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RELAZIONI dffdaf PATHOLOGICA 2005;97:163-166 Patologia neoplastica della prostata Moderatore: G. Massarelli (Sassari) Carcinoma prostatico: richieste dell’urologo al patologo S. Rocca Rossetti Professore Emerito di Urologia, Università di Torino La collaborazione tra anatomopatologi e urologi è assolutamente indispensabile, non soltanto sul piano della quotidianità assistenziale, ma anche (se non) soprattutto su quello dottrinale e scientifico. Per i centri nei quali è d’uso l’incontro settimanale sui casi esaminati, collegialmente discussi, tale collaborazione esprime al massimo i suoi frutti e sarebbe dunque auspicabile che in tutti i dipartimenti vigesse questa ormai ben sperimentata consuetudine. L’urologo ha necessità di dialogare strettamente col patologo per l’incessante evoluzione della sua materia, nella speranza che il patologo possa risolvere i problemi che egli deve affrontare. In concreto per il carcinoma della prostata, lì dove un paio di decenni or sono quasi tutto sembrava scontato e abbastanza semplice, attualmente non poche incognite cliniche angustiano la nostra opera, che affondano le radici in problemi essenzialmente patologici; da ciò ci vien fatto di avanzare alcune richieste, di cui sinteticamente espongo le motivazioni. 1°) Gleason score; per gli urologi rappresenta una classificazione pressoché indispensabile per il suo valore diagnostico e ancor più per quello prognostico: è possibile uniformare le conclusioni diagnostiche riguardo al Gleason, specificando sempre lo score? Ho notato talora che l’urologo può confondere il numero del grado con la somma dei due numeri dello score, il che può condurre ad errori di indicazione terapeutica; presumibilmente l’omissione dello score è dovuta all’esiguità del campione inviato; dunque potrebbe essere opportuno che i patologi indichino la quantità minima di tessuto su cui esprimersi, perché gli urologi si adeguino tecnicamente nell’esecuzione delle biopsie, ossia inviando frustoli delle dimensioni richieste. Altro dato interessante è quello relativo alla corrispondenza del Gleason score bioptico con quello definitivo dopo prostatectomia; è evidente che le indicazioni terapeutiche saranno tanto più precise quanto maggiore è la possibilità di basarsi sull’attendibilità del dato bioptico; la letteratura recente valorizza questa problematica 1. 2°) Tumore insignificante; i problemi che tale concetto pone non sono pochi; per la maggioranza degli urologi in pratica si considera insignificante il tumore incidentale di basso grado, del tutto circoscritto e di esigue proporzioni, benché anche per queste lesioni non pochi urologi sono favorevoli alla terapia radicale per pazienti giovani; ciò dimostra che il tumore si presume abbia un’evolutività e dunque insignificante non sia: Ma a parte il Ta, esiste una problematica interessante relativa al riscontro non eccezionale di T0 dopo prostatectomia eseguita sia dopo terapia neoadiuvante (e una spiegazione è intravedibile) e sia senza 2-4. È evidente che in questi casi il dubbio dell’overtreatment esiste e moralmente pesa. In concreto, l’urologo potrebbe porre una domanda apparentemente semplice se non addirittura banale: esiste il tumore insignificante rilevabile alla biopsia (evidentemente eseguita per un qualche sospetto obiettivo, strumentale o laboratoristico)? 3°) Il PIN d’alto grado in alta percentuale s’associa a carcinoma della prostata, ma in se non essendo un carcinoma, non giustifica una terapia aggressiva, ossia radicale, né moralmente, né legalmente; biopsie ripetute nel tempo, spesso consentono di raggiungere la diagnosi di carcinoma, col risultato di aver perso tempo forse prezioso durante il quale la qualità della vita del paziente è ovviamente compromessa; nei casi di PINHG trattati con prostatectomia radicale (nella mia casistica si trattava di colleghi urologi o in ogni caso medici che hanno voluto rischiare un intervento eventualmente sproporzionato) s’è sempre trovato un carcinoma. Quali contributi al riguardo può offrire oggi il patologo anche alla luce di nuove acquisizioni di colorazioni immunoistochimiche con anticorpi monoclinali 5? 4°) I tumori neuroendocrini puri della prostata, fortunatamente rari. costituiscono un capitolo complesso, reso difficile soprattutto per l’impossibilità pressoché costante di dimostrare la natura della sostanza secreta; non è raro invece trovare una componente neuroendocrina nel comune carcinoma prostatico; essa può assumere non poco valore prognostico, com’è dimostrato da ricerche anche recenti 6 sull’utilizzo di marcatori specifici; specificare l’esistenza di tale componente istologicamente dimostrata potrebbe essere di grande aiuto nel formulare la prognosi e nell’impostare la terapia. 5°) Ricerche recenti hanno affermata l’importanza dello stroma nell’induzione di fenomeni carcinogenetici dell’epitelio, di diffusione e di metastatizzazione; sarebbero già ipotizzabili ricadute terapeutiche da tali ricerche 7; fino a che punto il patologo è attualmente in grado di utilizzare ai propri fini le nuove acquisizioni molecolari sull’interazione tumorogenetica stroma-epitelio? Bibliografia 1 Montironi R, Mazzucheli A, Scarpelli M, Lopez-Beltrani A, Fellegara G, Algaba F. Gleason grading of prostate cancer in needle biopsies or radical prostatectomies specimens: contemporary approach,current clinic significance and source of pathology discrepancies. Br J Urol 2005;95:1146-52. 2 Herkommer K, Kuefer R, Gschwend JE, Hautmann RE, Volkmer BG. Pathological T0 prostate cancer without neoadjuvant Therapy: clinical presentation and follow-up. Eur Urol 2004;45:36-41. 3 Hammerer P. pT0 after radical prostaectomy; overtreatment for insignificant prostate cancer? Eur Urol 2004;45:35. 4 Kollerman J, Hopfenmuller W, Caprano J, Budde A, Weidenfeld H, Weidenfeld M, et al. Prognosis of stage pT0 after prolonged neoadjuvant endocrine therapy of prostate cancer: a matched-pair analysis. Eur Urol 2004;45:42-5. 5 Chan TY, Mikolajczyk SD, Lecksell K, Shue MJ, Rittenhause HG, Partin AW, et al. Immunohistochemical staining of prostate cancer with monoclonial antibodies to the precursor of prostate – specific antigen. Urology 2003;62:177-81. 6 Kamiya N, Akakura K, Suzuki H, Isshiki S, Komiya A, Ueda T, et al. Preteatment serum level of neuron specific enolase (NSE) as a pronostic factor in metastatic prostate cancer patients treated with endocrine therapy. Eur Urol 2003;44:309-14. 7 Sung SY, Chung LWK. Prostate tumor-stroma interaction: molecular mechanism and opportunities for therapeutic targeting. Differentiation 2002;70:506-21. RELAZIONI 164 Gleason grading of prostate cancer. Contemporary approach R. Montironi, F.R.C. Path, R. Mazzucchelli Institute of Pathological Anatomy and Histopathology, Polytechnic University of the Marche Region, Ancona, Italy The Gleason score of adenocarcinoma of the prostate is the quintessential prognostic factor in predicting findings in radical prostatectomy (pathologic stage), biochemical failure, local recurrences, lymph node or distant metastasis in patients receiving no treatment, radiation therapy, radical prostatectomy and other therapies including cryotherapy and neoadjuvant therapy. The needle biopsy Gleason score also correlates with virtually all other pathologic parameters including tumor volume and inked margin status in radical prostatectomy specimens, serum PSA levels and many molecular markers. Specifically, Gleason scores of 7-10 are associated with worse prognoses, and tumors with Gleason scores 5-6 are associated with lower progression rates after definitive therapy. The predictive value of Gleason score is enhanced when combined with other clinical parameters including digital rectal examination and serum PSA levels. In recent years, nomograms have been developed to predict pathological stage on radical prostatectomy, and disease progression after surgery or radiation therapy. Nomograms typically include pretreatment variables including clinical stage, Gleason score, serum PSA, amount of cancer in needle biopsy, etc. Based on statistical modeling of cumulative, prospectively accrued data on large consecutive series of patients, the nomograms have reasonable discriminatory ability to predict (depending on the nomogram patient cohort and statistical modeling) the pathologic stage, seminal vesicle involvement, lymph node metastases, biochemical failure, small volume organ-confined tumors, response to radiotherapy, etc. Such nomograms are used with increasing frequency in clinical practice by urologists and radiation oncologists to counsel their patients regarding therapeutic options and potential risk for failure based on therapy they may choose. Inclusion of the needle biopsy Gleason score in all clinically valid nomograms is testimony to the prognostic and predictive power of this grading system and its central role in contemporary prostate cancer patient management. Gleason score is also often used to determine eligibility for clinical trials, including those for watchful waiting. While the pivotal role of Gleason score in the needle biopsy is not in question, the method of reporting needs clarification of few issues including some not addressed in the original Gleason system. The most significant new recommendation is to separately report the Gleason score for each recognizable core irrespective of whether the cores are individually submitted (in individual container signifying specific anatomic location, e.g., right base), or submitted together; (more than one core, possibly sampling different areas of the prostate, e.g., three cores from the left apex, mid and base sent in one container). The needle biopsy core(s) with the highest Gleason score is often given the most weight in clinical decision making and hence should be identifiable as a separate Gleason score, information which would be lost if individual cores were not graded. If extreme fragmentation makes grading of individual cores difficult, the emphasis should be to identify and provide information on the core with the highest Gleason score. A recent survey of the surgical members of the Society of Urologic Oncology indicated that 81% used the highest Gleason score in a positive biopsy, regardless of the overall percentage involvement, to determine their treatment plan. This paradigm was also used in the creation and validation of Kattan nomograms, Partin tables that are currently in wide clinical use. Assigning a global (composite) score is optional. Another important change is the recognition and reporting of the tertiary pattern in needle biopsies. Tertiary patterns are uncommon but when the worst Gleason grade is the tertiary pattern, it should influence the final Gleason score. Examples: a case with primary Gleason pattern 3, secondary pattern 4, and tertiary pattern 5 should be assigned a Gleason score of 8; a case with primary Gleason pattern 4, secondary pattern 3, and tertiary pattern 5 should also be assigned a Gleason 8 (secondary score being 4 based on the average of patterns 5 and 3 = 4) or Gleason score 9 (pattern 4 + 5). The data regarding the importance of the percentage of Gleason 4 pattern in Gleason score 7 tumors is rapidly expanding. In recently generated nomograms, patients with Gleason score 4 + 3 vs. 3 + 4 are stratified differently, underscoring the importance of the relative amount of pattern 4. Whether or not the actual percentage of 4 pattern tumor should be included in the report is not clear based on published data to date and, if this emerges as an important parameter, meaningful discriminatory cut-off points for percentage of pattern 4 will need to be defined. The diagnosis of Gleason score 2-4 should not be made on needle biopsies. The reasons for not making this diagnosis are compelling: 1) Gleason score 2-4 cancer is extraordinarily rare in needle biopsies as compared to transurethral resection specimens; 2) there is poor reproducibility among experts for lower grade tumors; 3) the correlation with the prostatectomy score for Gleason 2-4 tumors is poor and approximately half of the prostatectomies in one study had extraprostatic extension; and 4) a “low” score of Gleason 2-4 may misguide clinicians and patients into believing that there is an indolent tumor. Cancro prostatico: basi molecolari F. Buttitta Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Università di Chieti; Aging Research Center (CeSI), “G. d’Annunzio” University Foundation, Chieti Come per altri tumori solidi, l’eziologia del carcinoma prostatico è di tipo multifattoriale e va ricercata in una complessa interazione fra fattori genetici ed ambientali. Il suo sviluppo è legato all’età e allo stato ormonale dell’individuo. Quest’ultimo aspetto, in modo particolare, è stato oggetto di svariate indagini molecolari in quanto la prostata è essenzialmente un organo sotto il controllo androgenico. Gli androgeni, nell’ambito dei quali il diidrotestosterone rappresenta il metabolita attivo, si legano al corrispondente recettore (AR) in sede citoplasmatica. Il complesso che ne deriva trasloca al nucleo dove, a seguito di un processo di dimerizzazione, è in grado di legarsi a sequenze geniche specifiche (ARE = elementi androgeno-responsivi) e conseguentemente attivare la trascrizione di geni coinvolti nella proliferazione e sopravvivenza cellulare. Questa via di trasmissione del segnale sembra essere essenziale per lo sviluppo e mantenimento delle funzioni prostatiche, ma anche per lo sviluppo della crescita neoplastica. La crescita della maggior parte dei carcinomi prostatici è infatti, almeno nelle fasi iniziali, androgeno-dipendente e per tale motivo la terapia medica, basata sull’ablazione an- PATOLOGIA NEOPLASTICA DELLA PROSTATA drogenica associata ad antiandrogeni, è mirata al raggiungimento di un blocco androgenico totale. L’efficacia dell’androgeno-deprivazione è tuttavia notoriamente limitata nel tempo e la maggior parte dei tumori prostatici con insita capacità evolutiva, da una fase di ormono-responsività passa successivamente ad una fase definita ormonorefrattaria o ormono-indipendente. Questa transizione è di particolare interesse sia biologico che clinico poiché l’individuazione precoce di fattori molecolari predittivi di ormono-indipendenza consentirebbe di selezionare in maniera più opportuna i pazienti da sottoporre a protocolli terapeutici più aggressivi. La biologia molecolare del cancro prostatico è caratterizzata da alterazioni a carico di alcune importanti vie di regolazione cellulare, quali la via di trasmissione del segnale innescata dall’attivazione di AR e le vie che regolano l’apoptosi, e dalla compromissione di geni la cui funzione è cruciale nei processi di adesione cellulare e di trasmissione del segnale. Numerosi sono gli studi condotti fino ad ora sulle alterazioni geniche di AR. Il recettore per gli androgeni è raramente sede di mutazioni o interessato da processi di amplificazione nei tumori primitivi non trattati. Al contrario, sia mutazioni che eventi di amplificazione genica sono stati riscontrati in tumori trattati con antiandrogeni. In tali tumori mutazioni del recettore, infatti, sono state documentate in circa il 20-25% dei casi. Alcune di queste mutazioni altererebbero la specificità di legame fra ligando e recettore per gli androgeni e quest’ultimo, paradossalmente, verrebbe attivato proprio dagli antiandrogeni. Amplificazioni del recettore sono presenti nel 30% dei tumori ormono-refrattari ed una over-epressione della proteina recettoriale è documentabile in quasi tutti questi tumori. Questo dato suggerisce che l’amplificazione genica e/o l’overespressione proteica potrebbero essere responsabili di una aumentata sensibilità a bassi livelli di androgeni piuttosto che ad ormono-indipendenza e giustificare così la progressione neoplastica. Fra i geni più frequentemente alterati nel cancro prostatico va citato l’enzima Glutatione S-transferasi di classe π. Tale enzima va incontro a silenziamento per ipermetilazione del promotore nel 70% delle lesioni di tipo PIN e nel 90-95% del carcinoma prostatico. Si tratta quindi di una alterazione genica precoce che potrebbe rappresentare un marker diagnostico, come alcuni autori hanno proposto. I principali geni coinvolti nella regolazione del processo apoptotico, quali TP53 e Bcl2, mostrano entrambi anomalie di espressione e di funzione. La maggior parte degli studi sono concordi sul fatto che TP53 risulta implicato nei processi di ormono-resistenza. Esso presenta raramente mutazioni nei tumori precoci o localizzati, mentre va incontro a mutazione in fase più tardiva. Il 20-40% dei tumori metastatici e/o ormono-refrattari presentano infatti mutazioni di TP53. Analogamente, l’overespressione di Bcl2 è presente nei tumori che non rispondono all’ormonoterapia o che progrediscono precocemente dopo l’inizio del trattamento ormonale. Una delle vie più importanti che comporta una deregolazione dei processi apoptotici e che viene attivata indipendentemente da AR è quella che coinvolge PTEN. Nelle cellule normali PTEN inibisce l’attivazione della via Fosfatidil-inositolo 3 chinasi-AKT. All’attivazione di AKT consegue una serie di eventi, tutti rivolti al mantenimento della sopravvivenza cellulare. Pertanto, nelle cellule normali PTEN consente alle cellule di andare in apoptosi, mentre nelle cellule neoplastiche, il blocco di PTEN, documentato soprattutto nelle cellule ormono-indipendenti, consente una attivazione di AKT e quindi una inibizione dei processi apoptotici attraverso l’inibizione di proteine a funzione proapoptotica. Tutte queste acquisizioni bio-molecolari sono in armonia con studi di ibridazione genomica comparativa che hanno dimostrato 165 come aree cromosomiche soggette ad alterazione nel cancro prostatico in fase ormono-responsiva siano differenti da quelle colpite durante la progressione neoplastica. Negli ultimi anni un interesse notevole è stato rivolto alle alterazioni geniche germinali che potrebbero modificare la suscettibilità individuale all’insorgenza del cancro prostatico. Recentemente è stato proposto un modello multigenico di suscettibilità basato sulla presenza di sequenze polimorfiche. Un esempio è offerto dalla regione transattivante del gene AR che è sede di polimorfismi, uno dei quali consiste in una ripetizione in tandem CAG nell’esone 1. L’attivazione genica da parte di AR è inversamente correlata al numero delle triplette CAG. La presenza di varianti “corte” potrebbe predisporre ad una cronica iperstimolazione androgenica e ad un alto rischio di sviluppare il tumore. Inoltre, è stato notato che geni coinvolti con il metabolismo degli androgeni, quali il gene “17-hydroxylase cytochrom P-450” (CYP17) e il gene “5 reductase type II” (SRD5A2), sono sede di polimorfismi che potrebbero influenzare la suscettibilità al cancro della prostata. Una transizione T-C (allele 2) nel promotore di CYP17 potrebbe associarsi a più alti livelli di trascrizione genica. Gli alleli A2 sarebbero presenti con maggior frequenza in pazienti con cancro prostatico (70%) rispetto a pazienti urologici di controllo. Il gene SRD5A2 presenta polimorfismi con diversa attività enzimatica. Gli individui a più alta attività potrebbero essere a maggior rischio di cancro della prostata. Questo campo di indagini è in espansione e varie altre sequenze polimorfiche entrano in gioco nella valutazione globale del grado di suscettibilità. Patologia neoplastica della prostata: prospettive E. Di Carlo Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Sezione di Anatomia patologica, Università “G. d’Annunzio” e Centro Studi e Ricerche sull’Invecchiamento, Ce.SI., Chieti, Italia Il carcinoma della prostata si colloca al secondo posto come frequenza tra i tumori che colpiscono il sesso maschile ed al terzo posto come causa di morte. La sua incidenza, legata all’età, è in aumento in relazione all’incremento della vita media della popolazione ed alla disponibilità di più accurate procedure diagnostiche. Mentre progrediscono le ricerche di genetica molecolare per l’identificazione di geni (es.: SRD5A2 ed ELAC2) o regioni geniche (es.: HPC-1, PCaP, CAPB ed i polimorfismi del gene CYP17) indicative del rischio di sviluppare carcinoma prostatico, non esistono attualmente trattamenti per prevenirne l’insorgenza o curarne gli stadi precoci. Inoltre, le terapie disponibili per la cura degli stadi tardivi presentano pesanti rischi collaterali e non hanno ridotto significativamente l’incidenza ed il tasso di mortalità. I trattamenti di tipo immunologico vanno incontro all’esigenza di un approccio preventivo e/o terapeutico privo di significativi effetti collaterali e facilmente accettabile dal paziente anziano. Sulla base di queste considerazioni, il nostro gruppo di ricerca ha progettato di attuare una strategia immunologica in un contesto di prevenzione, ovvero, somministrare un vaccino in associazione ad una molecola immunomodulante (trattamento combinato) prima dell’insorgenza di cancro prostatico in animali geneticamente condizionati a sviluppare questo tumore. Il modello sperimentale in questione, denominato TRAMP (Transgenic Adenocarcinoma of Mouse Prostate), 166 consiste in un ceppo di topi C57BL/6 che presenta il frammento -426/+28 del gene della probasina di ratto (PB) fuso con il gene che codifica per SV40 T antigen. L’espressione del transgene PB-SV40 T antigen, T-Ag, inizialmente regolata dagli androgeni, è ristretta all’epitelio della prostata dorsolaterale. I topi TRAMP rappresentano un ideale modello preclinico di cancro prostatico che riassume le caratteristiche istopatologiche della carcinogenesi prostatica umana. Essi sviluppano, nella prostata dorso laterale, multipli focolai di neoplasia prostatica intraepiteliale (low and high grade PIN) verso la 7a settimana di vita e, successivamente, un adenocarcinoma ben differenziato (8-12a settimana) che progredisce in carcinoma androgeno-indipendente scarsamente differenziato (15a e la 25a settimana) oppure a piccole cellule con aspetto neuroendocrino e metastasi ai linfonodi, vertebre, ghiandole surrenali e polmone (28-32a settimana) 1. La validità e quindi il grado di predittività di questo modello sperimentale di cancro prostatico sono dimostrate dalle numerose analogie con la patologia umana: a) istologicamente, sia nel modello murino che nell’uomo, il carcinoma prostatico è contraddistinto dalla perdita dello strato di cellule basali (positività per citocheratine ad alto peso molecolare o per p63), dalla espressione di Ep-CAM sulle cellule neoplastiche e dalla perdita di AR nei carcinomi indifferenziati, b) in entrambi i casi l’espressione di EGFR, EGF, IGF-1, IGF-1R, ERK-1 e -2, FGF-2 ed VEGFR2 è strettamente associata alla crescita tumorale, c) sia nel carcinoma prostatico murino che in quello umano i geni codificanti gli antigeni STEAP (sixtransmembrane epithelial antigen of the prostate) e PSCA (prostate stem cell antigen) risultano up-regolati 2. Il trattamento immunologico combinato, in corso di sperimentazione presso i nostri laboratori, consiste nel somministrare ai topi TRAMP, a partire dalla sesta settimana di vita, in cicli della durata di tre settimane, un vaccino cellulare (2x106 cellule allogeniche H-2d originate da topi BALB/c ed ingegnerizzate ad esprimere l’antigene T-ag, i.p.) addizionato con interleuchina 12 (IL-12) (100 ng/die, i.p.). Questa strategia preventiva, che ha già dimostrato notevole efficacia in modelli murini di carcinogenesi mammaria spontanea 3 4, si basa concettualmente sull’associazione di differenti stimoli immunologici denominati: 1. T-Ag, un antigene selettivamente espresso nell’epitelio della prostata dorso-laterale dei topi TRAMP e che ne condiziona la trasformazione neoplastica; 2. allo-MHC di classe I (H-2d) espresso da cellule allogeniche del vaccino ed in grado di innescare una imponente reazione infiammatoria ed una rapida distruzione delle cellule del vaccino, facilitando la “cross-presentazione” dell’antigene T-Ag da parte delle “Antigen Presenting Cells” (APC) dell’ospite; 3. IL-12, una citochina di tipo Th1 dotata di proprietà antitumorali mediate dalla attivazione di linfociti e cellule NK e secondario rilascio di interferon (IFN)-γ e chemochine anti-angiogeniche di tipo CXC 4. Inoltre, l’IL-12 aumenta la generazione delle cellule APC in vivo e la loro resistenza all’apoptosi promossa dal microambiente tumorale inducendo la proteina anti-apoptotica Bcl-xL. RELAZIONI La somministrazione della sola IL-12 determina un significativo (p < 0,05, test di Mantel-Haenszel) ritardo nell’insorgenza e progressione del cancro prostatico ed un aumento dei tempi di sopravvivenza. Alla 12-15 a settimana di vita le analisi istologiche della prostata degli animali trattati rivelano unicamente la presenza di focolai di low grade PIN e scarsi aspetti di high grade PIN. Tuttavia l’incidenza tumorale risulta invariata e tutti gli animali muoiono a causa della malattia. La somministrazione delle sole cellule allogeniche è meno efficace rispetto a quella dell’IL-12, ma i loro effetti risultano sinergici nel trattamento combinato. Infatti, alla 30 settimana di età circa l’80% degli animali sottoposti a trattamento combinato presentano unicamente focolai di PIN e fino alla 40 settimana il 60% di essi non ha sviluppato adenocarcinoma. Al termine dell’esperimento (60a settimana) circa il 20% degli animali è libero da tumore e presenta ampi centri germinativi a livello dei linfonodi peri-prostatici ed una elevata produzione di IFN-γ, prodotta soprattutto dai linfociti T CD4+, a livello splenico, mentre l’attività CTL risulta scarsa. Tali aspetti si associano ad elevati livelli sierici di anticorpi anti-T-Ag e di IFN-γ. Lo studio istopatologico delle prostate prelevate dagli animali sviluppanti tumore rivela a) una minore incidenza di cancro indifferenziato rispetto ai controlli, b) frequenti zone di necrosi ischemico-emorragica del tumore coesistenti con aspetti di apoptosi delle cellule tumorali, scarso sviluppo della rete microvascolare, modica infiltrazione di linfo-monocitaria, c) ridotta incidenza di malattia metastatica. In conclusione, la disponibilità di modelli transgenici in grado di riprodurre sotto il profilo biologico ed istopatologico il processo multi-step della carcinogenesi prostatica umana offre la possibilità di 1) ricercare nuovi marcatori tissutali e sierologici (mutazioni geniche, proteine tumore-specifiche) di cancro prostatico utili per la diagnosi precoce e per la prognosi e 2) sperimentare strategie di profilassi e cura che abbiano significato pre-clinico e traslazionale 5. Bibliografia 1 Kaplan-Lefko PJ, Chen TM, Ittmann MM, Barrios RJ, Ayala GE, Huss WJ, et al. Pathobiology of autochthonous prostate cancer in a pre-clinical transgenic mouse model. Prostate 2003;55:219-37. 