contro le basi del Partito di Ocalan, Ankara
non si accontenta e ha mandato truppe di terra in Iraq. Secondo il comandante generale
dello Staff dell’esercito sono 160 i soldati turchi delle forze speciali in Iraq. Sarebbero
rimasti alcune ore per una ricognizione facendo rientro in territorio turco mentre 53 jet
(inclusi 35 tra F-4 e F-16) stanno sorvolando i cieli del Kurdistan iracheno. I comandanti
delle forze del Pkk in Iraq (Hpg) hanno però smentito gli attacchi turchi di queste ore.
Secondo Ankara, almeno venti obiettivi del partito kurdo sarebbero stati colpiti in Iraq da
circa 130 bombe laser. L’esercito turco sostiene anche di avere il diritto di svolgere questa
operazione in base all’accordo, avallato dalla Nato e dagli Stati uniti, che prevede
interventi mirati in Siria e in Iraq insieme alla formazione di safe-zone turche. Anche
Washington nei giorni scorsi aveva contestato la legittimità delle operazioni turche,
mascherate da attacchi contro i jihadisti dello Stato islamico, per poi colpire i kurdi. Eppure
Obama ha poi dato il suo disco verde all’accordo con Ankara anche per frenare un
possibile rafforzato impegno russo in Siria. «Ripuliremo quei monti dal Pkk», ha detto il
premier in pectore Ahmet Davutoglu. Il governo ha assicurato che si tratta di una breve
incursione per catturare i «terroristi» del partito di Ocalan. I soldati turchi starebbero
seguendo due gruppi di combattenti, in totale venti persone, responsabili degli attacchi
all’esercito turco degli ultimi giorni. 31 tra soldati e ufficiali di polizia sono i morti tra le forze
di sicurezza turche solo nella provincia turca di Hakkari, in località Daglica. Il presidente
Recep Tayyip Erdogan ha aggiunto che il Pkk ha sofferto «danni seri» dentro e fuori il
territorio turco ed è in uno stato di «panico». Nella giornata di ieri, i raid dell’aviazione turca
avrebbero ucciso 60 combattenti del Pkk, inclusi venti civili, nelle province kurde irachene
di Qandil, Basyan, Avashin e Zap. Lo scopo di Erdogan è di cementare l’elettorato
nazionalista in vista del voto anticipato del primo novembre. Ma sembra che le cose gli
stiano sfuggendo di mano. Le forze di opposizione avvertono che in queste condizioni di
sicurezza sarà difficile che i cittadini possano recarsi alle urne. Il leader del partito della
sinistra kurda turca (Hdp), Selahattin Demirtas ha accusato il governo di essere
responsabile delle violenze nelle province sud-orientali. «Avete mandato dei giovani
soldati solo per conquistare voti», ha denunciato Demirtas. Hdp siede con due ministri nel
governo elettorale di Davutoglu. Si tratta di un meccanismo automatico della costituzione
che conferisce i ministeri del governo pre-elettorale (non politico) proporzionalmente ai voti
ottenuti. Hdp ha deciso di accettare l’incarico per avere un controllo sulla campagna
elettorale. I due ministri «di opposizione» non hanno partecipato al giuramento del
governo ma si sono recati ai funerali delle vittime degli attacchi dell’esercito turco.
Demirtas ha anche chiesto una tregua immediata sia all’esercito sia al Pkk. 140 sedi del
partito (Hdp) sono state attaccate tra lunedì e martedì da uomini armati. Le contestazioni
dei kurdi per i metodi sommari della polizia non si fermano mentre nella regione vige il
coprifuoco. Una folla di contestatori ha chiuso l’autostrada di Mersin e attaccato i bus che
viaggiavano nella regione. Un migliaio di cittadini ha occupato dei cantieri pubblici a
Erzurum. Ad Ankara, un giovane di Hdp, Sedat Akbas, 21 anni, è stato accoltellato. Nel
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quartiere Beypazar della capitale turca, sono stati appiccati fuochi contro case e negozi di
kurdi e alaviti. La polizia ha arrestato vari politici del partito socialista (Esp). Non solo,
alcune case sono state perquisite, incluse le abitazioni dei familiari delle vittime
dell’attentato contro i giovani socialisti di Suruç dello scorso luglio. Il co-sindaco di
Nusaybin, Sara Kaya, eletta con il 78% dei voti, arrestata dalla polizia Turca, è stata
sollevata dal suo incarico attraverso un ordinanza del tribunale. Mentre nel quartiere Ilgin
di Konya, centinaia di lavoratori kurdi nel settore edile sono stati attaccati da uomini non
identificati. Da parte loro, i combattenti del Pkk hanno rilasciato venti ostaggi turchi, tra cui
alcuni funzionari della dogana, rapiti lo scorso agosto nell’est del paese e poi trasferiti in
Iraq. I prigionieri sono stati consegnati a una delegazione di attivisti per i diritti umani e
affiliati di Hdp. L’esercito turco aveva annunciato il 23 agosto scorso il rapimento di 12
funzionari di dogana da parte del Pkk nella provincia di Van. Gli scontri hanno coinvolto i
kurdi iraniani. Cinque persone sono state uccise dai pasdaran nella provincia
dell’Azerbaijan iraniana al confine con la Turchia.
Del 9/09/2015, pag. 8
Podemos e Izquierda unida: spiragli di
alleanza
L’indipendenza della Catalogna? «Se ciascuno farà il proprio dovere, non servirà alcun
intervento dell’esercito». L’affermazione del ministro spagnolo della difesa, Pedro Morenés, è una di quelle rassicurazioni che non servono a tranquillizzare.
Al contrario: inquietano. In un’intervista alla radio pubblica Rne, l’esponente del Partido
popular ha risposto così a una domanda circa il possibile ruolo delle forze armate nel conflitto politico che contrappone il governo di Barcellona a quello di Madrid. Un interrogativo
che si comprende meglio se si tiene presente quanto stabilisce la Costituzione iberica
all’articolo 8: l’esercito «ha come missione garantire la sovranità e l’indipendenza della
Spagna, difendere la sua integrità territoriale e l’ordinamento costituzionale».
Un precetto figlio della transizione concordata fra regime franchista e forze democratiche,
e che porta il segno del potere di condizionamento che i militari, alla morte del dittatore,
ancora conservavano. Furono i 14 anni di governo del socialista Felipe González (1982–
1996) a bonificare parzialmente le forze armate, la cui avversione alla democrazia era
emersa nel 1981 con il famoso tentativo di golpe del colonnello Tejero. Ma i residui di franchismo non sono mai del tutto scomparsi: nel 2006 il tenente generale José Mena
Aguado, il numero due nella gerarchia dell’esercito, fu rimosso dal ruolo per avere pubblicamente auspicato un intervento militare a tutela dell’integrità dello stato.
Nel mirino, allora, c’era il nuovo Statuto di autonomia della Catalogna in corso di elaborazione, che prevedeva più competenze per la regione di Barcellona, non certo
l’indipendenza. Se tanto bastò a «innervosire» alcuni vertici militari, c’è da credere che
l’esplicito disegno secessionista del governatore catalano Artur Mas stia rendendo gli
ambienti militari madrileni ancora più turbolenti.
I sondaggi staranno sicuramente contribuendo a far crescere la tensione in vista del 27
settembre, giorno di elezioni che si preannunciano come una sorta di «plebiscito» pro
o contro la secessione dal resto della Spagna. Secondo gli ultimi rilevamenti, pubblicati
domenica dal quotidiano catalano El Periódico, le due liste indipendentiste sono a un
passo dalla maggioranza assoluta nel parlamento di Barcellona, pari a 68 seggi:
l’aggregazione trasversale Junts pel Sí (che raggruppa il centrodestra di Mas e la sinistra
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repubblicana) oscillerebbe fra 60 e 62 deputati, e la sinistra radicale della Cup ne otterrebbe 7–8. Numeri ai quali non corrisponde, tuttavia, una maggioranza assoluta nel voto
popolare: Junts pel Sí è data al 38,8%, mentre la Cup al 6%. Terza forza sono i centristi di
Ciudadanos (da 25 a 27 seggi), seguiti da Catalunya Sí que es Pot, la lista che raggruppa
Podemos, Izquierda unida e altri movimenti di sinistra (da 15 a 17).
I meno votati sarebbero socialisti e popolari, rispettivamente quinta e sesta forza. Se
l’esito delle urne, tra meno di venti giorni, rispecchierà le inchieste di opinione, sarà molto
importante la scelta della Cup, la sinistra radicale indipendentista: unirsi alla compagine
del governatore Mas in una coalizione di governo «anti-Madrid», oppure restare
all’opposizione. E presto sarà tempo di decisioni definitive anche per Podemos e Izquierda
unida (Iu) sulla creazione di liste comuni per le politiche di dicembre. Il movimento di Pablo
Iglesias (che ha appena «ingaggiato» l’economista Thomas Piketty come consulente) sta
cambiando orientamento: da un’iniziale «no» all’intesa con Iu si è passati all’apertura di
sempre maggiori spiragli, a cui corrisponde la piena determinazione a trovare un’intesa da
parte di Alberto Garzón, giovane leader di Iu. Un cambio di strategia, quello di Podemos,
dovuto sia a forti pressioni che vengono da settori affini (come il movimento dei sindaci),
sia ai sondaggi meno incoraggianti di qualche mese fa.
Del 9/09/2015, pag. 8
Portogallo al voto, verso lo «Stato minimo»
Portogallo. Il 4 ottobre alle urne. La destra neoliberista cresce, a sinistra lotta fratricida
Il 4 ottobre prossimo i portoghesi saranno chiamati alle urne per rinnovare l’Assembleia da
Repubblica. Ci dovrebbe essere grande concitazione, entusiasmo e speranza e invece,
per il momento, tutto e tutti sembrano muoversi come dei pugili suonati alla fine di un combattimento. I dati macroeconomici sono apparentemente buoni, o così vengono presentati
dai media, che poi è quello che conta. Il rapporto debito Pil è schizzato dal 90% al 130%,
ma tanto che importa, c’è la Bce a dare una mano. Per il resto il Pil cresce, così come
l’occupazione e i consumi. Già, sembra che il paese in rivolta, quale era il Portogallo fino
a un paio di anni fa, si sia improvvisamente addormentato.
Il centro-destra si presenta alle elezioni solido, compatto e con un unico programma. Portugal à Frente, “A Coligação”, la Coalizione come viene ormai comunemente chiamata,
è costituita dal Partido Social Democrata (Psd centro destra liberale) e il Centro Democrata e Cristão — Partido Popular (Cds/Pp). Sono i due partiti che hanno guidato il paese
negli anni della Troika e, nonostante le frizioni, i conflitti anche aspri tra Pedro Passos
Coelho, il premier, e il suo alleato Paulo Portas, leader del Cds/Pp, l’immagine ostentata ai
cittadini è quella di grande stabilità: il governo non è caduto ed ha retto al peso delle pressioni dell’opinione pubblica.
Non c’è stato nessun collasso contrariamente a quanto successo in Grecia ed è oggi considerato da molti come un “caso di successo”. Poco importa in fondo quale sia davvero la
realtà, i 500 mila giovani emigrati in fuga da condizioni sempre più precarie, la crisi demografica, i ticket per la salute decuplicati, la riforma degli affitti e quella del lavoro. Poco
importa, come sottolinea Mariana Mortagua del Bloco de Esquerda, se i cittadini si
dovranno sobbarcare i costi, difficilmente calcolabili ma valutati sopra il miliardo di euro,
per il salvataggio di una ennesima banca.
La nuova narrazione è quella di un paese che, dopo il periodo turbolento della primavera
del 2011, ha saputo risorgere dalle sue ceneri. In questo clima i leader della sinistra faticano a fare presa e non giova né la lotta fratricida per la conquista dell’egemonia nel pro17
prio campo, né il mettere sullo stesso piano il Partito Socialista (Ps) e il centro-destra
come fanno il Partido Comunista Português e il Bloco de Esquerda. Non giova neanche il
fatto che in questi anni la linea strategica si stata quella di enfatizzare la pericolosità delle
politiche austeritarie sul piano della sostenibilità dei conti pubblici e non su quello umano
e sociale. Ora che l’epilogo greco non si è concretizzato è gioco facile per Passos Coelho
e Portas ricordare che è proprio grazie a loro che ci si ritrova alla vigilia di luminoso
periodo di crescita. A dare un minimo di unità alle sinistre baserebbe una lettura attenta
del programma delle destre per la prossima legislatura. Ispirato all’idea di Big Society,
ovvero all’idea dello stato minimo liberale e all’intervento sussidiario della società civile, il
progetto, se attuato, potrebbe portare a un ulteriore e più radicale disimpegno dello stato
nella società. Nessuno deve restare indietro, si legge nel manifesto, ma ad aiutare chi
rimane indietro non deve necessariamente essere il welfare pubblico, anzi!
E poi c’è il tetto alle pensioni, anche qui, apparentemente una grande idea: impedire che
alcune persone possano godere di assegni eccessivi. Certo però che poi la previdenza
smette di essere universale e per tutti, per trasformarsi in un ente caritatevole di cattiva
qualità esclusiva per gli strati più deboli della società. Dopotutto la privatizzazione della
salute è una tendenza radicata già da anni. Dati Eurostat mostrano come nel 2012 la percentuale di investimenti privati in salute sul totale era la seconda, dopo Cipro, più alta in
Europa. Non basta, perché se da un lato nessuno deve restare indietro, dall’altro il sistema
deve essere reso sostenibile, e si sa bene che il sinonimo di sostenibile è tagli, aumento
dell’età pensionabile e «rafforzamento del principio contributivo». Il sistema deve essere
reso sostenibile, ma visto che comunque la popolazione invecchia è necessario «promuovere piani complementari pensionistici» rafforzando «la cultura del risparmio».
Last but not least, il grande cavallo di battaglia di sempre: la convergenza del sistema pensionistico pubblico con quello privato, a tutto svantaggio di quello pubblico, ça va sans
dire. Insomma nulla di nuovo è l’ideologia dello stato minimo quella che trasuda dalle
pagine del piano elaborato dalla Coligação. Non è un caso che anche i finanziamenti alle
scuole private e la libertà di scelta tra queste e quelle pubbliche sia un’altra delle priorità,
ma questo è un’altro capitolo. Gli ultimi sondaggi mostrano la vitalità della destra, in crescita, ora è data in pareggio con il Partito Socialista. Mancano 3 settimane e nulla
è ancora scritto, l’esperienza insegna che è negli ultimi giorni di campagna che si possono
spostare i grandi flussi di voti, tuttavia se questa è la linea di tendenza diventa molto probabile l’ipotesi di un governo di grande coalizione o, perché no, addirittura un “Passos” bis.
Del 9/09/2015, pag. 9
INTERNAZIONALE
L’altro Osama, non-violento palestinese
Giulia Torbidoni
Dalla Palestina all’Italia, per sfuggire alla recrudescenza dell’occupazione militare israeliana. È la storia di Osamah Tamimi, un ragazzo di vent’anni del villaggio di Nabi Saleh,
vicino Ramallah, in Cisgiordania, che il 5 settembre arriverà nel nostro Paese, grazie alla
mobilitazione dell’associazione AssoPacePalestina, per trascorrere due mesi lontano da
pericoli, terrore e stress. Per tutta la durata del visto, Osamah sarà ospitato prima dalla
scuola di Vela di Pescia Romana, che in passato aveva accolto anche altri ragazzi palestinesi, dove farà volontariato; poi in altri luoghi, a cominciare dalla sede di AssoPacePalestina. Una misura, questa dell’allontanamento temporaneo, che si rende sempre più
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necessaria per i giovani palestinesi impegnati nella resistenza non violenta, per fare in
modo che possano sfuggire alle incarcerazioni, ai raid e alle violenze dell’esercito.
Nel villaggio di Nabi Saleh, l’accoglienza e la voglia di comunicare sono palpabili ed
è sempre grazie all’associazione AssoPace Palestina di Luisa Morgantini che gruppi di
internazionali hanno potuto, in questi anni, conoscere i volti della resistenza, vedere i territori occupati e ascoltare le testimonianze. «La presenza di internazionali qui è per noi fondamentale, è parte della nostra vittoria – dice Bilal Tamimi, uno dei protagonisti della lotta
non violenta di resistenza e padre di Osamah — perché una volta tornati alle loro vite
potranno raccontare quello che vedono, far pressione sui loro governi, far conoscere le
nostre storie». E di storie, nel villaggio di Nabi Saleh, ne hanno molte da raccontare. Come
quelle che filmava, la settimana scorsa, il volontario italiano Vittorio Fera che, armato di
telecamera, documentava l’arresto e l’aggressione dei soldati israeliani ai danni di un
ragazzo di 12 anni con il braccio ingessato. Il video del soldato e del ragazzo catturato
è diventato virale su web nel giro di poche ore ed è la testimonianza di quanto filmare
e scattare foto siano diventati strumenti integranti della resistenza palestinese, mezzi fondamentali e utili non solo ai processi, per far vedere chi sono gli aggressori, ma anche alla
diffusione all’estero, grazie alla rete, di quanto sta avvenendo nella Cisgiordania.
Ora ci si chiede se Fera abbia una qualche responsabilità, ma non ci si chiede perché
l’esercito israeliano si trovasse in un territorio in cui, in base ai confini del 1967, non
dovrebbe mettere piede. Ma queste sono domande anacronistiche: Israele continua ad
espandersi con le sue colonie e la comunità internazionale guarda in silenzio.
A Nabi Saleh, i palestinesi, insieme ad internazionali e ad israeliani che si oppongono alla
politica coloniale di Tel Aviv, hanno fatto della non violenza lo strumento primo e unico
della lotta. Questo borgo di oltre seicento anime, occupato fin dal 1967, minacciato
dall’esercito e dalla colonia Alamish, costruita nel 1976 in un territorio che è stato dichiarato appartenere al villaggio palestinese, resiste. Resiste ai lanci di pietre e proiettili da
parte dell’esercito che colpiscono indiscriminatamente e che hanno già fatto morti e feriti.
Resiste alle incarcerazioni e alle incursioni notturne, alle demolizioni delle case lungo la
strada principale e ai lanci di quell’acqua chimica, dal colore verde, il cui cattivo odore
resta per giorni e giorni addosso alle pareti delle case e alla pelle delle persone. Resiste
anche al furto di acqua da parte dei coloni. Ogni venerdì, dal 9 dicembre 2009, anniversario della Prima Intifada, in questo villaggio, donne, uomini, bambini e volontari internazionali e israeliani protestano pacificamente contro l’occupazione e i suoi effetti.
Osamah Tamimi ha due cugini uccisi, una madre arrestata e ferita due volte da un proiettile che la fa zoppicare, un fratello e un padre feriti e arrestati più volte. Lui stesso è stato
vittima del regime di apartheid visto che, a 14 anni, gli è stata negata l’entrata a Gerusalemme dove sarebbe dovuto andare a studiare. E due anni fa, nel tentativo di aprire una
strada chiusa nel suo villaggio così da permettere a un’ambulanza di evacuare alcuni feriti,
è stato colpito ad un occhio da un proiettile, facendogli perdere la vista per due mesi. Dallo
scorso gennaio, la rappresaglia contro Osamah e la famiglia si è intensificata: raid notturni,
irruzioni in casa, percosse, interrogatori e minacce.
Ed è per questo che AssoPacePalestina ha raccolto l’appello del padre e ha fatto in modo
che Osamah potesse venire in Italia per due mesi, fino alla rotazione dell’attuale comandante israeliano in carica a Nabi Saleh. Un modo per evitare i pericoli più imminenti
e avere alcuni momenti liberi dallo stress e dal terrore dell’occupazione.
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Del 9/09/2015, pag. 9
Guatemala, il comico Jimmy Morales vince,
ma Torres punta al secondo turno
Geraldina Colotti
Le elezioni di domenica scorsa, in Guatemala, hanno riservato qualche sorpresa: nel
numero di partecipanti, oltre il 70,38%, su 7,5 milioni di aventi diritto; nella figura che ha
totalizzato il maggior numero di voti, il comico evangelico Jimmy Morales (quasi il 24%);
e nel testa a testa che finora dà vincente Sandra Torres su Manuel Baldizon: per un pugno
di voti, 19,70% contro 19,59%. Con il 98,3%, e oltre 600 denunce pendenti, le sorprese
potrebbero però non essere finite. Tantopiù che a Baldizon, rappresentante del partito di
destra Libertà democratica rinnovata (Lider), i mezzi non mancano.
Il “Berlusconi del Peten” ha condotto una campagna multimilionaria, ha superato il monte
consentito ed è stato sanzionato dal Tse, ma ha proseguito la campagna attraverso un
altro partito. Il dipartimento del Peten, uno dei 22 che conta il Guatemala, è uno snodo cruciale per i traffici di frontiera con il Messico — armi, droga ed esseri umani. Il suo vice è un
ex governatore della Banca centrale accusato di riciclaggio di denaro sporco. Per lui,
«rubare ai poveri per dare ai ricchi» non è una battuta da fumetti.
In campagna elettorale, oltre al ripristino della pena di morte, ha promesso di ridurre il
salario minimo da 2.400 a 1.500 quetzales (ovvero a circa 174 euro), in un paese che è fra
i 10 più poveri del mondo. In compenso, il principale progetto di legge del suo partito
è quello portato avanti dalla locale Confindustria (Cacif) e propone di tagliare le tasse alle
multinazionali per cinquant’anni. Non che il comico Morales sia meglio. In campagna elettorale ha detto di avere una sola idea in testa: passare alla storia come il miglior presidente. Una seconda è quella di essere contrario ai matrimoni gay. Per il resto, dietro le
battute che lo hanno resto famoso col personaggio di Neto — un ingenuo cowboy che riesce per caso a diventare presidente — e gli sforzi per presentarsi come il volto nuovo contro la corruzione, appare chiaro da quali fili sia mosso: i circoli militari legati al sistema che
ha prodotto colpi di stato manovrati da Washington e una guerra civile che, dal 1960 al
’96, ha provocato oltre 200.000 morti per mano dei militari. Lui nega a mezza bocca, ma
i suoi finanziatori e consulenti sono gli stessi circoli militari e imprenditoriali che hanno portato alla presidenza l’ex generale Otto Pérez Molina, ora in carcere. Il braccio destro di
Morales è Edgar Ovalle, membro della mefitica Associazione dei veterani militari del Guatemala (Avemilgua), capolista nazionale al Congresso per il partito del comico, il Fronte di
Convergenza nazionale. Ovalle era uno degli ufficiali che ha diretto la repressione contro
gli indigeni maya ixil, tra il 1981 e l’82, quando si verificarono 77 massacri nei tre municipi
dov’egli operava — Nebaj, Cotzal, Chajul. Ad appoggiare il comico c’è anche Luis Quilo
Ayuso, un altro ex generale ed ex presidente del gruppo di estrema destra Avemilgua. «In
queste condizioni, non vogliamo elezioni», hanno infatti gridato per mesi le organizzazioni
popolari indigene e la sinistra, chiedendo un’assemblea costituente. Alle urne, l’alleanza di
sinistra Winaq-Urng-Maiz ha totalizzato circa il 4%. E anche se non è a Sandra Torres
(rappresentante dell’Unità nazionale della Speranza — Une, social-cristiano — ) che la
«primavera guatemalteca» potrà affidare le speranze di un cambiamento strutturale,
è certo che i poteri forti ce la metteranno tutta per impedire anche qualche pallida riforma.