2 Roy-Burman P, Wu H, Powell WC, Hagenkord J, Cohen MB. Genetically defined mouse models that mimic natural aspects of human prostate cancer development. Endocr Relat Cancer 2004;11:225-54. 3 Nanni P, Nicoletti G, De Giovanni C, Landuzzi L, Di Carlo E, Cavallo F, et al. Combined allogeneic tumor cell vaccination and systemic interleukin 12 prevents mammary carcinogenesis in HER-2/neu transgenic mice. J Exp Med 2001;194:1195-205. 4 Di Carlo E, Rovero S, Boggio K, Quaglino E, Amici A, Smorlesi A, et al. Inhibition of mammary carcinogenesis by systemic interleukin 12 or p185neu DNA vaccination in Her-2/neu transgenic BALB/c mice. Clin Cancer Res 2001;7(Suppl 3):830s-837s. 5 Di Carlo E, Sorrentino C, D’Antuono T, De Giovanni C, Cavallo F, Musiani P. Mouse Tumorigenesis Models as an Aid to Understanding Human Cancer. Transworld Research Network (ed). Recent Res Devel Hum Pathol 2003;1:237-50. PATHOLOGICA 2005;97:167-168 Patologia neoplastica della mammella Moderatore: I. Nenci (Ferrara) Le indagini di morfologia molecolare con immunoistochimica nelle proliferazioni duttali mammarie D. Angelucci, G. Castrilli, L. Di Giovannantonio, T. D’antuono, A. Pelliciotta, R. Bellocci Istituto di Anatomia Patologica Università/ASL Chieti La classificazione attuale della patologia proliferativa mammaria si basa sul riconoscimento di due distinte linee di differenziazione cellulare: quella luminale e quella basale/mioepiteliale. Le due popolazioni sono caratterizzate rispettivamente dalla positività immunoistochimica per CK 8/18/19 e per AML. Evidenze recenti hanno individuato un terzo tipo cellulare con positività per CK5. Per tali cellule è stata ipotizzata una funzione STEM con capacità di generare popolazioni a fenotipo intermedio (CK5+/CK18+ e CK5+/AML+) dalle quali deriverebbero gli elementi luminali (CK18+) e mioepiteliali (AML+) con differenziazione terminale 1. Questa osservazione tenderebbe ad escludere il passaggio obbligato attraverso l’iperplasia duttale tipica (DH) per arrivare alla iperplasia duttale atipica/carcinoma duttale in situ (ADH/DCIS). Crescenti osservazioni, confortate anche da valutazioni di natura citomorfologica e citogenetica, attestano l’esistenza di pattern immunofenotipici differenti nella DH da un lato e nell’ADH/DCIS dall’altro, non spiegabili in base al classico modello di progressione lineare, nella genesi del carcinoma mammario 2 3. Secondo il nuovo modello patogenetico le DH e le ADH/DCIS rappresenterebbero due entità distinte causate da alterazioni, a diversi livelli, dei processi di proliferazione e differenziazione cellulare. Si confrontano pertanto 2 ipotesi: quella “evoluzionistica”, più datata e quella “compartimentalistica”, più recente. I fautori della prima negano l’esistenza di una popolazione cellulare con funzioni STEM che esprima solo CK5 in assenza di altri markers di differenziazione luminale o mioepiteliale. La popolazione STEM-CK5+, potrebbe, pertanto, rappresentare un “artefatto” giacché è repertata solo su sezioni ottenute da materiale in paraffina, ma non su “frozen sections” 4. L’ipotesi “evoluzionistica”, al contrario, considera la DH, l’ADH ed il DCIS come tappe successive di un modello di progressione lineare che inesorabilmente culmina nel Carcinoma Duttale Infiltrante (IDC). Queste considerazioni impongono ora la corretta interpretazione dei quadri di Morfologia Molecolare/Immmunoistochimica, assolutamente distinti, di DH vs. ADH/DCIS quando si usi un panel di anticorpi costituito da AML, p63 e da CK14, CK5 e CK18. Morfologia Molecolare Immunoistochimica dell’epitelio del DOTTO NORMALE non proliferante Il versante luminale è caratterizzato dalla pressoché esclusiva presenza di cellule con markers di differenziazione specifici quali le CK8/18/19 con veramente rare cellule positive per CK5/14. Lo strato basale consta di cellule uniformemente ed intensamente positive per markers di differenziazione mioepiteliale/basale come AML, CK5/14 e p63. Morfologia Molecolare Immunoistochimica dell’epitelio del dotto con DH Nel compartimento luminale proliferante si apprezza la commistione di due popolazioni cellulari distinte che mostrano, rispettivamente, immunofenotipo CK18+ e CK14/CK5+ 2 3. Nello strato basale le cellule mioepiteliali risultano positive per AML, CK14, CK5 e p63. È interessante sottolineare come gli elementi cellulari basali/mioepiteliali CK5+/CK14+, quando posizionati più “luminalmente” non esprimano l’AML che resta, così, segregata al solo livello basale. Morfologia Molecolare Immunoistochimica dell’epitelio del dotto con ADH/DCIS Il compartimento luminale proliferante della ADH/DCIS ha, come peculiare pattern, l’assenza di commistione di popolazioni distinte. Le cellule luminali, infatti, mostrano reattività solo per CK18, senza alcuna positività per CK5 2 3. Questa rigida separazione sembra avvalorare l’ipotesi “compartimentalistica”, che prevede una crescita “monoclonale” nel carcinoma a partire da una cellula indirizzata in senso neoplastico maligno sin dall’inizio. Viceversa nella DH si avrebbe una crescita “policlonale” caratterizzata dalla esuberanza di cellule proliferanti a fenotipo basale/mioepiteliale accompagnata da un’iperplasia delle cellule luminali. Vi sono però quadri di morfologia molecolare sicuramente intermedi che pongono più di un dubbio sulla reale separazione dei due processi, carcinomatoso ed iperplastico, mentre sono molto evocativi di transizione (evoluzione) da DH vs. ADH/DCIS. Questi pattern evolutivi sono realmente stimolanti ed utili perché suggeriscono, a nostro avviso, la possibilità di differenziare, nell’ambito delle proliferazioni “atipiche di grado severo”, l’ADH dal DCIS. Sono certamente DCIS le proliferazioni duttali monoclonali a fenotipo CK18+, in cui residuano perifericamente, cioè a livello rigorosamente basale, elementi CK5+/CK14+ e AML+. Nelle crescite epiteliali intraduttali a tipo ADH si repertano tre “strati”: a) uno basale con usuale pattern di morfologia molecolare; b) uno atipico luminale, sovrabasale, esuberante, con esclusivo immunofenotipo CK18 non-commisto; c) uno costituito da residue cellule morfologicamente non atipiche, localizzate al di sopra della popolazione neoplastica proliferante CK18+, a ridosso del lume del dotto, con immunofenotipo CK5+/CK14+ e AML-. Con questa modalità di classificazione, molto interessante appare l’osservazione di quadri diversi di DH, ADH e DCIS non solo nell’ambito di una stessa zona del tessuto mammario, ma anche in differenti punti di uno o più quadranti (multifocalità e multicentricità). La dimostrazione di queste aree evolutive implica importanti ricadute terapeutico-prognostiche e di follow-up: 1) possibilità di individuare e discriminare le iperlasie dell’epitelio duttale a rischio di evoluzione carcinomatosa; 2) maggiore accuratezza nel predire la multifocalità e multicentricità; 3) capacità di valutare di persistenza ed iper-intensità dello stimolo iperplasizzante (ormonale o di altra natura) quando integrata da altri parametri, come i recettori estro-progestinici, per decidere su terapie a lungo termine. Bibliografia 1 Boecker W, Buerger H. Evidence of progenitor cells of glandular and myoepithelial cell lineages in the human adult female breast epithelium: a new progenitor (adult stem) cell concept. Cell Prolif 2003;36:73-84. 2 Otterbach F, Bankfalvi A, Bergner S, Decker T, Krech R, Boecker W. Citokeratin 5/6 immunoistochemistry assists the differential diagnosis 168 3 4 of atypical proliferations of the breast. Histopathology 2000;37:23240. Boecker W, Moll R, Dervan P, Buerger H, Poremba C, et al. Usual ductal hyperplasia of the breast is a committed stem (progenitor) cell lesion distinct from atypical ductal hyperplasia and ductal carcinoma in situ. J Pathol 2002;198:458-67. Clarke CL, Sandle J, Parry SC, Reis-Filho JS, O’Hare MJ, Lakhani SR. Cytokeratin 5/6 in normal human breast: lack of evidence for a stem cell phenotype. J Pathol 2004;204:147-52. Patologia neoplastica della mammella: prospettive M. Iezzi Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Università di Chieti; Aging Research Center, CeSI, “G. d’Annunzio” University Foundation, Chieti Il carcinoma della mammella è la più frequente malattia tumorale che colpisce la popolazione femminile nei paesi sviluppati e, solo in Italia, si registrano più di 30.000 nuovi casi all’anno. Nonostante i notevoli progressi nel trattamento del carcinoma mammario, la ripresa di malattia e la formazione di metastasi continuano a rappresentare il problema maggiore nella gestione clinica del tumore. La visione tradizionale del processo di metastatizzazione suggeriva che le cellule metastatizzanti del tumore primario infiltrassero lo stroma, i linfatici ed i vasi sanguigni solo dopo aver subito un processo di selezione che le portava all’acquisizione di alterazioni genetiche aggiuntive in grado di conferire loro capacità invasiva. Il processo di metastatizzazione era quindi considerato una caratteristica evolutiva delle fasi avanzate nella progressione del tumore primitivo. Tale modello è stato recentemente messo in discussione da dati epidemiologici e dai risultati degli studi sul profilo genico dei tumori primari e delle loro metastasi che sembrano indicare che durante la progressione neoplastica le cellule tumorali possono, fin dalle fasi iniziali, staccarsi dal tumore primario, cioè disseminare per via linfatica o ematica ed acquisire poi ulteriori alterazioni negli organi secondari sotto la pressione selettiva del nuovo microambiente. La propensione delle cellule tumorali a disseminare per via ematica o linfatica sembra essere determinata dal loro assetto genico. È stato infatti riportato che i profili genici associati a tumori che metastatizzano per via linfatica o per via ematica non sono sovrapponibili suggerendo che il pattern di espressione genica che determina sia la capacità metastatica che la via preferenziale di disseminazione può essere già identificabile nelle fasi precoci dello sviluppo del tumore primario. Sono state inoltre individuate categorie di geni particolarmente influenti sulla metastatizzazione per via ematica quali quelli codificanti per proteine coinvolte nel rimodellamento della matrice extracellulare, nella plasticità del citoscheletro e nelle varie vie di segnale. Estremizzando i risultati ottenuti dal profiling genico si è arrivati addirittura a proporre una riclassificazione molecolare del carcinoma della mammella in due grandi sottogruppi: di tipo luminale e di tipo basale. Il primo include prevalentemente tumori positivi per il recettore degli estrogeni esprimenti geni relativamente più espressi nelle cellule luminali; il secondo comprende tumori per lo più negativi per il recettore degli estrogeni ed esprimenti markers delle cellule basali. I tumori umani iperesprimenti HER-2 tendono ad aggregarsi ai carcinomi di tipo basale e condividono con essi una prognosi negativa. RELAZIONI È indubbio che una riclassificazione come quella sopra esposta non fornisce parametri prognostici direttamente trasferibili alla pratica clinica e deve essere integrata non solo dalla validazione dei dati ottenuti dagli array ma anche con i dati ottenuti ed ottenibili tramite le analisi istologiche ed immunoistochimiche su campioni tissutali. La strategia che vede il confronto delle analisi di espressione genica mediante cDNA microarrays e l’analisi del fenotipo tumorale mediante studi di immunoistochimica su tissue microarrays (TMAs) rappresenta un valido approccio per facilitare il trasferimento delle nuove scoperte di biologia molecolare da ambiti di ricerca alla pratica clinica. Le nuove ipotesi che vedono la disseminazione delle cellule tumorali come “evento precoce” non sono ancora totalmente accettate dalla comunità scientifica internazionale e necessitano di ulteriori approfondimenti e conferme. Per indubbi motivi etici e per effettuare studi sistematici sui processi di disseminazione e metastatizzazione è molto importante avere a disposizione modelli animali spontaneamente sviluppanti carcinomi mammari metastatizzanti. Il modello più conosciuto è rappresentato dai topi BALB neuT, transgenici per il gene attivato di ratto HER2/neu, che dalla quarta alla decima settimana di vita sviluppano iperplasia atipica dell’epitelio dei dotti mammari, dalla undicesima alla quindicesima multipli foci di carcinoma in situ che, confluendo, dalla sedicesima alla ventiduesima evolvono in carcinomi invasivi. Dalla trentatreesima settimana in poi si osservano anche metastasi polmonari. Si è potuto osservare che fin dalla settima settimana di vita cellule citocheratina e HER2 positive sono presenti nel midollo osseo e nel sangue. Alcune di tali cellule si ritrovano anche nei capillari polmonari. La disseminazione di cellule neoplastiche sembra essere più pronunciata durante le fasi di iperplasia e di carcinoma in situ che durante le fasi più avanzate, istologicamente definibili come carcinomi invasivi. Osservazioni di microscopia elettronica rivelano inoltre che già nelle prime fasi di iperplasia sono presenti cellule che superano la membrana basale sconfinando nello stroma. Studi di “Comparative Genomic Hybridization” indicano che le cellule disseminate nel midollo sono portatrici di mutazioni cromosomiche in gran parte diverse da quelle rilevabili nei tumori primitivi. Questi sorprendenti risultati sono stati anche ottenuti tramite le stesse analisi sulle metastasi polmonari. L’insieme di questi dati supporta gli studi recentemente condotti nell’uomo ed attualmente oggetto di intensa discussione internazionale. Essi infatti suggeriscono che le cellule neoplastiche disseminano in fasi molto precoci dello sviluppo tumorale ed acquisiscono sotto la pressione selettiva del nuovo microambiente ulteriori alterazioni geniche che ne facilitano la crescita e quindi la progressione metastatica. La somiglianza nello sviluppo del carcinoma mammario tra questo modello (topi BALB neuT) e l’uomo consente anche di identificare i geni coinvolti nel processo di disseminazione e metastatizzazione e quindi di identificare nuovi bersagli molecolari per terapie immunologiche (vaccini) da associare ai protocolli già in uso. Si è infatti osservato che vaccinazioni a DNA contro il prodotto (p185) dell’HER2 sono in grado di prevenire e di curare le fasi iniziali della carcinogenesi mammaria sviluppantesi nei topi BALB neuT. La reattività immune dipende quasi totalmente dalla produzione di anticorpi. La vaccinazione contro l’HER2 o prodotti di altri geni coinvolti nel processo di disseminazione potrebbe essere in grado di bloccare o uccidere le cellule tumorali nella fase di disseminazione e quindi in una fase di “dormancy” nella quale l’attività proliferativa non è particolarmente elevata rendendo le stesse cellule non facilmente aggredibili dai comuni protocolli chemioterapici. PATHOLOGICA 2005;97:169-173 Patologia neoplastica del polmone e della pleura Moderatore: L. Ruco (Roma) Aree problematiche e controversie in diagnostica istopatologica pleuropolmonare O. Nappi, R. Monaco, A. Boscaino, P. Galloro U.O. di Anatomia patologica, Azienda Ospedaliera “A. Cardarelli”, Napoli Alla fine del 2004 è stato pubblicato il volume della WHO sui Tumori del polmone, pleura, timo e cuore, prodotto da un nutrito panel di esperti internazionali 1. Come per il passato, anche in questa occasione, per alcuni problemi aperti è stata prospettata una soluzione di compromesso, mentre per altri si è preferito conservare l’impostazione esistente, non trovandosi un accordo. In questa nuova serie di Bleu books gli aspetti genetici diventano, inoltre, parte integrante della classificazione dei tumori, in una prospettiva, probabilmente nemmeno troppo lontana, che possano divenire la base per classificazioni e programmi terapeutici futuri. L’immunoistochimica può contribuire a risolvere alcuni casi che presentano una morfologia citoistologica sovrapponibile ma con una differente implicazione diagnostica e prognostica; appare infatti assolutamente rilevante distinguere il carcinoma squamocellulare a piccole cellule dal carcinoma indifferenziato a piccole cellule e tipizzare con precisione il “carcinoma a cellule chiare”; quest’ultimo, infatti, non è altro che un pattern di presentazione morfologica per il carcinoma squamocellulare, l’adenocarcinoma e il carcinoma indifferenziato a grandi cellule. Per entrambe le situazioni non infrequentemente sono implicati anche problemi differenziali con tumori metastatici e, in particolare per la seconda, anche mimics benigni. Immunoistochimicamente il carcinoma squamocellulare del polmone presenta positività per citocheratina ad alto peso molecolare, CK 5/6, spesso per CEA, mentre molto raramente esprime TTF-1, il carcinoma indifferenziato a piccole cellule esprime pressoché sempre TTF-1 e, generalmente, i markers neuroendocrini, in particolare il CD56 con pattern di membrana;non mancano tuttavia casi in cui sinaptofisina e cromogranina non sono espressi e nemmeno citocheratine di alcun genere. Molto variabile l’espressione immunofenotipica degli adenocarcinomi polmonari, prevalendo tuttavia EMA, CEA e CK 7, con una consistente percentuale di positività anche per TTF-1. Sul piano pratico appare sempre utile un’attenta valutazione del materiale disponibile specialmente se molto esiguo, per evitare sopra o sottovalutazioni; particolarmente rilevante è il possibile rischio di sopravalutare materiale apparentemente rappresentativo di carcinoma indifferenziato a piccole cellule 2. In una prossima revisione della classificazione potrebbe essere utile sottolineare il peggioramento prognostico ormai sufficientemente consolidato dagli studi esistenti del “pattern micropapillare” associato con l’adenocarcinoma 3. Il “carcinoma a grandi cellule” continua ad essere un contenitore di istotipi accomunati dalle dimensioni cellulari ma sicuramente non omogenei sul piano biologico e prognostico. In particolare, il carcinoma lymphoepithelioma-like appare sufficientemente caratterizzato come entità autonoma 4, il carcinoma neuroendocrino a grandi cellule andrebbe ricompreso in una organica rivisitazione classificativa delle neo- plasie endocrine mentre il fenotipo rabdoide è probabilmente un approdo anche di altri istotipi come effetto di selezione di cloni più aggressivi. I carcinomi sarcomatoidi nell’attuale classificazione acquistano una maggiore dignità tassonomica e vengono presi in considerazione alcuni patterns particolarmente insidiosi sul piano diagnostico quali l’angiosarcomatoide e l’infiammatorio 5-8. La distinzione semplificata in carcinoma monofasico e bifasico è invece al momento “non raccomandata”, anche se, a nostro giudizio, potrebbe essere la più idonea a supportare in termini classificativi la teoria unitaria ormai consolidata della genesi monoclonale di queste neoplasie 9 10. Subsets di carcinomi indifferenziati a piccole cellule esprimono CD117 e subsets di “carcinomi non a piccole cellule” esprimono EGFR/HER1 ma la semplice espressione immunoistochimica di tali marcatori non appare allo stato un elemento predittivo convincente di risposta a target-therapy. Appare rilevante la presenza classificativa consolidata di sarcomi sinoviali di ogni tipo sia a livello polmonare che a livello pleurico, oltre che mediastinico, con notevoli problemi diagnostici e terapeutici. Per quanto riguarda le neoplasie pleuriche, a parte la ben nota e usuale diagnostica differenziale immunoistochimica, va sempre sottolineato di valutare con prudenza la positività alle citocheratine nel mesotelioma desmoplastico. Il concetto di mesotelioma maligno localizzato rappresenta un’area di approfondimento e ricerca. Bibliografia 1 Tumors of the lung, pleura, thymus and heart. Pathology & genetics WHO Classification of tumours IARC-press, Lyon 2004. 2 Pelosi G, Rodriguez J, Viale G, Rosai J. Typical and atypical pulmonary carcinoid tumor overdiagnosed as small cell carcinoma on biopsy specimen: a major ptfall in the managementof lung cancer patients. Am J Surg Pathol 2005;29:179-87. 3 Amin MB, Tamboli P, Merchant SH. Micropapillary component in lung adenocarcinoma: a distinctive histologic feature with possible prognostic significance. Am J Surg Pathol 2002;26:358-64. 4 Ferrara G, Nappi O. Lymphoepithelioma-like carcinoma of the lung. Two cases diagnosed in Caucasian patients. Tumori 1995;81:144-7. 5 Nappi O, Glasner SD, Swanson PE, Wick MR. Biphasic and Monophasic sarcomatoid carcinoma of the lung. A rappraisal of “carcinosarcomas” and “spindle cell carcinomas”. Am J Clin Pathol 1994;102:331-40. 6 Nappi O, Wick MR. Sarcomatoid neoplasms of the respiratory tract. Semin Diagn Pathol 1993;10:137-47. 7 Nappi O, Swanson PE, Wick MR. Pseudovascular adenoid squamous cell carcinoma of the lung: clinicopathologic study of three cases and comparison with true pleuropulmonary angiosarcoma. Hum Pathol 1994;25:373-8. 8 Wick MR, Ritter JH, Nappi O. Inflammatory sarcomatoid carcinoma of the lung: Report of three cases and clinicopathologic comparison with inflammatory pseudotumors in adult patients. Hum Pathol 1995;26:1014-21. 9 Pelosi G, Fraggetta F, Nappi O, Pastorino U, Maisonneuve P, Pasini F, et al. Pleomorphic carcinomas of the lung show a selective distribution of gene products involved in cell differentiation, cell cycle control, tumor growth, and tumor cell motility: a clinicopathologic and immunohistochemical study of 31 cases. Am J Surg Pathol 2003;27:1203-15. 10 Pelosi G, Scarpa A, Manzotti M, Veronesi G, Spaggiari L, Fraggetta F, et al. K-ras gene mutational analysis supports a monoclonal origin of biphasic pleomorphic carcinoma of the lung. Mod Pathol 2004;17:538-46. 170 Cancro polmonare: basi molecolari A. Marchetti Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Università di Chieti; Aging Research Center (CeSI), “G. d’Annunzio” University Foundation, Chieti Nei paesi industrializzati il cancro del polmone rappresenta la più frequente causa di morte per patologia neoplastica in entrambi i sessi. In Italia si registrano annualmente circa 35.000 nuovi casi con una sopravvivenza globale a 5 anni dalla diagnosi del 13%, percentuale rimasta immodificata nel corso degli ultimi 20 anni. Il fumo di tabacco costituisce il più importante fattore di rischio e si ritiene sia responsabile dell’85% circa dei casi di carcinoma polmonare. Altri fattori di rischio sono rappresentati dall’esposizione a cancerogeni in ambito lavorativo, dall’inquinamento ambientale e dalla predisposizione genetica. L’insorgenza di neoplasie polmonari in individui non fumatori (in Italia 10-15% dei casi) e i risultati ottenuti in studi di segregazione in particolari famiglie a più alta incidenza di questa patologia hanno suggerito che fattori genetici di suscettibilità possano rendere i soggetti più sensibili all’azione di cancerogeni inalati. Si tratta di polimorfismi metabolici, fra cui quelli a carico dell’enzima citocromo P450, dell’enzima glutathione S-transferasi e polimorfismi in geni deputati ai processi di riparazione del DNA, includenti quelli nel gene p53. Di particolare interesse sono risultati anche i polimorfismi a carico del gene mieloperossidasi e idrolasi ipossidica microsomale. L’argomento risulta tuttavia particolarmente complesso considerando quanti sono gli enzimi, attivanti o detossificanti, coinvolti con il metabolismo di potenziali cancerogeni inalati, le loro variazioni di espressione, la complessità dell’esposizione ai cancerogeni presenti nel fumo di tabacco o ambientali e l’esistenza di svariate forme alleliche per i loci polimorfici. Il carcinoma polmonare è un processo multifasico caratterizzato dall’accumulo di alterazioni genetiche includenti mutazioni di sequenza, perdita dello stato di eterozigosità allelica (delezioni), amplificazioni. Numerose evidenze sperimentali suggeriscono che anche fenomeni epigenetici (alterazioni della metilazione del DNA) o variazioni dell’espressione in assenza di lesioni genomiche possano contribuire al processo di cancerogenesi polmonare. Studi sulla funzione dei geni coinvolti, indicano che un ruolo chiave è svolto da molecole implicate nella trasduzione del segnale, nel controllo del ciclo cellulare e del processo apoptotico, funzioni essenziali per i processi di proliferazione e differenziazione. Un punto di controllo estremamente importante ai fini del processo oncogenetico, è quello che si realizza in fase G1 avanzata, il cosiddetto “punto di restrizione”. Alterazioni di proteine deputate alla regolazione del punto di restrizione, in particolare la perdita di funzione delle vie p53-p21WAF1 e Rb-ciclina D/E p16 (CDKN2A) sembrano rappresentare fenomeni cruciali della cancerogenesi polmonare. Ancora in merito al processo di divisione cellulare, è emersa l’importanza dell’alterazione dell’espressione e della funzione dell’enzima telomerasi nella genesi e nella progressione del cancro polmonare. Analogamente, notevole importanza nella patogenesi del cancro polmonare sembrano avere proteine interessate alla trasmissione intracellulare del segnale, sia proteine transmembrana (EGFR, cErbB2), sia molecole intracitoplasmatiche che funzionano da interruttori del segnale. Lo sviluppo, in questi ultimi anni, di nanotecnologie ad alta processività (microarrays) per l’analisi simultanea dell’espressione di migliaia di geni e la possibilità di correlare i profili di espressione geni- RELAZIONI ca tumorale con numerosi parametri clinico-patologici mediante innovativi metodi biostatistici stanno fornendo nuovi, importanti contributi per una più profonda comprensione del processo neoplastico. Nell’insieme tutte queste acquisizioni, oltre a far luce sulla complessità degli eventi coinvolti nella cancerogenesi polmonare e a confermare o meno in termini biologici l’esistenza di specifiche entità morfologiche, possono fornire utili elementi per la pratica clinica. Vari aspetti clinici ancora molto critici potrebbero beneficiare delle nuove conoscenze bio-molecolari: a) la diagnosi di carcinoma polmonare è da considerarsi estremamente tardiva: una diagnosi precoce potrebbe permettere di aumentare il numero dei pazienti operabili; b) i pazienti operati radicalmente sono ad alto rischio di recidiva ma non sono disponibili validi mezzi per individuare quelli a rischio; c) i trattamenti chemioterapici classici sono scarsamente attivi, i pazienti potrebbero trarre beneficio da nuove strategie terapeutiche mirate a specifici bersagli molecolari. La prevenzione del cancro polmonare mediante screening diagnostici, radiologici e citologici, si è dimostrata tutt’altro che semplice. L’analisi molecolare dell’espettorato e/o del condensato di esalazione potrebbe, assieme alla diagnostica per immagini (TAC spirale) e alla tecnica broncoscopia a fluorescenza, risultare utile nei futuri programmi di screening diagnostici. A questo proposito di particolare interesse risulta attualmente lo studio di fenomeni epigenetici, in particolare del processo di metilazione di geni coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare (p16 (CDKN2A), PAX5α, PAX5β, CHFR) nella riparazione del DNA (MGMT), nel processo apoptotico (DAPK, Caspase-8, FAS, TRAILR1), nella trasduzione del segnale ras-mediata (RASSF1A, NORE1A), e nel processo di invasione (E-cadherin, H-cadherin, TIMP3, LAMA3, LAMB3, LAMC2). Tra i marcatori prognostici finora emersi da studi traslazionali, possono essere considerati potenzialmente utili le mutazioni di K-ras negli adenocarcinomi, le mutazioni e/o l’alterazione di espressione di p53, l’espressione del gene hTERT e/o l’attività telomerasica. Le analisi condotte con tecnologie basate sui microarrays hanno permesso di identificare profili di espressione genica significativamente correlati con la prognosi. I risultati prodotti devono essere considerati promettenti, ma preliminari. Solo studi su ampie casistiche che possano permettere di individuare con sufficiente potenza statistica set di geni correlati con la prognosi da cui ottenere indici di rischio da validare successivamente su casistiche indipendenti, potranno fornire risultati utili nella pratica clinica. La rapida progressione delle conoscenze biomolecolari sui meccanismi di cancerogenesi bronchiale ha permesso anche lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici mirati, rivolti cioè a colpire specifiche molecole o pathways molecolari che rappresentano eventi cruciali per la crescita neoplastica. Fra questi, di particolare importanza recettori di membrana quali EGFR e ERB-2, il gene K-ras, la cascata di eventi coinvolta con l’angiogenesi, l’attivazione del processo apoptotico e del ciclo cellulare tramite chinasi ciclino-dipendenti. La speranza per il futuro è che l’avvento delle tecnologie genomiche ad alta processività possa favorire lo sviluppo di trattamenti individualizzati. PATOLOGIA NEOPLASTICA DEL POLMONE E DELLA PLEURA Pleura: basi molecolari S. Bosari, M. Falleni, C. Pellegrini, S. Romagnoli, L. Santambrogio*, M. Nosotti*, G. Coggi Department of Medicine Surgery and Dentistry, Division of Pathology, University of Milan, A.O. “S. Paolo” and Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico “Mangiagalli e Regina Elena”, Milano, Italy; * Division of Thoracic Surgery, Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico “Mangiagalli e Regina Elena”, University of Milano, Italy Malignant mesothelioma (MM) is a highly lethal human malignancy of mesothelial cells, highly refractory to current multimodal therapies, with increasing worldwide incidence. Technological advances in molecular biology and genetics can provide data useful to cancer prevention and treatment. In particular, identification of specific molecular changes in neoplastic mesothelial cells could provide new insights in the mechanisms of MM pathogenesis with the aim to improve the accuracy of MM classification and predict prognosis. Furthermore, the delineation of altered pathways and their possible pharmacological reversal, constitutes the most promising goal to treat MM and overcome its unresponsiveness to therapy 1 2. MM is associated with prolonged environmental carcinogens exposure, particularly asbestos, with SV40 virus infection and with somatic genetic alterations; in about 30-40% of cases, risk factors remain unknown, with other carcinogens and mechanisms probably implicated in mesothelial cell transformation. Multiple molecular defects involved in DNA repair capacity, cell growth and death control, invasiveness, angiogenesis, and immune surveillance have been described in MMs. Different asbestos fibers can also activate different carcinogenic pathways. Specifically, exposure to crocidolite asbestos fibers has been shown to induce marked and persistent DNA damage, EGFR phosphorylation in rat pleural mesothelial cells and disregulation of ERK1/2 and Akt pathways, with up-regulation of genes such as fra-1, in turn linked to cd44 and c-met gene expression 3 4. Conversely, chrysotile fibers exposure is associated to multiple deletions and down-regulation of p21 and integrin receptor associated gene BigH3 5. Another possible mechanism in the pathogenicity of asbestos fibers could be lipid peroxidation, mediated by reactive oxygen species, produced in inflammatory conditions. Cyclooxygenase-2 (COX-2), involved in eicosanoid biosyntesis, is overexpressed in human MM and related to poor patients’ outcome 6. Recent data document that mesothelial cells are the most susceptible human cells to the infection by SV40, an oncogenic DNA virus. SV40 causes mesothelial cell transformation, probably by aberrant methylation of several genes like the tumor suppressor gene RASSF1A 7. In addition SV40 can improve mesothelial cell survival by Hepatocyte Growth Factor (HGF) receptor activation 8. SV40 and asbestos are considered co-carcinogens acting sinergically in mesothelial cell malignant transformation. Characteristically, p53, Rb, Ras, WT1, DCC or APC gene alterations found in the majority of human cancers, are uncommon in MM. Conversely, NF2 gene mutations are frequently reported and homozygous deletion of the 9p21 locus within a cluster of genes comprising CDKN2A, with loss of p16INK4A and or p14ARF expression, seems to be the most common molecular defect in MM 9 . This deletion results in defects of both cell cycle and cell death control probably by functional inactivation of p53 and inhibition of Rb phosphorilation. Identification of defects involved in MM resistence to apoptosis is becoming crucial in 171 the control of unresponsiveness to therapy. Multiple gene expression alterations have been documented in apoptosis. Specifically, FLIP, a caspase – 8 inhibitor, is overexpressed and constitutively activated in MM cells 10. IAP-1 and Survivin, members of the IAP family (with Bcl-2 one of the most important regulators of apoptosis) are overexpressed in MM 11 12 . Most of these data, obtained with single gene evaluation and simple ratios of gene expression levels using as few as four to six genes, with Western Blot, immunoblotting and/or quantitative real time RT-PCR, have been documented to be extremely useful in reaching an accurate diagnosis of cancer and likely they will be useful for additional clinical application. However, the evaluation of the expression of proapoptotic and antiapoptotic proteins of the Bcl-2 family, like Bcl2, Bcl-xL, Bax, requires the understanding of entire complex network of pathways leading to apoptosis. New genomic technologies provide new data related to the molecular profiling of gene expression of human MM. High-Density DNA microarrays and microfluidic cards are currently the most useful techniques to identify genes differentially expressed in MMs. Our group investigated the apoptosis pathway with microfluidic cards, profiling 88 genes and comparing MMs to normal pleuras. Results show that genes belonging to the IAP and Bcl-2 families are differentially expressed; furthermore we observed differences in the expression of some caspases, TNF receptors and their ligands, therefore delineating a complex patterns of apoptosis-related alterations in this disease. Future challenges will include a thorough understanding of the significance of the gene expression patterns and the application of this knowledge towards the therapy of MM patients. References 1 Bueno R, et al. Genetics of malignant pleural mesothelioma: molecular markers and biologic targets. Thorac Surg Clin 2004;14:461-8. 2 Pass HI, et al. Gene expression profiles predict survival and progression of pleural mesothelioma. Clin Cancer Res 2004;10:849-59. 3 Zanella CL, et al. Asbestos causes stimulation of the extracellular signal-regulated kinase 1 mitogen-activated protein kinase cascade after phosphorylation of the epidermal growth factor receptor. Cancer Res 1996;56:5334-8. 4 Ramos-Nino ME, et al. Mesothelial cell transformation requires increased AP-1 binding activity and ERK-dependent Fra-1 expression. Cancer Res 2002;62:6065-9. 5 Hei TK. Molecular changes induced by chrysotile fibers. VII Meeting of the International Mesothelioma Interest Group (IMIG). BS (Italy), June 2004. 6 Edwards JG, et al. Cyclooxygenase-2 expression is a novel prognostic factor in malignant mesothelioma. Clin Cancer Res 2002;8:1857-62. 7 Suzuki M, et al. Aberrant methylation profile of human malignant mesotheliomas and its relationship to SV40 infection. Oncogene 2005;24:1302-8. 8 Cacciotti P, et al. SV40 replication in human mesothelial cells induces HGF/Met receptor activation: a model for viral-related carcinogenesis of human malignant mesothelioma. Proc Natl Acad Sci USA 2001;98:12032-7. 9 Illei PB, et al. Homozygous deletion of CDKN2A and codeletion of the methylthioadenosine phosphorylase gene in the majority of pleural mesotheliomas. Clin Cancer Res 2003;9:2108-13. 10 Rippo MR, et al. FLIP overexpression inhibits death receptor-induced apoptosis in malignant mesothelial cells. Oncogene 2004;23:7753-60. 11 Falleni M, et al. Quantitative evaluation of the apoptosis regulating genes Survivin, Bcl-2 and Bax in inflammatory and malignant pleural lesions. Lung Cancer 2005;4:211-6. 12 Gordon G, et al. Inhibitor of apoptosis protein-1 promotes tumor cell survival in mesothelioma. Carcinogenesis 2002;23:1017-24. 172 La targeted therapy nei tumori polmonari non a piccole cellule: recenti acquisizioni e prospettive future P.F. Conte, F. Barbieri Dipartimento Oncologia, Ematologia e Pneumologia, Università di Modena e Reggio Emilia, Modena, Italia Le neoplasie polmonari sono la principale causa di mortalità per tumore nel mondo, con 1,2 milioni di nuovi casi per anno e oltre 1 milione di morti. Il carcinoma polmonare non a piccole cellule (CPNPC) rappresenta oltre l’80% di tutti i tumori polmonari. La chirurgia rimane l’unico presidio dotato di capacità curative (a parte rari casi di radioterapia) ma solo il 1520% dei casi può giovarsi di questa modalità ma anche in questi casi un certo numero ricade a varia distanza di tempo limitando la sopravvivenza a 5 anni dei casi operati al 40%. Nuove speranze sembrano derivare dall’uso sequenziale di chirurgia e chemioterapia pre- e/o post-operatoria ma nella maggior parte dei casi, soprattutto per lo stadio avanzato alla diagnosi, la terapia risulta provvista solo di possibilità palliative con un modesto 15% di sopravvivenza a 5 anni considerando tutti gli stadi. Gli sviluppi sulle conoscenze della biologia tumorali e sui meccanismi di carcinogenesi hanno consentito di individuare nuovi bersagli terapeutici per la terapia del CPNPC; queste cosiddette “targeted therapies” sono concepite quindi per interferire con vie biologiche anomale durante i vari stadi della proliferazione tumorale. I numerosi contributi biologici e clinici sin qui completati hanno fornito nuove ed importanti informazioni sulle proprietà antineoplastiche di questi nuovi agenti così come sulle loro limitazioni e, soprattutto, sulla notevole complessità delle interconnessioni biologiche esistenti a livello delle cellule neoplastiche. I primi e più conosciuti esponenti di questa nuova categoria di farmaci sono gli inibitori (intra- ed extracellulari) dei recettori per ERBB1 (EGF) e ERBB2 seguiti dai farmaci antiangiogenetici. EGF-1. Cetuximab (inibitore recettoriale), Gefitinib ed Erlotinib (inibitori del EGFR-TK) appartengono a questa categoria. Cetuximab (Erbitux, IMC-225) è un anticorpo chimerico anti-EGFR che ha dimostrato notevole attività nei tumori del colon e cervicofaciali, sia da solo che associato a chemio- e/o radioterapia. I dati disponibili sui CPNPC in associazione a chemioterapia sia in I che II linea, riferiti ad un numero non elevato di casi, mostrano una buona tollerabilità ma attività limitata. Gefitinib (ZD1839, Iressa) ed Erlotinib (OSI 774, Tarceva), entrambi derivati quinazolinici, sono inibitori competitivi per l’ATP a livello del dominio intracellulare del recettore per l’EGFR. Sulla base degli studi di fase II 1 2, hanno dimostrato moderata attività nei CPNPC protrattati ma notevole efficacia nel controllo dei sintomi, soprattutto negli istotipi adenocarcinoma e bronchioloalveolare; nessuno dei 2 farmaci si è rivelato efficace in abbinamento con chemioterapia (studi INTACT 1 e 2 per gefitinib, TALENT e TRIBUTE per Erlotinib), in ragione principalmente di un effetto antagonista nei confronti dei chemioterapici 3 4. Mentre Erlotinib, però, ha dimostrato di ridurre in modo significativo la mortalità nell’ambito di tre studi clinici che ne hanno motivato il via all’impiego clinico 5, ciò non si è registrato per Gefitinib, tanto in questi studi quanto nel più recente studio ISEL. Molti quesiti rimangono peraltro ancora aperti, come, ad es, il significato delle mutazioni a carico del dominio TK, la durata ottimale della terapia, l’insorgenza di resistenza e la combinazione di farmaci a bersaglio molecolare tra loro e con chemioterapia o radioterapia. RELAZIONI La precisazione delle strette interconnessioni tra EGFRs e mTOR e tra EGFRs e recettori estrogenici sembra fornire nuove e più solide basi per l’utilizzo combinato di questi nuovi agenti antitumorali. mTOR rappresenta infatti un momento chiave nel trasferimento di segnale tra ERB, processo traslazionale e crescita cellulare attraverso la via PI3K-AKT ma è altresì in grado di agire indipendentemente: su questi presupposti si basa l’impiego degli analoghi della rapamicina già in corso di studio in diverse neoplasie. Analogamente sono state documentate interazioni a diversi livelli tra recettori estrogenici e EGFR che sembrano fornire un razionale per l’impiego combinato di inibitori di EGFR e antiaromatasici o antiestrogeni non solo nel carcinoma mammario ma anche nel CPNPC 6. È stato altresì notato che soggetti con mutazione a carico della TK avevano una migliore probabilità di risposta agli inibitori dell’EGFR 7 8, anche se un certo numero di risposte si registra in pazienti senza mutazione: ciò si verifica probabilmente perché i soggetti con mutazione attivano preferenzialmente le vie AKT e STAT e quindi il blocco con TKI induce apoptosi. Un altro aspetto messo in luce di recente è la comparsa di resistenza agli inibitori, probabilmente in relazione alla comparsa di nuove mutazioni somatiche o ad incrementata attività di K-ras 9, analogamente a quanto già descritto per la CML. HER-2. Nel CPNPC l’espressione dell’ERBB2 (HER-2) è variabile a seconda dell’istologia ma in ogni caso bassa sia in IHC che in FISH (positività 3+ in meno del 5%); il significato prognostico di questo dato è tuttora incerto. Il Trastuzumab (Herceptin), anticorpo monoclonale umanizzato in grado di competere per il recettore HER-2 e dotato di notevole attività nel carcinoma mammario, è risultato, nell’unico trial di fase II completato, completamente inattivo nel CPNPC 10. Agenti anti-angiogenici. La presenza di livelli elevate di VEGF sulle cellule e nel siero di diversi pazienti con CPNPC ha costituito il razionale per l’utilizzo di Bevacizumab nel CPNPC. Sono stati recentemente comunicati i risultati di uno studio di confronto tra carboplatino/paclitaxel e la medesima combinazione + bevacizumab in pazienti con CPNPC nonsquamoso con risultati incoraggianti sia in termini di risposta che di sopravvivenza: in quest’ultimo gruppo è stata peraltro evidenziata una maggiore incidenza di ipertensione, proteinuria, emoftoe e morti legate al trattamento 11. Meritano menzione infine i risultati della combinazione tra gefitinib e bevacizumab, riportati da Herbst et al. 12, che sembrano mostrare come il blocco combinato dell’angiogenesi risulti promettente sia in termini di risposte che di tollerabilità. Bibliografia 1 Fukuoka M, Yano S, Giaccone G, et al. Multi-institutional randomized phase II trial of gefitinib for previously treated patients with advanced non-small cell lung cancer. J Clin Oncol 2003;21:2237-46. 2 Kris MG, Natale RB, Herbst RS, et al. Efficacy of gefitinib, an inhibitor of the epidermal growth factor receptor tyrosine kinase, in symptomatic patients with non-small cell lung cancer: a randomized trial. JAMA. 2003;290:2149-58. 3 Giaccone G, Herbst RS, Manegold C, et al. Gefitinib in combination with gemcitabine and cisplatin in advanced non-small-cell lung cancer: a phase III trial – INTACT 1. J Clin Oncol 2004;22:777-84. 4 Herbst RS, Giaccone G, Schiller JH, et al. Gefitinib in combination with paclitaxel and carboplatin in advanced non-small-cell lung cancer: a phase III trial – INTACT 2. J Clin Oncol 2004;22:785-94. 5 Shepherd FA, Pereira J, Ciuleanu TE, et al. A randomized placebo-controlled trial of erlotinib in patients with advanced non-small cell lung cancer (NSCLC) following failure of 1st line or 2nd line chemotherapy. A National Cancer Institute of Canada Clinical Trials Group (NCIC CTG) trial. Proc Am Soc Clin Oncol 2004;23(Suppl):12. 6 Stabile LP, Lyker JS, Gubish CT, et al. Combined Targeting of the Estrogen Receptor and the Epidermal Growth Factor Receptor in PATOLOGIA NEOPLASTICA DEL POLMONE E DELLA PLEURA 7 8 9 10 Non-Small Cell Lung Cancer Shows Enhanced Antiproliferative Effects. Cancer Res 2005;65:1459-70. Lynch TJ, Bell DW, Sordella R, et al. Activating mutations in the epidermal growth factor receptor underlying responsiveness of nonsmall-cell lung cancer to gefitinib. N Engl J Med 2004;350:2129-39. Paez JG, Janne PA, Lee JC, et al. EGFR mutations in lung cancer: correlation with clinical response to gefitinib therapy. Science 2004;304:1497-500. Pao W, et al. Acquired resistance of lung adenocarcinomas to gefitinib or erlotinib is associated with a second mutation in the EGFR kinase domain. PLoS Med 2005;2:1-11. Gatzemeier U, Groth G, Butts C, et al. Randomized phase II trial of 173 11 12 gemcitabine-cisplatin with or without trastuzumab in HER2-positive non-small-cell lung cancer. Ann Oncol 2004;15:19-27. Sandler AB, Gray R, Brahmer J, et al. Randomized phase II/III Trial of paclitaxel (P) plus carboplatin (C) with or without bevacizumab (NSC # 704865) in patients with advanced non-squamous non-small cell lung cancer (NSCLC): An Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) Trial - E4599. Proc Am Soc Clin Oncol 2005;23:2s. Herbst RS, Johnson DH, Mininberg E, et al. Phase I/II trial evaluating the anti-vascular endothelial growth factor monoclonal antibody bevacizumab in combination with the HER-1/epidermal growth factor receptor tyrosine kinase inhibitor erlotinib for patients with recurrent non-small-cell lung cancer. J Clin Oncol 2005;23:2544-55. PATHOLOGICA 2005;97:174-175 Patologia gastro-intestinale Moderatore: E. Bucciarelli (Perugia) Lesioni infiammatorie e metaplastiche alla giunzione esofago-gastrica R. Fiocca, L. Mastracci, P. Spaggiari, Y. Musizzano, P. Zentilin*, P. Dulbecco*, V. Savarino* Anatomia Patologica e * Gastroenterologia, Università di Genova ed Ospedale “S. Martino”, Genova La malattia da reflusso gastro-esofageo (GERD = GastroEsophageal Reflux Disease) è causata dal refluire ricorrente e patologico del contenuto gastrico in esofago e si accompagna a sintomi sia digestivi che extradigestivi. Nonostante che la sua prevalenza sia in costante aumento nei paesi occidentali (si calcola che circa il 10-20% della popolazione europea e nord americana presenti sintomi almeno settimanali della malattia), non è stato definito a tutt’oggi un gold standard diagnostico. La diagnosi si basa attualmente sulla valutazione dei sintomi, sul riconoscimento di lesioni endoscopiche, sulla pHmetria esofagea delle 24 h e sulla risposta ai farmaci inibitori della pompa protonica. È peraltro noto che meno della metà dei pazienti con sintomi tipici presenta un’esofagite macroscopica (ERD = Erosive Reflux Disease) 1 mentre la maggior parte di essi manca di lesioni endoscopiche (NERD = Non Erosive Reflux Disease) e non infrequente è la negatività anche dei dati pH-metrici (FH = Functional Heartburn). Per quanto sia nota da tempo la presenza di lesioni infiammatorie e metaplastiche a livello del 3° esofageo inferiore e della giunzione esofago-gastrica 2, la pratica attuale restringe l’uso dell’istologia alla diagnosi dell’esofago di Barrett e delle sue complicanze displastiche e neoplastiche 3. Ciò è legato alla vistosa eterogeneità dei risultati sinora pubblicati sulle lesioni dell’epitelio squamoso che, a sua volta, è conseguenza della mancanza in molti di tali studi di gruppi di controllo e/o di metodologie adeguate. Questo articolo prende in considerazione due aspetti della diagnosi istologica della GERD: 1. il significato diagnostico delle lesioni dell’epitelio squamoso; 2. le malattie associate alla metaplasia intestinale alla giunzione esofago-gastrica. Significato diagnostico delle lesioni dell’epitelio squamoso I dati qui riportati si basano sullo studio di 119 pazienti GERD e di 20 controlli 4. Tutti sono stati sottoposti ad un’accurata analisi dei sintomi, ad esofago-gastroscopia con biopsie a 4 cm, a 2 cm ed alla linea Z ed a pHmetria delle 24h. Sulla base del quadro clinico i pazienti sono stati divisi in 3 gruppi: con esofagite endoscopica (ERD), con sintomi e pHmetria patologica ma senza lesioni endoscopiche (NERD), con sintomi ma con endoscopia e pHmetria normali (FH). I controlli non presentavano sintomi GERD né alterazioni endoscopiche o pHmetriche. In tutte le sedi biopsiate sono stati valutati l’iperplasia dello strato basale, l’allungamento delle papille coriali, la presenza di granulociti eosinofili e neutrofili intraepiteliali, di necrosi ed erosioni e la dilatazione degli spazi intercellulari 5; la severità di ciascuna lesione è stata graduata con uno score compreso da 0 a 2, costruendo poi uno score complessivo di tutte le lesioni. I dati complessivi sono riportati in Tabella I. L’analisi dei reperti nelle singole sedi biopsiate (3.336 lesioni graduate da 2 osservatori indipendenti) ha consentito di trarre le seguenti conclusioni: • i soggetti con GERD presentano lesioni istologiche che sono invece rare nei controlli; • le biopsie sulla linea Z aumentano grandemente la sensibilità dell’istologia ma ne riducono la specificità; • dato che lesioni di grado lieve sono presenti anche nei controlli (soprattutto sulla linea Z) è necessario introdurre un cut off (score > 2) per distinguere efficacemente i pazienti dai controlli; • le biopsie a 2 cm e sulla linea Z forniscono quasi tutte le informazioni e quindi quelle a 4 cm non sono necessarie; • la riproducibilità interosservatore della graduazione istologica è elevata (91%, K = 0,89); • vi è correlazione tra i dati istologici e pH-metrici. Tab. I. Prevalenza dell’esofagite microscopica in soggetti con GERD ed in controlli, utilizzando un valore di cut-off (> 2). Gruppo N. di casi ERD NERD FH Tutti Controlli 48 59 12 119 20 Casi con score > 2 (N.) 46 47 7 100 3 Casi con score > 2 (%) 96% 80% 58% 84% 15% Sulla base di tali elementi è possibile affermare che l’istologia costituisce un utile strumento diagnostico nella malattia da reflusso ed in particolare nelle forme non erosive. Dato che attualmente non esiste un parametro obiettivo per valutare la risposta alla terapia nelle NERD, l’istologia può essere proposta a tale scopo nell’ambito di trials terapeutici 6. Malattie associate alla metaplasia intestinale alla giunzione esofago-gastrica La metaplasia intestinale alla giunzione esofago-gastrica (MIG) costituisce un reperto abbastanza frequente (15-20% di endoscopie non selezionate), il cui rischio di cancro sembra essere assai inferiore a quello associato all’esofago di Barrett 7. Il significato della sua presenza su biopsie provenienti da una linea Z endoscopicamente regolare è stato ampiamente dibattuto, considerandola alcuni l’estensione a livello cardiale di una gastrite atrofico-metaplastica, altri invece l’espressione di una forma iniziale di Barrett conseguente alla malattia da reflusso (Ultra-short Barrett). Nell’ipotesi che le lesioni gastriche e/o esofagee associate alla MIG possano fornire indicazioni sul significato biologico della MIG, abbiamo studiato una serie continua di 485 soggetti non selezionati, sottoposti ad endoscopia per varie motivazioni e tutti provvisti di biopsie esofagee, della linea Z e gastriche (antro + corpo). Si è osservata MIG in 91/485 casi (18,8%), in 11 casi la MI era di tipo completo, in 77 di tipo incompleto, in 3 mista. L’età mediana dei casi con MIG (59,5) era superiore a quella dei controlli (53,3, p = 0,0003). La prevalenza di lesioni associate ai casi rispettivamente con e senza MIG PATOLOGIA GASTRO-INTESTINALE 175 Tab. II. Prevalenza di lesioni gastriche ed esofagee in pazienti con e senza MIG. Lesioni associate Solo lesioni esofagee Solo lesioni gastriche Lesioni esofagee + gastriche Esofago e stomaco normali Prevalenza in casi con MIG 46,1% 13,2% 36,3% 4,4% (42/91) (12/91) (33/91) (4/91) era la seguente: esofagite microscopica 50,5% vs. 58,6%, esofago di Barrett 31,9% vs. 0%, gastrite da H. pylori 22,0% vs. 23,9%, metaplasia intestinale dello stomaco 27,5% vs. 17,3% (p = 0,037), assenza di lesioni gastriche ed esofagee 4,4% vs. 24,1% (la somma delle lesioni in ciascun gruppo eccede il 100% per la presenza di lesioni multiple in alcuni casi). La Tabella II mostra la distribuzione del totale lesioni associate, raggruppate per organo. Tali dati suggeriscono che la MIG possa essere espressione a livello giunzionale sia di una malattia da reflusso (più frequentemente) che di una gastrite che di entrambe. La bassissima prevalenza di reperti normali sia esofagei che gastrici in casi con MIG (ma non nei controlli) dimostra che la MIG non rappresenta un’entità isolata ma che riflette una storia di malattia esofagea o gastrica. 