Secondo l’Onu, oltre il 50% del finanziamento dei partiti proviene dall’economia sporca.
La parentesi di governo dell’ex marito di Torres, Alvaro Colom, dal 2008 al 2012, che ha
tentato qualche riforma di tipo assistenziale, è stata chiusa: com’è accaduto in Honduras
per Manuel Zelaya, deposto con un colpo di stato gradito agli Usa per aver osato rivolgere
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lo sguardo all’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America, ideata da Cuba
e Venezuela. Pérez Molina è andato in carcere per un grande scandalo di corruzione alle
dogane portato in luce dalla commissione Onu Cicig, ma un vero cambiamento dipenderà
dalla forza della piazza. Il 15 settembre, per la giornata dell’indipendenza del Centroamerica, i movimenti si sono dati appuntamento in Guatemala. Il secondo turno si svolgerà il
25 ottobre.
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INTERNI
Del 9/09/2015, pag. 6
Renzi: “Summit del Pd per modificare il
Senato Disciplina? No, lealtà”
“Ma l’articolo 2 non si tocca”.Grasso:decido in aula Bersani: “Niente
ordini di scuderia sulla Costituzione”
TOMMASO CIRIACO
Trattare fino all’ultimo momento utile, ma a patto di non rispolverare l’elettività diretta del
Senato. «Se si mette in discussione l’approvazione in copia conforme dell’articolo 2scandisce Matteo Renzi all’assemblea dei senatori dem- si rimette in discussione tutto». Il
nodo, sostiene il premier, è la «responsabilità del Pd davanti agli elettori». Quella che deve
portare i senatori ad approvare prima del 15 ottobre il ddl Boschi e pure le unioni civili.
Bastone e carota, così si muove Renzi per cercare di prosciugare il dissenso a Palazzo
Madama. Se al mattino Pierluigi Bersani invita Palazzo Chigi a non pretendere la disciplina
di partito sulla Costituzione - «non si è mai fatto», a sera il premier replica: «Non c’è e
sarebbe stravagante invocarla sulla Carta». Confronto, allora, con un summit, una riunione
tra i membri democratici delle commissioni affari costituzionali di Camera e Senato per
concordare eventuali modifiche. E mano tesa ai dissidenti: «Prendiamoci gli ultimi giorni
per una soluzione, anche con gli altri partiti.
Non vogliamo barricate, nessun “prendere o lasciare”». Non solo dialogo, però. Il capo del
governo ricorda che «l’Ulivo voleva il Senato non elettivo. La nostra è la versione soft di
ciò che per 70 anni la sinistra ha proposto: il superamento del bicameralismo paritario». In
assemblea gli replica Federico Fornaro, tenendo il punto: «Bene i toni del segretario. Ora
bisogna avere il coraggio di intervenire sull’articolo due».
Le caute aperture di Renzi arrivano nel giorno in cui i ribelli confermano i propri
emendamenti. A Radio Anch’io Bersani è netto: «Renzi ha ragione a chiedere che non si
apra un vaso di Pandora, ma poi c’è il libero convincimento».
Lo scontro investe anche le figure istituzionali del Pd. Per la presidente della commissione
Affari costituzionali Anna Finocchiaro l’elettività è ormai da escludersi: «Capovolgere
l’impostazione dei primi due articoli rischierebbe di mettere a repentaglio il traguardo». Un
segnale rivolto a Piero Grasso, a cui spetta l’ultima parola per l’Aula. Che infatti poco dopo
ribatte, gelando le aspettative di Palazzo Chigi e allontanando il momento della decisione:
«Basta messaggi cifrati. Ogni giorno che passa senza un confronto vero tra le parti, a
tavolino e non sui giornali, è un giorno sprecato. Sull’emendabilità mi potrò pronunciare
solo in aula».
Del 9/09/2015, pag. 6
L’ipotesi della fiducia solo sulla norma-chiave
Ncd,spunta la fronda 10 pronti allo sgambetto
GOFFREDO DE MARCHIS
IL RETROSCENA
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ROMA. Lavorare sull’accordo, ma col paletto dell’articolo 2. In fondo, Matteo Renzi non ha
concesso granchè nella riunione del Senato sulla riforma costituzionale. Se n’è accorta la
minoranza che adesso dice di voler lavorare insieme contro l’ostruzionismo di Calderoli e
contro i diktat di Forza Italia sull’Italicum. Una prova di buona volontà. «E facciamo,
sempre insieme, un’apertura come dire controllata, senza scherzi, sull’elettività dei
senatori», chiede Miguel Gotor. Questo è il loro paletto. Ma non è la strada del governo,
non è la scelta del premier. Che prende tempo, convoca il comitato ma nelle stanze di
Palazzo Chigi ragiona, con i tecnici del ministero delle Riforme, anche sull’arma finale:
mettere la fiducia soltanto sull’articolo 2, vincolare la vita dell’esecutivo alla riforma
costituzionale. Non si può? I regolamenti dicono il contrario, spiegano gli uffici del governo.
Non è certo uno strumento da mettere sul tavolo oggi, ma sta dentro la strategia del
modello “se vuoi la pace prepara la guerra”. Ieri comunque ai senatori Renzi ha parlato di
pace, senza invocare la disciplina di partito, immaginando un comitato di parlamentari che
porti a un testo unitario. Molto più chiara è stata Anna Finocchiaro infilandosi dritta nella
mischia con il presidente del Senato Piero Grasso. Dal quale il Pd vorrebbe un sì o no agli
emendamenti sull’articolo 2 subito, adesso, naturalmente pretendendo il no. «Anche
perchè l’accordo politico si fa su posizioni chiare. Su cosa facciamo l’accordo se non
sappiamo cosa si può modificare e cosa no? », attacca un renziano La palla è nel campo
della sinistra. «Toni concilianti lontani dal clima di demonizzazione di queste settimane»,
dice Federico Fornaro. «Aggiriamo insieme ostruzionismo e forzisti», ripete Gotor. Ma lo
scoglio rimane. Lo può buttare giù Grasso di- chiarando inemandabile l’articolo 2 come
dice la Finocchiaro. Oppure l’altro modo per non modificarlo è uno solo: mettere la fiducia.
Sempre di più la partita travalica la riforma, coinvolge le manovre politiche intorno al
governo e rischia di decidere del suo futuro. Con numeri sempre più ballerini. Una
decisione più rapida del presidente infatti aiuterebbe anche a controllare meglio i
movimenti poco rassicuranti nel Nuovo centrodestra. C’è una pattuglia di senatori Ncd, 10
o addirittura 15, che sono pronti a schierarsi contro Angelino Alfano e quindi contro Renzi
votando contro la riforma costituzionale. Altri numeri in meno per un sicuro approdo in
porto. Del resto il partito del ministro dell’Interno è in mezzo al guado. Con chi andrà alle
prossime elezioni? Con il Pd? E quanti posti può garantire il premier- segretario alla
formazione centrista? Oggi gli alfaniani sono tanti in Parlamento: 34 alla Camera e 35 al
Senato. Difficile riportarli tutti dentro alle prossime elezioni. Per questo un gruppo di
senatori s’interroga sulla strategia migliore, non si fida delle rassicurazioni del proprio
leader e si prepara a uno sgambetto che sembra una soluzione migliore di qualsiasi altra
in questo momento. Se si va a votare rimangono le due Camere e aumentano le chance di
rientrare. Con il proporzionale le prospettive sono migliori dell’Italicum. E Berlusconi, con
un centrodestra tutto da costruire, può essere un rifugio più sicuro. Nei capannelli a
Palazzo Madama Guido Viceconte e Tonino Gentile si facevano questa domande insieme
con altri colleghi. A tutti è chiaro che il passaggio al Senato è l’ultima chance da molti punti
di vista. La minoranza del Pd deve battere un colpo. I parlamentari a rischio possono
sperare in una crisi di governo, nelle elezioni anticipate con il vecchio sistema
proporzionale. E i tanti nemici del governo vogliono fermare Renzi prima del taglio delle
tasse.
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Del 9/09/2015, pag. 14
Contro il disegno di Renzi, con le sue stesse
armi
Riforme. Il problema politico del referendum non va eluso. Al
sovversivismo dall’alto si può rispondere solo con la mobilitazione dal
basso che veda il coinvolgimento di comitati, associazioni, movimenti,
cittadini
Michele Prospero
Con le cautele che sono necessarie prima di lanciare uno scontro dagli elevati costi, con
l’attenzione alla più efficace formulazione dei quesiti per non scagliarsi contro obiettivi
fasulli — rischio che sta correndo l’associazione Possibile — con il rispetto dovuto
all’autonomia dei comitati e con la massima attenzione a non compiere passi falsi
destando sospetti di strumentalizzazioni, il problema politico del referendum non può
essere eluso. Dinanzi a un avversario che, con il ricatto del voto di fiducia e senza un
esplicito mandato democratico, cambia la costituzione, manipola la legge elettorale, maltratta la scuola pubblica, altera il diritto del lavoro non è possibile rimanere indifferenti.
A chi, con eccezionali forzature, contando su appena il 25 per cento dei voti, ferisce la
costituzione e scrive regole su misura delle proprie convenienze, non si può che rispondere con mezzi estremi. Il terreno e l’intensità dello scontro lo determinano anche gli
avversari, e dinanzi a certe provocazioni simboliche e rotture sostanziali non si può far
finta di non vedere. A Renzi, che annuncia in giro per l’Europa che nel 2016 promuoverà
un grande referendum-plebiscito sulle riforme costituzionali, bisogna rispondere con una
strategia spregiudicata, che maneggi le sue stesse armi. Alle tappe di una guerra di movimento, con le quali il capo dell’esecutivo spezza le regole antiche dei sistemi rappresentativi e impone soluzioni di forza senza che nessun contrappeso istituzionale rallenti le sue
private volontà di potenza, si reagisce con efficacia solo disegnando un percorso speculare e di segno contrario. Al sovversivismo dall’alto di chi sfrutta senza remore il plusvalore
politico dei numeri alterati da una legge truffaldina, si può rispondere solo con la mobilitazione dal basso che veda il coinvolgimento di comitati, associazioni, movimenti, cittadini.
E ciò esige il recupero delle stesse tecniche di combattimento proprie della guerra di movimento adottate dal governo. Si tratta di tattiche che vanno adottate anche da chi non le
predilige come normali modalità dell’agire politico, ed è consapevole delle sproporzioni
delle forze schierate nello scacchiere bellico.
Al disegno del governo, di chiedere un’acclamazione plebiscitaria con un sì e un no alle
riforme imposte manu militari ad un parlamento strapazzato per anni senza alcun rispetto
della forma, occorre reagire con una prova di resistenza democratica che saldi la questione costituzionale e l’emergenza sociale. Se il governo diventa sistema autoreferenziale, e calpesta i residui spazi di controllo istituzionale, contro di esso si apre una questione di legittimità e occorre mobilitare la voce della protesta, gli spazi di cittadinanza
attiva. Il sogno plebiscitario, di ricevere l’unzione del popolo sulla mitologia della grande
riforma che nello stesso giorno del voto regala un capo al calar della sera, deve essere
contrastato facendo riaffiorare nello spazio pubblico l’incubo delle fratture sociali e territoriali che il governo ha lasciato aperte e, con la sua fedeltà alle leggi europee del rigore,
fatte incancrenire. Al referendum dall’alto, di un governo che progetta un regime plebiscitario senza vitali contrappesi e lo chiama democrazia decidente, è inevitabile contrapporre
un referendum dal basso, che misuri l’accettazione degli elettori di tutte le scelte costose
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che l’esecutivo ha imposto senza tregua, con la ghigliottina dei tempi della libera discussione parlamentare.
Per precise responsabilità del governo, si spalanca una questione di legittimazione che in
una democrazia mai dovrebbe verificarsi: una polarità sistema-cittadini, potere-popolo.
Ad una situazione di eccezione, prodotta da un ciclo lungo di forzature dall’alto che
i custodi hanno guardato con distacco o avallato salutandole come inevitabili, si risponde
con una scenografia di eccezione che chi è costretto a subirla può solo cercare di convertire in occasione di rigenerazione politica che promana dal basso: passare attraverso il
pronunciamento del popolo-sovrano per ricostruire gli equilibri infranti dell’ordinamento
costituzionale. Il movimento dei tre sì (all’abolizione del ballottaggio e del premio di maggioranza previsti dall’Italicum, del Jobs Act e della buona scuola) deve scandire le tappe di
una intensa fase costituente per la rinascita, nel solco della costituzione repubblicana, di
una sinistra sociale e politica in Italia. A un governo di minoranza, che schiaccia le regolarità delle istituzioni democratiche (sacrificando il principio di compromesso che sempre
contraddistingue le democrazie moderne quando sono alle prese con le questioni sociali
e costituzionali-elettorali), è possibile rispondere con un metaforico appello al cielo, cioè
con uno scontro che affidi al popolo sovrano la parola definitiva sul destino di leggi controverse che hanno scatenato vasti movimenti di rivolta, scioperi generali.
La raccolta delle firme per i referendum deve diventare una componente visibile del processo costitutivo dal basso del nuovo costituzionalismo radicato nelle credenze diffuse.
Una vasta mobilitazione nei territori, attorno a tre grandi questioni dal forte impatto identitario, deve scandire, nel rispetto dell’autonomia dei comitati, anche i tempi della rinascita
di una politica organizzata a sinistra.
Un moderno soggetto della costituzione, del lavoro e della cultura: questo è il disegno da
perseguire con coerenza, per colmare un vuoto di offerta politica che sprigiona effetti
disfunzionali nella vicenda repubblicana. I tre quesiti referendari sono l’asse portante di
una ricostruzione della rappresentanza politica e sociale, andata in fumo con ricadute
drammatiche sulle condizioni di vita.
Il 2016 si annuncia come un anno costituente. L’alternativa che si profila è tra la rivoluzione passiva caldeggiata da Renzi e la ridefinizione di una democrazia costituzionale con
un movimento di classe, di popolo e del sapere che assuma il compito di una ricostruzione
del sistema politico oltre lo spaccato del leaderismo della narrazione e del populismo
arroccato nelle stanze del potere. In vista del momento referendario sono destinate ad
esplodere le principali contraddizioni che per ora sono tenute sotto pressione da un misto
di opportunismo e percezione della inferiorità nel rapporto di forza con l’avversario. La
minoranza del Pd non potrà più denunciare la “deformazione democratica” e poi giocare di
rimessa e tangibile sarà la verità, sinora misconosciuta, per cui l’alternativa a Renzi, oltre
che alla destra, è una necessità politica e costituzionale. Anche il M5S dovrà sciogliere il
nodo della sua effettiva natura e svelare le radici del suo ruolo storico-politico nella democrazia repubblicana. Dinanzi alla possibilità di un’alternativa politica e culturale al plebiscitarismo e al liberismo renziano, per la riformulazione dei pilastri della democrazia costituzionale, il non-partito grillino dovrà sporcarsi le mani e cimentarsi con le tattiche dell’intesa
e del compromesso, che da sempre sono le condizioni ineliminabili della lotta politica.
Il trionfo plebiscitario del partito della nazione non è scontato se ad esso si contrappone un
movimento referendario vasto, dalla composizione plurale, che unifichi lavoro, sapere
e costituzione. Entrando nell’eccezione imposta dall’avversario, occorre avere in testa che
dopo Renzi tornerà la guerra di posizione, ora è tempo di guerra di movimento.
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del 09/09/15, pag. 7
Nominati o elezione diretta?
Il pasticcio che incombe sulla riforma
Spuntano varie ipotesi su come sceglierne i componenti Clementi:
senza fiducia gli eletti sono svincolati dal governo
Alessandro Barbera
«La Commissione Ambiente promuoverà molto presto un incontro con i presidenti e i
direttori dei parchi nazionali sull’emergenza cinghiali». Mentre Matteo Renzi e la sua ala
sinistra consumavano l’ultimo scontro all’o.k. Corral sull’articolo due della riforma, i
senatori Massimo Caleo e Stefano Vaccari vergavano un comunicato che sembrava scritto
apposta per chi il Senato preferirebbe abolirlo. Il tentativo di compromesso sta assumendo
tratti grotteschi. Pur di salvare l’elezione diretta dei nuovi senatori, sono spuntate ipotesi a
dir poco creative. La prima è la soluzione Fiorito: nominare i consiglieri regionali più votati.
C’è la variante «confondi l’elettore»: chi vota un consigliere può candidarlo anche alla
Camera alta. Altri, memori dei successi del federalismo, vorrebbero lasciare decidere da
sé alle Regioni. E infine c’è la strada «rinvia il problema»: cancellare dalla riforma la
previsione su come eleggere i senatori, rimandando ad una legge ordinaria.
Non si può pretendere che i senatori votino allegramente la fine del proprio status. Ma
forse dietro alle resistenze c’è anche una questione culturale: «Nel Pd c’è chi teorizza di
sfuggire al vincolo fiduciario con il governo», dice Francesco Clementi, professore di diritto
pubblico comparato a Perugia. Per una volta il progetto era chiaro, e con chiarezza era
stato riportato nel programma di riforme presentato all’Europa, che fissa il voto definitivo
entro fine anno: «Cento senatori eletti dai consigli regionali tra i propri membri e tra i
sindaci della Regione». Non c’è organismo internazionale che non abbia accolto con
favore la riforma. «Se ne vuole fare un’incongrua proiezione di secondo grado di interessi
locali», obietta Gustavo Zagrebelsky. Eppure l’Italia è l’unico Paese al mondo in regime di
bicameralismo perfetto e con tempi biblici per l’approvazione delle leggi, ormai
sistematicamente bypassate da decreti e leggi delega. Moltissimi parlamenti occidentali
hanno una Camera degli enti locali (il Bundesrat tedesco su tutti) o di mera
rappresentanza, come i Lord. Ma anche gli inglesi, che pure sono attaccati alle tradizioni,
si chiedono se valga la pena avere un organo senza poteri e 826 membri, molti dei quali
ricchi benefattori di questo o quel partito. L’unico caso di Senato elettivo con veri poteri è
quello americano, dove il presidente ha un diritto di veto senza pari nel resto del mondo.
«L’Italia è una repubblica parlamentare, e tale ha deciso di rimanere», insiste Clementi.
«Se così è, e se allo stesso tempo si rinuncia a dare al nuovo Senato il potere di votare la
fiducia al governo, non può essere elettivo. Diversamente ci troveremmo nel paradosso di
un’assemblea svincolata dalla maggioranza che esprime il governo alla Camera». Ma noi
italiani siamo specialisti in paradossi. E se dovesse finire in un pasticcio, Michele Ainis non
ha dubbi: «Era meglio un articolo di un solo comma: il Senato è abolito».
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del 09/09/15, pag. 2
Grasso: “Basta pressioni, io rispetto la
Costituzione”
Renzi conta sul “confronto all’americana” con i “ribelli” dem e come
ultima ipotesi pensa alla fiducia
Faremo un confronto all’americana”, aveva detto Matteo Renzi lunedì sera a Porta a
Porta. E di fatto è esattamente quello che lancia alla riunione con i senatori dem ieri sera.
Gli serve un accrocco sull’articolo 2 della riforma costituzionale (quello che riguarda
l’elettività del Senato) che permetta un accordo politico. Morbido nei toni, lontano dagli
ultimatum nelle parole (“sull’elettività non ci siano barricate, né prendere o lasciare”), ha
lasciato aperto il dialogo, proponendo che i responsabili delle Commissioni Affari
costituzionali di Camera e Senato si incontrino alla ricerca di una soluzione. Chiarendo
però ancora che “l’articolo 2 non si tocca”.
Nessuna apertura reale sulle richieste della minoranza del Pd (che rimane sulle sue
posizioni) ma il tentativo di spaccarla, convinto che il tempo giochi a su favore.
Davanti ai suoi senatori, il segretario-premier ha tirato in ballo gli interventi di Giorgio
Napolitano (il suo principale alleato in questa battaglia) e ha citato tutte le proposte per il
superamento del bicameralismo perfetto fatte negli ultimi anni perché la “riforma Boschi è
la versione soft della posizione storica italiana” (a partire da quella di D’Alema e quella
dell’Ulivo che non prevedeva l’elettività del Senato).
I numeri non ci sono: oltre ai 25 “ribelli Dem”, ci sono 15 di Ncd che hanno cominciato a
minacciare voto contrario. I verdiniani non sono più di 10, anche se i renziani sperano che
ne arrivino altri da Forza Italia. Per ora, però, non sarebbero più di 2.
Il piano A resta sempre quello di fare pressioni su Pietro Grasso, il presidente del Senato
che ha il potere di ammettere gli emendamenti. Grasso ancora non s’è espresso, anche se
in passato ha spiegato le sue preferenze e la sua contrarietà a un Senato trasformato in
un dopo lavoro per i consiglieri regionali. È diventato l’obiettivo del governo, perché se
Grasso blinda il testo, la riforma Boschi transita serena. Altrimenti sono guai. Ieri
pomeriggio, palazzo Chigi e Pd hanno fatto trapelare un messaggio: le trattative con la
minoranza dipendono da Grasso. L’ex magistrato ha reagito piccato: “Ogni giorno che
passa senza un confronto vero tra le parti, a tavolino e non sui giornali, è un giorno
sprecato, e fra un mese comincia la sessione di bilancio. Io – ha aggiunto sul tema articolo
2 – mi potrò pronunciare solo in aula, quando avrò gli emendamenti da valutare. Invece di
aspettare le decisioni, solo tecniche, del presidente o di lanciare messaggi cifrati a mezzo
stampa, la politica affermi il suo primato nella ricerca di una mediazione su alcuni punti
della riforma, soprattutto funzioni del Senato e sua composizione”.
A quali “messaggi cifrati a mezzo stampa” si riferisce la seconda carica dello Stato?
Grasso avrà letto e riletto i retroscena che l’hanno coinvolto in quest’ultimo mese e così è
più facile comprendere la dura reazione di ieri: dal Grasso che ordisce un piano contro
Renzi per conquistare palazzo Chigi al Grasso che viene convocato da Mattarella al
Quirinale (smentita dal Colle), dal Grasso che deve ascoltare le indicazioni di Giorgio
Napolitano al Grasso che provoca conflitti istituzionali. Allora lo stesso Grasso fa sapere al
governo: “Non mi farò condizionare dalle pressioni mediatiche: deciderò solo sulla base
della Costituzione, del regolamento e dei precedenti. Confido ancora nella saggezza delle
parti politiche”.
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Se Grasso non cede, Renzi e i suoi uomini li stanno studiando tutti, i trucchetti. Grasso
potrebbe decidere di rimandare la questione alla Giunta del Regolamento. Lì i renziani non
hanno la maggioranza: ma va sostituito Donato Bruno di FI (deceduto). “Potrebbe essere
l’occasione per il Presidente per riequilibrare”, dicono i trattativisti. E poi, i costituzionalisti
vicini al governo cominciano a far girare l’ipotesi più estrema: la fiducia solo sull’articolo 2.