2 3 4 5 6 7 Bibliografia 1 Schindlbeck NE, Klauser AG, Berghammer G, et al. Three year fol- Prevalenza in casi senza MIG p 34,8% (137/394) 17,2% (68/394) 23,9% (94/394) 24,1% (95/394) 0,053 0,93 0,017 < 0,0001 low-up of patients with gastroesophageal reflux disease. Gut 1992;33:1016-9. Ismail-Beigi F, Horton PF, Pope CE. Histological consequences of gastroesophageal reflux in man. Gastroenterology 1970;58:163-74. Dent J, Brun J, Fendrick AM, et al. on behalf of the Genval Workshop Group. An evidence-based appraisal of reflux disease management – the Genval workshop report. Gut 1999; 44(Suppl 2):S1-S16. Zentilin P, Savarino V, Mastracci L, Spaggiari P, Dulbecco P, Ceppa P, et al. Re-assessment of the diagnostic value of histology in patients with GERD, using multiple biopsy sites and an appropriate control group. Am J Gastroenterol 2005, in stampa. Villanacci V, Grigolato PG, Cestari R, et al. Dilated intercellular spaces as marker of esophageal reflux: histology, semiquantitative score and morphometry upon light microscopy. Digestion 2001;64:1-8. Calabrese C, Bortolotti M, Fabbri A, Areni A, Cenacchi G, Scialpi C, et al. Reversibility of GERD ultrastructural alterations and relief of symptoms after omeprazole treatment. Am J Gastroenterol 2005;100:537-42. Sharma P, Weston AP, Morales T, et al. Relative risk of dysplasia for patients with intestinal metaplasia in the distal esophagus and in the gastric cardiac. Gut 2000;46:9-13. PATHOLOGICA 2005;97:176-179 Transizione pre-cancerosi – cancro Moderatore: C. Clemente (Milano) Agenti trasformanti e basi molecolari della carcinogenesi M. Roncalli Università di Milano, Istituto Clinico “Humanitas” È noto come svariati siano gli agenti etiologici implicati nella carcinogenesi umana. Tra questi importanza rilevante assumono gli agenti virali (quali HPV, HBV, EBV, HSV8), chimici (agenti alchilanti, attivatori metabolici, idrocarburi aromatici contenuti nel fumo di sigaretta, azocoloranti, prodotti naturali tipo aflatossina B1 e composti chimici tipo cloruro di vinile) e radianti (ultravioletti e radiazioni ionizzanti). Solo in alcuni casi stati ipotizzati e provati meccanismi molecolari più o meno complessi che legano un determinato carcinogeno al processo di trasformazione molecolare. Ad esempio l’aflatossina B1 è in grado di indurre una specifica mutazione al codon 249 di p53 intervenendo nella carcinogenesi epatica, mentre i prodotti proteici E6 ed E7 dei virus HPV 16 e 18, legando e inattivando due oncosoppressori critici come p53 e Rb1, inducono il processo di trasformazione cervicale mentre le radiazioni ultraviolette, determinando mutazioni di p53 e kras, intervengono nel processo di cancerogenesi cutanea. Le basi molecolari della sequenza carcinogenetica sono assai complesse e l’innesco del processo deve essere seguito dalla capacità delle cellule alterate di fissare il danno e di trasmetterlo alla progenie. In definitiva il processo di trasformazione (e di progressione) neoplastica è costituito da una serie di alterazioni molecolari di geni strategici, noti e ignoti, nella regolazione agonista e antagonista della crescita e differenziazione cellulare, dell’apoptosi, dell’adesione cellulare, del controllo dell’integrità e del riparo del DNA, ecc. Ciò è stato ben documentato nel modello di cancerogenesi colorettale in cui alterazioni di tipo genetico ed epigenetico (non legate cioè a modificazioni strutturali del DNA) sequenziali ed additive, accompagnano la sequenza morfologica cellula normale-adenoma/displasia-cancro. Emerge che vi sono diverse categorie di tumori (la maggior parte dei tumori del coloretto, mammella, fegato, polmone, testa-collo) caratterizzati da elevata instabilità cromosomica (pathway CIN, vale a dire con importanti alterazioni cromosomiche rappresentate da guadagno o perdita di frammenti cromosomici, da perdita di eterozigosità e in definitiva da aneuploidia), che accelera la probabilità che si realizzino mutazioni in geni critici a carico stessa cellula/clone cellulare. Vi sono altresì categorie di neoplasie caratterizzate, all’opposto, da bassa instabilità cromosomica (tumori in genere diploidi) come le neoplasie colorettali con pathway MSI (alta instabilità microsatellitare), in cui il processo carcinogenetico viene determinato ad esempio dal difetto di geni di riparo del DNA. Vi è infine un terzo gruppo di neoplasie, quelle con fenotipo cosiddetto metilatore, in cui diversi geni vengono silenziati epigeneticamente (p16, p14, ecc.), contribuendo alla tumorigenesi. È oggi importante stabilire se queste alterazioni molecolari si realizzano nel corso della progressione tumorale o la anticipano, intervenendo nelle fasi iniziali del processo di trasformazione. Alcune evidenze suggeriscono che alterazioni tipo CIN possono essere già documentabili in condizioni di displasia (ad es displasie colorettali o del cavo orale con evi- denza di aneuploidia). La sistematizzazione di queste informazioni dovrebbe consentire di chiarire le basi molecolari delle stesse lesioni displastiche che noi classifichiamo morfologicamente in 2/3 categorie (basso-alto grado; lievemoderata e severa) ma che verosimilmente sono tarate da elevata eterogeneità biologica e conseguentemente evolutiva (e di risposta terapeutica), nell’ambito delle stesse subcategorie displastiche. Le basi biologiche della CIN sono attualmente oggetto di studi intensi che hanno identificato alcuni geni critici coinvolti ad es. nella segregazione cromosomica, nel controllo di checkpoints cellulari della mitosi e nel riparo di DNA (MAD2, BUB1, BRCA2, CDC4) che, se alterati, sono in grado di indurre rapidamente fenomeni di aneuploidia cellulare. Ancora più interessante rilevare che anche alcuni agenti virali (JC, HBV, HPV e HTLV-1) a loro volta sono in grado di indurre aneuploidia interferendo verosimilmente con la regolazione dei geni sopraddetti. Sta emergendo il concetto di neoplasie immortali, contrapposte alle mortali, ovvero con la capacità di attecchire rapidamente in coltura, in quanto fortemente aneuploidi e biologicamente più aggressive. A sua volta questa ipotesi richiama l’origine tumorale delle cosiddette neoplasie immortali da cellule differenziate (ma divenute aneuploidi) contrapposta all’origine di neoplasie mortali da stem cells (normoploidi). Queste ipotesi hanno ovvie implicazioni anche per quanto attiene la identificazione e definizione della eterogenità delle lesioni displastiche (displasie mortali, normoploidi e displasie immortali, aneuploidi) nonché per la comprensione biologica della cosiddetta “field cancerization”. In questo contesto verranno infine richiamati anche alcuni aspetti eziopatogenetici e molecolari della cancerogenesi epatica laddove alla relativa complessità delle pathways coinvolte nel carcinoma epatico (dovuta anche alla multifattorialità degli agenti etiologici) si contrappone la carenza relativa di informazioni per quanto attiene le basi morfologiche e molecolari della transizione precancerosi-cancro. Bibliografia 1 Chirieac LR, Shen L, Catalano PJ, Issa JP, Hamilton SR. Phenotype of microsatellite-stable colorectal carcinomas with CpG island methylation. Am J Surg Pathol 2005;29:429-36. 2 El-Zein R, Gu Y, Sierra MS, Spitz MR, Strom SS. Chromosomal instability in peripheral blood lymphocytes and risk of prostate cancer. Cancer Epidemiol Biomarkers Prev 2005;14:748-52. 3 Feitelson MA, Reis HM, Liu J, Lian Z, Pan J. Hepatitis B virus X antigen (HBxAg) and cell cycle control in chronic infection and hepatocarcinogenesis. Front Biosci 2005;10:1558-72. 4 Gorgoulis VG, Vassiliou LV, Karakaidos P, Zacharatos P, Kotsinas A, Liloglou T, et al. Activation of the DNA damage checkpoint and genomic instability in human precancerous lesions. Nature 2005;434:907-13. 5 Hunter KD, Parkinson EK, Harrison PR. Profiling early head and neck cancer. Nat Rev Cancer 2005;5:127-35. Review. 6 Jallepalli PV, Lengauer C. Chromosome segregation and cancer: cutting through the mystery. Nat Rev Cancer 2001;1:109-17. Review. 7 Kazama Y, Watanabe T, Kanazawa T, Tada T, Tanaka J, Nagawa H. Mucinous carcinomas of the colon and rectum show higher rates of microsatellite instability and lower rates of chromosomal instability. Cancer 2005;103:2023-9. 8 Lengauer C, Wang Z. From spindle checkpoint to cancer. Nat Genet 2004;36:1144-5. 9 Loeb LA, Loeb KR, Anderson JP. Multiple mutations and cancer. Proc Natl Acad Sci USA 2003;100:776-81. TRANSIZIONE PRE-CANCEROSI – CANCRO 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 Michor F, Iwasa Y, Nowak MA. Dynamics of cancer progression. Nat Rev Cancer 2004;4:197-205. Review. Michor F, Iwasa Y, Vogelstein B, Lengauer C, Nowak MA. Can chromosomal instability initiate tumorigenesis? Semin Cancer Biol 2005;15:43-9. Review. Montgomery E, Wilentz RE, Argani P, Fisher C, Hruban RH, Kern SE, et al. Analysis of anaphase figures in routine histologic sections distinguishes chromosomally unstable from chromosomally stable malignancies. Cancer Biol Ther 2003;2:248-52. Niv Y, Goel A, Boland CR. JC virus and colorectal cancer: a possible trigger in the chromosomal instability pathways. Curr Opin Gastroenterol 2005;21:85-9. Review. Nowak MA, Komarova NL, Sengupta A, Jallepalli PV, Shih IM, Vogelstein B, et al. The role of chromosomal instability in tumor initiation. Proc Natl Acad Sci USA 2002;99:16226-31. Ozkal P, Ilgin-Ruhi H, Akdogan M, Elhan AH, Kacar S, Sasmaz N. The genotoxic effects of hepatitis B virus to host DNA. Mutagenesis 2005;20:147-50. Rajagopalan H, Nowak MA, Vogelstein B, Lengauer C. 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Thus, the ongoing prevalence of bladder cancer far exceeds its primary incidence. Moreover, although only 15% to 25% of these cases are likely to progress, an additional 25% of cases are “invasive” at their initial presentation 2. A staging schema, based on the progressive depth of the tumor’s involvement of the bladder wall, has been used to assign treatment and to assess outcome and prognosis 3 4. Analysis of the prognosis of various forms of bladder cancer suggests, however, that this staging schema may not adequately reflect the true biological nature of different forms of the disease. Consequently we need new molecular markers to identify and monitor those patients presenting with superficial tumors who are likely to develop recurrent or progressive disease and to provide additional important informations in patients with muscle invasive carcinomas concerning their metastatic potential and response to adjuvant regimens.Recent studies have identified distinct genetic changes in association with these neoplastic diatheses, thereby supporting the concept of disparate, but interrelated, pathways of tumor development, as illustrated in Figure 1. For example, tumors with changes in chromosome 9 appear to manifest a proliferative diathesis with little likelihood of progression. In contrast, tumors with changes in chromosome 17p (with enhanced of p53) generally appear as high-grade lesions and as flat carcinoma in situ 5. 177 Fig. 1. On this basis, in our previous study, we examined, by fluorescence in situ hybridization method, 70 different stages of bladder primary tumors for chromosomes 1, 7, 9, 17 and ploidy evaluated by flow cytometry (FCM). The results were correlated, after a mean time of follow-up, with ploidy, histopathological characteristics, recurrence and progression. The frequency of chromosome 1 and 9 aberrations did not show significative differences in diploid and aneuploid tumors in different stage and grade. On the contrary, the chromosome 7 and 17 aneusomy showed greater differences between T1 and T2-3 tumors than between stage Ta and T1. In our investigation an increasing number of aberrations was observed in all chromosomes examined in tumors of patients which afterwards underwent cystectomy and/or had recurrent tumors 6. Another clinically important feature of the urinary bladder cancer is multifocality. Urothelial carcinomas are commonly accompanied by surrounding abnormal urothelium to be found near the base of 25% of primary urothelial cell carcinomas of the bladder and ranging from dysplasia to carcinoma in situ. These findings may support the “field defect” theory: the occurrence of many genetic alterations, independent of the presence of transformed bladder cells, could be a consequence of continued exposure to both exogenous and endogenous carcinogenic compounds excreted in urine 7. The alternative theory postulates a clonal development of multifocal bladder cancer 8. Identical genetic alterations in later stages of tumor development could reflect monoclonal occurrence of multiple tumors, as well as dominant overgrowth of malignant tumor cell clones. At present, one cannot predict among patients with non invasive tumors who will experience progression and/or recurrence. In fact, the clinical course in urinary superficial bladder cancer is difficult or impossible to predict when based on conventional disease parameters. A reasonable hypothesis is that the genetic aberrations acquired by the tumor cells may also hold the key to more reliable prognostication. Genetic studies of bladder cancer have focused either on superficial papillary cancers or on invasive primary tumors and their metastatic evolution, but have not concentrated on the sequence of genetic defects associated with evolution from “normal appearing urothelium” to superficial cancer. We investigated chromosome 1, 7, 9, 17 aneusomy in 25 superficial papillary carcinomas and in tissue samples taken from sites of macroscopically uninvolved urothelium surrounding the tumors, as well as from distant sites, using the fluorescence in situ hybridization method (FISH) in order to determine whether genetic aberra- RELAZIONI 178 tions found in bladder cancers are also present in the morphologically normal epithelium of the same patient 9. The results demonstrated a close genetic relationship between all examined tumors and normal-appearing mucosa. Numerical aberrations of chromosomes 1, 7, 9 and 17 were found to exhibit similar patterns in all analyzed specimens, although with different frequencies. On the basis of histological evaluation, we divided the viciniore mucosa in morphological normal mucosa and pathological mucosa. The comparison between tumors and pathological non-neoplasia surrounding mucosa aberrations showed statistical differences only in chromosomes 1 and 17, while for chromosomes 7 and 9 statistical evaluation was not significant. These data suggest that general genetic instability already present in the entire transitional epithelium at the time of tumor occurrence is a reason for multifocality. Moreover, such an approach can identify genetic alterations evident in early clonal expansion of preneoplastic changes that could serve as markers of clinically occult neoplasia: most investigated bladder carcinomas and their adjacent, uninvolved tissues are characterized by distinctive, partially overlapping patterns of genetic instability. Aneusomy of evaluated chromosomes, especially of chromosomes 7 and 9, may represent an intermediate biomarker of bladder tumorigenesis. This could be potentially useful in identifying patients prone to metachronous or synchronous tumors who may benefit from preventive measures. Identification of patients at increased risk of progression is an important goal in bladder cancer research because such patients will be candidates for newer treatments and followup strategies. In our recent cytogenetics analysis, we analyzed deletions of 9p21 (p16), 17p13.1 (p53) and 13q14 (RB1) chromosomal loci in 48 muscle-invasive bladder cancer and adjacent normal mucosae. On the basis of the obtained results, we propose that chromosomal 3, 7, 17 monosomy and RB1 heterozygous deletion could be considered potentially useful intermediate biomarkers to detect patients at high risk of progression who may benefit from particular and innovative therapeutic interventions 10. We emphasize that the use of cytogenetic changes in the clinical staging and/or therapeutic strategies should be employed in clinical and pathological characteristic’s panel. Each of these parameters individually and in the aggregate could improve the understanding of the disease and contribute in categorizing either superficial or advanced bladder cancer patients. Only larger studies with long-term follow-up will determine the validity of this noteworthy observation. References 1 Heney NM, Ahmed S, Flanagan MJ, et al. Superficial bladder cancer: Progression and recurrence. J Urol 1983;130:1083-6. 2 Kaye KW, Lange PH. Mode of presentation of invasive bladder cancer: Reassessment of the problem. J Urol 1982;128:31-3. 3 UICC. TNM Classification of Malignant Tumors. Sixth Edition. New York: Wiley-Liss 2002. 4 Epstein JI, Amin MB, Reuter VR, Mostofi FK. The World Health Organization/International Society of Urological Pathology consensus classification of urothelial (transitional cell) neoplasms of the urinary bladder. Bladder Consensus Conference Committee. Am J Surg Pathol 1998;22:1435-48. 5 Sandberg AA. Cytogenetics and molecular genetics of bladder cancer: a personal view. Am J Med Gen 2002;115:173-82. 6 Cianciulli AM, Bovani R, Leonardo F, Antenucci A, Gandolfo GM, Giannarelli D, et al. Interphase cytogenetics of bladder cancer progression: relationship between aneusomy, DNA ploidy, histopathology and clinical outcome. Int J Clin Lab Res 2000;30:5-11. 7 Richie JP, Shipley WU, Yagoda A. Cancer of the bladder. In: De Vi- 8 9 10 ta VT Jr, Hellman S, Rosenberg SA, eds. Cancer: principles and practice of oncology. Philadelphia: JB Lippincott 1989, pp. 10081022. Sidransky D, Frost P, Von Eschenbach A, Oyasu R, Preisinger AC, Vogelstein B. Clonal origin of bladder cancer. N Engl J Med 1992;326:737-40. A.M. Cianciulli, C. Leonardo, F. Guadagni, R. Marzano, F. Iori, C. De Nunzio, et al. Genetic instability in superficial bladder cancer and adjacent mucosa: an interphase cytogenetic study. Human Pathology 2003;34:214-21. Gallucci M, Guadagni F, Marzano R, Leonardo C, Merola R, Sentinelli S, et al. Status of the p53, p16, RB1, and HER-2 genes and chromosomes 3,7,9, and 17 in advanced bladder cancer: correlation with adjacent mucosa and pathological parameters. J Clin Pathol 2005;58:367-71. Eventi morfogenetici e molecolari nelle fasi iniziali della carcinogenesi colorettale M. Risio Servizio di Anatomia ed Istologia Patologica, Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro, Candiolo, Torino, Italia L’adenoma che contiene un carcinoma che invade la sottomucosa (stadio pT1) rappresenta la forma più precoce di carcinoma colorettale clinicamente rilevante nella maggior parte dei pazienti. L’invasione della sottomucosa viene unanimemente considerata l’espressione morfologica dell’acquisizione del fenotipo metastatico che, mediante l’accesso alla rete linfatica da parte della neoplasia, apre la via alla diffusione a distanza della malattia 1. L’osservazione microanatomica della paucità o della completa assenza della rete linfatica intramucosa nel colon 2, è coerente con tale modello di carcinogenesi, anche se recenti evidenze genetico-molecolari appaiono più profondamente esplicative. Un diverso coinvolgimento del sistema delle caderine nei segnali di contatto ed adesione intercellulari rende ragione della assenza di potenziale metastatico delle neoplasie coliche ad esclusiva infiltrazione mucosa, contrariamente all’effettiva, seppure percentualmente minima, diffusione metastatica dei carcinomi gastrici intramucosi, frequentemente associati a mutazione del gene E-caderina 3. L’invasione neoplastica della sottomucosa colica inferiore ai 300 micron non si accompagna mai a diffusione metastatica 4. In effetti, anche se l’invasione sottomucosa rappresenta, dal punto di vista istopatologico, la completa trasformazione maligna con piena acquisizione del fenotipo metastatico, un certo grado di dissociazione tra comportamento biologico ed istologia nella transizione neoplasia intraepiteliale – carcinoma precoce è suggerita dall’associazione tra alterazioni numeriche (monosomia) e strutturali (delezioni della banda p13.3) del cromosoma 17 con il carcinoma colorettale iniziale ed avanzato, rispettivamente 5. Si ritiene comunemente che quando si verifica la trasformazione maligna di un adenoma, la crescita del carcinoma nel contesto della parete intestinale (transizione pT1-pT4) sia un processo continuo, progressivo ed irreversibile che va di pari passo con il potenziale metastatico e la mortalità della malattia neoplastica. È concepibile, allo stato attuale delle conoscenze, un modello stocastico della carcinogenesi colorettale, secondo il quale il carcinoma iniziale, pT1, associato a delezione 17p13.3 rappresenta una fase di rapida transizione verso stadi di progressiva invasione della parete intestinale, mentre i carcinomi pT1 associati a monosomia del cromosoma 17, seppure morfologicamente indistinguibili dai primi, corrispondono a neoplasie biologicamente distinte, probabilisticamente orientate alla stabilizza- TRANSIZIONE PRE-CANCEROSI – CANCRO zione e, forse, alla regressione. Dati preliminari di genomica funzionale indicano come effettori dei diversi percorsi evolutivi i livelli di attivazione dei geni legati all’angiogenesi (VEGF, VEGFr). Il potenziale metastatico di un adenoma cancerizzato è relativamente alto e solo i parametri istopatologici (grado di differenziazione del carcinoma, livello di invasione, invasione vascolare neoplastica) sono discriminanti tra un “basso rischio” (7%) ed un “alto rischio” (35%) di metastasi linfonodali 1. In particolare, mentre l’interessamento del margine di exeresi del polipo è altamente predittivo della ripresa locale di malattia neoplastica (in forma di recidiva o di ricorrenza), l’invasione linfatica è fortemente associata alle localizzazioni linfonodali secondarie e la scarsa differenziazione del carcinoma alla mortalità complessiva dell’adenoma cancerizzato 6. Il “budding” tumorale, la presenza cioè di nidi o singole cellule tumorali anaplastiche al margine di avanzamento carcinomatoso nella sottomucosa è risultato essere altamente predittivo del potenziale metastatico linfonodale, pressoché nullo se un basso grado di “budding” si associa ad una profondità di infiltrazione della sottomucosa non superiore ai 2.000 micron 7. Gli eventi molecolari che sottostanno alla morfogenesi del “budding” sono riconducibili ad alterazioni delle interazioni cellula-matrice, in particolar modo al ruolo esplicato da TIMP-1 e Laminina-5 8 9: qui dovranno verosimilmente essere ricercati nuovi biomarcatori molecolari predittivi della storia naturale dell’adenoma cancerizzato. Bibliografia 1 Coverlizza S, Risio M, Ferrari A, Fenoglio-Preiser MC, Rossini FP. Colorectal adenomas containing invasive carcinoma. Pathologic assessment of lymph node metastatic potential. Cancer 1989;64:193747. 2 Fenoglio CM, Kaye GI, Lane N. The distribution of colonic lymphatics in normal, hyperplastic and adenomatous tissue. Its probable relationship to metastasis from small carcinomas in pedunculated adenomas with two case reports. Gastroenterology 1972;64:51-66. 3 Perry I, Hardy R, Tselepis C, Jankowski JA. Cadherin adhesion in the intestinal crypt regulates morphogenesis, mitogenesis, motogenesis, and metaplasia formation. Mol Pathol 1999;52:166-8. 4 Kikuchi R, Takano M, Takagi K, Fujimoto N, Nozaki R, Fujiyoshi T, et al. Management of early invasive colorectal cancer. Risk of recurrence and clinical guidelines. Dis Colon Rectum 1995;38:1286-95. 5 Risio M, Casorzo L, Chiecchio L, De Rosa G, Rossini FP. 17p deletions are associated with the transition from early to advanced colorectal cancer. Cancer Gen Cytogen 2003;147:44-9. 6 Hassan C, Risio M, Rossini FP, Morini S. Histological risk factors and clinical outcome in colorectal malignant polyp: a pooled data analysis. Dis Colon Rectum 2005(in stampa). 