Come ultima ratio, possibile. Prima il premier sta mettendo in campo tutte le pressioni
lecite e illecite. In realtà sul Senato ha aperto su tutto, dalla composizione alle funzioni. Se
non riesce a piegare i “ribelli” con le concessioni sul testo, ci prova con le lusinghe: “A
Bersani diamo tutto quello che vuole”, diceva ieri un renzianissimo. L’ex segretario rifiuta
sdegnato. “Ma fino a pochi giorni fa era pronto a ragionare”, dicono. Ma non basterebbe
neanche lui. In corso offerte (e minacce) sulle ricandidature. E intanto Lotti ribadisce:
“Possiamo rivolgerci a tutto l’arco parlamentare”.
Del 9/09/2015, pag. 9
Forza Italia teme l’Opa di Della Valle
L’imprenditore anti-premier prepara per novembre una convention, in
fermento il partito di Berlusconi che cala ancora nei sondaggi. Riunione
dei senatori (con molte assenze): verso il no sulla riforma costituzionale
CARMELO LOPAPA
L’Ultimo spauracchio, nel partito in disarmo, si chiama Diego Della Valle. Deputati ed ex
parlamentari di Forza Italia raccontano di essere stati contattati in questi giorni da
“ambasciatori” di Mr Tod’s, intenti a sondare la loro disponibilità ad avvicinarsi al mondo di
“Noi Italiani”. Il nome e il simbolo di quel che sarà il nuovo soggetto politico sono stati già
depositati nei mesi scorsi, l’imprenditore sempre più interventista in politica e con forti tinte
anti-renziane, starebbe preparando un’uscita in grande stile. Forse già per novembre,
stando a quanto riferiscono in Forza Italia.
E tanto è bastato per mandare in fibrillazione il piccolo regno berlusconiano. Il “sovrano”
decolla giusto nelle prossime ore (al più domattina) alla volta di Sochi, in Russia, lasciando
i suoi in balia dei venti e delle tempeste. Perché difficilmente l’operazione Della Valle, se
davvero dovesse decollare, sarebbe amichevole: ha già tutto il sapore di un’Opa ostile nei
confronti di Forza Italia in crisi di consensi e del suo elettorato in libera uscita. «Il fatto è
non capiamo cosa abbia in testa il nostro presidente, il rischio è che Della Valle fagociti
anche quel 10 per cento che ci resta», confidava ieri, sconfortato, in Transatlantico uno dei
deputati “sondati”. In effetti, Silvio Berlusconi a sorpresa il 2 luglio aveva plaudito
all’annuncio del nuovo movimento politico da parte del patron di Tod’s, definendolo «un
numero uno» del quale ci sarebbe bisogno in politica. Salvo poi correre ai ripari e far
sapere che non era affatto un endorsement. Indiscrezioni di Palazzo che ora tornano a
correre veloci, come quella sul possibile sodalizio Della Valle-Passera. Fanno il paio con la
voce insistente a Firenze che vorrebbe l’imprenditore (e presidente della Fiorentina)
interessato al pacchetto di maggioranza del quotidiano “La Nazione”. Manovre in corso,
insomma. Tutto questo non fa che accrescere il clima di incertezza e paura in un partito,
Forza Italia, in cui la partenza del leader in un momento delicato come questo non ha fatto
fare salti di gioia. I coordinatori regionali verranno riuniti comunque, domani, ma in
assenza del capo, il quale si è tenuto lontano anche dalla riunione dei senatori, ieri sera a
Palazzo Madama, voluta dal capogruppo Paolo Romani. Erano presenti 25 su 44 per
confermare la linea del no alla riforma renziana del Senato, «in assenza di segnali,
28
aperture, modifiche». Si presenta anche l’ex ministro della Difesa di Monti, Mario Mauro,
ormai tornato di fatto a “casa” tra i forzisti. «Se le cose non cambieranno sul Senato
elettivo, in Aula voteremo contro in 170-180, il premier non ha i numeri », chiude Romani
per motivare la truppa, pur lasciando un margine di trattativa sul listino. Il suo collega alla
Camera, Renato Brunetta, temendo cedimenti, in mattinata aveva già tuonato («Da Fi
nessun aiuto a Renzi»). Linea dura sposata da tanti, al gruppo, a cominciare da Augusto
Minzolini che sciorina «l’ultimo sondaggio della Ghisleri» per sostenere che la minaccia di
elezioni è «un’arma sputata di Renzi». Dato che il Pd sarebbe sceso al 30 per cento, il
M5s risalito al 25 e la Lega tra il 16 e il 17. Con Fi ormai costretta a inseguire al 12 e Ncd
scomparsa al 2. Ma in queste condizioni, neanche a Berlusconi converrà tornare alle urne.
Del 9/09/2015, pag. 16
La Corte europea ci condanna “Miniprescrizioni aiuto agli evasori”
Nelle truffe Iva i giudici dovranno disapplicare la normativa italiana La
riforma bloccata in Senato
LIANA MILELLA
Brutta sorpresa per il governo sulla prescrizione. Ancora una volta l’Europa bacchetta
l’Italia per colpa dei tempi di cancellazione dei reati troppo brevi. Dopo i ripetuti richiami
dell’Ocse su una prescrizione corta che non consente di contrastare adeguatamente la
corruzione, stavolta è la Corte di giustizia del Lussemburgo, su sollecitazione del tribunale
di Cuneo, che per la prima volta invita addirittura i giudici italiani a «disapplicare» la legge
ex Cirielli qualora essa «leda gli interessi finanziari della Ue». Legge del dicembre 2005,
voluta da Berlusconi per via dei suoi processi, che ha ridotto della metà il tempo concesso
ai magistrati per indagare e chiudere i dibattimenti.
Sul tavolo della Corte Ue le frodi carosello e gli acquisti di champagne di Ivo Taricco e di
altri imputati avvenuti tra il 2005 e il 2009 aggirando il pagamento dell’Iva, reati in parte già
prescritti o in corsa verso l’ultimo termine del 2018. Un caso di denegata giustizia che ha
spinto i giudici italiani a chiedere alla Corte se il nostro diritto nonrischi di creare una nuova
possibilità di esenzione dall’Iva, ovviamente non prevista dal diritto dell’Unione. Quesito
che ha ottenuto risposta pienamente positiva in Lussemburgo visto che l’articolo 325 del
Trattato sul funzionamento della Unione stabilisce che gli Stati membri debbano lottare
con misure effettivamente dissuasive contro le attività illecite che ledono gli interessi della
stessa Ue. Poiché il suo bilancio è finanziato anche dalle entrate dell’Iva, la sua mancata
riscossione ne danneggia concretamente gli interessi. La decisione di Lussemburgo
piomba sul braccio di ferro politico che, ormai da mesi, blocca la riforma, già di per sé soft,
della prescrizione proposta dal governo Renzi, orologio fermo dopo la sentenza di primo
grado, due anni per l’Appello e uno per la Cassazione, poi le lancette ripartono se il
dibattimento non è finito. In sostanza tre anni in più per chiudere un processo. Ma il ddl è
bloccato al Senato dopo il via libera della Camera, per via della rissa nella maggioranza
tra il Pd e i centristi di Ncd. Come più volte ha dichiarato il vice ministro della Giustizia,
l’alfaniano Enrico Costa, il testo non passerà mai se la prescrizione per la corruzione
dovesse restare quella proposta dalla Pd Donatella Ferranti, il massimo della pena più la
metà. Nessun compromesso possibile. Inutili i numerosi incontri per tentare una
mediazione. I magistrati, nel frattempo, hanno bocciato la riforma che, come ha detto più
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volte il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli, non risolve il problema, perché per ottenere un
risultato la prescrizione andrebbe fermata dopo l’inizio dell’azione penale.
A complicare la partita politica c’è l’intreccio tra prescrizione e riforma delle intercettazioni.
Anche qui Ncd alza il prezzo, chiede che tutti i casi di ingiusta detenzione portino a una
denuncia disciplinare per le toghe. Il responsabile Giustizia del Pd David Ermini tenta di
chiudere su entrambi i fronti: «La partita sulla prescrizione è durata anche troppo a lungo.
Ma bisogna lavorare pure sui tempi dei processi». Quasi una mano tesa a Costa che si
limita a una provocazione: «I processi lumaca generano prescrizioni. Le prescrizioni
lunghe generano processi lumaca. I processi rapidi impediscono le prescrizioni». Una
conferma che non esistono margini di possibile trattativa. Soprattutto perché la presidente
della commissione Giustizia della Camera, la Pd Donatella Ferranti, non molla sulla
prescrizione della corruzione. Definisce «un monito ultimativo» la decisione di
Lussemburgo e chiede che «la riforma esca dal limbo parlamentare per diventare al più
presto legge ». Ma Costa ribatte: «Se il testo resta così com’è al Senato Ncd vota contro».
Del 9/09/2015, pag. 6
Amnistia, decalogo del rifiuto alla richiesta
del Papa
Giubileo . La richiesta di Bergoglio può anche essere respinta al mittente, purché lo si
motivi con ragioni all’altezza dell’interlocutore. Ma nessuna delle risposte è convincente
La richiesta del Papa «di una grande amnistia» per il Giubileo Straordinario della Misericordia, può anche essere respinta al mittente. Purché lo si motivi con ragioni all’altezza
dell’interlocutore, il quale possiede carisma, progettualità, credibilità in quantità che la politica ha smarrito da tempo. Ovvio l’entusiasmo dei favorevoli, a cominciare dalla voce
ragionevolmente visionaria di Pannella. Quanto agli altri, il silenzio generale è stato interrotto da poche risposte verosimili, ma non vere. Eccone il catalogo.
La risposta orgogliosa è, in apparenza, convincente. Rivendica il primato della politica
sull’indulgenza cristiana. La misericordia è una virtù morale, che dispone alla compassione
e opera per il bene del prossimo perdonandone le offese. Non può però dettare tempi
e contenuti delle scelte giuridiche che, laicamente, rispondono all’etica della responsabilità, preoccupandosi delle conseguenze concrete più che dei buoni propositi. Tutto giusto
ma sbagliato se riferito al tema della clemenza, dove la voce di Bergoglio si è aggiunta (e
non sostituita) a quella del capo dello Stato e della Corte costituzionale che, da tempo,
hanno invocato una legge di amnistia e indulto. Il primo, motivandone le ragioni strutturali
nel suo unico messaggio alle Camere, ignorato al Senato, discusso solo di sponda alla
Camera. La seconda, evocandolo in un’importante sentenza del 2013 in tema di sovraffollamento carcerario. Rispondere picche al Papa, come già al Presidente Napolitano e ai
Giudici costituzionali (tra i quali, allora, sedeva anche Sergio Mattarella), testimonia della
politica non l’autonomia, ma la grave afasia.
La risposta pavloviana è quella di chi ama vincere facile. C’è la sua variante rozza («Mai
più delinquenti in libertà») e quella più forbita («Le carceri devono essere luoghi di rieducazione, ma chi è condannato deve stare in carcere fino all’ultimo giorno»). È un mantra
costituzionalmente stonato. Se le pene «devono tendere» alla risocializzazione, durata
e afflittività dipendono, in ultima analisi, dal grado di ravvedimento del reo: questo, alle
corte, è quanto imposto dalla Costituzione. La certezza della pena è, dunque, un concetto
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flessibile, più processuale che sostanziale. Scambiarla con la legge del taglione significa
abrogare l’intero ordinamento penitenziario, benché vigente da quarant’anni.
C’è poi la risposta causidica. Interpretare le parole del Papa come un appello alla politica
ne fraintenderebbe il senso, esclusivamente ecclesiale. Che tale precisazione venga dal
portavoce vaticano non stupisce: già nel 2002 la richiesta di clemenza di Papa Wojtyla –
coperta da applausi in Parlamento — fu poi ignorata da deputati e senatori. Prudenzialmente, oltre Tevere, si vorrebbe evitare il de-javù.
Se Bergoglio ha usato – per la prima volta – la parola “amnistia”, l’ha fatto a ragion veduta,
soppesandone l’inevitabile impatto politico. Non ha improvvisato. Ha proseguito la sua
riflessione (sul senso delle pene, sulla necessità di un diritto penale minimo, sui pericoli
del populismo penale) e la sua azione riformatrice (abolizione dell’ergastolo, introduzione
del reato di tortura), entrambe costituzionalmente orientate. Isolare da ciò il suo appello
alla clemenza è come divorziare dalla realtà delle cose.
Dal governo, invece, è giunta la risposta stupefatta: «Ma come? Proprio ora che il tasso di
sovraffollamento è calato, grazie a misure deflattive adeguate? Proprio ora che si è aperto
un grande cantiere per la riforma della giustizia e dell’ordinamento penitenziario?». Lo stupore nasce da un fraintendimento di fondo: quello per cui un atto di clemenza generale
sarebbe alternativo a riforme strutturali, quando invece ne rappresenta un tassello essenziale. Amnistia e indulto sono previsti in Costituzione come utili strumenti di politica giudiziaria e criminale, a rimedio di una legalità violata da un eccesso di processi e detenuti.
È solo la sua rappresentazione collettiva (decostruita efficacemente da Manconi e Torrente nel loro libro La pena e i diritti, Ed. Carocci, 2015) ad aver trasformato una legge di
clemenza da opportunità a catastrofe per i propri dividendi elettorali.
Resta la risposta possibilista. Fare in modo che «una legittima aspirazione della Chiesa
possa diventare un fatto politico» (così il Presidente Grasso); tradurre questa richiesta «in
qualche cosa di strutturale, che rimanga anche dopo» (così il ministro Orlando). Come? Le
maggioranze dolomitiche necessarie e le divisioni tra le forze politiche, temo, bloccheranno i disegni di legge ora fermi in Commissione al Senato. Perché, allora, non riformare
l’art. 79 della Costituzione che, nel suo testo attuale, oppone così rilevanti ostacoli alla loro
approvazione? L’ultima amnistia risale al 1990, l’ultimo indulto al 2006. Restituire agibilità
politica e parlamentare agli strumenti di clemenza: questa sarebbe una risposta possibile,
e all’altezza della misericordia giubilare.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 09/09/15, pag. 8
Il corteo delle mamme contro i baby
camorristi
Nel rione Sanità: “Qui i nostri figli stanno morendo”
di Enrico Fierro
Mamme scennit. Iamme chi tene cor’”. Mamme scendete, chi ha cuore venga giù con noi.
La Sanità, il quartiere simbolo di Napoli, scende in piazza, e questa volta ce la fa a
mettersi dietro uno striscione dove ci sono scritte due parole chiare: “No camorra”. No alle
bande di baby boss, no alle “paranze dei bambini” che si sentono uomini perché hanno
una calibro nove infilata nelle mutande. No a questa guerra schifosa che semina morti
giovani e terrore. Qui domenica alle 4 del mattino hanno ucciso Gennaro Cesarano, detto
Genny, 17 anni e qualche rogna con la giustizia. Non è il primo morto giovane di questa
guerra napoletana. Non sarà l’ultimo. E allora se volete capire cosa sia il terrore, la paura
che ti fotte l’anima e la vita, dovete ascoltare il racconto che ci ha fatto un uomo ieri a
pochi passi dal palazzo che diede i nobili natali al Principe de Curtis, in arte Totò.
“E che saranno state? Le cinque del mattino, stavamo nel basso giocando a tombola con
quattro amici quando è entrato un ragazzo. Nu muccusiello (un moccioso, ndr), aveva la
faccia bianca che manco un morto. Si è buttato a terra e piangeva. Hanno acciso a Genny,
hanno acciso a Genny, gridava. Era tutto bagnato e per un momento abbiamo pensato
che pure lui era stato colpito. Ma si era solo pisciato sotto”.
Alla Sanità, 32 mila anime strette in due chilometri quadrati, campano così. Vivono col
terrore addosso, i ragazzi con la maglietta attillata e la barba da hipster e le “guaglione”
che a 13 anni si atteggiano già a femmine. Si sentono uomini di conseguenza, ma si
pisciano nei pantaloni. Non vanno a scuola, nel quartiere non c’è un asilo nido, né istituti
superiori. I più fortunati dopo le medie sono destinati ai professionali. “Le discariche
sociali”, le chiamano i sociologi. Il termine è odioso, ma rende l’idea. Genny campava così,
con la morte nel cuore. “Non pensare ai troppi problemi. Bruciano il cervello.
Pensa che ora ci siamo, domani chi sa”, aveva scritto nel suo ultimo post su Facebook.
Due colpi di pistola gli hanno sfondato il petto. Per ammazzarlo i sicari venuti con le moto
da “coppa Forcella” (almeno così sussurrano voci del rione) non hanno badato a spese. 19
colpi “sparati” da una 357 magnum e da una 9,21. Come se fosse un boss. “Ma cosa dite,
cosa scrivete? Stiamo parlando di un ragazzo ucciso a 17 anni, era ancora un bambino, è
una vittima di una guerra assurda. Ed è vittima innocente perché è nato qui, alla Sanità, in
un quartiere dove manca tutto”. La signora che ci parla sul sagrato della Basilica di Santa
Mara alla Sanità, la chiesa del Munacone, per gli abitanti del rione, è una pediatra. Vive
qui, tra questa gente che si prepara alla fiaccolata. “Genny vive”, c’è scritto sulle t-shirt col
volto triste del ragazzo e mai parole furono più false e illusorie. “Perché la realtà è che
Genny è morto, i nostri figli muoiono”.
Parla Antonio, operaio. “I miei figli frequentano l’Ipsia per il turismo, la stessa scuola del
ragazzo ucciso. La sera escono e io tremo. Ora la pistola la portano ragazzi che hanno
ancora il latte della mamma sulla bocca. Qui è finito tutto, neppure l’antistato funziona, i
vecchi boss o sono in galera o sono morti. Ora è il tempo delle gang”. Si preparano le
fiaccole. Si parla. “Genny era innocente, vogliamo giustizia”.
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Chi è il nemico? “Lo Stato che non ci protegge”. Da chi? E qui la risposta fa fatica ad
arrivare. “Dalla camorra e dal suo potere”, risponde padre Alex Zanotelli, il missionario
comboniano che da anni ha scelto Napoli e la Sanità come luogo del suo impegno
religioso e sociale. Alza la voce per farsi sentire. “I vecchi boss sono in crisi, lasciano fare.
E loro, i ragazzi, si ammazzano. La droga serve alla città bene, ma è qui, nella città
malamente che si combatte la guerra. A Napoli scoppierà una rivoluzione e allora nessuno
potrà più sentirsi tranquillo”.
Partono in duemila nel corteo con le fiaccole, le mamme e i bambini. “Questi di oggi – ci
dice una donna –, questi che sparano, sono solo guappi di cartone. Una volta non era
così. La camorra di prima era diversa”. I Misso secoli fa, più recentemente i Sequino e i Lo
Russo, sono i vecchi boss, quelli che “garantivano l’ordine” e che “con loro non si
uccidevano le creature”. Vecchie nostalgie da “sindaco del Rione sanità”. Una realtà falsa
come le borse “firmate” che vediamo sulle bancarelle. Perché “la camorra è sempre la più
grande truffa umana”. Parole di Sasà Striano, oggi attore di fama, ieri anche lui baby
camorrista. “È la cultura camorristica che bisogna sconfiggere. Se da questa piazza non
esce un no chiaro alla camorra siamo fottuti tutti”. Giuliana Di Sarno è la presidente della
III Municipalità. Una donna forte. Entra in chiesa e parla con padre Zanotelli e don Antonio
Loffredo, i due parroci della Basilica. Dopo poco esce lo striscione con la scritta in rosso
“No camorra”.
del 09/09/15, pag. 8
Ultras e clan, il legame nasce in strada
La rissa. Daspo a 10 tifosi dopo le coltellate al San Paolo alla partita con
la Samp
di Vincenzo Iurillo
La premessa è doverosa: al termine delle perquisizioni e dei 10 daspo per gli ultras che se
le sono date di santa ragione durante Napoli-Sampdoria, la Polizia esclude un
collegamento tra gli scontri allo Stadio San Paolo con la faida di camorra in corso al rione
Sanità. E tantomeno con l’omicidio del 17enne Gennaro Cesarano.
Le due indagini si dipanano su due binari che si guardano senza intersecarsi. Sopra, però,
corrono vicende che combaciano geograficamente con la mappa cangiante dei clan (e
delle loro zone d’influenza) che disegna la guerra di camorra nel centro storico, dove il
cartello Sibillo-Giuliano di Forcella sta provando ad espandersi nei quartieri della Sanità
controllati dal clan Sequino.
I dati coincidenti sono lì, nelle sei pagine del decreto di perquisizione disposto dal pool
‘reati da stadio’ della Procura di Napoli (procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, sostituti
Capuano, Ranieri e De Simone) ed eseguito dagli uomini della Digos diretti da Luigi
Bonagura. Il decreto ricorda che numerose inchieste hanno appurato le parentele dei capi
ultras con “esponenti anche apicali della criminalità organizzata ed in particolare coi
soggetti appartenenti ai clan di riferimento del quartiere o delle zone da cui provengono i
tifosi del gruppo”. Poi ricostruisce quel che è successo nel corso della partita: il settore
occupato dagli ultras “Rione Sanità” si è scagliato su un ragazzo, G. B., dei Mastiffs, gli
storici ultras di Forcella. Il tifoso è stato accoltellato alla gamba destra e al gluteo sinistro.
La Digos ha individuato l’accoltellatore: si chiama P. P. ed è tra i dieci perquisiti. Scrive
l’agenzia Omninapoli, che con un giorno di anticipo lo aveva indicato come il responsabile
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del ferimento dell’ultrà Mastiffs: “P.P. sarebbe uomo di riferimento di Gennaro Cesarano
all’interno del clan Sequino, per il quale Gennaro avrebbe svolto compiti specifici, a partire
dal nascondere armi”. La ricostruzione non trova alcuna conferma tra le fonti inquirenti.
Le dinamiche del tifo organizzato – ricordano – sono estranee a quelle che regolano i
rapporti di forza nei vicoli e nelle piazze di spaccio. Lo stadio è un mondo a parte per gli
ultras di Napoli. E la partita, per loro, “ha perso l’originale centralità”, è diventata solo
l’occasione per compiere aggressioni pianificate “contro il nemico di turno: i tifosi
avversari, le forze di polizia, i dirigenti della società, i giornalisti, gli addetti alla vigilanza,
altri gruppi ultras della medesima tifoseria, i dipendenti di Trenitalia e i gestori delle
stazioni di servizio autostradali”.
Intanto nel fascicolo dell’inchiesta sull’omicidio di Gennaro è finita la testimonianza di un
residente della Sanità che ieri mattina si è recato spontaneamente dal pm della Dda
Enrica Parascandalo: “Forse sono stato il primo a chiamare il 112 quando ho sentito gli
spari e temo di essere stato l’unico, perché quando ho telefonato erano passati diversi
minuti e mi hanno risposto che forse erano fuochi d’artificio. Alla Sanità è un continuo far
esplodere mortaretti ad ogni ora. Ho letto ricostruzioni imprecise sugli orari e sono qui per
dare una mano a chiarirli”. Dunque, qualcuno parla. “Ma non scrivete il mio nome, ho
paura di ritorsioni”.
del 09/09/15, pag. 14
“Il depistaggio c’è stato, ma non abbiamo
prove”
Borsellino, chiesta l’archiviazione per i poliziotti. I pm: “Pressing
investigativo”
di Giuseppe Lo Bianco
Agente del Sisde per due anni con il nome in codice “Rutilius”, Arnaldo La Barbera è stato
il “protagonista assoluto dell’intera attività di depistaggio”, ma l’“equivoca doppiezza” di
Salvatore Candura e le dichiarazioni contradditorie degli altri falsi pentiti, non consentono
di portare in aula le accuse di “indottrinamento e di percosse” mosse da Vincenzo
Scarantino nei confronti dei tre funzionari di polizia, Salvatore La Barbera, Mario Bo e
Vincenzo Ricciardi e definite dai magistrati “impalpabili e inconsistenti”.