179 7 8 9 Ueno H, Mochizuki H, Shimazaki H, Aida S, Hase K, Matsukuma S, et al. Risk factors for an adverse outcome in early invasive colorectal carcinoma. Gastroenterology 2004;127:385-94. Holten-Andersen MN, Hansen U, Brunner N, Nielsen HJ, Illemann M, Nielsen BS. Localization of tissue inhibitor of metalloproteinases 1 (TIMP-1) in human colorectal adenoma and adenocarcinoma. Int J Cancer 2005;113:198-206. Sordat I, Rousselle P, Chaubert P, Petermann O, Aberdam D, Bosman FT, et al. Tumor cell budding and laminin-5 expression in colorectal carcinoma can be modulated by micro-environment. Int J Cancer 2000;88:708-17. Tumorigenesi del sistema endocrino diffuso: aspetti morfologici e basi genetiche G. Rindi Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio, Università di Parma In accordo con la classificazione corrente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le neoplasie (neuro)endocrine (NE) sono classificate in tumore NE ben differenziato (carcinoide), carcinoma NE ben differenziato (carcinoide maligno) e carcinoma NE poco differenziato (a piccole cellule). A questi, la classificazione OMS del 2000 ha aggiunto le lesioni definite come simil-tumorali, spesso ad includere le lesioni preneoplastiche così definite nella successiva classificazione del 2004. In questa relazione verranno brevemente descritte su base anatomica le lesioni considerate come preneoplastiche di organi endocrini e del sistema endocrino diffuso del tratto gastroenterico e del pancreas dell’uomo. Ove possibile verranno effettuati confronti con indicatori morfofunzionali di trasformazione osservati in topi transgenici per costrutti con sequenze regolatorie di geni di ormoni a guidare l’espressione della regione “early” di SV40 (AVP-Tag; RIP1Tag”/RIP2Pyst1; GLU-Tag; Sec-Tag). Si discuteranno possibile somiglianze o differenze e la rilevanza clinica di tali lesioni nell’uomo. Bibliografia 1 Solcia E, Klöppel G, Sobin LH, World Health Organization Interantion a Histological Classification of Tumours. Histological Typing of Endocrine Tumours. Berlin, Heidelberg, New York: Springer-Verlag 2000. 2 De Lellis RA, Lloyd RV, Heitz PU, Eng C, World Health Organization Classification of Tumours. Pathology and Genetics of Tumours of Endocrine Organs. Lyon: IARC Press 2004. PATHOLOGICA 2005;97:180-183 Markers tumorali (non linfoidi) Moderatori: M. Chilosi (Verona), A.P. Dei Tos (Treviso) Il ruolo prognostico/predittivo dell’Epidermal Growth Factor Receptor (EGFR) nel carcinoma del colonretto S. Rossi Anatomia Patologica, Ospedale Regionale di Treviso, Treviso, Italia Nell’ambito dei fattori prognostici del carcinoma del colonretto (CRC), la mia presentazione sarà focalizzata sull’Epidermal Growth Factor Receptor (EGFR). Verranno discussi i suoi possibili ruoli prognostico e predittivo nella terapia targhettata con anticorpo monoclonale anti-EGFR e le problematiche legate alla determinazione della sua espressione. Background EGFR è un oncogene cellulare omologo all’oncogene virale v-erb-b, codificante per un recettore transmembrana con attività tirosinkinasica 1. L’overespressione di EGFR è un evento trasformante e la sua attivazione comporta il recruitment di diversi substrati intracellulari, tra i quali MAPK, AKT e p27, che da ultimo si ripercuote su importanti processi cellulari, quali la proliferazione, l’apoptosi, l’angiogenesi e la capacità di metastatizzare. EGRF nel carcinoma colonrettale La presenza della proteina EGFR è stata dimostrata in diverse neoplasie solide con un ampio range di espressione. In particolare nel CRC, la percentuale di casi positivi negli studi più accreditati è compresa tra il 75,5% e l’82,1% 2-5. Per quanto riguarda il possibile ruolo prognostico di EGFR nel CRC, dalla metanalisi di Nicholson 6 EGFR risultava solo un modesto marcatore prognostico. Tuttavia, l’autore stesso notava l’eterogeneità dei dati dello studio relativamente ai pazienti inclusi ed alle tecniche usate. Ancora oggi non esiste un parere unanime sull’argomento. Alcuni studi sottolineano l’associazione tra EGFR e prognosi 2 7 8, sebbene talora limitandola alla percentuale di cellule con intensità forte 2 o moderata/forte presenti in tutto l’ambito della neoplasia 8 o alla percentuale di cellule con intensità moderata/forte presenti in corrispondenza del fronte di invasione della neoplasia 2. Al contrario, altre casistiche ne- gano la valenza prognostica di EGFR 3 9 10. Inoltre, l’espressione di EGFR sembra correlare con il grado della neoplasia 3 11, con l’invasione vascolare e perineurale 2 e con la sede della neoplasia 11. Interessanti i recenti dati sulla concordanza nell’espressione di EGFR tra casi primitivi e metastatici. Infatti la frequenza di non concordanza non sarebbe trascurabile 11 12, con più di un terzo dei casi non concordanti tra quelli con primitivo positivo ed un 15% di casi non concordanti tra quelli con primitivo negativo, rispettivamente, sebbene ancora una volta non manchino studi con evidenze diverse 13. Unanime è il giudizio sulla minore frequenza di espressione di EGFR nei campioni bioptici rispetto a quelli operatori 11 13. Ciò sarebbe da ascrivere all’eterogeneità di espressione di EGFR nel CRC, ben descritta da Goldestein 2, il quale notava l’esistenza di un gradiente di positività con una maggiore percentuale di cellule positive al di sotto della tonaca muscolare e osservava che la maggiore intensità di immunocolorazione era più frequente nelle cellule infiltranti singolarmente lo stroma (Fig. 1a) e nei piccoli gruppi cellulari di forma angolata, che apparivano gemmare da ghiandole neoplastiche negative o solo lievemente positive (Fig. 1b). Sempre connesse all’eterogeneità della colorazione sono le emergenti perplessità sull’uso dei microarray tissutali 13. Determinazione dell’espressione di EGFR e terapia targhettata nel carcinoma colonrettale Con l’avvento dell’anticorpo monoclonale anti-EGFR, Cetuximab, enorme importanza ha assunto la determinazione dell’espressione della molecola target EGFR, necessaria per la selezione dei pazienti da trattare con la terapia targhettata. Tra le numerose tecniche che possono essere usate (Tab. I), la più comunemente utilizzata è quella immunoistochimica (IHC). Da sottolineare che, mentre l’overespressione di HER-2 nel carcinoma mammario dipende in modo predominante dall’amplificazione del gene 14, l’overespressione di EGFR nel CRC non correla con l’amplificazione genica 15-17. Di conseguenza, l’ibridazione in situ per fluorescenza (FISH) o l’ibridazione cromogenica in situ (CISH) non sembrano le metodiche più adatte per determinare l’espressione di EGFR nel CRC. Per quanto riguarda la determinazione IHC di EGFR, sebbene l’avven- Tab. I. Determinazione dell’espressione di EGFR. Metodo Campione ideale Metodi in situ IHC FISH Sezione di tessuto Sezione di tessuto CISH Sezione di tessuto Metodi estrattivi Western/Northern blot RT-PCR ELISA Flow cytometry Estratto Estratto Estratto Estratto * di di di di tessuto/siero* tessuto/sieroa tessuto/sieroa tessuto Limitazioni Eterogeneità del campione Mancanza di correlazione tra amplificazione del gene ed overespressione della proteina Mancanza di correlazione tra amplificazione del gene ed overespressione della proteina Complessità tecnica Complessità tecnica Nessuna Nessuna La rilevanza dell’EGFR sierico nei pazienti neoplastici non è ancora ben stabilita. IHC, immunohistochemistry; FISH, fluorescence in situ hybridization; RT-PCR, reverse transcript-polymerase chain reaction; CISH, chromogenic in situ hybridization; ELISA, enzyme-linked immunosorbent assay. MARKERS TUMORALI (NON LINFOIDI) Fig. 1. a. Cellule singole infiltranti lo stroma con forte intensità di colorazione per EGFR. b. Piccolo gruppo di cellule neoplastiche con intensità di colorazione forte emergente da ghiandole caratterizzate da una lieve intensità. to dei kit standardizzati abbia minimizzato le problematiche legate più strettamente alla procedura, punti critici rimangono quelli legati alle caratteristiche del campione tissutale ed, in misura minore, all’interpretazione della colorazione. Riguardo al campione, punto critico, oltre alla quantità di cellule che lo compongono, problema evidenziato dalla differente frequenza di casi positivi nelle biopsie vs. i pezzi operatori 11 13, è rappresentato dalla qualità del medesimo. Infatti, è stato dimostrato che la presenza di necrosi può causare false positività, mentre un’overfissazione, l’uso di un fissativo diverso dalla formalina tamponata al 4% ed un intervallo temporale superiore a 12 mesi tra il taglio della sezione e la colorazione IHC possono dar ragione di falsi negativi 18. Per quanto riguarda la valutazione della colorazione, i parametri considerati nei maggiori studi sono la percentuale di cellule positive, la localizzazione subcellulare e l’intensità della colorazione 3 5 16. Per minimizzare i problemi interpretativi, possono essere utili alcune semplici accortezze, quali l’uso di sezioni di cute normale, in cui esiste di un gradiente di intensità dallo strato basale a quelli più superficiali dell’epidermide (Fig. 2), che può essere di supporto nel calibrare l’intensità della colorazione in uno scoring accurato, o la ricerca di strutture normali nello stesso preparato da valutare, come il mesotelio, il perineurio, le cripte coliche che fungono da controlli interni, utili soprattutto in caso di assenza di espressione di EGFR, al fine escludere falsi negativi. Inoltre, è da notare che un pitfall, motivo di falsi positivi nella 181 Fig. 2. Sezione di cute con gradiente di intensità di colorazione da forte a lieve dallo strato basale a quelli più superficiali dell’epidermide e fibroblasti del derma lievemente positivi. valutazione di metastasi epatiche, è rappresentato dalla presenza di epatociti e dotti biliari che talora mostrano una positività moderata/forte (Fig. 3). Infine, sempre in relazione all’interpretazione della colorazione, sarebbe auspicabile individuare un cut-off di espressione, per cui pazienti con tumori con una positività inferiore ad una certa soglia siano esclusi da trial clinici con terapie inefficaci. Nello studio BOND, in cui si testava l’efficacia del Cetuximab 5, venivano arruolati tutti i pazienti con un’espressione di EGFR maggiore di zero, di qualsiasi intensità e percentuale di cellule positive, al fine di individuare un cut-off di espressione, al di sotto del quale la terapia non fosse efficace. Stesso criterio veniva utilizzato in uno studio analogo 4. Tuttavia, i livelli di EGFR non mostravano avere alcun valore predittivo. Inoltre, a complicare ulteriormente il quadro, il recente studio in cui 4 di 16 pazienti con tumore negativo per EGFR rispondevano a Cetuximab 19. Molte possono essere le ipotesi che tentino di spiegare l’inaspettata mancanza di correlazione tra espressione della molecola target e risposta alla specifica terapia targhettata. Innanzitutto, si considerino una serie di motivazioni metodologiche. Oltre a quel- Fig. 3. Cordoni di epatociti con forte intensità di colorazione per EGFR intrappolati tra le ghiandole neoplastiche negative per EGFR in una metastasi epatica di CRC. RELAZIONI 182 le più intuitive legate all’eterogeneità delle condizioni di fissazione dei campioni usati nei trial clinici, è stato ipotizzato che il campione su cui è di solito effettuata la colorazione possa non essere rappresentativo del tumore al momento della somministrazione della terapia, ipotesi sostenuta dall’esistenza già citata di casi con tumore primitivo e metastasi non concordanti nell’espressione di EGFR 11 12. Inoltre, è stato dimostrato che l’anticorpo anti-EGFR usato in IHC non discrimina tra la forma più comune di EGFR, quella a bassa affinità, e la forma ad alta affinità, che, pur rappresentando solo il 2-3% della quantità totale della proteina, sarebbe la forma più attiva 20. Accanto alle ragioni metodologiche, considerando la biologia dell’EGFR, non si può non pensare alle molteplici vie di fuga offerte dalla complessa cascata molecolare (reviewed in 21). Infatti, alti livelli di AKT inducono resistenza agli inibitori di EGFR in coltura. Importanti sono anche le interazioni tra EGFR ed altre molecole chiave nella biologia della cellula neoplastica, quali HER2, IGF, VEGF. Analogamente a quanto accade per le molecole downstream, la loro overespressione in coltura conferisce resistenza agli inibitori di EGFR, la quale viene a sua volta abrogata dagli inibitori specifici per queste molecole. Proprio sulla base di questi dati sono iniziati i primi trial clinici che vedono la combinazione di inibitori di EGFR con inibitori delle molecole downstream o con inibitori dell’angiogenesi 21. Bibliografia 1 Ciardiello F, Tortora G. Epidermal growth factor receptor (EGFR) as a target in cancer therapy: understanding the role of receptor expression and other molecular determinants that could influence the response to anti-EGFR drugs. Eur J Cancer 2003;39:1348-54. 2 Goldstein NS, Armin M. Epidermal growth factor receptor immunohistochemical reactivity in patients with American Joint Committee on Cancer Stage IV colon adenocarcinoma: implications for a standardized scoring system. Cancer 2001;92:1331-46. 3 McKay JA, et al. Evaluation of the epidermal growth factor receptor (EGFR) in colorectal tumours and lymph node metastases. Eur J Cancer 2002;38:2258-64. 4 Saltz, LB et al. Phase II trial of cetuximab in patients with refractory colorectal cancer that expresses the epidermal growth factor receptor. J Clin Oncol 2004;22:1201-8. 5 Cunningham D, et al. Cetuximab monotherapy and cetuximab plus irinotecan in irinotecan-refractory metastatic colorectal cancer. N Engl J Med 2004;351:337-45. 6 Nicholson RI, et al. Eur J Cancer 2001;37(Suppl 4):S9-15. 7 Mayer A, et al. The prognostic significance of proliferating cell nuclear antigen, epidermal growth factor receptor, and mdr gene expression in colorectal cancer. Cancer 1993;71:2454-60. 8 Resnick MB, et al. Epidermal growth factor receptor, c-MET, betacatenin, and p53 expression as prognostic indicators in stage II colon cancer: a tissue microarray study. Clin Cancer Res 2004;10:3069-75. 9 Fernebro E, et al. Immunohistochemical patterns in rectal cancer: application of tissue microarray with prognostic correlations. Int J Cancer 2004;111:921-8. 10 Spano JP et al. Impact of EGFR expression on colorectal cancer patient prognosis and survival. Ann Oncol 2005;16:102-8. 11 Treaba DO, et al. Modern Pathol 2005;18:551(abstract). 12 Scartozzi M, et al. Epidermal growth factor receptor (EGFR) status in primary colorectal tumors does not correlate with EGFR expression in related metastatic sites: implications for treatment with EGFR-targeted monoclonal antibodies. J Clin Oncol 2004;22:4772-8. 13 Gupta M, et al. Modern Pathol 2005;18:476(abstract). 14 Pauletti G, et al. Assessment of methods for tissue-based detection of the HER-2/neu alteration in human breast cancer: a direct comparison of fluorescence in situ hybridization and immunohistochemistry. J Clin Oncol 2000;18:3651-64. 15 Layfield LJ, et al. Color multiplex polymerase chain reaction for quantitative analysis of epidermal growth factor receptor genes in colorectal adenocarcinoma. J Surg Oncol 2003;83:227-31. 16 Askeland RW, et al. Modern Pathol 2005;18438(abstract). 17 Shia J, et al. Modern pathol 2005;18:540(abstract). 18 19 20 21 Aktins D, et al. Immunohistochemical detection of EGFR in paraffinembedded tumor tissues: variation in staining intensity due to choice of fixative and storage time of tissue sections. J Histochem Cytochem 2004;52:893-901. Chung KY, et al. Cetuximab shows activity in colorectal cancer patients with tumors that do not express the epidermal growth factor receptor by immunohistochemistry. J Clin Oncol 2005;23:1803-10. Mattoon D, et al. 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Al momento attuale, la guarigione nelle pazienti con recidiva di malattia non rappresenta un obiettivo realistico, e la maggior parte delle donne, che non rispondono alla chemioterapia di prima linea dopo l’intervento chirurgico, vanno incontro a brevi periodi di remissione di malattia dopo ogni ciclo di trattamento. Al momento attuale, in seguito ad una citoriduzione ottimale, l’attenzione dei chemioterapisti è diretta ad aumentare l’intervallo libero da malattia. A tale riguardo, nuovi obiettivi terapeutici sono stati ipotizzati con terapie adiuvanti più aggressive quali l’introduzione in terapia di prima linea di un terzo farmaco, in aggiunta alla combinazione di platino e taxolo, oppure una terapia di consolidamento con l’utilizzo di un terzo chemiofarmaco al termine dei sei cicli di terapia a base di platino e taxolo 1 2. Gli eventi che conducono allo sviluppo del carcinoma ovarico ed anche i fattori molecolari che possono predire una risposta al trattamento non sono completamente noti. Da una attenta valutazione istopatologica, quale la caratterizzazione dell’istotipo, del grading, e della diffusione della malattia, possono scaturire importanti informazioni prognostiche. Note In aggiunta a ciò, con il progredire delle conoscenze, anche nei tumori ovarici, il patologo con indagini immunoistochimiche e molecolari avrà la possibilità di individuare fattori molecolari che siano di ausilio non solo nella prognosi, ma anche come target terapeutici per certi sottogruppi di pazienti, così da consentire, anche in queste neoplasie, un trattamento modulato alla malattia. Bibliografia 1 Copeland LJ, Bookman M, Trimble E. Clinical trials of newer regimens for treating ovarian cancer: the rationale for Gynecologic Oncology Group Protocol GOG 182-ICON5. Gynecol Oncol 2003;90:S1-S7. 2 Stuart GCE. First-line tratment regimens and the role of consolidation therapy in advanced ovarian cancer. Gynecol Oncol 2003;90:S8-S15. MARKERS TUMORALI (NON LINFOIDI) Marcatori diagnostici e prognostici nei tumori renali G Martignoni**, A Remo*, M Pea*, P Cossu Rocca**, M Brunelli*, S Gobbo*, F Bonetti*, F Menestrina* ** Dipartimento di Patologia, Università degli studi di Sassari; *Dipartimento di Patologia,Università degli studi di Verona La recente classificazione dei tumori renali dell’OMS riconosce l’esistenza di diversi tipi di neoplasie renali in aggiunta al carcinoma convenzionale a cellule chiare. Queste forme hanno caratteri morfologici, genetici e comportamento clinico diversi, e comprendono l’oncocitoma, il carcinoma papillare, il carcinoma cromofobo, il carcinoma dei dotti collettori, l’adenoma metanefrico, l’angiomiolipoma epitelioide, i carcinomi con traslocazione Xp11 ed altre rare neoplasie 1. È stato inoltre descritto recentemente una ulteriore “neoplasia con traslocazione 6;11”. Gli studi genetici hanno identificato la inattivazione del gene VHL nella maggioranza dei carcinomi convenzionali a cellule chiare. Sono state osservate trisomie dei cromosomi 7 e 17 e frequente perdita del cromosoma Y nonché mutazioni nel gene Met nei carcinomi papillari; monosomie dei cromosomi 1, 2, 6, 10 e 17 nelle cellule del carcinoma cromofobo; la sostanziale assenza di anomalie cromosomiche numeriche nell’adenoma metanefrico e la perdita del gene TSC2 nell’angiomiolipoma epitelioide. Accanto allo studio genetico, in questi ultimi anni, è stato eseguito un ampio lavoro in campo immunoistochimico al fine di trovare marcatori che consentissero, nella routine diagnostica, la diagnosi differenziale delle diverse forme di tumore renale. L’importanza di un’accurata definizione dell’istotipo è stata sottolineata dalla dimostrazione di una prognosi differente nelle diverse neoplasie. Inoltre in riferimento ai tre tipi più comuni di carcinoma renale, cellule chiare, papillare e cromofobo, è risultato evidente il diverso peso che deve essere attribuito a fattori prognostici quali il grado nucleare e la presenza di necrosi nei singoli istotipi. L’avvento di nuove forme di terapia mini-invasiva, quali la crioterapia e la termoablazione, presuppone una formulazione diagnostica preterapeutica su minuti prelievi agobioptici; pertanto la possibilità di associare ai dati morfologici quelli derivanti dall’esame immunoistochimico e dall’analisi genetica, ottenibili anche da scarso materiale, risulterà di estrema importanza. Così facendo sono per esempio state identificate nuove molecole utili sia dal punto di vista diagnostico quali l’alphamethylacyl-CoA racemase e la parvalbumina, che dal punto di vista prognostico e predittivo di risposta alla terapia quali i recettori di membrana per c-kit e per EGFR. Nella nostra routine diagnostica dei tumori renali ci avvaliamo costantemente oltre che dell’esame istopatologico anche di un pannello immunistochimico di minima che comprende i seguenti marcatori: CD10, parvalbumina, S100A1, vimentina, alpha-methylacyl-CoA racemase, citocheratina 7, e HMB45. Il CD10 è costantemente espresso nel carcinoma a cellule chiare del rene e in percentuale variabile dal 60% al 90% dei carcinomi papillari; recentemente è stata dimostrata la sua espressione in circa il 25% dei casi di carcinoma cromofobo. Parvalbumina ed S100A1 sono due molecole leganti il calcio; l’espressione di parvalbumina nelle neoplasie è limitata al carcinoma cromofobo (100% dei casi) e agli oncocitomi (70% dei casi), 183 mentre i carcinomi a cellule renali chiare e i carcinomi papillari, se si esclude un particolare sottotipo a cellule oncocitarie, sono risultati costantemente negativi. S100A1 è risultato, nella nostra esperienza, estremamente utile nella diagnosi differenziale più difficoltosa sul piano morfologico, quella tra il carcinoma cromofobo e l’oncocitoma. Mentre più del 90% dei primi risulta negativo, il 94% dei secondi risulta positivo, con un’espressione variabile dal 5 al 75% degli elementi cellulari. Vimentina è espressa in una percentuale di carcinomi a cellule renali chiare e di carcinomi papillari variabile dal 50-60% ad oltre l’80%. L’alpha-methylacyl-CoA racemase e citocheratina 7 sono stati proposti come marcatori per il carcinoma papillare; rari casi di carcinoma a cellule renali chiare e di oncocitoma sono risultati positivi all’alpha-methylacyl-CoA racemase, mentre la citocheratina 7 è stata riportata seppur variabilmente anche nei carcinomi cromofobi e negli oncocitomi. L’angiomiolipoma renale, la variante epitelioide e quella composta da elementi ossifili che simula l’oncocitoma, sono negativi per i marcatori sopra descritti mentre esprimono caratteristicamente l’HMB45, marcatore di melanogenesi. Tale molecola non è espressa da nessuna neoplasia epiteliale del rene, se si escludono i rari e recentemente descritti carcinomi con traslocazione della regione Xp11 e 6;11. In questi casi un secondo livello di analisi immunoistochimica con marcatori che riconoscono i rispettivi prodotti della traslocazioni, i fattori di trascrizione TFE3 e TFEB, ci permette una corretta diagnosi differenziale. Qualora la morfologia e l’analisi immunoistochimica non siano sufficienti per una corretta diagnosi differenziale ci avvaliamo dello studio delle anomalie numeriche dei cromosomi, già ben note in letteratura grazie agli studi di citogenetica classica, avvalendoci della metodica di ibridizazione in situ fluorescente (FISH) con sonde centromeriche. I campi di applicazione principali risultano le neoplasie epiteliali ossifile (oncocitoma, carcinoma cromofobo, in particolare la sua variante eosinofila, e il carcinoma papillare a cellule oncocitiche) e la diagnosi differenziale tra adenoma metanefrico e carcinoma papillare di tipo 1. Oggi i fattori prognostici di maggior rilievo consistono nell’istotipo, nel grado nucleare e nella presenza o meno della necrosi, oltre che ovviamente nell’attribuzione del TNM sul pezzo operatorio. Il fatto che l’istotipo presenti un rilevante significato prognostico sottolinea come la sua corretta attribuzione risulti determinante e pertanto tutti i mezzi diagnostici sopradescritti debbano essere opportunamente utilizzati. È diverso porre una diagnosi di adenoma metanefrico e oncocitoma che sono neoplasie a comportamento biologico benigno dal porre una diagnosi di carcinoa a cellule renali chiare che risulta essere il più aggressivo tra gli istotipi. Altri fattori prognostici poi come il grado nucleare assegnato secondo Fuhrman e la presenza o meno di necrosi hanno un significato nell’ambito dei carcinomi a cellule renali chiare 2, mentre sembrano non averne alcuno per quanto riguarda il carcinoma cromofobo. Bibliografia 1 Eble JN, Sauter G, Epstein J, Sesterhenn I. Pathology and genetics of tumors of the urinary system and male genital organs. Lyon: IARC 2004. 