Almeno fino al 14 febbraio 2014, data in cui il picciotto della Guadagna protagonista del
più clamoroso depistaggio della storia giudiziaria ha ripreso ad accusare funzionari di
polizia i cui nomi sono per ora segreti. Non saranno Bo, La Barbera e Ricciardi, autori di
un “forte pressing investigativo” su cui i magistrati non si pronunciano, a salire sul banco
degli imputati dell’inchiesta sui misteri del depistaggio di via D’Amelio, che resta aperta,
con un colpo di scena imprevisto: “Ben più complessa – scrive la procura di Caltanissetta
nelle 188 pagine della richiesta di archiviazione firmata dal procuratore Lari e dai pm Paci
e Luciani – degli angusti confini” in cui la restringono le dichiarazioni di Scarantino,
Candura e Andriotta (anche lui un pentito). Per i magistrati è certo che gli investigatori
della Questura di Palermo, “si preparassero, ben prima del comparire sulla scena” dei tre
falsi pentiti “ad una rapida definizione della vicenda il cui prodest costituisce oggetto degli
sforzi investigativi che quest’ufficio sta attualmente profondendo”.
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La prova? La nota inviata il 13 agosto del ’92 dal centro Sisde di Palermo a quello di Roma
a seguito di “contatti informali con investigatori della questura di Palermo” in cui vengono
indicati i nomi degli autori del furto della 126 ed il luogo in cui sarebbe stata custodita
prima di essere utilizzata nell’attentato, un dato che i magistrati definiscono “inquietante”:
“Non è dato agevolmente comprendere – scrivono i pm – come a quella data, sia pur
successiva alle intercettazioni dell’utenza della Valenti, gli investigatori avessero acquisito
notizie sul luogo dove la vettura rubata era stata custodita”.
Un dato che non è stato chiarito da nessuno dei funzionari del servizio interrogati dai pm,
e che “dà la stura ad una serie di allarmanti ipotesi”: non lo hanno chiarito nè Lorenzo
Narracci, all’epoca funzionario a Palermo, né Luigi De Sena, alto dirigente del Sisde, né
Andrea Ruggeri, capo centro di Palermo; quest’ultimo ha riconosciuto come sua la firma in
calce alla nota (“potrebbe essere”) ma ha detto che all’epoca “non vantava all’interno delle
strutture investigative territoriali una forza di penetrazione di siffatta portata”.
Con la richiesta di archiviare le posizioni dei tre funzionari restano senza volto quegli
investigatori dalla condotta “grave e inqualificabile” che hanno “contribuito ad allontanare
la verità processuale contribuendo a costruire un castello di menzogne”. I magistrati
parlano di “fonti scivolose” e impiegano gran parte delle 188 pagine per spiegare perchè
Andriotta, Scarantino e Candura, autori di dichiarazioni spesso contraddittorie, confuse,
illogiche non sono credibili, o, quando lo sono, confermando la “vestizione del pupo”, non
si possono riferire individualmente all’uno o all’altro dei funzionari. E comunque si tratta di
accuse prescritte.
A mantenere oggi aperto, dopo 23 anni dalla strage, il fronte investigativo sull’azione di
indottrinamento del falso pentito attraverso l’aggiustamento e la correzione di rotta “in
progress” delle sue dichiarazioni, sono proprio le nuove, e recenti, rivelazioni di Scarantino
“senza avere potuto contare, scrivono i pm, sul contributo di chi, con ragionevole certezza
appare perfettamente a conoscenza dello svolgimento dei fatti”.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 09/09/15, pag. 6
Turchia, Libia: in 4 milioni si preparano a
partire verso l’Europa
ROMA Gli Stati si attrezzano per un’emergenza che sarà lunga e complicata. Anche
perché non riguarderà soltanto siriani ed eritrei, ma coinvolgerà altre nazionalità di cittadini
in fuga. Stime precise non ci sono né potrebbero esserci visto che la situazione è in
continua evoluzione. Ma gli indicatori parlano di almeno 4 milioni di persone determinate
ad abbandonare i propri Paesi di origine e stabilirsi in altre aree dell’Europa. Profughi che
si muovono via terra e via mare in un esodo che sembra non avere fine. E se l’Alto
commissariato dell’Onu per i rifugiati prevede che quest’anno «circa 400 mila persone
giunte attraverso il Mediterraneo faranno richiesta d’asilo in Europa per arrivare a 450 mila
nel 2016», i numeri forniti dalla Turchia spaventano i governi dell’Unione.
Nel gennaio scorso, dopo numerosi naufragi di pescherecci partiti dalle coste turche, i
funzionari del Viminale hanno incontrato le autorità di Ankara per predisporre un piano di
cooperazione che potesse impedire ai mezzi di salpare. Controlli nei porti, distruzione
delle imbarcazioni, verifiche nei campi di prima accoglienza hanno consentito di bloccare o
quantomeno ridurre il fenomeno. In quell’occasione si parlò di almeno un milione e 200
mila persone intenzionate a partire nel più breve tempo possibile. La Turchia chiese aiuto
proprio per poter governare il flusso.
Situazione analoga si è registrata nello stesso periodo in Libia con circa un milione di
persone accampate sulle spiagge e nelle zone del Nord, in attesa di trovare una barca
dove salire per puntare poi verso l’Italia. In realtà noi siamo luogo di approdo, siriani ed
eritrei vogliono andare in Germania, Austria, molti sognano gli Stati Uniti. Ma il trattato di
Dublino li obbliga a rimanere lì dove sono entrati fino all’esito della procedura per la
richiesta d’asilo e dunque trascorrono mesi nelle nostre strutture. Negli ultimi mesi la
situazione è molto peggiorata. C’è un dato che fa capire bene quanto sta accadendo:
lunedì in Macedonia, prima tappa balcanica della massa umana che tenta di raggiungere il
territorio dell’Ue, c’è stato il record assoluto di arrivi dalla Siria, ben 7.000 in appena 24
ore.
Sono numeri che l’Italia ben conosce. Nelle scorse settimane ci sono stati sbarchi
giornalieri di 5 mila persone, molti erano profughi, altri non hanno alcuna certezza di poter
ottenere lo status di rifugiato. Però intraprendono il viaggio, rischiano consegnando agli
scafisti tutto quello che hanno pur di poter sperare in una nuova esistenza. Il piano
nazionale messo a punto dal Viminale per il 2015 parla di accoglienza per 120 mila posti.
Una cifra che forse dovrà essere rivista, anche se il possibile accordo in sede europea
potrebbe fornire un aiuto, seppur minimo.
La decisione di trasferire dall’Italia circa 40 mila migranti non prevede infatti che vadano
via tutti insieme. Anzi. Nel piano si parla di distribuzione da terminare in due anni e se,
come appare probabile, alcuni governi decideranno di opporsi e tenteranno di far fallire la
possibile intesa, non è escluso che si sarà costretti a rivedere le cifre. Anche per questo si
è deciso di reperire altri 20 mila posti, di continuare a fare da soli per non trovarsi poi a
dover fronteggiare un’emergenza ancora più seria.
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Del 9/09/2015, pag. 10
Il racconto
“Mi chiamo Jamal, vengo dalla Siria”, i miei compagni mi hanno
insegnato a dire così. Siamo partiti da Belgrado diretti al campo di
Kanjiza, vicino al confine. E da lì siamo andati verso Horgos seguendo i
binari Insieme alla famiglia Al Bakri che poi è arrivata in Germania
In viaggio con i profughi sotto al filo spinato
A caccia di un sogno oltre il muro di Orbán
PAOLO BRERA
VENTRE A TERRA tra i sabbioni di Horgos, ho annusato l’Europa inseguito dai
lampeggianti della polizia. Sono entrato in Ungheria illegalmente come migliaia di profughi,
mentre le auto degli agenti ronzavano oltre il confine. Ho corso con tutto il fiato che avevo
nei polmoni, sono sgusciato sotto il treccione di filo spinato sollevato da Mohammad. Due
auto di poliziotti a una cinquantina di metri da noi non si sono accorte di nulla. Giù di
nuovo ventre a terra oltre la siepe di rovi, nel boschetto di betulle. Un baffo di sangue
sull’avambraccio. Eccola, l’Europa. Ora sono un “profugo” fortunato, uno di quelli che ce
Becej l’hanno fatta. «Ana Jamal, men Sourja». Mi chiamo Jamal, vengo dalla Siria. I miei
compagni di viaggio mi hanno insegnato a dire così, se gli ungheresi ci avessero catturati:
«Parleremo noi per te: non daremo le impronte digitali, ci faremo espellere e riproveremo».
Eravamo 21, nel frutteto serbo, acquattati tra i pruni dopo ore di marcia. Superata la
cortina di ferro del premier ungherese Orbán, ci siamo divisi in gruppetti minuscoli. Più
tardi, alcuni dei miei compagni li ho visti illuminati dalle torce della polizia di frontiera. Degli
altri non so nulla. Per certo ce l’ha fatta la famiglia Al Bakri, di cui ero diventato il settimo
membro con un abbraccio e una pacca sulle spalle tra i giardinetti di Belgrado, prima di
tentare l’ultimo miglio di un sogno: entrare in Europa di nascosto senza farsi identificare in
Ungheria. Mohammad, 24 anni, è l’unico laureato: è lui la nostra guida. Viaggia con suo
fratello Anas; con il cugino Mahmoud, sua moglie Betol e la piccola Rawa, che non ha
ancora sei mesi; e con l’altro cugino, il 16enne Mohamed. Oggi sono tutti a Lebach, nella
Saar, in un centro di identificazione. Li ho salutati a Budapest prima che salissero in treno:
«Ce l’abbiamo fatta, amico mio», mi ha scritto Mohammad dalla Germania.
Siamo partiti da Belgrado con un vecchio torpedone al completo, diretti al campo profughi
di Kanjiza, vicino al confine. Dopo dieci minuti, dormono tutti. Sono stremati, il viaggio è
stato un inferno. «Truffati dai trafficanti in Grecia», «trattati come bestie da gente ignorante
e aggressiva». Mohammad dice che a Mitilene, nell’arcipelago di Lesbo, il campo era «in
condizioni disgustose e disumane».
Al campo di Kanjiza arrivano pullman di migranti ogni dieci minuti. Molti ripartono
verso Horgos, al confine con l’Ungheria. Ma è una bolgia. Interi gruppi vogliono passare il
confine insieme: «Ci sono bande di ladri nei boschi, dobbiamo essere tanti per difenderci
». Mohammad mi presenta al nostro gruppo, sono tutti siriani e mi accettano sorridendo:
«Jamal italiano», canticchiano storpiando Toto Cotugno. Tentiamo due volte di partire, ma
in 21 è un’impresa impossibile. In marcia, dopo un paio di chilometri incrociamo la ferrovia
e decine di gruppi in sosta. Da lì, si seguono i binari.
«Dopo aver passato il filo spinato, andremo verso l’area di servizio di Roszke e
prenderemo il taxi dei trafficanti», dice Mohammad. Il gruppo ora è enorme. Camminiamo
nel bosco, al buio. Qualcuno inciampa, i bambini piangono, i genitori li prendono sulle
spalle. In fila indiana, aggiriamo un gruppo di case ma ci fermiamo: i primi della fila, in
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avanscoperta, dicono che non si passa. Bisogna tornare indietro. Torniamo sui binari.
Ogni duecento metri i “capi-gruppo” si fermano a consultare il Gps. «Da ora in poi, silenzio
assoluto», ordina Mohammed. Penso alla piccola Rawa: l’ho sentita piangere una volta
sola, sul bus, ma è una sirena a mille decibel. «Togliete la suoneria ai cellulari, metteteli in
tasca e non illuminate lo schermo per nessun motivo», dice Mohammed. Il confine è
vicinissimo. Passiamo in mezzo a un vigneto, e i capi gruppo iniziano a correre tenendo la
schiena bassa. Noi li imitiamo. Ogni cento metri ci buttiamo a terra. Altri campi di terra
sabbiosa, altre corse. Nessuno fiata. Ecco la luce di un lampeggiante. Si avvicina. È
dall’altra parte del confine, sta perlustrando la barriera di filo spinato. I fari illuminano il
nulla, noi abbiamo la faccia schiacciata sulla sabbia. Siamo accaldati, le zanzare
banchettano. Cento metri di corse, di nuovo a terra, lampeggianti ovun- que e... Rawa. Un
sospiro, un vagito, e inizia a strillare. La mamma riesce a farla tacere in un secondo.
Mezzanotte è passata da un pezzo. Per più di trenta minuti rimaniamo lì sdraiati. Troppa
polizia. Avanziamo fino alle ultime file di alberi prima del fosso oltre il quale corre il filo
spinato. Ci dividiamo in gruppi più piccoli. Oltre il filo spinato c’è la strada sterrata,
dobbiamo correre e raggiungere il boschetto di betulle. Mentre attraverso con il cuore in
gola vedo auto vicinissime, ma siamo ombre in fuga nella notte e non ci vedono.
Non è finita, però. Bisogna arrivare all’area di servizio. I segni del passaggio, la
spazzatura, sono ovunque: questa via è battuta da migliaia di persone. Le luci dell’area di
servizio sono vicine, ora. Saranno 300 metri. Mohammed si avvicina: «Tu passerai per
ultimo. Hai i documenti, sei italiano, ma per la mia famiglia è la vita». È giusto così.
Attendo, poi riemergo camminando, non ha più senso nascondermi. Trafficanti dal volto
disumano ci saltano addosso come fossimo prede: «Taxi? ». Naser contratta: 1.200 euro
per Budapest. Vuole essere pagato in anticipo. Ci abbracciamo, ci salutiamo. Vado a
cercare gli altri nel centro di pre-identificazione di Rotzke, ma non ci sono. Quando torno in
area di servizio sono quasi le 4: c’è una retata, hanno catturato anche Naser e i figli. I
trafficanti, invece, sono lì a guardare. Rivedo Mohammed a Budapest, il giorno dopo:
«Siamo rimasti nascosti fino alle 2 e mezza, poi sono andato verso il centro di Rotzke ».
Lungo la strada, un’auto dei trafficanti si è avvicinata: «Con 1.200 euro una donna ci ha
portati alla periferia di Budapest, dove altri taxisti ci hanno chiesto 100 euro a testa per
andare in centro». La struttura è colma di rifugiati. Mohammad contratta con i trafficanti il
viaggio fino in Germania: «700 euro a testa». Ma l’incubo sta per finire: l’Ungheria lascia
partire i treni, la famiglia Al Bakri apre un nuovo capitolo: la Germania, una vita nuova.
Del 9/09/2015, pag. 11
Berlino: “Accoglieremo mezzo milione di
migranti”
LA GIORNATA. UNGHERIA,NUOVI SCONTRI AI CONFINI CON LA SERBIA
ANDREA TARQUINI
BUDAPEST . «Grecia e Italia non possono accogliere da sole tutti i profughi che arrivano
sulle coste, occorrono quote vincolanti. Dobbiamo costruire un’Europa che non sia più solo
Europa dei numeri bensì Europa dei valori», ha detto a Berlino la cancelliera Angela
Merkel. Ancora una volta è la Germania a guidare il fronte dell’accoglienza: sono 500 mila
all’anno, così dice il vicecancelliere Sigmar Gabriel, i migranti cui la Germania intende
aprire le porte. Di segno opposto la posizione della Polonia: non prenderemo più di
duemila migranti. E a Budapest, il premier Viktor Orbán replica subito nel modo più duro:
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«La costruzione della barriera al confine serbo va accelerata a ogni costi». Nel frattempo,
duri scontri tra le unità speciali della polizia e centinaia di migranti disperati che avevano
appena scavalcato barriere e sbarramenti alla frontiera serbo magiara. Lo scontro tra i due
volti e le due idee dell’Europa, quella aperta della signora Merkel contro quella dei nuovi
Muri e della priorità agli Stati nazionali su ogni strategia comune, si fa di ora in ors più
aspro. Decisamente a fianco di Merkel si è schierato il ministro degli Esteri francese,
Laurent Fabius: «Orbán merita critiche, perché la sua Ungheria non rispetta i valori comuni
europei». Linguaggio, e azioni di segno opposto da parte ungherese. Ai confini la polizia
usa le maniere forti, inclusi spray al peperoncino contro donne e bambini. Ed esponenti
conservatori della Chiesa cattolica magiara, vicini al premier, come il vescovo Laszlo KissRigo, si abbandonano a proclami: «Col suo appello a ogni parrocchia e a ogni fedele ad
accogliere migranti, Papa Francesco sbaglia. Questi vengono qui al grido di “Allah è
grande”, ci vogliono conquistare».
Gli scontri ai confini, tra migranti che premevano e poliziotti magiari decisi alle maniere più
dure, non fanno che peggiorare la situazione. Tra pochi giorni poi arriverà la nuova stretta
repressiva del premier: la frontiera sarà blindata, e ogni forma d’aiuto di un cittadino
magiaro a un migrante sarà passibile di condanne di diritto penale fino a 5 anni di carcere.
L’esodo continua, alla stazione Keleti i treni verso Austria e Germania continuano a
partire. Ma su molti convogli i migranti, come nel Sudafrica dell’apartheid, viaggiano
separati dai bianchi: su vagoni più vecchi di quelli dei “viaggiatori normali”, intasati di
persone oltre l’immaginabile, e separati con lucchetti sbarrati dal resto dei treni.
Del 9/09/2015, pag. 3
Germania, si divide la grosse koalition
Csu contro Merkel: «Accogliere solo chi arriva da zone realmente
pericolose»
Mentre continua l’afflusso di profughi alla stazione centrale di Monaco (ieri circa 4300), si
fa più intenso il dibattito pubblico intorno all’«apertura delle frontiere» annunciata l’altro ieri
dal governo tedesco. Nella grosse Koalition cominciano i distinguo, e non sono di
poco conto. Il più clamoroso, quello di Max Straubinger, numero due del gruppo parlamentare della Csu, partito-fratello della Cdu di Angela Merkel nella ricca Baviera: contraddicendo quanto annunciato dalla cancelliera, l’esponente cristiano-sociale ha proposto che
la Germania non accolga tutti i siriani, ma solo quelli che arrivano da zone «realmente
pericolose». «Non ovunque in Siria si combatte. Aleppo non è Damasco», ha dichiarato
Straubinger in un’intervista ai giornali del gruppo RedaktionsNetzwerk. Critiche anche in
direzione del vicecancelliere Sigmar Gabriel, leader del partito socialdemocratico (Spd),
per avere ipotizzato che la Repubblica federale possa accogliere ogni anno 500mila
persone. Evidentemente, la «pancia» conservatrice, soprattutto in Baviera, si fa sentire.
E alla Csu non basta avere ottenuto un inasprimento delle condizioni di vita dei richiedenti
asilo — al posto di una diaria riceveranno beni e il periodo di permanenza nei centri di
prima accoglienza aumenterà –, né la dichiarazione degli stati dei Balcani occidentali quali
«Paesi sicuri». Quello che il centrodestra bavarese vuole è che dal governo tedesco vengano mandati segnali diversi da quelli che hanno portato Merkel a diventare la beniamina
di migliaia di siriani. Ma i malumori non sono solo nei settori ostili all’apertura verso i profughi. Ieri ha alzato la voce anche la governatrice della Renania settentrionale — Westfalia,
la socialdemocratica Hannelore Kraft, figura molto popolare nel suo partito. «Stanziamenti
insufficienti», è il rimprovero che viene mosso a Berlino: i comuni e i Länder non hanno
i mezzi sufficienti per dare attuazione ai propositi annunciati da Merkel e Gabriel.
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Analoghe a quelle di Kraft sono le critiche che vengono mosse dalle opposizioni. Ieri al
Bundestag è cominciata la discussione sulla legge di bilancio: occasione che Linke e Verdi
non si sono lasciati sfuggire per denunciare l’«austerità» del governo applicata
all’emergenza-profughi. «Se si vuole affrontare sul serio la situazione — ha affermato il
capogruppo in pectore della Linke Dietmar Bartsch — l’esecutivo deve abbandonare la
sua fissazione per il pareggio di bilancio».
Un grido di allarme che si può raccogliere anche da parte di chi è impegnato sul campo
nell’aiuto ai richiedenti asilo: «Senza noi volontari, le amministrazione pubbliche da sole
non ce la farebbero», dice al manifesto Sebastian Walter, giovane dirigente della Linke del
Brandeburgo che l’altro ieri ha accolto i profughi giunti nel centro di raccolta di Eisenhüttenstad, cittadina al confine con la Polonia. «Il governo ha tardato troppo a rendersi conto
che cresceva il numero di persone intenzionate a raggiungere il nostro Paese, e ha deciso
di aprire le frontiere ai siriani solo quando non aveva più altra scelta: i migranti sarebbero
passati lo stesso, ma ci sarebbero stati caos e incidenti, con un grave rischio politico per
Merkel», ragiona Walter. «Io ero ad Atene a sostenere Syriza lo scorso gennaio – ci dice
ancora il militante della Linke – e posso dire che purtroppo la Germania è sempre la
stessa: agisce solo per il proprio interesse». Ci tiene a distinguere l’azione del governo da
quella delle persone che stanno aiutando i profughi anche Julia Fritzsche, giornalista della
radiotelevisione pubblica bavarese: «Alla stazione di Monaco in questi giorni ho visto
gente comune, che si potrebbe definire anche “apolitica”, spinta all’agire solidale dopo i 71
morti in Austria e la foto del piccolo Aylan», ci riferisce. «La logica che muove Merkel
e Gabriel, invece, è un’altra: basta leggere le dichiarazioni degli industriali, ad esempio
quelle del capo della Daimler, per capire che al nostro Paese servono nuovi lavoratori per
mantenere alte le nostre performance economiche. E i profughi in arrivo dalla Siria sono
ovviamente molto utili», argomenta Fritzsche. La Germania «critica» non crede, dunque,
a una cancelliera convertitasi sulla via di Damasco alla solidarietà. Anche se tutti le riconoscono una certa flessibilità nell’agire, la stessa di cui diede prova già in occasione della
svolta sul nucleare dopo l’incidente di Fukushima. Quando, con un occhio ai sondaggi,
capì che la maggioranza dei tedeschi era favorevole all’abbandono definitivo dell’atomo:
pur avendo sostenuto il contrario fino al giorno prima, cambiò idea stupì tutti. E soprattutto:
tolse agli avversari un pesante argomento polemico per la campagna elettorale a venire.
Una mossa che si rivelò azzeccatissima.
del 09/09/15, pag. 8
Tra i rifugiati intrappolati in Ungheria
Il tempo scade, corsa disperata al nord
Budapest prepara l’esercito. Al collasso Lesbo: in ventimila ammassati
sull’isola greca
DALLA NOSTRA INVIATA ROSZKE (confine serbo-ungherese) Si alzano insieme,
all’unisono, come avevano fatto quelli della stazione di Budapest, quelli che ce l’hanno
fatta e ora sono al sicuro in Austria e Germania. Qui sono solo binari tra i girasoli, sotto
nuvole che vanno a sud e con un freddo che entra nelle ossa. Altre centinaia, altri bambini
spaventati perché i grandi urlano e fa già buio. La polizia li segue, poi si mette di traverso
e blocca la stradina illuminata dai fari delle telecamere che allungano le ombre. Per un
momento sono gli uni di fronte agli altri, si guardano in un silenzio irreale. Poi i disperati di
Roszke sfondano.
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Centottanta chilometri per Budapest, poi Austria e Germania, avanti con tutte le forze che
restano perché tra pochi giorni si chiude. Il governo vuole mandare l’esercito in questa
terra di frontiera dove si scappa in mezzo ai campi e in cielo volano gli elicotteri. Tra pochi
giorni sarà permesso dalla nuova legge appena approvata, tra pochi giorni se ti beccano e
sei clandestino rischi il carcere fino a tre anni. E anche l’Austria ci sta ripensando, in
Europa si sono rimessi a litigare. La Danimarca ieri per la prima volta ha rispedito in
Germania una ventina di rifugiati che volevano proseguire verso Nord. Il tempo scade,
allora si torna a marciare. Sperando di trovare qualche treno da assaltare, come ieri
ancora alla stazione Keleti. O qualche pullman diverso da questi che aspettano in coda
davanti al centro di smistamento. Bagni chimici e spirali di filo spinato sui cancelli. In quelli
di registrazione nessuno ci vuole andare.
L’Onu chiede uno stanziamento supplementare di 30,5 milioni di euro per affrontare
l’emergenza fino alla fine dell’anno. L’Onu dice che le strutture di accoglienza sono
insufficienti. Vicino al confine sale e s’allunga il muro chiesto da Viktor Orbán. Volevano
inaugurarlo il 31 agosto e invece non è ancora finito. Dopo l’ispezione a sorpresa di lunedì
ci ha rimesso la testa il ministro della Difesa. Oltre ai campi, le «strutture d’accoglienza»
sono poche tende colorate. La maggioranza dorme all’aperto. Chi non dorme parte e
grida: «No fingerprint», niente impronte digitali. «No camp», basta campi. Qualcuno dice
pure «Allahu Akbar», più che un grido una preghiera. L’Onu dice che la polizia non è
preparata a gestire l’emergenza. Gli agenti portano spray urticanti allacciati alla cintura e
mascherine davanti alla bocca, nella corsa qualcuno perde pure la pistola. Una bambina
non ce la fa a tenere il passo dei genitori, il padre deve scegliere tra lei e la coperta
pesante che porta sulle spalle. Prende la figlia e chi viene dopo si trova la coperta.
Lo facciamo a ritroso questo viaggio. Germania, Austria, Ungheria, Serbia, Macedonia,
Grecia. Ventimila sulla sola Lesbos in attesa di un traghetto per la terraferma. Samos,
Kos, Agathonissi, sono al collasso le isole dove i profughi arrivano dalla Turchia. In 24 ore
la Guardia costiera ha soccorso 500 persone in 11 operazioni. Le autorità locali
s’arrangiano con rifugi su navi crociera e centri di identificazione sui campi di calcio. Il
segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon chiederà al prossimo premier di riferire
all’Assemblea generale. Perché c’è anche la crisi politica in Grecia, dove il 20 si vota e il
primo ministro Alexis Tsipras gioca la sua partita della vita.
In questa notte di grilli sulla strada di Roszke, dopo il passaggio dell’onda restano scarpe
spaiate, piccole, piccolissime.
Maria Serena Natale
Del 9/09/2015, pag. 1-4
Aiutiamoli a casa nostra
11 settembre. Decine di migliaia di persone manifesteranno in tutta Italia
per dire no ai muri e alla Fortezza Europa, per dire che ci vogliono dei
corridoi umanitari, che vanno chiusi i centri di detenzione, che serve
una organica normativa europea sul diritto di asilo, che va superato il
regolamento di Dublino. Ci saranno manifestazioni anche a Parigi e a
Lipsia.
Giulio Marcon e Andrea Segre
Quando alla fine di agosto abbiamo pensato di organizzare, in solidarietà con i migranti, la
«marcia delle donne e degli uomini scalzi» a Venezia, non pensavamo che in pochi giorni
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avrebbero aderito più di 300 organizzazioni e 1500 personalità e che si sarebbero organizzate l’11 settembre — in contemporanea a Venezia — manifestazioni in altre 61 città italiane (per info:http://donneuominiscalzi.blogspot.it/p/lista-generale.html).
Ci ha spinto un’urgenza politica ed etica di fronte alla strage di centinaia di migranti in
mare, all’inazione dell’Italia e dell’Europa e ai muri e ai fili spinati che si ergevano nel
nostro continente per impedire a migliaia di profughi di trovare asilo e protezione nei nostri
paesi. La risposta è stata straordinaria.
L’11 settembre decine di migliaia di persone manifesteranno in tutta Italia per dire no ai
muri e alla Fortezza Europa, per dire che ci vogliono dei corridoi umanitari, che vanno
chiusi i centri di detenzione, che serve una organica normativa europea sul diritto di asilo,
che va superato il regolamento di Dublino. Ci saranno manifestazioni anche a Parigi e a
Lipsia. Sotto l’onda dell’emozione dei morti e della marcia dei profughi siriani
sull’autostrada ungherese, qualcosa nel frattempo si è mosso. La Germania ha costretto
gli altri paesi all’apertura delle frontiere e ha accolto i profughi siriani, si è dato vita ad un
(limitato) piano di accoglienza europeo, si va nella direzione di una politica unitaria in
materia di asilo. Ma ci sono molti «ma».
La Merkel, pur dichiarando positivamente che non c’è alcun limite ad accogliere a chi
scappa dalle guerre, ha detto ad Orbán che l’apertura delle frontiere è stata e sarà «una
tantum» ed il premier ungherese ha ripreso a costruire il muro ai confini della Serbia.
Volano, poi, «venti di guerra»: dalla Gran Bretagna alla Francia, si ricomincia a parlare di
raid aerei in Siria. Così non si fermerà l’Isis, ma si alimenteranno nuovi flussi di disperati.
Per i profughi che arrivano dal mare, poi, niente di nuovo. Si continua con Triton, mentre
servirebbe una vera e propria missione di soccorso di chi si imbarca per arrivare da noi.
E Renzi, qui in Italia, dovrebbe fare qualcosa di più delle sue roboanti dichiarazioni:
dovrebbe chiudere i centri di detenzione, rifare una Mare Nostrum solamente umanitaria,
introdurre il diritto di voto alle elezioni amministrative per i migranti residenti, mettere in
campo un piano straordinario e strutturale per l’accoglienza di 500mila profughi nei prossimi due anni, senza se e senza ma.
È triste dare ragione al Pentagono: ma si tratta di un’emergenza almeno ventennale.
Forse più. E non solo per le guerre, la violazione dei diritti umani e la povertà. Nei prossimi
anni verranno al pettine i nodi dei cambiamenti climatici: milioni di profughi si metteranno
in marcia per sfuggire alla siccità e alla desertificazione di una parte sempre più grande
dell’Africa. Tutti motivi per metterci in marcia a piedi scalzi anche noi venerdì prossimo
e per non fermarci nemmeno dopo. Altro che «aiutiamoli a casa loro». Ora, si tratta di aiutarli a casa nostra o, meglio, di aiutarci tutti insieme su questa terra, che è di tutti.
Del 9/09/2015, pag. 12
Il Viminale ai prefetti “Servono 20mila posti
per i nuovi profughi”
Si moltiplicano le iniziative in tutta Italia Scola: “L’accoglienza è un
dovere di tutti”
CATERINA PASOLINI
L’Italia dell’accoglienza ufficiale è sold out. La rete messa i piedi dal Viminale è ormai
esaurita. I prefetti devono muoversi, e rapidamente. La circolare arrivata ieri dal ministero
dell’Interno negli uffici parla chiaro: devono trovare ventimila nuovi posti per i migranti
entro settembre, quando gli sbarchi di disperati si spera rallenteranno. Nuovi spazi per
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scavallare l’emergenza ed evitare che salga la tensione nel paese. I primi episodi si sono
già visti, alcuni sindaci favorevoli all’accoglienza, come il primo cittadino di Fivizzano in
Toscana, sono stati minacciati. Ma le proteste arrivano soprattutto dal Veneto, dove nel
vicentino i fedeli hanno contestato duramente il loro parroco che aveva deciso di ospitare i
migranti. Mentre decine di sindaci della stessa regione non hanno partecipato alle riunioni
per gestire l’emergenza, dichiaratamente contrari all’ospitalità diffusa dei profughi . Persino
alcune famiglie sarde, che su Facebook avevano dato la loro disponibilità, sono state
violentemente insultate sul social network.
Eppure l’Italia della solidarietà moltiplica le iniziative. C’è chi ha deciso di aprire casa, in
1200 si sono già detti pronti ad accogliere i rifugiati rivolgendosi all’associazione Amici dei
bambini, altri hanno portato cibo nelle parrocchie di quartiere in vista dei nuovi arrivi
mentre c’è chi invece si è messo in macchina diretto verso Budapest per trasportare
migranti a Vienna e Berlino. Come diversi studenti di Trento e Bologna.
Dopo la parole di Papa Francesco, le parrocchie da Bolzano a Palermo aprono spazi,
canoniche, oratori. Così i seminari. Anche il cardinale Scola, arcivescovo di Milano, ha
rinnovato l’appello della Chiesa: «L’accoglienza è compito di tutti, non solo delle istituzioni.
Rinnovo l’appello alle parrocchie ad aprire le porte, un invito rivolto anche alle singole
famiglie». Intanto regioni come la Toscana istituiscono numeri di telefono speciali
(3316983061) per chi vuole offrire spazi alle famiglie in fuga e la Cgil invita ad usare per
loro le abitazioni sequestrate in Italia ai mafiosi. Anche se sull’onda dell’emozione
provocata dalle immagini del piccolo Alan tutto sembra muoversi più velocemente, in
realtà tanti gia facevano assistenza: decine le parrocchie trasformate in mini-ostelli, come
quella di Affori a Milano, dove ogni notte da mesi dormono cento rifugiati, assistiti per tutta
l’estate da centinaia di abitanti del quartiere. Come tante sono le famiglie che da tempo , in
silenzio, aiutando al puntodi ristoro al mezzanino della stazione Centrale di Milano o a
Roma, hanno deciso di aprire le stanze dei figli cresciuti oppure ancora studenti, per
condivere gli spazi con chi non ha più tetto né paese.
Del 9/09/2015, pag. 4
I centri da “bestie” delle coop
Aprigliano (Cs). Migranti ammassati nella struttura gestita dal
consigliere Pd. Protesta dei richiedenti asilo stipati (e abbandonati)
nell’ex albergo di Spineto
«Siamo umani o bestie?», urlava Matteo Renzi dal palco della festa nazionale dell’Unità.
Bene, anzi benissimo. Ma Renzi farebbe meglio a venire in Calabria e visitare i molti “centri d’accoglienza” in cui centinaia di migranti vivono come “bestie”, in luoghi affatto accoglienti, spesso gestiti da cooperative vicine al Pd.
Per esempio, il centro provvisorio di Spineto, nel comune di Aprigliano, incastonato nei
verdi boschi della Sila cosentina, era un vecchio albergo-ristorante, Il Capriolo, realizzato
trent’anni fa su due corpi distinti per più piani. Con affidamento diretto da parte della prefettura di Cosenza, la cooperativa Sant’Anna gestisce ora una ottantina — ma prima erano
anche di più — di africani provenienti da Somalia, Gambia, Nigeria e Ghana. A guidare la
cooperativa è il quarantenne Carmelo Rota, assessore comunale del Pd. In cambio dei
“servizi” riceve 29 euro al giorno a migrante, secondo una convenzione con la prefettura
che viene prorogata ogni tre mesi. Ma la scena che si presenta agli occhi descrive non
certo un resort a quattro stelle, come pure dalle guide questo posto lasciava presagire. Si
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tratta, piuttosto, di un dormitorio di carne umana, di un parcheggio per migranti, di un
campo profughi che nemmeno in medioriente.
È questo l’inferno degli asilanti che arrivano in Italia. «Ci sentiamo abbandonati e dimenticati – è il coro unanime — qui non c’è linea per il cellulare, non abbiamo assistenza legale,
nonostante le nostre proteste e le promesse della prefettura non è cambiato nulla». Un
ragazzo eritreo, Ahmed, si avvicina per parlare e descrive il centro come «una prigione
a cielo aperto, sento la testa battere come una pentola a pressione, se continua così mi
suicido», aggiunge. «Nel sotterraneo hanno messo le donne perché loro non si ribellano»,
dice un ghanese con il rosario al collo. Attualmente ospita 84 richiedenti asilo. Molti di loro
provengono da Amantea, dall’ex albergo Ninfa Marina, trasferiti di forza nell’entroterra
silano dopo il riot dell’inverno scorso nella città tirrenica. La struttura è isolata per diversi
chilometri. Alcuni si trovano lì da oltre 11 mesi. Abdul, somalo, ci dice che: «C’è un solo
autobus che permette di allontanarsi da Spineto, partendo alle 6 di mattina e rientrando
alle 15». Sono presenti 14 donne di nazionalità somala e nigeriana che lamentano
l’assoluta mancanza di assistenza sanitaria.
La protesta a cui hanno dato vita il mese scorso è scaturita dalla mancata fermata da
parte dell’autobus delle Ferrovie della Calabria per consentir loro di arrivare a Cosenza.
Hanno bloccato il traffico in entrambe le direzioni sulla strada silana con cassonetti
e materassi dati alle fiamme. Regna il mistero sull’agibilità della struttura di Aprigliano che
è composta di due stabili, uno costruito negli anni ’70 su tre piani e un altro, che negli anni
’90 era una sala ricevimenti su un piano con il seminterrato. Attualmente ci sono posti letto
in ogni angolo, anche nei sottoscala. Il degrado è palpabile.
È per questo che la procura di Cosenza, sulla scorta delle denunce dei migranti e in
seguito al dossier dell’associazione la Kasbah, ha aperto lunedì un fascicolo d’indagine.
Gli agenti della mobile hanno eseguito un sopralluogo per verificare le reali condizioni di
vita dei profughi. Secondo Rota le carte sono a posto. Ma dagli uffici tecnici del comune
trapela che c’è il segreto istruttorio. Esisterebbe un certificato del 2004 che dichiara la
struttura inagibile e uno del 2007 secondo cui, invece, sarebbe agibile. I migranti di Spineto raccontano di sentirsi abbandonati, alcun processo di inserimento sociale è stato
messo in atto. Le persone intervistate raccontano di essere state «diniegate» dalla commissione per il riconoscimento dello status ma di non aver mai incontrato l’operatore legale
né l’avvocato. Né di esser stati informati della possibilità di presentare ricorso. Sono esseri
umani o bestie?
Del 9/09/2015, pag. 1-2
Quello che i profughi ci dicono
Questo esodo ci riguarda. La nuova lotta di classe che chiama la
sinistra
Giorgio Ferrari
Nell’ottobre del 2003, negli Stati uniti, fu pubblicato il rapporto di due ricercatori, Peter Schwartz e Doug Randall, dal titolo «Uno scenario di bruschi cambiamenti climatici e le sue
implicazioni per la sicurezza degli Stati uniti — Immaginando l’impensabile».
Il rapporto, probabilmente ispirato da qualche stratega del Pentagono per oscuri motivi,
descriveva articolatamente una serie di eventi catastrofici dovuti principalmente ai cambiamenti climatici, con conseguenze politico-sociali dirompenti per alcune zone del mondo.
Dopo aver previsto che «Aree ricche come gli Usa e l’Europa diverranno delle “fortezze
virtuali” per impedire l’ingresso a milioni di persone costrette ad emigrare per aver perso le
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proprie terre sommerse dall’aumento del livello dei mari, o per non poterle più coltivare»,
i due ricercatori immaginavano così il futuro prossimo dell’Europa: «L’Europa affronterà
enormi conflitti interni a causa del gran numero di profughi che sbarcheranno sulle sue
coste, provenienti dalle zone più colpite dell’Africa. Nel 2025 la UE sarà prossima al
collasso». Anche se non è stato determinato dai cambiamenti climatici, questo scenario
«impensabile» è ora sotto i nostri occhi, né si può escludere del tutto, per gli anni a venire,
un eventuale collasso dell’Unione europea. Il punto, ovviamente, non è stabilire se questi
avvenimenti fossero o no prevedibili (per quanto essendo l’essere umano anche un
demiurgo, l’anticipazione e la prospettiva dovrebbero far parte delle sue capacità), ma di
capire il senso di questo flusso epocale di migranti, che non si limiti alle considerazioni
generaliste sull’emergenza sociale e non si appaghi dell’altrettanto generico impegno per
l’accoglienza e la solidarietà verso di loro.
Alessandro Portelli, con la sensibilità che lo contraddistingue, ha scritto che si tratta di una
nuova forma di lotta di classe (anzi antica) anche se l’obiettivo di questi migranti non è il
rovesciamento di un sistema, ma semmai il condividerlo. E’ una interpretazione spiazzante
per la sinistra (anche quella antagonista) perché ci pone una serie di interrogativi e di compiti che ben poco hanno a che vedere col nostro umanitarismo, intriso com’è di misericordia cristiana e principi illuministici. Vero è che bisogna fronteggiare razzismo e xenofobia,
ma questo non può risolversi soltanto nella rivendicazione di un’Europa solidale, col
rischio che ciò si tramuti in una sorta di obolo «comunitario» senza per nulla incidere sulle
origini e l’entità del male che è stato fatto. Basta fissare qualche immagine estiva per rendersene conto: i profughi siriani che irrompono nelle vacanze dell’agiata borghesia europea sbarcando nell’isola greca di Kos col loro carico di orrori, ne sono la metafora più efficace che mette di fronte chi ha e chi non ha, chi si diverte e chi si dispera, senza possibilità di dialogo, perché la condizione degli uni, in questa società, non può sussistere senza
quella degli altri. E noi lo sappiamo, ma abbiamo smarrito le parole e i gesti per cambiare
questo stato di cose. Per questo i migranti ci parlano. Presi singolarmente ognuno dirà che
è qui per rifarsi una vita, ma nel loro insieme, nel loro essere «massa invadente», ci
dicono che l’altro mondo possibile di cui abbiamo vagheggiato è, in realtà, un cumulo di
macerie da cui stanno fuggendo; che il nostro umanesimo e i nostri valori mediterranei,
cioè le «essenze occidentali» come le chiamava Franz Fanon (di cui il «basamento grecolatino» costituiva una sorta di logo), sono ormai «soprammobili senza vita e senza colore».
Disfarsi di questi soprammobili, cancellando dalla mente degli oppressi l’immagine del
«basamento greco-latino» proprio perché simbolo di quelle «essenze» dominatrici, era
considerato da Fanon un momento liberatorio nella lotta dei dannati della Terra.
Oggi siamo alla distruzione materiale di quel basamento per mano dell’Isis, che certo non
può annoverarsi tra gli emuli di Fanon. Dunque il problema (dell’affrancamento economico
e culturale di queste genti), si ripropone in forme tenebrose e non poteva essere altrimenti
dato che l’Europa (per non parlare degli Usa) non ha mai smesso di apportare disordine
e dolore in Africa e Medioriente. Quanti leader — africani, arabi, progressisti e rivoluzionari
— sono stati uccisi, quante rivolte soffocate nel sangue, quanti i governi rovesciati pur di
impedire che si affermasse un punto di vista indipendente e/o marxista come lo postulava
Fanon: «Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle sue strade, a tutti gli angoli del
mondo». Diversamente l’Isis, nel mentre proclama la distruzione dell’Europa (limitandosi
per ora a quella dei templi), mira al controllo delle ricchezze del sottosuolo in Medio
Oriente, in Libia, in Nigeria per realizzare (apparentemente) un modello di società ibrida:
confessionale, feudale, ma che non disdegna l’uso di tecnologie al passo con i tempi né,
soprattutto, la logica di mercato propria del capitalismo.
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In altre parole non vogliono essere come noi, ma prendere il nostro posto. Non una vera
alternativa quindi, ma una variante sì ed anche efficace, in grado di mobilitare parte delle
masse arabe ed africane e di suggestionare l’animo degli esclusi che vivono nelle banlieue
europee. Fate qualcosa, ci dicono ancora i migranti, per far sì che l’Isis non rappresenti più
una chance. Ma questa volta fatela bene. Fermate la guerra, ma fermate anche lo sfruttamento, quello che ci accomuna in quanto subalterni, ma ci divide in quanto a fede e nazionalità. È un’istanza di classe, un appello alla sinistra.
Del 9/09/2015, pag. 5
I MIGRANTI VALGONO IL 9% DEL PIL
Valgono già quasi il 9% del Pil italiano (esattamente l'8,8%), hanno aperto ormai mezzo
milione di imprese (anche se molte piccolissime), versano l'8,5% dell'Irpef (con punte di
quasi il 12% a Milano e del 10% a Roma). Gli stranieri in Italia sono già un pezzo cruciale
dell'economia e dei contributi pensionistici in un Paese senza leva demografica, ma anche
l'attuale flusso di migranti viene giudicato soprattutto come un'opportunità da imprenditori
che conoscono bene la questione, avendo visto diversi lavoratori non italiani all'opera nelle
loro aziende. Secondo un dossier Caritas-Migrantes gli stranieri, oltre a produrre 123
miliardi l'anno di Pil, sono disposti per più di un terzo (il 36%) a svolgere lavori non
qualificati contro il 7,8% degli italiani. Uno studio della Camera di commercio di Milano sul
registro delle imprese indica indica la presenza di 488mila imprese di non italiani (il 9,5%
del totale, in continua crescita).
Da Avvenire del 09/09/15, pag. 14
Caporalato, anche i droni contro gli schiavisti
Diego Motta
Dopo l’ipotesi confische nei confronti dei caporali e l’atteso giro di vite normativo, ora
spuntano anche i 'droni' sentinella per controllare a tappeto i campi della vergogna. È
questa l’ultima novità emersa alla vigilia della cabina di regia sulla Rete del lavoro agricolo
di qualità. Il cantiere aperto dal governo a fine agosto, dopo le morti e le ripetute denunce
di sfruttamento arrivate dai braccianti impiegati da uomini senza scrupoli, dovrebbe
dunque arricchirsi di una proposta: quella che prevede l’utilizzo di moderni sistemi
tecnologici di controllo a supporto dell’attività di vigilanza esercitata dagli ispettori sul
territorio.