2 Ficarra V, Martignoni G, Maffei N, Brunelli M, Novara G, Zanolla L, et al. Original and reviewed nuclear grading according to the Fuhrman system: a multivariate analysis of 388 patients with conventional renal cell carcinoma. Cancer 2005;103:68-75. PATHOLOGICA 2005;97:184-186 Cellule staminali Moderatore: S. Pileri (Bologna) Le cellule staminali: generalità W. Piacibello, Y. Pignochino Dipartimento di Scienze Oncologiche, IRCC, Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro, Candiolo (TO), Università di Torino Le cellule staminali sono cellule non specializzate in grado di dividersi dando origine contemporaneamente ad una cellula staminale (uguale alla cellula madre) ed a una cellula precursore di una progenie cellulare che alla fine darà a sua volta origine a cellule terminalmente differenziate (mature). Si definiscono totipotenti le cellule staminali che possono dar luogo a tutti i tipi di tessuti, multi (o pluri) potenti quelle che possono dar luogo ad alcuni tipi cellulari o tessuti ed unipotenti quelle che possono originare soltanto un tipo cellulare. Le cellule staminali rappresentano un’importante prospettiva per la rigenerazione di organi danneggiati. Infatti, la possibilità di espandere in vitro queste cellule fino a quantità elevatissime, se non proprio illimitate, risolverebbe il problema legato alla disponibilità di materiale biologico da utilizzare in fase di trapianto. Esistono diversi tipi di cellule staminali. • Cellule staminali embrionali (ES): derivano dalla regione interna dell’embrione (inner cell mass) prima del suo impianto nella parete dell’utero. Dotate di elevata capacità proliferativa, sono in grado di generare qualsiasi tipo di cellula matura (Schuldiner et al., Pnas 2000). Queste cellule possono essere isolate da blastocisti e cresciute in vitro con particolari metodiche che ne mantengono inalterate le proprietà di plasticità e totipotenza per periodi di alcuni anni (Evans e Kaufman, Nature, 1981).Ciò consente, a partire da poche decine di cellule, di ottenerne centinaia di milioni con le stesse caratteristiche e potenzialità iniziali. Quando aggregate con un embrione precoce possono integrarsi nell’embrione, crescere e differenziarsi in tutti i tipi cellulari del nuovo organismo senza causare nessun disturbo allo sviluppo di quest’ultimo. In più, sono stati messi a punto particolari metodiche di coltura che guidano il differenziamento delle cellule ES in specifici tipi cellulari per generare, ad esempio, una grande quantità di neuroni (Okabe et al., Mech Dev, 1996), cellule della glia (Brustle et al., Science 1999), cardiomiociti e progenitori ematopoietici (Keller Nat Med, 1999). Non è certo che il prelievo permetta di isolare “vere” cellule ES ad ogni tentativo. Infatti, l’organismo nel suo complesso deriva da sole 3-4 delle circa 100 cellule che compongono la blastocisti (Clonal expression in allophenic mice. Symp Int Soc Cell Biol, 1970 e Markert e Petters Science, 1978) e non è chiaro se questa minoranza di cellule è pre-costituita o se tutte le cellule della blastocisti posseggono un uguale potenziale. Infine, va ricordato che linee stabili di cellule ES si sviluppano solo dall’epiblasto delle blastocisti (Brook, Pnas, 1997) e che il corredo cromosomico delle cellule prelevate non è necessariamente sempre identico a quello della rimanente morula-blastocisti. Le colture di cellule ES umane finora prodotte sono state ottenute a partire da cellule isolate mediante immunomicrochirurgia dalla massa cellulare interna della blastocisti umana (rappresentante lo stadio dell’embrione umano corrispondente a circa il 5° giorno di sviluppo): tale tecnica di prelievo ha finora comportato la distruzione della blastocisti (Reubinoff et al., Nat Biotechnol 2000;18:399404). Va tenuto presente che le cellule ES, nel loro stato indifferenziato, se iniettate per sé o come contaminante di cellule preventivamente sottoposte a procedure di differenziamento, possono dare origine a teratocarcinomi in vivo. Si rende quindi necessario uno studio approfondito degli elementi di sicurezza associati alla procedura di trapianto di cellule ES differenziate in vitro ed all’identificazione di una, anche minima, residua presenza di cellule ES indifferenziate. • Cellule staminali fetali: ottenute da tessuti di feti abortiti possiedono caratteristiche intermedie tra quelle embrionali e quelle adulte. Sono generalmente pluripotenti e deputate all’accrescimento peri-natale dei tessuti. • Cellule staminali da cordone ombelicale: sono un’importante fonte di cellule staminali emopoietiche utilizzabili nel trattamento di patologie ematologiche nel contesto del trapianto allogenico. Ancora controversa la possibilità di isolare dal cordone ombelicale cellule staminali in grado di originare qualsiasi tipo di tessuto maturo. • Cellule staminali adulte: provvedono al mantenimento dei tessuti in condizioni fisiologiche ed alla loro riparazione in seguito a un danno. Tali cellule erano fino a pochi anni fa considerate tessuto-specifiche poiché si riteneva che fossero specializzate nel generare cellule mature tipiche del tessuto in cui risiedono. In realtà studi recenti hanno mostrato un’inattesa plasticità di delle cellule staminali adulte. Il caso più emblematico è rappresentato dal transdifferenziamento di cellule staminali neurali adulte in cellule mesodermiche ematopoietiche (Bjornson CR et al., Science, 1999). Tale “salto” differenziativo tra cellule di foglietti embrionali diversi si osserva con cellule staminali di adulto sia inserite in tessuti embrionali, sia in tessuti adulti (Taylor G et al., Cell, 2000; Clarke DL et al., Science, 2000; Galli et al., Nat Neurosci, 2000) e riguarda anche le cellule del midollo osseo che possono dare origine a muscolo (Ferrari et al., Science, 1998) ed a epatociti (Petersen et al., 1999, 2000), mentre i miociti possono colonizzare il sistema ematopoietico (Gussoni et al., Nature, 1999). Dai numerosi tentativi di definire un profilo di espressione genica tipico della cellula staminale si evince che la cellula staminale non può considerarsi una entità a sé stante, ma è uno stato funzionale che può essere mantenuto da qualsiasi cellula e dipende dagli stimoli che il microambiente fornisce alla cellula mantenendola in uno stato di quiescenza o di proliferazione piuttosto che di differenziazione. Tuttora non è possibile stabilire le caratteristiche puntuali di una cellula staminale perché i test finora utilizzati per dimostrarne la presenza sono basati sulla specifica caratteristica di pluripontenzialità e di differenziazione in qualsiasi linea maturativa, richiedono periodo molto lunghi (mesi) e sono studi in retrospettiva. Non è ancora possibile isolare e definire con certezza una cellula staminale autorinnovantesi senza avvalersi di tali studi funzionali. CELLULE STAMINALI Investigation on possible cell sources to be utilized for cardiac cell therapy A.P. Beltrami*, D. Cesselli, N. Bergamin, P. Marcon, S. Rigo, S. Burelli, E. Puppato, F. D’Aurizio, M. Bottecchia, P. Masolini, L. Mariuzzi, N. Finato, C.A. Beltrami Istituto di Anatomia Patologica, Università di Udine; * Clinica Ematologica, Università di Udine Congenital and acquired cardiac pathologies are the leading cause of death in the Western World. Cell therapy is emerging as a novel strategy for the treatment of those patients suffering from post-ischemic heart failure, whose illness and/or clinical history are so severe to be predictive for a negative outcome, even if they are treated to the best of nowadays knowledge. The loss of myocardial cell mass determines an increase in end diastolic volume (volume overload). The diastolic stretch of surviving myocardium, associated with an increased work per spared myocyte (normotensive overload) generates an increase in cell death rate and results in ventricular wall remodeling. The final effect is a terminal cardiac failure, whose only therapy is heart transplantation. Nowadays the request for organ transplantation far outstrips the number of anatomical gifts. Moreover, transplantation procedures are not devoid of risks and complications. Encouraging therapeutical results would have been achieved by a technique called cellular cardiomyoplasty (CCM). This term refers to the injection of cells of different type and in the infarcted-scarred area with the intention of ameliorating myocardial function. Actually, the comprehension of the mechanisms by which transplanted cells exert their positive effects is poor and less is known about the long term effects of this novel strategy. Moreover, while it is known that transplanted skeletal myoblasts give rise exclusively to myofibers, the ability of bone marrow stem cells to generate new myocardium is a controversial issue. Most of the latest published data seem to attribute the clinical amelioration to the induction of neo-angiogenesis. Many Authors, in addition, agree in identifying in the modifications of the elastic properties of the scar the mechanism responsible for the positive interference with cardiac remodeling. Lately our group has identified cardiac stem cells residing in adult rat hearts. These cells have a potential therapeutic role since they are able to regenerate viable myocardium in an experimental model of acute myocardial infarction (AMI). These data are consistent with the recent observation of myocyte regeneration occurring soon after AMI in humans. What is emerging in both cases is that the heart possesses a population of primitive cells that, at least in the murine model, can be isolated, in vitro expanded, genetically modified and utilized for regenerative purposes. The most attractive scenario in cardiac cell therapy is myocardial cell autotransplantation. We intend with this term a procedure that implies the explantation, from a patient’s heart, of a myocardial fragment followed by the isolation and in vitro expansion of those cardiac stem and progenitor cells that are endowed in it. Once obtained a sufficient number of cells, they could be, theoretically, transplanted back to the same patient, eventually after an in vitro pre-differentiation. The probable advantages of this procedure are: the lack of immunological rejection, the opportunity to utilize cells already committed to a myocardial fate and the possible absence of transplantation waiting lists. 185 The potential disadvantages are: the time requested for in vitro cardiac cell expansion, the expensive costs of such a procedure, the utilization of cells derived from a decompensated organ (therefore, possibly characterized by a limited proliferative/differentiative potential) and, last but not least, the necessity to obtain tissue fragments from patients with depressed cardiac performance. The utilization of autologous cells obtained from other, more accessible sources could overcome some of these problems. The possiblility that cardiomyocytes can be generated from primitive cells of non-cardiac origin introduces the controversial issue of stem cell plasticity. An intriguing explanation for stem cell plasticity could reside in the existence of a class of multipotent adult progenitor cells (MAPCs) able to give rise to derivatives of all the three germ layers. Following Verfailliés methods17, our research group has isolated and characterized MAPCs lines from explanted human hearts (n = 22) as well as from livers judged to be inapt for transplantation (n = 15), and from healthy donor-derived bone marrow samples (n = 10). The antigenic pattern of the obtained cell lines (CD45-/CD34/ C D 3 8 - / C D 11 7 - / C D 1 3 3 - / H L A - D R /CD29lo/KDRlo/CD90hi/CD13hi/CD49bhi) was very similar to the one described for MAPCs. Moreover, when exposed to appropriate differentiation inducing conditions, all the cell lines were able to differentiate along an adipogenic, osteogenic, endothelial, and myogenic fate. If cells isolated from different sources would be equipotent in their regenerative capacity, cellular based therapies could be performed choosing as a cell source the easiest one to be accessed. References 1 Lloyd-Jones DM, et al. Lifetime risk for developing congestive heart failure: the Framingham Heart Study. Circulation 2002;106:3068. 2 Caplice NM, Gersh BJ. Stem cells to repair the heart: a clinical perspective. Circ Res 2003;92:6. 3 Nadal-Ginard B, et al. Myocyte death, growth, and regeneration in cardiac hypertrophy and failure. Circ Res 2003;92:139. 4 Deng MC. Cardiac transplantation. Heart 2002;87:177. 5 Hughes S. Cardiac stem cells. J Pathol 2002;197:468. 6 Orlic D, et al. Stem cells for myocardial regeneration. Circ Res 2002;91:1092. 7 Kang H-J, et al. Effects of intracoronary infusion of peripheral blood stem-cells mobilised with granulocyte-colony stimulating factor on left ventricular systolic function and restenosis after coronary stenting in myocardial infarction: the MAGIC cell randomised cli. Lancet 2004;363:751. 8 Leobon B, et al. Myoblasts transplanted into rat infarcted myocardium are functionally isolated from their host. Proc Natl Acad Sci USA 2003;100:7808. 9 Norol F, et al. Influence of mobilized stem cells on myocardial infarct repair in a nonhuman primate model. Blood 2003;102:4361. 10 Fujii T, et al. Cell transplantation to prevent heart failure: a comparison of cell types. Ann Thorac Surg 2003;76:2062. 11 Beltrami AP, et al. Adult cardiac stem cells are multipotent and support myocardial regeneration. Cell 2003;114:763. 12 Beltrami AP, et al. Evidence that human cardiac myocytes divide after myocardial infarction. N Engl J Med 2001;344:1750. 13 Schwartz RS, Curfman GD. Can the heart repair itself? N Engl J Med 2002;346:2. 14 Leri A, et al. Some like it plastic. Circ Res 2004;94:132. 15 Rutenberg MS, et al. Stem cell plasticity, beyond alchemy. Int J Hematol 2004;79:15. 16 Wagers AJ, Weissman IL. Plasticity of adult stem cells. Cell 2004;116:639. 17 Jiang Y, et al. Pluripotency of mesenchymal stem cells derived from adult marrow. Nature 2002;418:41. 186 Cellule staminali scheletriche M. Riminucci Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università dell’Aquila, L’Aquila, Italia Cellule staminali mesenchimali capaci di rigenerare tutti i tessuti scheletrici (osso, cartilagine, tessuto fibroso, midollo adiposo e stroma di supporto dell’emopoiesi) sono presenti nel compartimento non emopoietico del midollo osseo umano dell’adulto, da cui possono essere isolate in vitro come cellule aderenti al substrato (cellule stromali del midollo osseo) 1. Il potenziale differenziativo scheletrico delle cellule stromali del midollo osseo è dimostrabile attraverso l’impiego di opportuni modelli sperimentali in vivo. Il trapianto di cellule stromali umane nel sottocute di topi immunodeficienti esita nella formazione di un “ossicolo” ectopico costituto da tessuto osseo, midollo adiposo e stroma di supporto dell’emopoiesi. L’inoculo delle stesse cellule in difetti scheletrici “critical size” generati in animali di grandi dimensioni, ne dimostra la capacità rigenerativa scheletrica in sede ortotopica. Come dimostrato mediante studi di trapianto in vivo, cellule staminali e progenitori committed sono contenuti nella frazione clonogenica della popolazione stromale, ovvero nella frazione di cellule che, in colture in vitro a bassa densità di inoculo, generano colonie discrete ognuna delle quali rappresenta la progenie di una singola cellula 2. Il loro profilo fenotipico rimane, tuttavia, ancora oggi elusivo, giustificando così l’impossibilità di generare popolazioni pure di cellule staminali scheletriche e/o precursori osteogenici da campioni di midollo osseo non coltivati in vitro. Diverse molecole sono state recentemente proposte come marcatori di cellule staminali mesenchimali, tra questi la molecola di adesione CD146 (Muc-18, Mel-CAM) 3. CD146 appare selettivamente espressa nel midollo osseo umano in vivo in una sottopopolazione di cellule stromali a localizzazione perivascolare. Studi in vitro dimostrano che l’impiego di anticorpi anti-CD146 permette di selezionare da campioni di aspirato midollare mediante metodica FACS, una popolazione stromale arricchita in cellule clonogeniche. Esperimenti condotti nel topo immunodeficiente dimostrano che una sottopopolazione di cellule stromali esprimenti CD146 è direttamente coinvolta nella organizzazione del midollo osseo e nella sua rigenerazione in vivo. L’impiego di cellule staminali mesenchimali permette lo sviluppo di approcci innovativi attraverso i quali generare modelli originali di malattie scheletriche umane che spaziano dalle malattie genetiche alla patologia neoplastica metastatica. Il trapianto nel topo immunodeficiente di cellule stromali isolate da midollo osseo patologico in corso di malattie genetiche permette di riprodurre la lesione scheletrica, RELAZIONI di individuarne gli aspetti istopatologici caratterizzanti e di studiarne i meccanismi patogenetici 4 5. L’impiego di questo modello sperimentale ha rivelato aspetti patogenetici sconosciuti e sorprendenti della Displasia Fibrosa dello scheletro, una malattia genetica correlata a mutazioni attivanti del gene GNAS 6 7. La possibilità di riprodurre nell’animale da esperimento un microambiente scheletrico umano normale (ossicolo) fornisce, inoltre, un modello sul quale analizzare le interazioni cellulari e molecolari che sottendono il coinvolgimento osseo in corso di patologie extrascheletriche, quali ad esempio le metastasi. Partendo da tale presupposto, abbiamo recentemente sviluppato un modello murino “umanizzato” di metastasi scheletriche di carcinoma della prostata, una neoplasia per la quale la disponibilità di modelli sperimentali animali è limitata dalla necessità di interazioni cellulari specie-specifiche tra neoplasia e microambiente scheletrico. In questo modello, cellule stromali umane ottenute da donatori sani sono utilizzate per generare un ossicolo ectopico nel topo immunodeficiente successivamente inoculato con cellule di carcinoma prostatico umano. La selettiva localizzazione delle cellule neoplastiche nell’ossicolo umano, anziché nello scheletro murino, genera un modello unico nel quale studiare e, soprattutto, manipolare sperimentalmente le interazioni cellulari e molecolari tra cellule neoplastiche e microambiente scheletrico. Bibliografia 1 Bianco P, Riminucci M, Gronthos S, Robey PG. Bone marrow stromal stem cells: nature, biology, and potential applications. Stem Cells 2001;19:180-92. 2 Kuznetsov SA, Krebsbach PH, Satomura K, Kerr J, Riminucci M, Benayahu D, et al. Single-colony derived strains of human marrow stromal fibroblasts form bone after transplantation in vivo. J Bone Miner Res 1997;12:1335-47. 3 Filshie RJ, Zannettino AC, Makrynikola V, Gronthos S, Henniker AJ, Bendall LJ, et al. MUC18, a member of the immunoglobulin superfamily, is expressed on bone marrow fibroblasts and a subset of hematological malignancies. Leukemia 1998;12:414-21. 4 Bianco P, Kuznetsov SA, Riminucci M, Fisher LW, Spiegel AM, Robey PG? Reproduction of human fibrous dysplasia of bone in immunocompromised mice by transplanted mosaics of normal and Gsalpha-mutated skeletal progenitor cells. J Clin Invest 1998;101:1737-44. 5 Riminucci M, Collins M, Corsi A, Boyde A, Murphey MD, Wientroub S, et al. Gnatho-diaphyseal dysplasia: A syndrome of fibro-osseous lesions of jawbones, bone fragility, and long bone bowing. J Bone Min Res 2001;16:1710-8. 6 Weinstein LS, Shenker A, Gejman PV, Merino MJ, Friedman E, Spiegel AM. Activating mutations of the stimulatory G protein in the McCune-Albright syndrome. N Engl J Med 1991;325:1688-95. 7 Riminucci M, Fisher LW, Shenker A, Spiegel AM, Bianco P, Gehron Robey P. Fibrous dysplasia of bone in the McCune-Albright syndrome: abnormalities in bone formation. Am J Pathol 1997;151:1587600. PATHOLOGICA 2005;97:187-191 Tecniche “High Throughput” in patologia umana Moderatore: M. Piantelli (Chieti) Microarrays tissutali R. Lattanzio, R. Lasorda, S. Alberti, M. Piantelli Unità di Patologia Oncologica, Dipartimento di Oncologia & Neuroscienze e Fondazione Università “G. d’Annunzio”, Chieti I microarrays sono alla base di tecnologie “ad alta processività”, di recente sviluppo, capaci di fornire una piattaforma rivoluzionaria per lo studio dell’espressione, della regolazione e della funzione genica. Enorme è quindi il loro potenziale nello studio dei processi biologici normali e patologici. Esempi importanti di questo potenziale sono costituiti dall’identificazione dei geni regolatori del ciclo cellulare e dei geni responsabili di malattia nelle patologie neoplastiche ed in quelle neurodegenerative. Le nuove tecniche impieganti microarrays hanno generato, in un lasso di tempo relativamente breve, un’abbondanza e talora forse una pletora, di nuovi dati promettendo contestualmente di fornirci indizi e strumenti utili ai fini diagnostici e terapeutici, soprattutto in campo oncologico. A questo proposito va ricordato che le pubblicazioni basate sull’uso dei microarrays sono passate dalle 10 del 1997 alle 361 del 2000, per raggiungere il numero di 4.130 nel 2004 (65% delle quali riguardanti l’uomo, 30% l’animale e 5% il mondo vegetale). Con lo sviluppo di queste tecniche rivoluzionarie, è stato necessario mettere a punto nuovi strumenti, statistici e non, atti alla validazione ed alla interpretazione dei voluminosi set di dati generati. La tecnologia dei microarray tissutali (TMA) è uno di questi strumenti ed è basata sull’impiego della miniaturizzazione in una tecnica ad alta processività per l’analisi di un tessuto (incluso in paraffina od anche congelato). L’idea di studiare diversi campioni tissutali simultaneamente in una singola sezione istologica non è nuova (vedi ad esempio la cosiddetta “sausage technique”) 1, ma una vera ed efficace miniaturizzazione è stata ottenuta solo più tardi, nel 1998, quando Kononen et al. 2 hanno introdotto uno strumento di alta precisione per il prelievo da tessuti inclusi, in grado di consentire la allocazione, precisa e riproducibile, e la rilocalizzazione in un nuovo blocco, di frammenti di tessuto numerosi, distinti e minuti (sino a 0,6 mm di diametro). Queste piccole dimensioni richiedono ovviamente una accurata preselezione microscopica delle aree da prelevare. La successiva identificazione delle molecole d’interesse viene effettuata con tecniche istochimiche di affinità, utilizzando anticorpi (IHC), o sonde a DNA, RNA etc., variamente marcate (FISH, ibridizzazione in situ cromogenica, ISH, etc.). La rapida diffusione dell’impiego di TMA è testimoniata dalle pubblicazioni originate da questa tecnica: da 25 nel 1999 a 1055 nel 2004. I TMA sono stati considerati uno “spin-off” concettuale dai cDNA microarrays 3 e sono stati utilizzati per validare i risultati riguardanti i profili di espressione genica. Nella maggior parte dei casi un’aumentata espressione di mRNA correla con un aumento dei livelli proteici documentabili in IHC. Importanti eccezioni comunque esistono, dovute ai meccanismi di regolazione post-trascrizionale della sintesi proteica. Gene microarrays e TMA in base alle informazioni che possono fornire, sono in definitiva complementari: ogni elemento in un TMA rappresenta il tessuto di un singolo paziente e è pertanto possibile, in un so- lo vetrino, l’analisi di un marker molecolare in molti soggetti, anche centinaia. Al contrario, i microarray per l’analisi dell’espressione genica, consentono la valutazione di centinaia/migliaia di markers in un singolo soggetto. Anche senza ricorrere alla microdissezione laser-assistita dei tessuti con successive analisi gnomiche o proteomiche, i TMA possono fornire fondamentali informazioni topografiche sull’espressione genica. Possono ad esempio distinguere molecole espresse dal tumore da quelle stromali, così come differenziano una localizzazione nucleare da una citoplasmatica o di membrana. Una rapida identificazione immunoistochimica dell’espressione di una data molecola richiede la disponibilità del relativo anticorpo. E comunque possibile valutare su TMA eventi di amplificazione genica generando, così come per i DNA microarrays, sonde adatte alle tecniche di ibridizzazione ISH. Con l’uso della microscopia confocale è anche possibile l’analisi simultanea di markers multipli, combinando l’uso non solo di diversi anticorpi ma anche di anticorpi e sonde per ISH, consentendo di valutare contemporaneamente espressione genica e espressione proteica a livello di una singola cellula. Le maggiori applicazioni nella ricerca oncologica traslazionale comprendono la costruzione di TMA dedicati all’analisi della progressione tumorale, all’individuazione del valore prognostico e/o predittivo di singoli o meglio multipli markers raggruppati in clusters Sebbene i TMA siano stati inizialmente pensati per la ricerca oncologica, il loro possibile utilizzo è molto più ampio e comprende anche utilizzazioni routinarie in campo istopatologico come la costituzione di banche tissutali, il test di nuovi anticorpi, il controllo di qualità di reagenti e procedure (intra e inter laboratorio) in IHC e ISH, l’educazione continua in patologia. A differenza della maggior parte delle ricerche “usuali”, lo studio di molti (ed ancor più di tutti) geni espressi in un campione non è “hypothesis-driven” ed è meglio definito come “discovery-type research” o in modo meno accademico come “fishing expeditions”. In questo contesto, non solo i “gene arrays” ma anche i TMA si sono dimostrati capaci di indirizzare la ricerca generando nuove ipotesi 4. Le strategie guidate e quelle non guidate da un’ipotesi, non sono e non dovrebbero quindi essere mutuamente esclusive: fondendo questi due diversi approcci sarà possibile accelerare il processo di traslazione delle scoperte “from the bench to bedside, and back again”. A tal fine è auspicabile l’utilizzo congiunto delle tecniche genomiche, proteomiche, “isto-citomiche” 3, gluconiche, lipidomiche, metabolomiche, con l’ovvio fondersi di competenze biologiche, mediche, chimico-fisiche, ingegneristiche, e non da ultimo statistiche e bioinformatiche. Bibliografia 1 Battifora H. The multi-tumor (sausage) tissue block. Lab Invest 1986;55:244-8 2 Kononen J, et al. Tissue microarrays for high-throughput molecular profiling of tumor specimens. Nat Med 1998;4:844-7 3 Coulton G. Are histochemistry and cytochemistry ‘Omics’? J Mol Histol 2004;35:603-13. 4. Dmitrovsky E. Editorial: Tissue microarrays for hypothesis generation. J Natl Cancer Inst 2004;96:248-9. 