«Consideriamo le imprese che sfruttano il caporalato responsabili in solido con le imprese
malavitose, e pertanto crediamo sia necessario agire come facciamo per queste tipologie
di imprese, cioè con i sequestri» ha spiegato ieri il viceministro delle Politiche agricole,
Andrea Olivero. L’obiettivo dell’esecutivo è colpire «innanzitutto i patrimoni» e anche se in
Parlamento la battaglia contro i campi della vergogna è largamente condivisa, non manca
chi, come il Movimento Cinque Stelle, pur dicendosi «a favore di tutte le iniziative volte a
sconfiggere la piaga inaccettabile dell’illegalità» ricorda all’esecutivo che «prima di
proporre nuove leggi dovrebbe fare applicare quelle già esistenti, cosa che invece non ha
fatto». Lo sostiene la parlamentare M5s, Silvia Benedetti, che ha presentato una
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interrogazione sullo sfruttamento dei braccianti nelle vigne piemontesi che producono vini
di eccellenza. Il nodo resta
quello delle risorse necessarie per aumentare i controlli nei campi, anche se l’attività
ispettiva nelle ultime settimane è fortemente cresciuta. I blitz compiuti dalla Guardia di
Finanza nelle aziende agricole del Foggiano, uno dei territori- simbolo del fenomeno,
hanno fatto emergere che un lavoratore su cinque tra quelli impiegati è senza contratto. A
Lucera, in particolare, su 17 braccianti impegnati nella raccolta del pomodoro, 13 sono
risultati in nero, mentre a Serracapriola 15 braccianti stranieri impiegati nei campi di
pomodoro stanchi di essere sottopagati e non regolarizzati hanno denunciato la loro
situazione alle Fiamme gialle. La battaglia per la legalità riguarda ovviamente anche le
aziende. Dal primo settembre, le imprese agricole interessate possono fare richiesta di
adesione alla Rete del Lavoro agricolo di qualità (sul sito www.inps.it) se dimostrano di
essere in regola con il versamento dei contributi ai lavoratori e se non hanno procedimenti
in corso (o condanne e sanzioni) in materia di lavoro e legislazione sociale.
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WELFARE E SOCIETA’
del 09/09/15, pag. 9
Tagli alla Sanità, partita da 3,3 miliardi
Nel mirino del ministero dell’Economia l’aumento del Fondo 2016
previsto per Asl e ospedali
ROMA
Tutti lo sanno, ma tutti dicono (ufficialmente) di non saperne niente. Fatto sta che smentite
e prese di posizione di rito che si susseguono da giorni, confermano che la
preoccupazione è alta: al ministero della Salute, nei partiti di maggioranza, tra le regioni e
le categorie. Il pericolo è di precipitare nello stesso vortice della manovra 2015: un nuovo
taglio al Fondo sanitario (quest’anno è stato di 2 mld) magari mascherato da «mancato
aumento» e da risparmi sugli sprechi senza toccare i servizi. Perché anche con la legge di
stabilità 2016 rischia di ballare almeno una parte dell’aumento già in cantiere per legge
delle risorse per ospedali e asl. Un aumento che per il 2016 vale ben 3,3 mld.
Potenzialmente a rischio. E che non a caso è tenuto sotto stretta osservazione da parte
dell’Economia a caccia disperata di risparmi. Minori spese che in qualche modo si
sommerebbero a quelle della spending review e di tutte le misure in cantiere per far
dimagrire i bilanci del Ssn.
Per la sanità, insomma, la partita politica nascosta nelle pieghe della prossima manovra di
bilancio è intanto quella della consistenza della dotazione finanziaria per il 2016. Che a
bocce ferme vale oltre 113 mld. E che difficilmente potrà subire una decurtazione totale
dell’aumento di 3,3 mld, anche se via XX Settembre tiene alto il tiro. Ma che nella partita a
scacchi che si annuncia fino a metà ottobre potrebbe verosimilmente chiudersi almeno a
metà strada, intorno a 1,5-2 mld di taglio. Più tutti gli altri interventi che saliranno sul carro
della manovra per spuntare le unghie alla spesa sanitaria. Con la ministra della Salute che
frena, come ufficialmente fanno da pompieri tutti i partiti di maggioranza e ovviamente le
regioni. Salvo ammettere privatamente che «è vero, il tema c’è, sarà dura. Ma altri tagli
sono impossibili. Confidiamo nelle promesse di Renzi». Promesse che peraltro un anno fa
sono rimaste solo sulla carta.
Ma sugli scudi è l’intero “capitolo sanità” della Stabilità. Tra nuove misure allo studio,
anche avanzatissimo, e l’ormai prossima applicazione delle novità del “decreto enti locali”
che ha portato tagli da 2,35 mld (che si replicheranno anche nel 2016). Non mancano del
resto le novità dell’ultim’ora. Una di queste potrebbe essere un’ulteriore stretta per le
centrali d’acquisto in sanità, con la prospettiva di arrivare in tempi relativamente brevi ad
accorpamenti macroregionali e intanto al massimo a una per regione. Ma con l’aggiunta
immediata dell’individuazione ogni anno, con un decreto ad hoc, delle categorie
merceologiche coinvolte negli acquisti a prezzi bassi: un decreto che sarebbe ripetuto ogni
12 mesi allungando la lista degli acquisti su cui risparmiare sempre di più. Interventi,
questi, che fanno capo al commissario per la spending review, Yoram Gutgeld, destinati
ad essere meglio definiti in queste settimane. Così come dal “tavolo Gutgeld” è spuntata
l’ipotesi di sottoporre a piani di rientro dal debito - proprio come le regioni sotto tutela e
commissariate per i maxi disavanzi - per gli ospedali in profondo rosso. Due casi, tra i
tanti, vengono citati: il debito di 100 mln del San Camillo a Roma, e, sempre a Roma, i 78
mln di perdita del Policlinico di Tor Vergata. Ma praticamente tutti gli ospedali, chi più chi
meno, e non solo al Sud, sono in sofferenza finanziaria. Ecco così l’idea di prevedere dei
piani specifici di azzeramento e di rientro dal rosso in un percorso di 3-5 anni. Con tanto di
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sanzioni indirette in caso di fallimento del programma di bonifica dei bilanci: dallo stop alle
assunzioni alla tagliola sugli acquisti. Un modo pesante di metterli in mora definitiva, che
difatti è visto con molta cautela nel Governo, e naturalmente dai sindacati. A entrare nella
manovra, se sarà possibile cifrare i risparmi, potrebbe essere la modifica della
responsabilità professionale dei medici, virando l’onere della prova sugli assistiti.
Fin qui le new entry. Ma in cantiere, e con effetto immediato, ci sono i tagli per beni e
servizi. Il decreto in dirittura d’arrivo che eliminerà 180 prestazioni. Per fine mese il nuovo
Prontuario dei farmaci che dovrebbe far risparmiare 125 mln quest’anno e circa 500 mln
nel 2016. Tutti risparmi che resteranno in sanità? Il dubbio c’è. E poi, finirà qui? Si vedrà.
A scanso di equivoci, il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, mette le
mani avanti: «Abbiamo già dato, non ci aspettiamo altri tagli. Il Governo guardi altrove».
Roberto Turno
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DONNE E DIRITTI
Del 9/09/2015, pag. 45
Da Kobane a Roma, la carovana femminista
Arriva a Roma il prossimo giovedì 10 settembre la Carovana Femminista, progetto di attivismo itinerante, finanziato tramite crowdfunding, nato in seno al gruppo attivo dal 1998
conosciuto come la Marcia Mondiale delle donne, rete internazionale femminista di oltre
6.000 associazioni presenti in più di 150 paesi (http://www.marchemondiale.org/index_htm
l/en). Partite lo scorso otto marzo dalla città di Kobane, simbolo della resistenza curda
contro l’Isis, un gruppo di attiviste di varie nazionalità ha attraversato la Grecia, i Balcani
e i paesi dell’est Europa, con l’intento di mappare e mettere in rete le donne, i gruppi e le
loro pratiche di resistenza femminista nei diversi territori.
Convinte della necessità di scambiare idee e di far circolare più possibile i pensieri e le
pratiche elaborate dalle donne nelle loro lotte e resistenze, andando oltre i confini nazionali, negli scorsi mesi è nata dal basso una coordinamenta organizzatrice composta da
singole attiviste e collettivi femministi che le accoglierà durante i tre giorni nella capitale. Il
programma prevede la visita a sportelli e centri antiviolenza romani e una cena di accoglienza, giovedì 10 settembre, presso la Casa delle donne Lucha y Siesta (via Lucio
Sestio 10), in cui sarà presentata la carovana femminista e il suo percorso ad oggi e si
parlerà degli spazi auto-organizzati delle donne.
Venerdì 11 il gruppo della carovana e le organizzatrici della coordinamenta romana si uniranno alla Marcia delle donne e degli uomini e scalze — che partirà alle 18 dal Centro
Baobab di via Cupa — per denunciare l’ingiustizia delle politiche migratorie europee e globali e, in particolar modo, la violenza agita sui corpi delle donne migranti prima, durante
e dopo i loro percorsi di fuga.
Il gruppo poi si sposterà per una cena sociale presso il Centro Donna L.I.S.A. (Via Rosina
Anselmi 41), dove il tema sarà la salute sessuale e riproduttiva delle donne e le lotte femministe per difenderne i diritti. Infine, sabato 12 è prevista la presentazione dell’ultimo libro
di Assunta Signorelli “Praticare la differenza: donne, psichiatria e potere”, alla quale intervengono Bia Sarasini, Maria Grazia Giannichedda e Barbara Bonomi Romagnoli.
L’evento si svolgerà alla Casa Internazionale delle Donne (via della Lungara 19) e sarà
seguito da un apericena con festa di saluto.
Gli eventi inseriti nel programma sono pensati come occasioni aperte a tutte e a tutti,
nell’ottica di promuovere una conoscenza e un dialogo tra attiviste della Carovana e gruppi
e reti presenti sul territorio romano e laziale impegnati nel contrasto al sessismo, al razzismo e all’omo-transfobia.
Coordinamento promotrice:
Cooperativa Sociale Be Free, Cagne Sciolte, Casa Internazionale Delle Donne, Centrodonna L.I.S.A., Casa delle donne Lucha y Siesta, Rivista Noidonne
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
Del 9/09/2015, pag. 1-28
La Chiesa democratica
CHIARA SARACENO
LA RIFORMA del processo di annullamento del matrimonio religioso presentata dal Papa
ieri rappresenta una forte semplificazione e democratizzazione. L’eliminazione della
doppia sentenza conforme riduce i passaggi.
E ACCORCIA notevolmente i tempi. Nella stessa direzione va anche l’estensione della
facoltà giudicante a tutti i vescovi diocesani, perché riduce le code, quindi i tempi d’attesa.
In più, e forse più importante, rende più facile ai fedeli, specie a quelli in condizione più
modesta di accedere al giudizio, senza doversi sottoporre a viaggi costosi e per molti
assolutamente impossibili. Si tratta di un allargamento democratico, dell’instaurazione di
una giustizia di prossimità, analoga a quella introdotta, per ora solo eccezionalmente in
occasione del Giubileo della misericordia, per l’assoluzione dal peccato (per la Chiesa) di
aborto, con l’estensione di questa facoltà a tutti i sacerdoti, e non solo ad ecclesiastici
specializzati. Se poi il processo diverrà gratuito per tutti, come chiede il Papa, il processo
di democratizzazione sarà più completo, eliminando le distinzioni tra chi può permettersi
gli oneri finanziari del processo e chi non può, o deve chiedere il gratuito patrocinio
dimostrando di non avere mezzi. Come scrive il Papa nella lettera Motu proprio che
presenta la riforma, in una materia che attiene alla salvezza delle anime, la Chiesa deve
essere generosa e manifestare l’amore gratuito di Cristo. Un atteggiamento che
sembrerebbe ovvio, ma evidentemente non lo è stato per molto tempo.
Come nel caso della democratizzazione dell’accesso al perdono per l’aborto, anche
questa riforma lascia intatta la dottrina e il potere ultimo della Chiesa, tramite i suoi
rappresentanti, di decidere su ragioni e torti. È sempre la Chiesa a decidere se un
matrimonio può cessare, e solo perché «non c’è mai stato veramente», anche se ci sono
figli. Non sono gli interessati a poter dire che il loro matrimonio, contratto in buona
coscienza, ha perso nel tempo la sua validità. Va ricordato, per altro, che già da tempo
c’era stata sia una accelerazione delle procedure (due anni in media, rispetto agli oltre tre
richiesti per ottenere il divorzio civile prima della recente legge sul divorzio breve), sia
l’estensione di fatto delle cause di nullità (dipendenza eccessiva dalla madre, propensione
congenita a dire bugie, ecc.) e un ricorso abbastanza estensivo alla causa di nullità per
mancanza di consapevolezza di che cosa sia il matrimonio religioso e il connesso
sacramento. Proprio una maggiore attenzione per questa mancanza al fine di favorire le
richieste di annullamento è stata suggerita, nel Sinodo straordinario sulla famiglia dello
scorso anno, anche da quei prelati che più si oppongono alla ammissione ai sacramenti
dei divorziati risposati. Per questo complesso di ragioni in molti casi era diventato, in Italia,
più veloce ottenere un annullamento di un divorzio, per chi ne aveva i mezzi e le
conoscenze adeguate, con non pochi vantaggi, non tanto dal punto di vista della salvezza
dell’anima, quanto da quello finanziario. Un annullamento, comportando anche quello degli
effetti civili del matrimonio, non comporta, infatti, alcun obbligo finanziario tra gli ex coniugi.
Questo duplice vantaggio specificamente italiano rimane anche dopo l’approvazione del
divorzio breve e viene, se possibile, rafforzato dalla riforma dell’annullamento. Non solo,
infatti, ci si aspetta che la riforma riduca i tempi di attesa per un annullamento a uno-due
mesi, a fronte dei sei mesi-un anno richiesti formalmente dal divorzio breve (e dei costi di
quest’ultimo) che continua a rimanere un percorso a due stadi: prima la separazione, poi il
divorzio. Ma soprattutto, l’annullamento di un matrimonio concordatario, anche se basato
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su motivazioni diverse da quelle, molto stringenti, per cui è possibile annullare un
matrimonio (solo) civile, ha anche effetti civili. Ovvero, in Italia, le norme e i criteri della
Chiesa Cattolica prevalgono su quelli dello Stato, che dovrà accettare l’annullamento civile
di un matrimonio perché uno dei due, o entrambi, non avevano ben capito che cosa
comporta il sacramento religioso, o perché uno dei due era troppo “mammone”. A chi oggi
non è sicuro che un suo imminente matrimonio sia per sempre, potrebbe cinicamente
convenire su un matrimonio concordatario invece che solo civile. A meno che non si
riformi, finalmente, il concordato, su questo come su altri punti.
Del 9/09/2015, pag. 19
Strasburgo: “L’Italia dica sì alle unioni gay”
ma al Senato è scontro
L’Europarlamento ammonisce 9 paesi sui diritti civili Nuova lite DemNcd. Renzi: voto entro il 15 ottobre
GIUSEPPE ALBERTO FALCI
Un ulteriore avviso ad accelerare sulle unioni civili ieri è arrivato dal Parlamento europeo.
Mentre a Palazzo Madama entra nel vivo l’esame del disegno di legge Cirinnà, da
Bruxelles si chiede a gran voce all’Italia e a nove stati membri «di considerare la possibilità
di offrire alle coppie gay istituzioni giuridiche come la coabitazione, le unioni di fatto
registrate e il matrimonio». Va ricordato che soltanto due mesi fa la corte dei diritti
dell’uomo di Strasburgo aveva già condannato l’Italia per la violazione del diritto al rispetto
della vita privata e familiare di tre coppie omosessuali. Il monito di ieri, giunto da Bruxelles,
fa parte di un rapporto ampio sulla situazione dei diritti fondamentali approvato dal
Parlamento Ue. In particolare, la richiesta di riconoscere i matrimoni gay è inserita in un
paragrafo, il numero 86. Il plenum chiede alla Commissione Ue di «presentare una
proposta di normativa ambiziosa che garantisca il riconoscimento mutuo delle unioni e
matrimoni registrati in altri paesi» in modo da «ridurre gli ostacoli amministrativi e giuridici
discriminatori che devono affrontare i cittadini» per esercitare il loro diritto alla libera
circolazione. Ma il richiamo dell’Europa non è vincolante. Esprime semplicemente,
spiegano fonti parlamentari, «l’orientamento politico». Intanto in Italia riprendono i lavori in
commissione giustizia, dove si esaminano le “unioni civili”. Lo scenario non muta, però. Se
il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova accoglie positivamente il rapporto di
Bruxelles, «il Parlamento Ue non impone nulla, invita a muoversi», Roberto Formigoni
(Ncd)cinguetta «si alzi un sonoro coro: Ue prrrrr». Le distanze appaiono ancora siderali.
Tra maggioranza e opposizione. Ma anche all’interno della stessa maggioranza. Dove lo
scontro continua ad imperare tra il Pd e gli ultraconservatori di Area Popolare. A nulla,
dunque, è valso il monito di Bruxelles. «Se ne infischiano », ironizza un parlamentare dem
in Transatlantico. L’iter parlamentare procede a rilento. Nella giornata di ieri la
commissione, con una maggioranza variabile (Pd-Misto-M5s), respinge dieci
emendamenti dei centristi smaltendendone in totale una cinquantina. Carlo Giovanardi,
senatori di Ap, accusa i dem che «ci siamo trovati davanti un muro ». Dura la replica di
Monica Cirinnà, relatrice al testo sulle unioni civili: «Da parte del Pd c’è stata apertura, ma
ci siamo trovati di fronte a un muro. L’emendamento permissivo che definisce le Unioni
civili tra le persone delle stesso sesso una formazione sociale specifica è stato un segnale
di apertura da parte nostra che non è stato recepito». I temi più divisivi sono: il nuovo
istituto giuridico della “specifica formazione sociale”, la reversibilità delle pensioni anche
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per le coppie omosessuali e la step child adoption. Ma l’esecutivo non intende cedere
all’ostruzionismo di Ncd. E a sera, dall’assemblea dei senatori del Pd, Matteo Renzi
afferma che «vorrei chiudere la riforma costituzionale prima del 15 ottobre così da
permettere di chiudere anche la questione delle unioni civili per quella data». La road map
è segnata. Subito dopo le riforme il testo dovrà approdare a Palazzo Madama. Per essere
approvato entro la sessione di bilancio. Anche perché, spiegano, «essendo una legge di
spesa dovrà essere discussa nella legge di stabilità».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 9/09/2015, pag. 16
«L’acqua, diritto umano»
Strasburgo approva
La Commissione Junker deve agire per riconoscere l'acqua e i servizi igienici come un
diritto umano. Lo ha chiesto ieri il Parlamento di Strasburgo approvando per 363 voti
favorevoli, 96 contrari e 261 astensioni il rapporto di Lynn Boylan, eurodeputata irlandese
eletta nelle liste del Sinn Féin per il gruppo di Gue con il quale si recepiscono le istanze
della prima iniziativa dei cittadini europei, Right2water. Quasi 2 milioni di cittadini hanno
sottoscritto questa prima propostadi iniziativa popolare europea (sarebbero bastate un
milione di firme). Boylan ha chiesto anche di tenere l’acqua fuori dalle sugli accordi
commerciali con gli Stati Uniti (il TTIP).
Del 9/09/2015, pag. 16
Israele e Turchia i padroni dei fiumi
Il conflitto mediorientale ha anche una spiegazione che ha a che fare con
l’accaparramento delle acque. Il primo a dirlo in questi termini, così chiaro, è stato nel
1990 l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali. Ma le popolazioni
dell’area conoscono bene, sulla loro pelle, questa verità. Del resto già nella Conferenza di
Parigi del 1919 si parlava dell’accesso alle fonti come di uno dei principali problemi da
risolvere in Palestina. Il problema è stato risolto a tappe dai governanti israeliani. Con la
guerra dei Sei Giorni nel 1967 Israele si è garantita l’esclusiva per attingere alle acque del
fiume Giordano, ora trasformato in un rigagnolo anche nel sito di Betania, dove San
Giovanni avrebbe battezzato il Nazzareno, un luogo santo per alcune confessioni
cattoliche di rito ortodosso ma anche per gruppi neo-esseni. Dal fiume Giordano Israele
attinge il 60% delle sue acque, circa un miliardo di metri cubi l’anno, di cui l’80% va a
cittadini israeliani e coloni e il 20% alla popolazione palestinese. Anche lo storico
contenzioso sull’occupazione delle Alture del Golan cela la questione idrica: la possibilità
per la Siria di attingere acqua dal Giordano e dal fiume Yarmouk. Israele ha sempre sete
anche perché ha un sistema agricolo fiorente, al 65% impegnato nell’export. Anche la
guerra con il Libano del 2006, seppure non vittoriosa - Israele ha dovuto ritirare le truppe
oltre confine - è servita a conquistarsi le acque del fiume Litani e le terre della zona di
confine amministrate da Hezbollah sono diventate brulle e semi-disabitate. Israele ha poi
un accordo dal 2006 con la Turchia per lo stoccaggio ad Ashkelon di 50 milioni di metri
cubi di acqua in due decadi.
Del 9/09/2015, pag. 16
La grande sete dell’Iran
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C’è un via vai diplomatico eccezionale in questi giorni a Teheran. L’accordo di Vienna non
è ancora stato ratificato ufficialmente dal Congresso degli Stati Uniti ma da quando si sa
che il presidente Obama ha i numeri per farlo approvare — è passata solo una settimana
– è partita la corsa europea a chi fa prima a ristabilire fruttuose joint-venture.
Tra i primi ad arrivare questa settimana nella capitale iraniana, i tedeschi del BadenWürttemberg, il land di Stoccarda, interessati a riavviare fin da subito le relazioni industriali. Lunedì scorso, in contemporanea con la delegazione tedesca, è arrivato anche il
ministro del Turismo spagnolo per dare il via a un intenso programma di scambi che non si
limita alla costruzione di hotel ma riguarda anche i trasporti, l’industria tessile e, naturalmente, il settore energetico. Sbaglierebbe però chi pensasse che il petrolio sia l’unico o il
principale dei settori su cui gli europei e gli statunitensi sono intenti a intessere la nuova
trama dei rapporti economici con l’Iran. Il veicolo delle nuove relazioni passa dal cosiddetto “oro blu”, l’acqua. L’Iran sta cercando faticosamente di uscire da una crisi idrica di
proporzioni epocali, che ha avuto il suo picco due anni fa. Ancora oggi gli esperti del World
Resource Institute, nella mappa delle riserve naturali proiettata su uno scenario del 2040,
preparata in vista del summit mondiale Cop21 (a Parigi il prossimo dicembre), inseriscono
l’Iran tra i paesi con un più alto rischio di «water stress».
La colpa non è soltanto dei cambiamenti climatici, che pure incidono fortemente rispetto
a un innalzamento delle temperature al suolo, che d’estate superano i 50 gradi, con conseguente inaridimento dei già scarsi corsi d’acqua e vertiginosa evaporazione dei laghi. Il
problema principale in Iran ha a che vedere con il modello di consumo e con la mancanza
di interventi per rigenerare le riserve idriche, ormai ridotte al 40 per cento.
Da dopo la rivoluzione khomeinista del 1979 il paese ha vissuto un’economia di guerra
permanente, con un forte impulso nazionalistico a potenziare la produzione “autarchica” in
agricoltura. Il risultato è stato un dilapidamento delle falde freatiche, acque sotterranee,
potabili, spesso estratte attraverso un prelievo incontrollato di pozzi — non autorizzati —
che interessa il 92% dei giacimenti sotterranei. Poi c’è il fattore demografico: la popolazione è raddoppiata negli ultimi quarant’anni. Non solo, si è andata urbanizzando. Abbandonando le pianure semi-desertiche del Sud e le montagne centrali, in città la gente ha
acquisito modelli di consumo meno parsimoniosi – a livello globale, del resto, l’uso
dell’acqua è cresciuto del doppio rispetto al tasso di crescita della popolazione nell’ultimo
secolo — senza che, al contempo, lo Stato degli ayatollah abbia investito in impianti nuovi:
come una rete fognaria efficiente e un sistema di depurazione delle acque reflue, mentre
mancano quasi del tutto bacini artificiali e impianti di desalinizzazione.
In più, lo sviluppo industriale della Repubblica, procedendo a tappe forzate, incentrato
com’è sullo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, comporta un alto utilizzo di acqua. Due
sono i paesi con il record di sfruttamento delle riserve d’acqua del sottosuolo: l’Egitto (al
46%) e l’Iran (al 97%) ma l’Egitto ha il Nilo, uno dei fiumi più grandi del mondo, l’Iran
invece non ha bacini di rilievo. Senza contare che nel 2012 il governo Ahmedinejad ha
peggiorato lo stato delle cose, liberalizzando di fatto i prelievi illegali e abbandonando la
politica di controllo delle nascite in vigore dal 1989 con l’obiettivo di portare la popolazione
a 150 milioni di individui. Nel 2011, sull’onda delle rivolte arabe, quando sono scoppiate
proteste nel distretto di Tabriz verso supposti accaparramenti d’acqua ad esclusivo vantaggio dei pasdaran e delle èlite politiche — proteste subito represse -, Issa Kalantari, ex
ministro dell’Agricoltura sotto i governi moderati di Rafsandjani e Khatami, ha iniziato
a tuonare sul «genocidio ecologico di un popolo», sostenendo — da biochimico laureato
nello Iowa e specializzato in Nebraska – che nell’arco di un trentennio l’Iran si trasformerà
in un territorio desertico e inabitabile. E Teheran, megalopoli da 13 milioni di abitanti, in
una città fantasma. Per essere ancora più apocalittico, Kalantari è arrivato a dire, nel
2013, che la catastrofe ecologica annunciata era da considerare più pericolosa di Israele
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e Stati Uniti messi insieme. Kalantari è presidente dell’oasi naturalistica di Urmia, fino
a qualche decennio fa un paradiso ricco di fenicotteri, pellicani e cicogne, oltre che culla
della religione zorohastriana, un parco esibito dagli Shah della dinastia Palhavi come giardino privato per dignitari, principi e ospiti del jet-set internazionale.
Oggi il lago di Urmia è diventato, plasticamente, l’emblema del disastro ambientale: il lago
si è prosciugato, ridotto del 60 per cento rispetto alle sue dimensioni originarie, è un paesaggio lunare, per metà un deserto di sale. Kalantari è tornato pochi giorni fa a sferzare il
governo di Hassan Rohani. Rohani è stato il suo capo nel Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, finché Ahmedinejad non l’ha estromesso, e il Consiglio è una sorta di
super collegio di studi strategici alle dipendenze della Guida suprema.
Kalantari stimola il suo ex capo, tornato al potere da un anno più forte di prima, perché
faccia in fretta a ripristinare uno standard accettabile di efficienza idrica. E lunedì scorso il
potente ministro dell’Energia Hamid Chitchian ha annunciato un piano quinquennale di
interventi, che riguarda anche la costruzione di una grande diga a Khorramabad, sostenendo che negli ultimi due anni sono state già recuperate riserve idriche nazionali per
750milioni di metri cubi di acqua attraverso la chiusura di oltre 8 mila pozzi abusivi.
Al di là delle dichiarazioni trionfalistiche di regime, l’aiuto più consistente in questa ecobattaglia verrà dal riavvio della cooperazione. Alla fine di agosto — durante la World Water
Week organizzata dall’Ifad a Stoccolma con 3 mila esperti internazionali — la Fao ha lanciato un progetto quadriennale in collaborazione con il governo olandese per dotare il territorio iraniano di un sistema tecnologicamente avanzato di monitoraggio satellitare delle
acque di profondità e degli sprechi, con una banca dati che dovrebbe essere operativa già
a ottobre dell’anno prossimo. Non deve stupire che l’Iran abbia accettato un telerilevamento satellitare del sottosuolo. A fine agosto Teheran — conferma l’agenzia ufficiale Irna
— ha firmato un protocollo per una joint-venture euro-iraniana che prevede in due anni lo
sviluppo di una rete di telerilevamento attraverso sensori aerei, palloni aerostatici
e satelliti. Dopo il lancio del suo quarto satellite Fajr (Alba) nel febbraio scorso, gli ayatollah hanno intenzione di potenziare questo settore e non disdegnano, finito l’embargo, il
contributo tecnologico di aziende occidentali, evidentemente anche per altri usi. Non
sfugge di certo al Consiglio supremo per la sicurezza nazionale — di cui l’ambientalista
Kalantari è membro — il valore strategico di queste tecnologie per controllare le frontiere
esterne, per la ricerca di nuovi giacimenti di idrocarburi sia off-shore che terrestri e, non
ultimo, per il controllo della popolazione.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 09/09/15, pag. 6
Il numero chiuso divide le università
La selezione è necessaria oppure cancella il diritto al sapere? Proteste
degli studenti ieri al ministero dell’Istruzione
Sulle scale del ministero dell’Istruzione, in viale Trastevere a Roma, le proteste erano
iniziate già nella notte tra lunedì e martedì, quando gli studenti hanno srotolato uno
striscione con su scritto “Vogliamo un’università senza barriere, no al numero chiuso”,
nascosti dietro un muro di cartone con lo slogan “Il numero chiuso non è salutare”.
Puntuali come ogni anno, le azioni di protesta sono andate avanti per tutta la mattinata di
ieri di fronte ai principali poli universitari del Paese, dove in contemporanea, da Napoli a
Milano fino a Trieste, si sono tenuti i test d’accesso per il corso di laurea in Medicina e
Odontoiatria. Cento minuti per rispondere a 60 quiz a crocette: in media passerà uno
studente su sei. In tutta Italia, gli aspiranti a una carriera da medico o odontoiatra (test
unico) sono stati 57.041, i posti disponibili però sono 9.530 per Medicina e 792 per
Odontoiatria. È andata meglio agli aspiranti architetti: ieri a sostenere i test erano in
10.994 per 7.802 posti.
Per le associazioni studentesche Link-Coordinamento Universitario, Unione degli Studenti
e Rete della Conoscenza, che hanno coordinato le proteste in tutti gli atenei d’Italia, “il
numero chiuso non è la soluzione e non funziona, serve invece investire sull’università,
con spazi e strutture”. A spiegarlo è stato Iacopo Dioniso dell’Udu: “Se la coperta è corta
non bisogna tagliare le gambe al paziente, ma allungarla. Siamo il Paese con meno
laureati in Ue e blocchiamo l’accesso, è inconcepibile”. Non si è fatta attendere la replica
del rettore della Sapienza, Eugenio Gaudio: “Il sistema migliore è l’accesso programmato,
che consente di avere anche al primo anno un numero adeguato di studenti in rapporto
agli spazi dell’università e dei docenti. Con la riforma del numero chiuso il settore medico
ha avuto più benefici – ha spiegato Guadio – si laurea oltre il 90% degli studenti e il 96%
entro tre anni trova lavoro”.
Secondo una stima del sito Skuola.net, i costi a carico degli studenti per le prove di
selezione porteranno nelle casse delle università circa 3 milioni di euro, con un crescita del
5% rispetto al 2014. “Nonostante la graduatoria nazionale, che permette a uno studente di
partecipare all’assegnazione dei posti virtualmente in ogni ateneo pubblico italiano, i test di
ingresso continuano a costare in maniera diversa di città in città – ha spiegato Daniele
Grassucci, responsabile del sito – Non si capisce perché in alcuni atenei il test costi 100
euro e in altri poco più di 30. Viene da pensare che sia un’occasione per lucrare sugli
studenti”. Il Fatto ha proseguito il dibattito tra favorevoli e contrari con i pareri di Riccardo
Pugliesi, ricercatore dell’Università di Pavia, e Massimo Marrelli, docente emerito di
Finanza alla Federico II di Napoli.
Del 9/09/2015, pag. 20
Il Veneto fa ricorso contro la Buona scuola
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Zaia: “Incostituzionale, cancella il ruolo della Regione”. E anche la
Lombardia valuta se rivolgersi alla Consulta
IRENE MARIA SCALISE
ROMA.
Guai in vista per la Buona scuola. Il Veneto ha ieri presentato ricorso alla Consulta contro
la riforma definendola “incostituzionale”. Secondo il governatore del Zaia il ricorso sarebbe
stato necessario perché la Buona scuola pesta i piedi all’autonomia amministrativa della
regione. E così, dopo le proteste dei docenti su e giù per l’Italia, si prospettano nuovi
problemi anche a livello istituzionale. «La cosiddetta riforma della buona scuola
marginalizza, anzi cancella il ruolo della Regione — ha dichiarato Zaia — vanificandone
quei compiti programmatori e di gestione che la Costituzione le ha affidato». E quindi? La
risposta può arrivare solo dal parere della Consulta. «Chiediamo — ha ribadito
governatore — ai giudici di fare chiarezza nel pasticciato provvedimento perché non
accettiamo il ruolo di spettatori inerti dell’affossamento di sistemi collaudati di istruzione e
formazione». Il Veneto non è solo nella protesta. Anche la Lombardia ha avuto da ridire.
Ha infatti dichiarato l’assessore all’Istruzione, formazione e lavoro Valentina Aprea: «La
Lombardia sta valutando un proprio eventuale ricorso; in questo momento, la questione è
all’attenzione dei nostri uffici legislativi. È da tenere presente che i margini sono piuttosto
stretti considerando che la legge della Buona scuola non va a toccare in maniera troppo
evidente le competenze regionali». E sempre ieri il Movimento 5 ha lanciato un appello,
agli altri presidenti regionali, perché ricorrano alla Corte costituzionale contro quella che
definiscono una «schiforma con profili di incostituzionalità».
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 9/09/2015, pag. 1-38
Applausi per “Sangue del mio sangue”interpretato dai figli Pier Giorgio
e Elena, e dal fratello Alberto.Nel cast Roberto Herlitzka, Alba
Rohrwacher e Filippo Timi
Ritratto di famiglia
CONCITA DE GREGORIO
VENEZIA
ANIMA gemella, sangue del mio sangue. Fratello. Come potrò perdonarmi la tua assenza,
vivere in sua presenza. Cos’è il tempo, se non serve e non basta a guarire il vizio
dell’infanzia? Se non chiude le ferite e ti mura vivo. Di quanti abissi parla, e quanto in
profondità, questo potente imperfetto magnifico film di Marco Bellocchio, maestro di visioni
capaci da sole di dire quel che la parola non può. Un piccolo mondo, il paese natale. Otto
minuti di applausi e standing ovation per un piccolo film costato l’essenziale e fatto di pezzi
di storie girate dagli allievi del suo laboratorio di cinema a Bobbio. Come in I pugni in tasca
, la sala da pranzo è quella, vera, dei ragazzi Bellocchio bambini. Realizzato in tempi
diversi, Sangue del mio sangue ,
eppure compatto. Tutto in uno spazio e un luogo dell’anima che poco a poco si schiude e
la famiglia intera – quella di sangue e quella di lavoro – arriva in sostegno, con amore e
dedizione, ad aprire la scatola nera dei segreti dell’anima. Il doppio, il legame di sangue: di
questo parla e non è certo un film di vampiri anche se un grottesco vampiro c’è.
L’immarcescibile conte Basta: Roberto Herlitzka cupo come l’odio quando è freddo. Si
chiama Basta, il conte. Può anche finire, questo tempo. Deve. Ed è un vampiro non di
sangue ma di fiducia nell’umanità: incarna il potere eterno di quella classe politica che ha
dilapidato e insieme fatto funzionare l’Italia per mezzo secolo. Il potere democristiano
corrotto ma impeccabile, sposato alla chiesa, padrone di anime e di vite.
La vicenda comincia e finisce nel 600. Quando una suora di clausura di perfetta bellezza
(Lidiya Liberman) seduce il prete del suo convento, per questo indotto al suicidio, e poi il
fratello gemello di lui, uomo d’armi, Federico Mai. Basta, Mai: i nomi sono ordini dati al
tempo. Per questa colpa suor Benedetta viene sottoposta dal tribunale della chiesa a una
serie di prove d’inaudita ferocia per determinare se abbia fatto un patto col diavolo e se
dunque, essendo lei demonio, si possa scagionare il prete caduto in tentazione. Il gemello
del prete suicida (Pier Giorgio Bellocchio, finalmente impeccabile in una parte perfetta per
lui) si chiama Federico: bussa alla porta del convento per chiedere degna sepoltura al
fratello. Vuole uccidere Benedetta ma lei seduce anche lui. Viene dunque murata viva,
come la monaca di Monza. Tutto è doppio, nel racconto. Due gemelli, due mazzi di chiavi
in fondo al fiume, due donne identiche di diverse età (Alba Rohrwacher, la giovane,
strepitosa) che, vergini, si lasciano sedurre dal soldato. Tutto si specchia nel suo riflesso.
Anche Marco Bellocchio aveva un fratello gemello. Aveva cercato di raccontare questa
storia in Gli occhi, la bocca senza riuscirci davvero. La lascia libera qui. Racconta: «Mi
hanno chiamato un giorno per dirmi: c’è stato un incidente. Ero a Roma. Sono partito, e
già in viaggio sapevo. Suicidio. I gemelli sentono. Però ancora oggi non riesco a spiegarmi
perché, invece, non ho sentito. Intendo prima, quando ero in tempo. Lui era molto diverso
da me: era biondo, malinconico. Ma era il mio gemello. Avrei dovuto sapere, sentire.
Invece». Bobbio, il paese della loro infanzia. Il film, un esorcismo. «Credo di aver chiuso i
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miei conti con quel luogo, sì». Per farlo è arrivata tutta la famiglia, quella vera e l’altra. Ci
sono Pier Giorgio ed Elena: i suoi figli. Elena nella parte della ragazza la cui bellezza
uccide i vampiri. C’è suo fratello Alberto, nella vita sindacalista, nella parte di Federico Mai
diventato cardinale da vecchio. Ci sono i suoi attori di sempre: Herlitzka, Rohrwacher,
Filippo Timi in un cameo in cui balbetta come gli accade nella vita, Toni Bertorelli. C’è
Daniele Ciprì a curare la fotografia e Francesca Calvelli, madre di Elena, al montaggio.
Poteva riuscire, un esorcismo, solo così.
Però poi il cinema è cinema, non solo un fatto personale. Le immagini e i fantasmi sono
spettacolo per chi guarda, parlano di sé. È straordinaria la parta secentesca del film, ed è
grottesca e per così dire politica quella che dice del presente. Il “vampirismo isolazionista”
che ispira il conte Basta, il dottor Quantunque e gli accoliti della setta che fa divieto di
usare la Rete (No, Internet NO!) è già un movimento politico. Il conte si commuove
cantando Torna a Surriento , intona canti alpini. L’ispettore che arriva da Bologna con il
compratore russo è un truffatore come nell’ Ispettore generale di Gogol. Il conte lo
corrompe con denaro da mettere in conto alla Fondazione: non si spendono di tasca
propria, la politica insegna. Però poi le sirene della Finanza arrivano davvero. E nel
convento di Bobbio dove il conte-vampiro vive sparito al mondo da otto anni torna, in
epilogo, la conclusione dell’antica storia. Che poi è il frammento di cinema da cui tutto è
nato. Il vecchio cardinale che fa smurare la suora.
E non è vero che il tempo si può fermare, basta non usare Internet. Il tempo non si ferma.
Caso mai torna su se stesso. Racconta del coraggio e della paura di una volta. Nella
carne di suor Benedetta c’è tutto il coraggio dell’amore che muove il mondo e lo salva. La
sola potenza della sua bellezza annienta il male, fa salva la speranza.
Del 9/09/2015, pag. 10
A Mantova fra finzione e realtà
Festivaletteratura 2015. Si inaugura oggi, per chiudersi domenica, la XIX
edizione del Festival ospitato nella città dei Gonzaga. Un percorso
ideale tra gli appuntamenti con gli scrittori stranieri; ma gli incontri
previsti sono circa trecento
Lungi dall’essere una pratica postmoderna, la lettura ad alta voce di fronte a un pubblico
più o meno allargato è una consuetudine che già Cervantes dava per scontata quando sul
frontespizio del LXVI capitolo del Chisciotte scriveva: «Che tratta di ciò che vedrà chi lo
leggerà, o che udrà chi lo sentirà leggere». E del resto, anche nella Francia del XVII
secolo si moltiplicarono le «compagnies» che si riunivano per ascoltare la lettura di un
libro, mentre le letture salottiere impazzavano, e se da un lato Molière diede di questo
esercizio sociale raffinato e non immune da vanità un ritratto parodistico nelle Femmes
savantes, è anche vero che nelle veglie del mondo contadino di Ancien Régime la messa
in comune di un testo scritto era spesso il tramite per la alfabetizzazione delle campagne.
Certo, da quando si è inaugurata la cultura del narcisismo, gli intenti che muovono gli scrittori a declamare e discutere pubblicamente le loro opere hanno subìto sensibili cambiamenti, ma sentire il suono della propria voce estendersi oltre i confini del proprio corpo per
toccare quello altrui è pericolosamente più attraente che non interrogarsi in silenzio
sull’effetto provocato dal proprio libro; non a caso, il proposito che Jonathan Franzen sintetizzò nel titolo della sua raccolta di saggi, Come stare soli, fu da lui stesso vanificato
ancora prima di finire il libro, quando già accettava inviti in mezzo mondo per leggerne
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e pubblicizzarne le pagine più apertamente contraddittorie rispetto agli intenti dichiarati.
E anche la sua preoccupazione sui destini della letteratura nel contesto di una vita «sempre più strutturata in modo da evitare quei conflitti su cui la narrativa… ha sempre prosperato» si rivelano in realtà infondati.
Da Le Breton a Dubus III
Al Festivaletteratura di Mantova di quest’anno, che sarà forse ricordato come l’ultimo
prima della grande fagocitazione della Rizzoli Libri da parte della Mondadori, gli incontri
interessanti sono tanti quanti se ne contavano nelle edizioni migliori dei primi anni, e non
tutti obbediscono all’imperativo di escludere ciò che non si risolve in spensierati
intrattenimenti. Volendo accedere al festival da una porta molto laterale, si potrebbe – per
esempio – partire dall’incontro con l’antropologo David Le Breton, autore di un libro interessante titolato Esperienze del dolore (Cortina 2014), dove tutto lo spettro delle umane
sofferenze, anche quelle associate al piacere o alla realizazione di sé, vengono analizzate,
tenendo in mente che il dolore è una trasformazione al tempo stesso somatica e semantica, e per essere tollerabile esige di trovare un significato, di associarsi almeno in parte
a una sorta di metafisica della giustizia. Un’altra porta periferica potrebbe essere aperta
sulla rassegna cinematografica «Pagine nascoste», che sabato alle 14.30, prevede – tra
gli altrui – un film di Nancy Kates su Susan Sontag, presentato da Allan Gurganus. Una
volta imboccata, invece, la strada maestra, il primo incontro da non perdere sarà con lo
scrittore americano André Dubus III (giovedì, h. 17.30 in lingua inglese alla Tenda Sordello, e venerdì alle 11.30 alla Chiesa di Santa Paola, intervistato da Fabio Geda) un
autore la cui biografia è ricostruibile dai racconti che egli stesso ne ha fatto in I pugni nella
testa (Nutrimenti 2010), serbatoio di notizie sulla sua vita e insieme malinconico e passionale romanzo di formazione tipicamente americano, dove ci si sposta di continuo, si divorzia, si beve molto, si fanno mille mestieri.
Più o meno una volta l’anno il padre di André, anch’egli scrittore, cambiava college e imponeva alla famiglia nuovi traslochi in diverse cittadine di provincia, dove ogni volta i ragazzi
si trovavano a subire la violenta diffidenza dei nuovi compagni. Poi venne l’incontro del
padre con una allieva, l’abbandono della famiglia, i rimedi per provvedere ai soldi, persino
vendendo il proprio sangue, mentre l’approssimarsi alla povertà si traduceva in spostamenti verso quartieri sempre più desolati, dove il teppismo era la regola, e dove Dubus III
imparò a farsi i muscoli per aprirsi una via verso «la nera speranza». Dopo avere ambientato a San Francisco il suo bestseller, La casa di sabbia e nebbia(Nutrimenti, 2014) Dubus
III è tornato alla provincia americana del New England, nell’area che gli è più familiare, fra
il New Hampshire e il Massachusetts, a nord di Boston e lungo la foce del fiume Merrimack, paesaggi che l’autore americano restituisce cogliendovi le amare ricadute della
desolazione e dell’inquinamento, mentre ritrae le mediocrità di una middle-class incapace,
soprattutto, di trovare le risporse mentali per amare di un sano amore gli altri.
Attesissimo perché assente da dieci anni dalla scena letteraria, tornerà a Mantova Kazuo
Ishiguro, di cui Einaudi sta per pubblicare Il gigante sepolto, una tanto gradevole quanto
sorpredente incursione nel genere fantasy, tra le cui pagine abitano creature minacciose,
paesaggi inospitali, qualche orco sgangherato, elfi invadenti, e su tutto e su tutti incombe il
fiato incantatore di un drago-femmina, che ha convertito in nebbia i ricordi degli uomini.
Ambientato a non molti anni dalla morte di re Artù, il romanzo ha per protagonisti due villici
uniti da un tenace amore coniugale, che si mettono in marcia per raggiungere il villaggio
dove il figlio li attende… se è vero che li attende: non è chiaro, infatti, perché mai il
ragazzo se ne sia andato, forse per un litigio, forse per qualche altra dimenticata ragione
che la nebbia generata dall’alito del drago ha reso impenetrabile.
Nel cammino i due contadini incontreranno più o meno valenti cavalieri, monaci infidi, un
misterioso barcaiolo, e quando il drago verrà ucciso e la nebbia si ritirerà dai ricordi, si
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ritroveranno a interrogarsi sul guadagno che ne hanno derivato, perché non è detto che il
lucido possesso della propria memoria non illumini verità che si preferiva restassero
sepolte.
Per Kazuo Ishiguro è stato organizzato un primo incontro in lingua originale (venerdì alle
h. 21 alla casa del Mantegna) dove parlerà delle sue esperienze di intrecci fra letteratura
e cinema, e un secondo appuntamento sabato, quando verrà intervistato da Michela Murgia a Palazzo San Sebastiano (h. 11.15).
De Kerangal e Soyinka
In contemporanea, da un’altra parte della città (Basilica Palatina di Santa Barbara, h. 11 di
sabato) una rivelazione della narrativa francese: Maylis de Kerangal (che sarà anche intervistata da Gabriele Romagnoli domenica alle 10.15), già molto lodata per la perizia esibita
nel suo penultimo romanzo,Nascita di un ponte (Feltrinelli, 2013) – la cui costruzione
aveva implicato un notevole sforzo di informazione prima e di immedesimazione poi nei
tecnicismi della progettazione ingegneristica; il suo talento è stato confermato dall’ultimo
romanzo Riparare i viventi (Feltrinelli, 2015), che racconta la parabola di una drammatica
giornata, cominciata con un incidente automobilistico la cui vittima, un ragazzo di ritorno
da una sessione di surf, arriva in ospedale in coma. Da quel momento sarà tutta una corsa
verso le procedure necessarie all’espianto e alla donazione degli organi, cui i genitori
acconsentono dopo quel travagliato lasso di tempo che è loro necessario per accettare la
morte cerebrale del figlio, apparentemente addormentato nel suo letto di ospedale.