188 DNA mitocondriale e CGH array in patologia mammaria L. Morandi, GL. Marucci, A. Pession, V. Eusebi Anatomia Patologica Università di Bologna Presso Ospedale Bellaria, Bologna Apocrine epithelium is commonly regarded as a “normal” change of the lobular epithelium of breast. It is commonly called “pink” epithelium for its eosinophilia. It is part of the changes seen in cystic disease and lines up tension cysts. It is stained by PAS after diastase and reacts with anti GCDFP-15 which is considered a marker of apocrine differentiation. In situ hybridization reveals PIPmRNA which is the same sequence as GCDFP15 1. The proliferative capacity of apocrine cells is uncertain. The flat apocrine cell lining cysts may be an end stage of cellular differentiation, but some studies indicate metabolic activity. A number of FU studies have suggested that apocrine epithelium may be a predictor for subsequent development of carcinoma. Nevertheless a relative risk of only 1.7 was reported in a long term FU of women with benign breast diseases, while a slightly increased risk of 2.4 has been reported for those lesions showing complex patterns of papillary changes 5. The more complex forms of micropapillary apocrine changes are seen within tension cysts. The micropapillary structures have the cytology of the ordinary benign apocrine cells, but their architecture is identical to micropapillary structures seen in micropapillary carcinomas. Using comparative genomic hybridization the mean number of alterations in apocrine hyperplasia was 4.1 (n = 10) compared to 10.2 in apocrine DCIS (n = 10) and 14.8 (n = 4) in invasive apocrine carcinoma 2. The most common alterations in apocrine hyperplasia were gains of 2q, 13q, and 1p and losses of 1p, 17q, 22q, 2p, 10q and 16q. Apocrine DCIS and invasive carcinoma showed gains of 1q, 2q, 1p and losses of 1p, 22q, 17q, 12q and 16q as the most common DNA copy number changes. It apperas that apocrine hyperplasia shows a mean number of alterations lower than DCIS and DCI, but the alterations overlap with those identified in in situ and invasive apocrine carcinomas. The same changes are seen in non apocrine breast carcinomas. These data led to the conclusion that apocrine hyperplasia is a non obligatory precursor of apocrine carcinoma. Paget’s carcinoma (PC) of the breast is characterized by neoplastic cells of “glandular” type located within the epidermis of the nipple-areolar complex, often associated with an underlying ductal carcinoma, either in situ or invasive. PC cells show irregular nuclei, are irregularly scattered in the epidermis, are positive for keratin 7 (K7), negative for keratin 20 (K20) and positive for HER2neu. They have to be distinguished from Merkel cells (K 20 positive and HER-2neu negative) and Toker cells (TC) that are also present in the epidermis of the areola-nipple complex. TC are usually suprabasally located and show regular nuclei. They are dendritic and K7 positive as PC, but are K 20 and HER-2neu negative 3. At the present the origin of PC cells is controversial, although there is a widespread opinion that PC cells are “foreign” elements to the epidermis resulting from an epidermotropic migration of neoplastic elements from an underlying carcinoma. Nevertheless in about 5% of cases PC cells are present in the epidermis only and no carcinoma is observed elsewhere. In addition there are cases in which the associated carcinoma to PC is located in a quadrant far away from cancerized skin. There is space for the alternative theory that some cases result from neoplastic transformation of pre-existing innocent intra-epidermal TC. Ten cas- RELAZIONI es of PC with underlying carcinoma were studied using methods for clonality that included loss of heterozygosity and mitochondrial DNA displacement loop sequence analysis 4 . It was found that in no fewer than 2 cases PC cells and the related underlying carcinoma were completely genetically different. These data have led to the conclusion that the rule of epidermotropism by neoplastic cells from an underlying carcinoma is not applicable to all cases and that in some cases PC cells might be the result of neoplastic transformation of pre-existing Toker cells. Lobular Carcinoma In Situ (LCIS) and Invasive Lobular Carcinoma (ILC) were described over 50 years ago, yet their biology remains largely unknown 6. LCIS is an incidental finding in biopsies usually carried out for other purposes, such as the investigation of benign lumps. Patients are usually between 40 and 50 years old. Approximately 20-25% of patients with a diagnosis of LCIS will progress to the invasive form of the disease, but over a very long time period (typically 20 to 25 years). To date no specific markers or features have been identified that could demonstrate that LCIS is a precursor of ILC 7. E-cadherin is an adhesion molecule that is lost in most lobular lesions 8-10, and some authors have advocated to use antibodies against Ecadherin as an adjunct marker for the differentiation of LCIS and ductal carcinoma in situ 9. We developed a comparative genome wide analysis and clonality assays between LCIS and ILC present in the same patient evaluating chromosome gains and losses by CGH-array 11 and direct sequencing of mitochondrial(mt) D-loop region 4. CGH-array provides a means to quantitatively measure DNA copy number aberrations and to map them directly onto genomic sequence with a resolution power of about 75 kbases 12. The discovery of gains and deletions was made using the CGH-Explorer (http://www.ifi.uio.no/bioinf/Papers/CGH/) developed by the University of Oslo (Norway). The genetic distance among different lobular carcinomas was measured by a hierarchical cluster analysis using the Expression Profiler software (Fig. 1). Another approach useful to verify a clonal derivation of ILC from LCIS will be the direct sequencing of the mt Dloop region 4. The high frequency of mutation rate of mtDNA in tumors, especially those found in the D-loop region, and the large number of mitochondrial genome presence in one cell, makes mtDNA a reliable marker for clonality assays from microdissected paraffin embedded tissue samples. A direct alignment followed by phylogenetic neighbor joining trees among sequences was useful to evaluate the genetic distance between LCIS and ILC with respect to normal tissue. Concurrent carcinomas were cluster together by array CGH data except for case 16,744 (7/8 cases). Phylogenetic trees based on mtDNA analysis showed a strong genetic correlation between synchronous LCISs and ILCs except for cases 16,744, giving good agreement with array CGH data. We conclude that genomic alterations, particularly 16q loss and 6p gain, are highly prevalent in ILC and LCIS respectively, with invasive lesions exhibiting more alterations overall compared with in situ lesions. The clonal relation exhibited by most of these matched pairs supports the idea of a precursor-product relation between LCIS and ILC and indicates that LCIS is more than simply a marker for an increased risk of breast carcinoma. References 1 Eusebi V, Damiani S, Losi L, Millis RR. Apocrine differentiation in breast epithelium. Advances Anat Pathol 1997;43:139-55. 2 Jones C, Damiani S, Wells D, Chaggar R, Lakhani SR, Eusebi V. Molecular cytogenetic comparison of apocrine hyperplasia and apocri- TECNICHE “HIGH THROUGHPUT” IN PATOLOGIA UMANA 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 ne carcinoma of the breast. Am J Pathol 2001;158:207-14. Marucci G, Betts CM, Golouh R, Peterse JL, Foschini MP, Eusebi V. Toker cells are probably precursors of Paget cell carcinoma: a morphological and ultrastructural description. Virchows Arch 2002;441:117-23. Morandi L, Pession A, Marucci GL, Foschini MP, Pruneri G, Viale G, et al. Intraepidermal cells of Paget’s carcinoma of the breast can be genetically different from those of the underlying carcinoma. Hum Pathol 2003;34:1321-30. Page DL, Dupont WD, Rogers LW, Rados MS. Atypical hyperplastic lesions of the female breast. A long-term follow-up study. Cancer 1985;55:2698-708. Foote FW Jr, Stewart FW. Lobular carcinoma in situ. A rare form of mammary cancer. Am J Pathol 1941;17:491-6. Lakhani SR. In-situ lobular neoplasia: time for an awakening. Lancet 2003;361:125-9. Goldstein NS, Kestin LL, Vicini FA. E-cadherin reactivity of 95 noninvasive ductal and lobular lesions of the breast. Implications for the interpretation of problematic lesions. Am J Clin Path 2001;115:53442. Jacobs TW, Pliss N, Kouria G, Schnitt SJ. Carcinomas in situ of the breast with indeterminate features: role of E-cadherin staining in categorization. Am J Surg Path 2001;25:229-36. Lehr HA, Folpe A, Yaziji H, Kommoss F, Gown AM. Cytokeratin 8 immunostaining pattern and E-cadherin expression distinguish lobular from ductal breast carcinoma. Am J Clin Pathol 2000;114:190-6. Ishkanian AS, Malloff CA, Watson SK, DeLeeuw RJ, Chi B, Coe BP, et al. A tiling resolution DNA microarray with complete coverage of the human genome. Nat Genet 2004;36:299-303. Barrett MT, Scheffer A, Ben-Dor A, Sampas N, Lipson D, Kincaid R, et al. Comparative genomic hybridization using oligonucleotide microarrays and total genomic DNA. Proc Natl Acad Sci USA 2004;101:17765-70. Analisi proteomica di tumori solidi M. Trerotola, G. Vacca, M. Piantelli, S. Alberti Unità di Patologia Oncologica, Dipartimento di Oncologia & Neuroscienze e Fondazione Università “G. d’Annunzio”, Chieti Introduzione Analisi di livelli di mRNA su microarray di DNA sono state utilizzate per ottenere un “ritratto panoramico” dell’espressione genica del tumore della mammella 1. Tuttavia, per quanto importanti per l’identificazione di reti di controllo cellulari, i livelli di RNA non possono essere assunti come indicatori diretti dei livelli della proteina codificata corrispondente. Variabili critiche sono infatti efficienza la proteina viene sintetizzata (efficienza traduzionale di un mRNA) e degradata (emivita della proteina). Altrettanto critiche sono le modificazioni post-traduzionali cui la proteina studiata può andare incontro (es. processazione proteolitica, coniugazione a lipidi, fosforilazione, metilazione, acetilazione). Diventa quindi critico il poter analizzare direttamente il proteoma tumorale a livello di singolo paziente. Approccio sperimentale Due tecnologie vengono usate in modo prevalente. La prima (separazione su gel bidimensionali) si basa sull’uso di gel di poliacrilamide per separare le proteine tumorali in base a dimensione e punto isoelettrico. I gel vengono successivamente colorati con nitrato d’argento o coloranti fluorescenti, e la quantità relativa di ciascuna proteina (spot) nel gel viene quantificata. La seconda tecnologia si basa sull’utilizzo di spettrometri di massa (separazione di proteine in base al peso molecolare nativo e alle modificazioni post-traduzionali). Anche nel caso di utilizzazione di gel bidimensionali la spet- 189 trometria di massa gioca un ruolo critico nell’identificazione delle proteine costituenti gli spot di interesse 2. Una delle modificazioni post-traduzionali più critiche è la fosforilazione di proteine segnale in siti regolatori. Analisi efficienti dei livelli di fosforilazione di proteine specifiche possono essere condotte in saggi multiplex con anticorpi diversi che rivelano sullo stesso filtro bande a peso molecolare diverso in chemiluminescenza. Questo approccio permette il paragone interno dei livelli di espressione/modificazione di intere famiglie di proteine segnale (es. MAPK). Esempi di applicazioni delle tecniche descritte includono il paragone di tessuti normali/cellule trasformate. Gel bidimensionali di alta qualità permettono di evidenziare oltre 1.000 specie proteiche per campione. L’analisi combinata di numeri significativi di tumori, es. di 100 pazienti, con questa metodica in modi statisticamente/biologicamente/clinicamente accurati resta un problema aperto. Un secondo livello di complessità resta la successiva integrazione dei dati di proteomica con tutti gli altri parametri disponibili (indicatori prognostici classici, parametri istopatologici, analisi molecolari e dati di DNA microarray). Analisi proteomica del siero Metodiche tradizionali di diagnosi di tumore del seno (mammografia, ecografia) non sono in grado di rivelare tumori di dimensioni inferiori a 0,5 cm di diametro. Sostanze presenti nel tumore e rilasciate dallo stesso nella circolazione sanguigna (i marcatori tumorali) sono potenzialmente in grado di rivelare la presenza di malattia nelle fasi più precoci del suo sviluppo, in particolare nei tumori più aggressivi. I marcatori usati fino ad ora non hanno però una sensibilità e specificità sufficienti per un uso efficace. Per identificare nuovi marcatori tumorali in campioni di siero o plasma (e di tessuto) sono state tecnologie innovative quali l’analisi proteomica e la spettrometria di massa. Per quanto promettenti, queste tecnologie presentano ancora limitazioni critiche, in particolare di sensibilità assoluta (ordini di grandezza inferiore rispetto all’atteso). Una seconda limitazione è nel separare in modo non ambiguo picchi di segnale correlato alla presenza di tumore da picchi di rumore 3. Tecniche recenti di spettrometria di massa accoppiate a deplezione selettiva delle proteine sieriche più abbondanti (albumina e immunoglobuline), o sull’uso di albumina come carrier di piccole molecole 4 sono promettenti a questo riguardo. Sviluppi futuri Metodiche ad alta processività di ultima generazione utilizzano la rilevazione diretta di segnali di fluorescenza piuttosto che, es., saggi enzimatici con cromogeni, che invece vengono ampiamente utilizzati per la rilevazione di singole proteine (ad esempio tecniche di immunoistochimica basate sull’uso come tracciante della perossidasi, o tecniche della categoria ELISA). Normalmente, i lisati proteici sono marcati fluorocromi specifici, es. Cy3/Cy5. Un campione di riferimento, es. lisato proteico di un pool di linee cellulari tumorali, viene marcato, es., con il fluorocromo Cy3 (verde) e mescolato in proporzioni note con il campione da analizzare, marcato con il Cy5 (rosso). La mistura viene poi applicata ad una matrice di anticorpi specifici per un certo numero di proteine ed i segnali di fluorescenza sono registrati. Il rapporto tra fluorescenza verde e fluorescenza rossa in ogni punto della matrice, viene utilizzato come misura dell’abbondanza relativa della corrispondente proteina nei due campioni (test e di riferimento). Un problema rilevante di questo tipo di approccio, è rappresentato dalla poca riproducibilità delle reazioni di marcatura. 190 Una prima difficoltà deriva dall’eterogenea reattività chimica di specie proteiche diverse. A seguito di questo alcune proteine verranno marcate molto più efficiente di altre. Ne consegue una perdita di sensibilità della metodica nella rilevazione delle proteine meno marcate, oltre che perdita di specificità, poiché la fluorescenza delle proteine meglio marcate può oscurare anche il legame specifico di proteine molto scarse. Una seconda difficoltà deriva dalla natura eterogenea dei campioni tumorali utilizzati (es. tumori scirrosi, ad alto contenuto di collagene o tumori ad elevata cellularità o zone necrotiche). Una terza difficoltà deriva dalla diversa struttura chimica dei fluorocromi utilizzati correntemente (Cy3/Cy5). È importante notare che l’eliminazione completa di questi fenomeni è virtualmente impossibile. Anche una semplice ottimizzazione caso per caso delle procedure di marcatura suesposte non è realistica, e comporterebbe seri problemi di riproducibilità e consistenza dei risultati e, di fatto, ne impedirebbe una standardizzazione, obbligatoria per uso in clinica, e lo stesso impiego di routine della metodica. Sulla base di queste considerazioni, abbiamo sviluppato approcci innovativi che permettano di analizzare i lisati tumorali in condizioni native, ossia senza necessità di alcuna manipolazione. Bibliografia 1 Sorlie T, et al. Gene expression patterns of breast carcinomas distinguish tumor subclasses with clinical implications. Proc Natl Acad Sci USA 2001;98:10869-74. 2 Luo Y, et al. Comparative proteome analysis of breast cancer and normal breast. Mol Biotechnol 2005;29:233-44. 3 Diamandis EP. Analysis of serum proteomic patterns for early cancer diagnosis: drawing attention to potential problems. J Natl Cancer Inst 2004;96:353-6. 4 Mehta AI, et al. Biomarker amplification by serum carrier protein binding. Dis Markers 2003;19:1-10. Tecniche “high throughput” in patologia umana. Biostatistica E. Biganzoli, P. Boracchi* Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori, Unità, di Statistica Medica e Biometria, Milano, Italy; * Istituto di Statistica Medica e Biometria, Università di Milano, Milano, Italy In cancer research, expectations concerning tailoring of therapies on a biological basis have been dramatically increased following the introduction of high throughput genomic/proteomic techniques that can simultaneously evaluate the expression of large numbers of tumour genes. However, clinical decision-making still largely relies on classical information like pathological staging, grading and steroid receptor status, without a clear indication on how to integrate the results of emerging techniques with consolidated traditional markers 1-3. Despite the strong expectations that biological tumour markers could help in tailoring systemic treatments, the proper application of their information remains to be defined. A possible reason could be related to the large number of contrasting results. Unfortunately the advent of genomic/proteomic studies has not yet solved this issue. A concerning aspect of these studies, is their tendency in proposing new criteria for tumour sub-typing and prognostic classification from “the scratch”, i.e. without resorting to previous knowledge about the disease biology. This is potentially dangerous since their RELAZIONI findings are actually based on a limited number of subjects with huge number of imprecisely measured variables 4. Moreover, few efforts have been done for the development of standardised criteria for the evaluation of the accuracy of prognostic classification criteria. Consequently, there seems to be an increasing gap between the resources employed for basic and translational research on tumour markers and actual patient benefits and overall social gain. Until now, translational research focused on single biological markers which could putatively discriminate patients’ prognosis or treatment response. Now, in the “omic” era, the limited prognostic power of single genes seems to be generally acknowledged, whilst highlighting the need for a prognostic classification based an optimised, quantitative analysis of many genes. However, it could be argued that different conventional biomarkers could still be useful to determine individual prognosis and treatment response if reliably measured and jointly analysed with suitable statistical methodologies 5. Considering the paradigmatic example of steroid receptors in breast cancer, the question could be whether the optimal quantitative analysis of traditional markers would better support clinical decision, waiting for improving the reliability and reducing the costs of new molecular techniques. Following this perspective, research could follow the lines: i) identification of distinct tumour bioprofiles from molecular markers routinely measured and genomic/proteomic. In breast cancer, gene expression profiling studies “rediscovered” a separation between tumour subtypes with steroid receptor absent and those with low or high levels of receptors, more distinct tumour subtypes may be associated with different levels of ER and PgR. Such a biological evidence match the initial indications of consensus panels 2 3 for the development of treatment guidelines for early breast cancer, thus providing a quantitative means for the biological profiling of tumours with different chance of responding to adjuvant therapy on the basis of biological markers. ii) Definition and validation on different case series of benchmark predictive models for the risk of disease recurrence of post-menopausal breast cancer patients with axillary lymphnode involvement, treated with adjuvant hormone therapy (Tamoxifen), using only the patho-biological variables which are currently available in almost clinical Institutions, on their original continuous scale of measurement, according to the indication emerged from past biostatistical papers and more recent clinical guidelines. The contribution of new genomic/proteomic markers should be assessed on the basis of such benchmark predictive models. iii) Finally, it has to be pointed The need to carefully consider the clinical relevance of prognostic criteria either from traditional or genomic studies in terms of the probability of relapse according to the classification (i.e. area under the ROC curve and positive/negative predictive values). Overall, such issues support the need for cohort studies, planned ad hoc, following initial studies. Validations should be subsequently performed in prospective studies with appropriate designs 6 7, targeted to provide answers in the clinical decision-making process. The need for integrating exploratory studies addressing relevant biological issues (knowledge phase) with subsequent prospective clinical studies (decision phase) must be carefully considered to exploit biological knowledge in a clinical context 8 9. It is unlikely that the oncologist would apply a decision criterion without clearly understanding its biological basis, but this is the underlying risk of developing TECNICHE “HIGH THROUGHPUT” IN PATOLOGIA UMANA blind “black-box” classifications based on multiple markers, by means of sophisticated statistical techniques. A rapid increase in the number of studies on markers identified by means of high throughput genomic techniques, at considerable expense is likely. It would therefore be relevant to promote the application of suitable study designs and statistical methods for the reliable assessment of data collected on tumour markers, either genomic or “old”, and a faster translation of basic research to medical decision-making. These goals can be most successfully met through the cooperation of clinicians, biologists, biomedical informaticians and biostatisticians. Acknowledgements This work was partially supported the EU Network of Excellence: Biopattern (FP6-2002-IST-1 No. 508803). References 1 Boracchi P, Biganzoli E. Markers of prognosis and response to treatment: ready for clinical use in oncology? A biostatistician’s viewpoint. Int J Biol Markers 2003;18:65-9. 