Precisa e al tempo stesso emotivamente fibrillante, la scrittura di Maylis de Kerangal
elegge a protagonista della storia non un singolo personaggio ma una équipe (come già
era accaduto nella stesura del romanzo precedente) perché questo le permette – ha detto
– «di scomporre e rifrangere stati emozionali diversi fra loro e al tempo stesso di atomizzare la mia individualità». Nel pomeriggio di sabato, un grande ambasciatore dei diritti
degli Ogoni, il nigeriano Wole Soyinka, sarà intervistato dal direttore dello Hay-on Way
Festival, Peter Florence (h. 15 convento di Santa Paola, poi alle 19 con Romano Prodi
e Carlo Annese al Palazzo Ducale). Si presenta solenne nella andatura, statuario in tutta
la sua altezza, i capelli e la barba bianchi: un grande saggio che ha speso il suo carisma
per difendere il Mouvement of the Salvation of the Ogoni People, vincitore del Nobel
nel 1986. A Mantova incontrerà, fra gli altri, Noo Saro Wiwa, autrice di Looking for Transwonderland (Granta 2012) e figlia del poeta impiccato dal regime nigeriano per avere lottato contro gli abusi della Shell, che inquinava i territori del Delta del Niger con perdite di
petrolio.
L’ultimo libro di Soyinka si intitola semplicemente Dell’Africa, ma alle sue spalle ha una
produzione teatrale, narrativa, saggistica e poetica molto estesa, tra le cui pagine si legge
il tragitto che porta al cuore dei misteri yoruba passando attraverso Nietzsche e le divinità
frigie. Ha contestato il carattere artificiale e romantico del concetto di «negritudine», che
sembra implicare da parte dei neri la ricerca di un senso di sé, di una identità, come se già
non la possedessero. «La tigre non ha bisogno di pubblicizzare la sua tigrità – ha detto –
per affermarla le basta saltare sulla preda».
Da Cercas a Richard Ford
Tutt’altro temperamento quello dello spagnolo Javier Cercas, di certo tra gli autori più
amati fra quelli presenti a Mantova (due appuntamenti: sabato, h. 18.30 al Teatro Ariston
con Marco Belpoliti, e domenica h. 15 Tenda Sordello), approdato al successo con un
romanzo ormai celebre, Soldati di Salamina (Guanda, 2002) ambientato durante la guerra
civile spagnola, e concentrato sul salvifico potere di uno sguardo, quello che passa tra il
gerarca falangista Rafael Sanchez Mazas, inguattato nel bosco un attimo dopo la fuga
dallo spiazzo destinato alla sua fucilazione, e il giovane miliziano che lo rincorre, poi miracolosamente lo risparmia. Tra i suoi libri migliori, che definisce «romanzi senza finzione»,
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c’è Anatomia di un istante (Guanda 2010) tutto focalizzato sul gesto di Adolfo Suárez che
si rifiutò di obbedire al comando di buttarsi a terra, impartito dai golpisti mentre sparavano
sul Parlamento nel febbraio del 1981, e l’ultimo (appena uscito da Guanda), che ripercorre
la parabola esistenziale di Enric Marco, L’impostore, uno stupefacente bugiardo che per
tre decenni lucrò sulla sua detenzione in un campo nazista, fatto mai avvenuto ma al quale
tutti credettero, tributando la finta vittima di onori, riconoscimenti, incarichi degni di
un eroe. Quella di Mantova sarà anche l’occasione per anticipare il contenuto di un saggio
in cui Cercas spiega cos’è per lui il «punto cieco» di un romanzo, quel luogo della trama
che al tempo stesso presenta la massima opacità e la luce più rischiarante, il foro attraverso cui tutto si rende visibile, ascoltabile, intellegibile, se solo si sa prestare orecchio alla
verità contenuta in ogni finzione. Ultima tappa di questo percorso ideale attraverso i circa
trecento appuntamenti del Festivaletteratura, l’incontro con Richard Ford (domenica,
Palazzo Ducale, h. 15, intervistato da Gabriele Romagnoli), artefice di una figura amatissima della narrativa americana contemporanea, l’agente immobiliare, già giornalista sportivo e romanziere fallito Frank Bascombe, che Ford ha seguito durante tutte le fasi adulte
della sua vita e che approda finalmente alla vecchiaia nell’ultimo titolo, Tutto potrebbe
andare molto peggio (Feltrinelli, 2015).
Diviso in quattro novelle, il libro è tenute insieme dalla presenza sullo sfondo dell’uragano
Sandy, che nel suo devastante tragitto si abbatté – era il 2002 – anche sulle coste del New
Jersey alle quali Bascombe aveva fatto ritorno e tra le cui rovine si aggira nel libro, contemplando la sua vecchia casa, provvidenzialmente venduta, anni prima, a un disgraziato
che ora lo vuole testimone della sua sventura. Paziente, altruista, emblema dell’americano
medio di buoni sentimenti, Bascombe legge per i ciechi, una volta alla settimana va al
Liberty di Newark con un gruppo di veterani a accogliere i reduci dall’Afghanistan
o dall’Iraq; ma il suo spirito critico si abbatte con sarcasmo sulla politica estera degli Stati
Uniti, e non risparmia del resto neppure gli effetti collaterali della propria incombente vecchiaia, rendendocelo ancora più attraente.
Del 9/09/2015, pag. VII RM
Pasticcio Marino sull’Auditorium manca la
firma,rischia il cda vip
GIOVANNA VITALE
PARAFRASANDO Gadda si potrebbe intitolare Quer pasticciaccio brutto dell’Auditorium
l’ultima fatica del sindaco Marino. Costretto a licenziare, ancor prima di averlo “assunto” —
e sempre che il capo di gabinetto Luigi Fucito non riesca a trovare un cavillo cui appigliarsi
— mezzo gotha del bel mondo romano. Dall’ex vicepresidente di Confindustria Aurelio
Regina ad Azzurra Caltagirone, passando per Gianni Letta, Lavinia Biagiotti, Luigi Abete e
Sabina Florio: reclutati nel pieno dell’estate in uno dei board più prestigiosi della capitale:
la Fondazione Musica per Roma. È successo però che dopo la designazione dei 16 nuovi
consiglieri di amministrazione avvenuta ai primi d’agosto da parte dei tre soci fondatori
(Campidoglio, Regione Lazio e Camera di Commercio), il sindaco ha omesso —
dimenticato? — di firmare l’ordinanza di nomina che avrebbe permesso l’insediamento del
nuovo organo di governo dell’Auditorium, essendo il vecchio ormai scaduto a maggio, con
l’approvazione del bilancio consuntivo 2014. Marino è invece partito per le sue vacanze
americane, ignorando che nel frattempo un emendamento inserito nel decreto legislativo
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78 del 2015, convertito in legge il 6 agosto, cancellava la deroga per le fondazioni culturali
e estendeva il tetto di cinque consiglieri a tutti i board (tranne quelli che tutelano siti
Unesco). Musica per Roma compresa. Che ora dovrà falcidiare la lista dei suoi
rappresentanti. Ma il bello, o il brutto, è che se avesse autografato l’ordinanza prima di
prendere il volo per i Caraibi, la figuraccia si sarebbe ( forse) potuta evitare. L’articolo
incriminato, infatti, è entrato in vigore il 15 agosto, con la pubblicazione della legge
125/2015 in Gazzetta Ufficiale. Sarebbe dunque bastato costituire il cda a 16 con 24 ore
d’anticipo per contestarne la regolarità. Cosa che purtroppo l’inquilino del Campidoglio non
ha fatto. Risultato? La principale istituzione culturale del Paese dopo la Scala è acefala.
Senza nessuno in grado di autorizzare non solo gli acquisti, ma pure di pensare alla
programmazione di spettacoli e congressi, che sono poi la ragione sociale dell’Auditorium.
Non è allora un caso che il nuovo ad in pectore, quel José Ramon Dosal Noriega scelto
con una call internazionale e presentato in pompa magna tre mesi orsono, se ne sia
rimasto comodamente a Madrid. In attesa di capire se dovrà continuare a occuparsi di
corride e sponsorizzazioni, come ha sempre fatto, o sbarcare a Roma per prendersi cura
del Parco della Musica. Un pasticcio senza precedenti. Da risolvere in fretta, prima che
uno dei gioielli culturali della capitale e del Paese intero vada irrimediabilmente in malora.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 9/09/2015, pag. 14
«L’Europa all’Onu approvi una gestione
democratica del debito»
Un gruppo di economisti di fama internazionale ha firmato un appello affinché i Paesi
Membri dell’Unione Europea votino, durante l’Assemblea Generale dell’ONU del 10 settembre, a favore di una risoluzione per la gestione democratica dei debiti sovrani, affinché
le sorti dei Paesi indebitati vengano sottratte al mercato dei debiti, come nel caso
dell’Argentina prima e della Grecia poi.
«La crisi greca ha mostrato che in assenza di un quadro politico internazionale, che permetta una gestione ragionevole dei debiti sovrani, e malgrado la loro insostenibilità, uno
Stato da solo non può ottenere delle condizioni praticabili per la ristrutturazione del proprio
debito. Durante le negoziazioni con la Troika, la Grecia si è imbattuta in un ostinato rifiuto
in tema di ristrutturazione, in contrasto con le raccomandazioni stesse del Fmi.
Esattamente un anno fa a New York, l’Argentina, sostenuta dai 134 Paesi del G77, ha proposto in sede Onu di creare un comitato che stabilisse un quadro legale a livello internazionale per la ristrutturazione dei debiti sovrani. Il comitato, sostenuto da un gruppo di
esperti dell’Uctad, vuole adesso sottoporre al voto 9 principi, che dovrebbero prevalere
durante le ristrutturazioni dei debiti sovrani: sovranità, buona fede, trasparenza, imparzialità, trattamento equo, immunità sovrana, legittimità, sostenibilità, regole maggioritarie.
Negli ultimi decenni si è assistito all’emergere di un vero e proprio mercato del debito a cui
gli Stati hanno dovuto sottostare. L’Argentina, prima in questo processo, ha dovuto affrontare i cosiddetti “fondi avvoltoio” quando ha scelto di ristrutturare il proprio debito. Questi
fondi, di recente, hanno ottenuto per mezzo della Corte americana il congelamento degli
asset argentini posseduti negli Stati Uniti.
Ieri all’Argentina, oggi alla Grecia, domani forse alla Francia o a qualsiasi Paese indebitato
può essere negata nelle attuali condizioni la possibilità di una ristrutturazione del debito
nonostante il buon senso. Adottare un quadro legale rappresenta un’urgenza per assicurare la stabilità finanziaria, permettendo a ciascun Paese di risolvere il dilemma tra il collasso del sistema finanziario e la perdita di sovranità nazionale.
Questi 9 principi riaffermano la superiorità del potere politico, attraverso la sovranità nazionale, nella scelta delle politiche pubbliche. Essi limitano la spoliticizzazione della struttura
finanziaria, la quale ha escluso finora ogni possibile alternativa all’austerity, tenendo in
ostaggio gli Stati. L’Onu deve quindi farsi sostenitore di una gestione democratica del
debito e della fine del mercato dei debiti. Un’iniziativa simile aveva fallito nel 2003 al
Fondo Monetario Internazionale. Oggi, la posizione degli Stati europei rimane ambigua,
nonostante il loro supporto sia fondamentale affinché questa risoluzione possa essere
attuata. I Paesi europei si sono disinteressati al processo di democratizzazione non
mostrando alcun supporto alla creazione del comitato. Ma la situazione greca ha mostrato
che non c’è più tempo per tergiversare.
Se gli eventi dell’estate hanno rafforzato i nazionalismi e la sfiducia dei cittadini verso le
istituzioni internazionali, oggi gli europei sono chiamati a riaffermare i diritti democratici, da
anteporre alle regole di mercato nella governance internazionale.
Chiediamo quindi che tutti li Stati Europei votino a favore di questa risoluzione».
Primi firmatari
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Gabriel Colletis
Giovanni Dosi
Heiner Flassbeck
James Galbraith
Jacques Généreux
Martin Guzman
Michel Husson
Steve Keen
Benjamin Lemoine
Mariana Mazzucato
Ozlem Onaran
Thomas Piketty
Robert Salais
Engelbert Stockhammer
Xavier Timbeau
Bruno Théret
Yanis Varoufakis
Gennaro Zezza
(traduzione Marta Fana)
Del 9/09/2015, pag. 26
La nuova bolla Usa nello shale gas 169
miliardi di debiti
Nel primo semestre deficit di 32 miliardi tra cassa e utili S&P: impennata
di fallimenti tra le aziende del settore
ANDREA GRECO
Un semestre contabile si è chiuso, e si possono cominciare a fare i conti del costo del
petrolio basso per gli operatori del settore idrocarburi. Circa 32 miliardi di dollari per i
produttori di petrolio e gas da scisti ( con la tecnica shale), vicino ai 37,7 miliardi di
sbilancio che avevano totalizzato nell’intero 2014, che solo da luglio aveva visto i prezzi
del greggio scendere bruscamente e dimezzarsi (anche se ieri il Brent ha segnato un
rialzo del 3,6% a 49,36 dollari a barile, in scia delle indicazioni positive arrivate dalla
congiuntura europea). Anche solo fermando il calendario al 21 agosto avevano portato il
conteggio tenuto da Standard & Poor’s dei default societari nel mondo a 70, già dieci più
che nell’intero 2014, e in predicato per superare gli 81 fallimenti del 2013. Di questi 70
default, almeno un quarto riguardano società attive nell’estrazione di petrolio e nel gas:
ultime della lista le due statunitensi SandRidge Energy e Samson Resources, declassate
in agosto rispettivamente a Sd (selective default) e D (default) dall’agenzia di rating
statunitense. Non è un caso 40 dei 70 fallimenti societari di questi primi nove mesi 2015
riguardi aziende statunitensi. Il Financial Times lunedì ha calcolato il differenziale tra gli
investimenti delle società che estraggono idrocarburi dagli scisti tramite fratturazione
idraulica e altri processi non convenzionali negli Stati Uniti usando i dati di Factset. Anche
il debito netto dei produttori di shale sta crescendo alle stelle: nei primi sei mesi del 2015 è
salito a 169 miliardi di dollari, oltre il doppio rispetto all’ammontare di fine 2010. Proprio il
fardello finanziario sta frenando la produzione di idrocarburi negli States, vista scendere in
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maggio e giugno, e che gli addetti ai lavori pensano calerà ancora, anche se dal dato
record dello scorso ottobre, il numero di pozzi esplorativi è già crollato del 59%.
La diminuzione dei prezzi, legata al rallentamento delle economie dei paesi emergenti e
all’eccesso di produzione del cartello dei paesi Opec, era stata letta anche come una
strategia dei “falchi” dell’Arabia Saudita per rimettere al loro posto i ruspanti produttori
shale a stelle e strisce, che negli ultimi anni hanno regalato agli Stati Uniti l’indipendenza
energetica e anzi stanno per fane un esportatore temibile. Gli effetti geopolitici ed
economici del barile basso, tuttavia, sono ben più ampi, e imprevedibili. In Russia, per
esempio, dove il bilancio statale si regge per metà sulle entrate da idrocarburi, si è vista la
prima recessione dal 2009. Tuttavia i colossi energetici di Mosca, che beneficiano di
aliquote fiscali mobili che calano con il calare del prezzi del greggio, si stanno mostrando
molto più resilienti rispetto alle loro rivali a stelle e strisce. Rosneft, Lukoil e Gazprom, ha
calcolato Goldman Sachs, stanno generando cassa come se i prezzi petroliferi fossero
ancora a 100 dollari, anziché a 50. E beneficiano dei costi di produzione più bassi del
mondo, lasciando il conto delle minori entrate fiscali al Cremlino. Difatti, da inizio gennaio i
titoli delle major russe sono in leggero rialzo, mentre la Shell perde il 27%, British
Petroleum il 17%, e così le altre major occidentali, che contribuiscono a tenere l’indice
settoriale Msci energia in fondo alla lista dei rendimenti. Anche se l’italiana Eni non rientra
nelle casistiche, il suo titolo è tra i migliori nel 2015 con un saldo in pareggio.
Del 9/09/2015, pag. 30
Ripensare le fabbriche con il digitale: è questo il cambiamento che
lancia la sfida sulla competitività Il primo obiettivo è prevedere i guasti
improvvisi che bloccano le catene di montaggio e causano gravi perdite
economiche. Così, grazie ai bit, la fabbrica diventa intelligente
La quarta rivoluzione industriale
RICCARDO LUNA
È l’ora di portare Internet nelle fabbriche. Che non vuol dire consentire agli operai di usare
Facebook o Whatsapp durante l’orario di lavoro. Vuol dire ripensare le fabbriche con il
digitale. E quindi ripensare il modo in cui gli oggetti vengono progettati (su un computer,
ovviamente); i primi prototipi realizzati (con una stampante 3D, per esempio); la catena di
montaggio monitorata in tempo reale per prevenire guasti tecnici (con dei sensori, molto
spesso); i prodotti distribuiti e seguiti nel loro viaggio fino al punto vendita (con dei semplici
bollini a radio frequenza, per intenderci); e i comportamenti dei consumatori analizzati in
tempo reale (attraverso quello che dicono sui social network, di solito: una messe di dati
che servono a capire il gradimento effettivo, eventuali criticità e quindi ricominciare il giro,
progettando nuovi prodotti). Questa rivoluzione è già iniziata e si chiama Industry 4.0 (in
Italia, Fabbrica 4.0). È iniziata non a caso in Germania, paese leader in Europa della
manifattura. Perché la novità è tutta qui: il digitale non serve più solo a creare prodotti e
servizi digitali (siti web e applicazioni per intenderci), ma oggetti.
È il mondo dei bit che entra in quello degli atomi per renderlo più efficiente, produttivo,
competitivo. Insomma, ridare slancio all’economia e alla crescita stitica di questi anni.
Perciò se il capo di un grande gruppo industriale in Italia vi dicesse — come spesso in
effetti dicono — “che mi importa di Internet, io faccio navi”. O auto. O rubinetti. O
qualunque altra cosa. Raccontategli la storia dell’Internet dell’industria, che dopo l’Internet
delle persone — il world wide web — e l’Internet delle cose — il forno che parla al frigo,
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per intenderci — , è arrivato per cambiare non solo il modo in cui lavoriamo, ma anche
restituirci la prosperità perduta. Non si tratta solo di slogan. Il digitale invece di rottamare le
fabbriche (come qualcuno aveva frettolosamente predetto immaginando un mondo in cui
chiunque ormai può farsi una fabbrica in casa o in garage), gli può dare nuova vita.
L’esempio più eclatante è forse quello delle stampanti 3D, considerate all’inizio come un
oggetto quasi fantascientifico e poi diventate bandiera dei makers e degli artigiani digitali
che inventano nuovi prodotti. Ecco, quelle stampanti, che realizzano un oggetto
aggiungendo dei materiali invece che sottraendoli (additive manufacturing), portate in
fabbrica, consentono di avere dei prototipi con tempi e costi infinitamente ridotti rispetto al
passato; e anche, in qualche caso, di realizzare componenti complessi finiti. Per esempio
parti dei motori degli aeroplani sono già fatte così e nel 2020 General Electric prevede di
realizzare 100 mila pezzi l’anno in questo modo riducendo il peso di ogni singolo aereo di
oltre 400 chilogrammi (e quindi abbattendo il consumo di carburante).
Ma uno dei vantaggi più clamorosi della Fabbrica intelligente sarà l’obiettivo “zero
downtime unplanned”: cioé il fatto che non accadrà più che la catena di montaggio si fermi
per un guasto improvviso visto che una rete fittissima di sensori — il cui costo ormai li
rende alla portata di tutti — avviserà in tempo reale i tecnici di una rottura in vista. Perché
è importante? Secondo uno studio di General Electric, il 10 per cento dei voli in ritardo
dipendono da guasti imprevisti, un problema che ci costa circa 8 miliardi di euro l’anno
senza contare il disagio e lo stress di chi viaggia. Per i nostri figli questo problema non
esisterà. Ecco perché la storia appena cominciata è importante per il nostro futuro. In
estrema sintesi, è questa. Alla Fiera di Hannover, il più grande appuntamento mondiale di
tecnologia industriale, nel 2011 per la prima volta si è parlato della necessità di
“computerizzare la manifattura” usando il termine Industry 4.0, diventato poi un mantra;
l’anno seguente un gruppo di lavoro guidato dai massimi rappresentanti dell’industria
tedesca (Bosch, Siemens, Deutsche Telekom, SAP), ha presentato un pacchetto di
raccomandazioni al governo e nel 2013 sono state pubblicate le considerazioni finali.
Che in sostanza dicono questo: la prima rivoluzione industriale nasceva dall’acqua e dal
vapore nei sistemi di produzione; poi è venuta l’energia elettrica; infine Internet. Ora siamo
nella quarta rivoluzione industriale, ovvero in quel tempo in cui il confine fra il mondo fisico
e il digitale sparisce. L’era in cui i bit governano gli atomi. E la fabbrica diventa intelligente.
Se vi sembra che tutto ciò assomigli molto alle profezie dell’economista e futurologo
americano Jeremy Rifkin, non siete lontani dal vero. Siamo in quel mondo lì, ma dalle
visioni siamo passati alla politica industriale: Industry 4.0 è uno dei pilastri della Germania
della Merkel (200 milioni di euro il budget iniziale); negli Stati Uniti di Obama è stata
attivata una Smart Manufacturing Leadership Coalition, che mette allo stesso tavolo
università, centri di ricerca e grandi aziende per creare standard condivisi; e nel Regno
Unito è da poco partito un progetto simile denominato, con una certa ambizione, Catapult.
E in Italia? Stiamo muovendo solo adesso i primi passi. Eppure già nel 2012, piuttosto
silenziosamente, era partito il Cluster per la Fabbrica Intelligente che vede già 300
associati, quasi tutti al nord. Insomma, in qualche modo ci siamo anche noi, anche perché,
come sostiene il gran capo della Direzione della Commissione Europea sul digitale,
Roberto Viola, “essendo l’Italia un paese manifatturiero, questa partita non la possiamo
giocare per stare a metà classifica, dobbiamo batterci per lo scudetto”. Visti i ritardi
colossali che come paese abbiamo sulla diffusione della banda larga e l’adozione del
digitale, l’obiettivo è perlomeno sfidante. Ma vale la pena di provarci. Secondo un recente
studio degli economisti di Prometeia, l’effetto delle stampanti 3D sulle piccole imprese
artigiane vale una crescita record del fatturato, stimata attorno al 15 per cento. C’è
ovviamente un problema di competenze e di nuove professionalità (non a caso il Ministero
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dell’Istruzione ha promosso il cluster italiano): l’ingegnere meccanico digitale e l’analista di
big data da qualche parte dovranno formarsi.
Ma il mondo che c’è in vista non è una fabbrica senza persone, garantisce il capo
dell’ufficio studi mondiale di General Electric, Marco Annunziata. Non dovremo fare una
gara con le macchine per salvare il posto di lavoro, ma imparare a lavorare con le
macchine per lavorare meglio: «Per usare la metafora di un film, non stiamo andando
verso Tempi Moderni di Chaplin, ma piuttosto verso Iron Man ».
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