2 Goldhirsch A, Wood WC, Gelber RD, Coates AS, Thurlimann B, Senn HJ. Meeting highlights: updated international expert consensus 191 3 4 5 6 7 8 9 on the primary therapy of early breast cancer. J Clin Oncol 2003;21:3357-65. Eifel P, Axelson JA, Costa J, Crowley J, Curran Jr WJ, Deshler A, et al. National Institutes of Health Consensus Development Conference Statement: adjuvant therapy for breast cancer, November 1-3, 2000. J Natl Cancer Inst 2001;93:979-89. van’t Veer LJ, Dai H, van de Vijver MJ, He YD, Hart AA, Mao M, et al. Gene expression profiling predicts clinical outcome of breast cancer. Nature 2002;415:530-6. Biganzoli E, Boracchi P. Old and new markers for breast cancer prognosis: the need for integrated research on quantitative issues. Eur J Cancer 2004;40:1803-6. Sargent D, Allegra C. Issues in clinical trial design for tumor marker studies. Semin Oncol 2002;29:222-30. Biganzoli E, Lama N, Ambrogi F, Antolini L, Boracchi P. Prediction of cancer outcome with microarrays. Lancet 2005;365:1683. Biganzoli E, Boracchi P, Coradini D, Grazia Daidone M, Marubini E. Prognosis in node-negative primary breast cancer: a neural network analysis of risk profiles using routinely assessed factors. Ann Oncol 2003;14:1484-93. Lama N, Tunesi S, Ambrogi F, Boracchi P, Biganzoli E. Cancer Bioinformatics – A review project on data analysis methods in DNA microarray technology. Annex of deliverable D8- State-of-the-art on biomedical data analysis in the 3 SIG areas. EU Network of Excellence: Biopattern (FP6-2002-IST-1 No. 508803), 2004. PATHOLOGICA 2005;97:192-194 Banche tissutali: organizzazione di una rete nazionale Moderatori: O. Nappi (Napoli), V. Ninfo (Padova) Banche dei tessuti umani: obiettivi e aspetti regolatori in Italia ed Europa L.G. Spagnoli, C. Venturini Cattedra di Anatomia Patologica, Università Tor Vergata, Roma, Italia Le biobanche e banche dei tessuti nascono dall’esigenza di raccogliere tessuti, cellule e altri materiali biologici che, verificati attraverso stringenti controlli di qualità, vengano resi disponibili per la cura delle malattie e per la ricerca. La richiesta di tessuti umani per ricerca è fortemente aumentata negli ultimi anni soprattutto a seguito delle nuove conoscenze acquisite dal sequenziamento del genoma umano che hanno aperto nuovi orizzonti nell’uso dei tessuti umani sia per la ricerca della eziopatogenesi delle malattie che per l’individuazione di nuovi target farmacologici. A fronte di quest’aumentata richiesta l’attuale disponibilità di tessuto umano è insufficiente e pertanto si ritiene necessaria la creazione di reti di banche dei tessuti e cellule umani. L’armonizzazione sul piano normativo e delle regole di funzionamento delle singole banche dei vari paesi è un prerequisito indispensabile per la realizzazione di reti nazionali e internazionali. Spesso i termini “biobanca” e “banca dei tessuti” vengono usati come sinonimi per indicare le raccolte di tessuti, cellule e DNA umani associate ad una banca dati. C’è tuttavia un certo dibattito in corso sull’opportunità o meno di sviluppare una legislazione specifica per le biobanche usate nella genetica (Thomsen, 2004). Il Comitato etico europeo nella sua Opinione del 1998 sugli aspetti etici relativi alle banche dei tessuti umani sottolinea che, anche se ogni tessuto conservato è una potenziale fonte di informazioni genetiche (DNA), la suddetta opinione non riguarda le banche genomiche (banche DNA o biobanche) che pongono importanti questioni legali ed etiche (in particolare riguardo alla riservatezza dei dati, accesso a tali dati e usi possibili anche nel lungo periodo) che saranno trattate in una successiva opinione. Una definizione di biobanche genetiche si può trovare nella proposta di Linee guida sulle biobanche genetiche della Società di genetica umana e di Telethon Fondazione Onlus. Sono definite biobanche genetiche le raccolte di campioni di tessuti e linee cellulari, da cui si ottengono acidi nucleici e proteine, che rappresentano un’importante fonte di risorse per la diagnosi e la ricerca da quella di base fino alla sperimentazione di terapie per le malattie genetiche. La peculiarità delle biobanche genetiche richiede che i campioni conservati siano collegabili ai dati anagrafici, genealogici e clinici relativi ai soggetti da cui deriva il materiale depositato. In riferimento al sito di raccolta, alle figure professionali coinvolte, ed agli obiettivi, appare ragionevole che vengano distinte, ai fini regolatori e normativi, le biobanche genetiche per studi epidemiologici dalle banche dei tessuti umani anche se queste ultime possono essere fonte di DNA, RNA e proteine. Le fonti più comuni di tessuto umano per le banche sono: • materiale derivato da un intervento diagnostico (tra cui screening) o terapeutico – noto anche come surplus materiale rispetto alle richieste cliniche; • materiale specificamente donato per un progetto di ricerca e conservato per successivo uso; • materiale in origine donato per trapianto e o non utilizzato o ritenuto inadatto per trapianto; • materiale proveniente da persone decedute e sottoposte ad autopsia. Va sottolineato che questi tessuti sono generalmente prelevati nei laboratori di Anatomia Patologica. Gli archivi tradizionali (blocchetti di paraffina) rappresentano, inoltre, un patrimonio di valore inestimabile per la comunità scientifica ed una potenziale sorgente di una mole imponente di dati personali. Negli ultimi anni accanto agli archivi in paraffina si sono costituite banche di tessuto normale e patologico congelato utilizzando i tessuti residuali. Le biobanche esistenti sono di varie dimensioni, molte sono piccole e solo alcune sono molto grandi: la tendenza attuale è di predisporre grandi raccolte di popolazione, come è in corso in Islanda (DeCODE), Estonia (Estonian Genome Project), Gran Bretagna (UK Biobank), Finlandia (GenomEUtwin). Si è diffusa una maggiore consapevolezza in Europa sul valore dell’integrazione europea nel contesto delle biobanche: la diversità di stili di vita, climi, popoli offre un’opportunità unica per lo sviluppo di biobanche che favoriscano la valutazione dell’interazione tra fattori genetici e ambientali in molte malattie (Hainaut, 2002). Inoltre è utile ricordare alcune iniziative di rilievo quali la banca dei tumori dell’EORTC (European Organisation for Research and treatment of Cancer) e il progetto Tubafrost che si propone di creare una banca dei tumori pan-europea attraverso la creazione di una rete di raccolte di campioni tumorali congelati standardizzati, ben documentati, (con le corrispondenti accurate diagnosi) per la ricerca. Mentre esistono chiare normative per l’utilizzo di tessuti per trapianti, sono tuttora da definire nella maggior parte dei paesi occidentali norme che regolino i vari aspetti inerenti alla raccolta, conservazione, controllo di qualità, distribuzione, aspetti etici e legali dei materiali biologici per la ricerca ed in particolare per quelli di origine umana. Recentemente in Gran Bretagna e Svezia è stata adottata una normativa specifica sulle banche dei tessuti/biobanche. Lo “Human Tissue Act” (HTA) approvato in Inghilterra nel 2004 istituisce un’autorità “human tissue authority” con funzione consultiva e che sovrintende al rispetto dell’atto. Essa emanerà codici di condotta (su consenso, comunicazione con i parenti sulle autopsie, esame anatomico, importazione ed esportazione, materiali esistenti e smaltimento di tessuti). In Svezia la normativa è molto severa e per questo è stata criticata per i limiti posti alla ricerca. Il paziente deve essere informato su ogni singolo progetto in cui siano coinvolti i suoi tessuti (la cui origine sia rintracciabile) e deve dare il consenso per quell’uso specifico. Le biobanche possono essere stabilite solo presso istituzioni mediche ma possono essere rese disponibili per altri progetti di ricerca condotti in istituzioni di ricerca pubblica, nei locali di una società farmaceutica. Per l’istituzione e l’uso di una biobanca è necessaria l’approvazione del comitato etico di ricerca. I campioni anonimi non sono disciplinati dalla normativa suddetta. Possono sorgere problemi pratici e di metodo in mancanza di consenso precedente o in caso di donatore deceduto. In Italia non esistono specifiche norme e regolamenti sulle banche dei tessuti umani per ricerca. A tal fine è stato recen- BANCHE TISSUTALI: ORGANIZZAZIONE DI UNA RETE NAZIONALE temente costituito un Gruppo di lavoro sulla “Certificazione delle biobanche” per iniziativa del Comitato di Bioetica della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Tale iniziativa, analogamente alla proposta di legge sulla “Donazione del corpo ai fini di studio e ricerca”, presentata dalla Commissione Affari Sociali della Camera e alla proposta di nuovo Regolamento di polizia mortuaria, potrebbero costituire occasioni irripetibili per affrontare la complessità dei problemi sollevati dalla utilizzazione dei tessuti umani per la ricerca attraverso la costituzione di biobanche e banche dei tessuti e superare gli attuali limiti (normativi). Banca di Tessuti Congelati. Presupposti, piano operativo e struttura organizzativa A. Carbone, M.G. Daidone* Direttore del Dipartimento di Anatomia Patologica, Istituto Nazionale Tumori, Milano, Italia; * Responsabile della Struttura Complessa di Ricerca Translazionale, Istituto Nazionale Tumori, Milano, Italia Introduzione L’integrazione tra le attività connesse alla banca tessuti e la routine chirurgica e diagnostica è essenziale per un’efficiente raccolta di tessuto. A tale proposito, la definizione delle procedure strategiche e operative necessarie all’attivazione e al mantenimento della banca Tessuti deve derivare dalle proposte di un team multidisciplinare, del quale facciano parte, oltre agli Anatomo-Patologi, rappresentanti delle équipes chirurgiche, dello staff del reparto di Anestesia e Rianimazione e dei responsabili dei progetti di ricerca che utilizzeranno parte del materiale raccolto. Metodi Procedure e piano operativo devono trovare concretezza in un Progetto Istituzionale, a cura della Direzione Sanitaria/Direzione Scientifica. Tale Progetto deve essere spiegato e condiviso, enfatizzando la necessità di preservare in maniera ottimale il tessuto fresco e congelato da destinare alla ricerca e allo studio biotecnologico. Risultati Stabilire una procedura operativa per raccogliere e conservare il tessuto patologico residuo dopo la diagnosi e destinarlo alla ricerca e allo studio biotecnologico dovrebbe minimizzare la probabilità che i campioni operatori possano essere compromessi dal punto di vista diagnostico. Verrebbe anche ad essere di vantaggio per il Dipartimento di Patologia un rapido ed efficiente trasferimento del tessuto dalle sale operatorie all’Anatomia Patologica che verrebbe a ridurre il tempo richiesto all’Anatomo-Patologo per le attività connesse alla banca tessuti. Conclusioni È ovviamente necessario un adeguato supporto alla banca tessuti e al suo mantenimento che si può concretizzare non solo in termini di Infrastrutture dedicate ma anche di un regolare e costante aggiornamento di attività e iniziative che gravitano intorno ad essa. La formazione del personale della banca tessuti deve essere specificatamente finalizzata agli obiettivi e alle modalità di raccolta del materiale per una banca ottimale, non trascurando ovviamente anche tutte le normative relative alla sicurezza del lavoro. L’attivazione di un Progetto Istituzionale Banca di Tessuti Congelati non si esaurisce, tuttavia, nella raccolta e distribuzione di materiale biologico ma mette in moto una serie di 193 iniziative collaterali di carattere normativo ed etico-legale volte a definire non solo nuove modalità per l’acquisizione del consenso informato e per garantire la riservatezza delle informazioni disponibili, ma anche per stabilire le priorità per la distribuzione del materiale biologico e la possibile condivisione a livello Istituzionale delle informazioni generate dalle diverse ricerche condotte sugli stessi campioni. Se ben implementato e sostenuto, un Progetto di tale portata rappresenta un collante tra le diverse iniziative di un Istituto di ricerca e ne sinergizza risorse e risultati.” Banca di tessuti congelati: l’esperienza dell’istituto nazionale tumori di Milano A. Pellegrinelli, P. Collini, A. Carbone Dipartimento di Anatomia Patologica Istituto Nazionale Tumori di Milano Introduzione La genomica e la proteomica sono attualmente i campi di maggior interesse e sviluppo scientifico in oncologia. Prelevare una parte di tessuto tumorale inviato per la diagnosi istopatologica, congelarla e conservarla a -80 °C è indispensabile per lo studio e l’utilizzo ottimale degli acidi nucleici e delle proteine contenuti nel tumore avvalendosi delle attuali biotecnologie. Inoltre, implementare una banca di tessuti congelati, oggi, significa garantire lo studio e l’utilizzo futuro del tessuto stoccato avvalendosi di biotecnologie innovative che prossimamente saranno validate. Questo progetto è diventato imperativo in un Centro, l’Istituto Nazionale Tumori di Milano (INT), dove quotidianamente perviene al Dipartimento di Anatomia Patologica un considerevole quantitativo di tessuti umani rappresentativi di un ampio spettro oncologico. Metodi Poiché il proprietario legittimo della parte del tessuto che verrà destinato alla banca è il paziente, condizione preliminare e indispensabile è il suo consenso informato. Condizione obbligatoria e fondamentale è la stretta collaborazione interdisciplinare coinvolgente il patologo, il chirurgo, l’oncologo medico ed il personale di supporto per i seguenti motivi: 1. prelevare una parte di tumore per la banca potrebbe, in alcuni casi, pregiudicare la successiva e ben più importante diagnosi istopatologica. È necessario che, almeno in particolari casi, siano inviate insieme al campione, oltre ai dati clinici ordinari, tutte le informazioni riguardanti la storia clinico-patologica del paziente; 2. il tempo che deve intercorrere tra l’asportazione chirurgica del tessuto ed il suo congelamento non dovrebbe essere superiore ai 30 minuti per ottenere un buon campione congelato in senso di qualità di conservazione delle molecole. Per di più, durante il trasporto, il tessuto dovrebbe essere messo in ghiaccio fondente in contenitori/involucri di plastica o avvolto in garze umide. Per soddisfare le due condizioni, quindi, è necessario attivare procedure affinché sia reso veloce ed efficiente il trasporto del campione dalla sala operatoria alla anatomia patologica. Risultati La necessaria stretta collaborazione interdisciplinare si è concretizzata in istituto nella formazione di un gruppo di lavoro comprendente rappresentanti della anatomia patologica, della chirurgia, della oncologia e della anestesia e nella successiva stesura di un protocollo che prevede: 194 1. la stesura del consenso informato da parte del comitato etico; 2. un “work-flow” che definisca tutti i passaggi, dalla firma del consenso informato alla archiviazione del tessuto congelato con le rispettive competenze ed eventuali sostituzioni in caso di emergenze; 3. la identificazione dei campioni congelati mediante un codice a barre e la conservazione in congelatori a -80 °C dotati di allarme; 4. la immissione in un database di tutte le informazioni riguardanti il paziente, il tempo intercorso dall’asportazione RELAZIONI al congelamento, la diagnosi istologica e la posizione nel congelatore; 5. la effettuazione di controlli periodici sulla qualità delle molecole conservate. Conclusioni Il protocollo concordato e le procedure avviate hanno reso evidente la necessità di risorse in termini di infrastrutture, personale dedicato e finanziamenti. Inoltre, è in corso il coordinamento da parte della Direzione Scientifica di un aggiornamento dei protocolli di ricerca già esistenti in Istituto che utilizzano tessuto fresco o congelato. PATHOLOGICA 2005;97:195-196 Trapianti A cura di M. Rugge (Padova) Il controllo autoptico: normativa e raccomandazioni M. Valente, F. Calabrese, A. Angelini, C. Rago* Istituto di Anatomia Patologica, Università di Padova; * Centro Regionale Trapianti del Veneto, Padova, Italia Le neoplasie sono una complicanza dei trapianti d’organo: alla loro insorgenza concorrono l’immunosoppressione, per la perdita della sorveglianza immunitaria nei confronti dell’insorgenza del tumore e per la possibile carcinogenicità di alcuni farmaci immunosoppressori, e le infezioni virali. Accanto alle neoplasie proprie del ricevente insorte dopo il trapianto, possiamo avere anche tumori trasmessi dal donatore. Nel 1991 Israel Penn pubblicò un articolo intitolato: Donor transmitted Disease: Cancer. Era la prima casistica rilevante di tumori trasmessi da Donatore a Ricevente e riportava l’esperienza del “Cincinnati Transplant Tumor Registry” 1. Riguardava 118 donatori con neoplasia maligna (96 cadaveri e 22 viventi): la neoplasia era stata trasmessa a 72 riceventi (44%). Per quanto riguarda i donatori cadavere la neoplasia era stata scoperta all’autopsia, e il tumore si era sviluppato nel ricevente precocemente o comunque entro 38 mesi dal trapianto. Successivamente Penn formulò alcune raccomandazioni per ridurre al minimo il rischio di trasmissione di neoplasie, e fra queste era inclusa l’autopsia: “Precautions to prevent cancer transmission include meticulous preoperative screening of donors, careful examination of all organs at the time of harvesting, biopsy of any suspicious lesions, and routine donor autopsy, if possible” 2. L’autopsia del donatore con controllo istologico degli organi sospetti, anche se non “contestuale” al prelievo, è raccomandabile, perché il riconoscimento di un tumore maligno nel donatore, anche dopo che è stato effettuato il trapianto, può guidare il follow-up del paziente. Non è possibile eseguire una autopsia contestuale al prelievo di cuore e polmoni, se il Donatore deve donare anche fegato e reni. Dopo il prelievo di fegato e reni è difficile, ma non impossibile eseguire un’autopsia prima del trapianto di fegato, rispettando i tempi di ischemia compatibili per l’organo. La difficoltà riguarda problemi di ordine organizzativo ed economico, dato che l’attività trapiantologica si svolge solitamente di notte. Per i reni, per cui sono consentiti tempi di ischemia più lunghi, non vi sono difficoltà perché l’autopsia può essere eseguita all’inizio del normale orario di lavoro di una unità Operativa di Anatomia Patologica. La domanda di organi solidi disponibili ai fini di trapianto è in continuo aumento. Per soddisfare la richiesta, vengono impiegati sempre più spesso donatori “anziani”. L’aumento annuo del 3,7% che si è verificato negli ultimi anni nel numero di donatori cadavere, secondo i dati dell’United Network for Organ Sharing è dovuto in larga misura a donatori anziani 3. Il rischio di insorgenza di neoplasia per individui di età uguale o superiore a 65 anni è due o tre volte maggiore rispetto a quelli di età compresa fra 45 e 64 anni, e più di 12 volte rispetto agli individui di età compresa fra 25 e 44 anni 4. Si può supporre pertanto che espandendo il pool dei donatori ad individui anziani si aumenti il rischio di trasmissione di neoplasie da donatore a ricevente. “Anamnesi, esame obiettivo, esami strumentali e di laboratorio, esami istopatologici e/o autoptici eventualmente suggeriti dai tre precedenti livelli di valutazione” sono le raccomandazioni già contenute nelle linee guida del NITp 5 e successivamente nel documento “Criteri generali per la valutazione di idoneità del donatore” redatto dal Centro Nazionale Trapianti e approvato dalla Conferenza Stato-Regioni. L’applicazione delle linnee guida nazionali consente un corretto processo di valutazione del rischio per tutti i donatori proposti e permette di ampliare il pool degli organi disponibili 6. Nella realtà padovana esiste dal 1985 (data del I trapianto di cuore in Italia) una reperibilità anatomo-patologica di 24 ore su 24 per Trapianti, che fa capo al nostro Gruppo, e che è attiva per tutto il Veneto e, su richiesta del NITp, anche per donatori esterni alla Regione Veneto. Tale attività, che è “bioptica” con esami estemporanei o in inclusione rapida, per i Donatori di Padova prevede anche l’autopsia, eseguita il più rapidamente possibile. L’indagine istopatologica relativa ai prelievi degli organi rimasti in sede, viene effettuata in estemporanea per lesioni sospette. Vengono effettuati anche prelievi di midollo dalla cresta iliaca, per aumentare la sicurezza anche in caso di donazione di cornea e tessuti. Il protocollo è stato discusso durante il Corso di Aggiornamento promosso dalla FITO “L’Anatomia Patologica nel Processo Donazione-Trapianto”, organizzato da M. Valente e C. Rago presso il Centro Congressi Abbazia di Praglia, il 28 Maggio 2004, e viene messo in pratica nelle UO di Anatomia Patologica in cui è possibile effettuare un riscontro autoptico in tempi brevi. Secondo uno studio danese il rischio di utilizzare un donatore con una neoplasia occulta è dell’1,3% 7 e, anche se non sono numerose le segnalazioni in letteratura, è ragionevole pensare che l’autopsia del donatore di organi e di tessuti permetta di evidenziare patologie occulte, non solo neoplastiche, ma anche infettive 8, tanto da indurre Kauffman et al. ad affermare: “Ideally, every cadaveric donors should have a complete autopsy performed …” 9. Bibliografia 1 Penn I. Donor transmitted Disease. Cancer Transplatl Proc 1991;23:2629-31. 2 Penn I. Transmission of cancer from organ donors. Ann Transplant 1997;2:7-12. 3 Kauffman HM, McBride MA, Delmonico FL. First report of the United Network for organ sharing transplant Tumor registry: Donors with a history of cancer. Transplantation 2000;70:1747-51. 4 World Health Organization – WHO. Whorld health statistics annual. Geneva: WHO 1987. 5 Cadrobbi P, Minoli L, Valente M, Verlato R. Rivalutazione dei criteri di sicurezza del donatore di organi e tessuti. In: Atti della Riunione tecnico-scientifica NITp, Ancona 24-25 Ottobre 1997, a cura di Sirchia G, Pizzi C, Scalamogna M, Testasecca D, Centro Trasfusionale Ospedale Maggiore Policlinico di Milano Editore, Milano 1998. 6 Piccolo G, Barraco F, De Feo TM, Grossi P, Valente M, Testasecca D, et al. Impatto delle Linee-guida per l’idoneità del donatore sulla disponibilità e la sicurezza degli organi. In: Abstract Book Riunione tecnico-scientifica NITp, Pavia 10-11 Novembre 2003. 7 Birkeland SA, Storm HH. Risk for tumor and other disease transmission by transplantation: a population-based study of unrecognized malignancies and other diseases in organ donors. Transplantation 2002;74:1409-13. 8 Otero J, Fresno MF, Escudero D, Seco M, Gonzales M, Peces R. De- 196 9 tection of occult disease in tissue donors by routine autopsy. Transpl Int 1998;11:152-4. Kauffman MH, McBride MA, Cherikh WS, Spain PC, Marks WH, Roza AM. Transplant Tumor Registry: Donor related Malignancies. Transplantation 2002;74:358-62. Il patologo e la sicurezza del trapianto: il controllo istologico A. Altimari, E. Gruppioni, E. Gabusi, E. Benedettini, M. Fiorentino, B. Corti, M.G. Pirini, W.F. Grigioni, A. D’Errico Grigioni Laboratorio di Patologia Molecolare e dei Trapianti, Istituto Oncologico “F. Addarii”, Policlinico “S. Orsola-Malpighi”, Università di Bologna, Bologna, Italia L’attività del patologo, finalizzata alla valutazione della idoneità dei donatori e degli organi sta assumendo una rilevanza sempre maggiore negli ultimi anni. L’elevata età media dei donatori comporta sia un peggioramento della qualità generale degli organi, sia un aumento consistente del rischio potenziale di trasmissione di malattie neoplastiche dal donatore al ricevente. La nostra Unità Operativa di Anatomia Patologica, unitamente al Centro Trapianti Regione Emilia-Romagna e alle strutture Ospedaliere Regionali coinvolte nella attività di donazione e trapianto, ha elaborato un protocollo di screening per malattie neoplastiche dei donatori multiorgano che costituisce la base delle linee guida nazionali approvate dal Centro Nazionale Trapianti ed applicate su tutto il territorio dal 2003 1. Tale protocollo prevede una fase pre-chirurgica che comprende la raccolta accurata della anamnesi, esaminazione esterna, l’effettuazione di test laboratoristici e microbiologici mirati alla esclusione di malattie trasmissibili unitamente ad Rx del torace e ad uno screening ecografico dei maggiori organi addomino-pelvici. Fa seguito una seconda fase invasiva, durante la quale il chirurgo prelevatore esplora tutti gli organi interni segnalando e prelevando lesioni sospette. Tutti i campioni tissutali sospetti vengono esaminati istologicamente mediante esame al congelatore. Pur nella consapevolezza che il rischio zero non esiste, l’obiettivo è quello di ridurre al minimo il rischio di trasmissione di malattie da donatore e ricevente. Per quanto riguarda la patologia neoplastica, i donatori vengono classificati in base al rischio di trasmissione neoplastica nelle seguenti categorie: 1) rischio standard; 2) rischio non-standard (basso rischio di trasmissione, eleggibilità ristretta agli organi salvavita con consenso informato del paziente); 3) rischio inaccettabile (esclusione incondizionata a causa di un alto rischio di trasmissione neoplastica). Nella nostra esperienza regionale, da gennaio 2001 a febbraio 2005, il protocollo di screening per malattie neoplastiche è stato applicato in 638 donatori. Il sospetto clinico di lesione neoplastica era insorto in 131 (21%) donatori. L’esame istologico in estemporanea, ha portato all’esclusione di 20 (3%) donatori dovuti alla presenza di neoplasie (11 carcinomi prostatici, 3 carcinomi renali, 2 carcinomi della tiroide, 2 linfomi a cellule B, 1 carcinoma del colon) o infezioni (1 tu- RELAZIONI bercolosi), mentre in 7 casi la qualità degli organi era ritenuta non soddisfacente. Il recupero dei rimanenti 104 donatori multiorgano, tutti portatori di neoplasie benigne neoplastiche o infiammatorie all’esame istologico ha portato all’utilizzo di 244 organi (134 reni, 93 fegati, 12 cuori, 4 polmoni, 1 pancreas). Da qui si evince come l’applicazione di questo protocollo, permetta sia una donazione più sicura, sia l’utilizzo di organi che non sarebbero ritenuti idonei seguendo i soli criteri clinici, implementando e ottimizzandone l’impiego. La sua applicazione potrebbe essere di grande aiuto in particolare per l’utilizzo di donatori marginali come i soggetti anziani oggi sempre in aumento. I donatori con neoplasia che rientrano nella categoria a rischio standard sono soltanto i portatori di carcinoma in situ, per gli altri donatori a rischio non-standard che in situazioni di urgenza/emergenza possono essere utilizzati, una valutazione più precisa della quantizzazione del rischio dovrebbe essere considerata. Gli unici parametri al momento utilizzabili per la quantizzazione del rischio sono: 1)la valutazione del comportamento biologico della neoplasia (limite: modelli esistenti sono applicabili ai pazienti convenzionali, non sottoposti a trapianto e a situazioni di immunodepressione farmacologia); 2)revisione dei dati della letteratura, validati a livello internazionale, riferiti specificatamente alla trasmissione neoplastica donatore/ricevente (limite: dati abbondanti ma spesso contraddittori). Nuovi studi e nuovi strumenti per la valutazione del rischio di trasmissione neoplastica sono auspicabili. L’evoluzione delle metodiche di patologia molecolare, ha influenzato anche la medicina dei trapianti. Nel nostro Laboratorio di Patologia Molecolare e dei Trapianti siamo impegnati in una seri di progetti di ricerca finalizzati al miglioramento delle procedure diagnostiche e del monitoraggio dei pazienti trapiantati. La valutazione tramite metodiche di amplificazione genica quantitativa (Real Time PCR) di cellule tumorali circolanti e la quantificazione del DNA libero circolante sono strumenti sperimentali di “quantificazione” del rischio di trasmissione neoplastica, in fase di ulteriori validazioni, ma che stiamo applicando sia a potenziali donatori sia a pazienti che hanno ricevuto organi da donatori portatori di neoplasie accertate accidentalmente dopo il trapianto. Infine altra metodica utile in medicina dei trapianti che il laboratorio ha messo a punto, è un test diagnostico normalmente in uso per le analisi forensi, al fine di stabilire con elevata sensibilità e specificità la “paternità” dei tessuti dai quali origina una neoplasia 2. Discriminare tra neoplasie recidive e neoplasie de novo in un ricevente di organi solidi si rivela infatti particolarmente utile sia per le implicazioni cliniche sia medico-legali che questo comporta. Bibliografia 1 Fiorentino M, D’Errico A, Corti B, et al. A multiorgan donor cancer screening protocol: the Emilia-Romagna region experience. Transplantation 2003;76:1695-9. 2 Altimari A, Gruppioni E, Fiorentino F, et al. Genomic allelotyping for distinction of recurrent and de novo hepatocellular carcinoma after orthotopic liver transplantation. Diagn Mol Pathol 2005;14:34-8. PATHOLOGICA 2005;97:197-199 Citopatologia I Moderatore: R. Navone (Torino) Il confronto cito-istologico L. Di Bonito, S. Dudine, D. Bonifacio, A. Romano, F. Zanconati, F. Martellani, E. Gerardi Dipartimento di Scienze Cliniche, Morfologiche e Tecnologiche, Università di Trieste, Italia Uno degli aspetti di maggior rilievo nella gestione di un laboratorio di Citodiagnostica è il controllo di qualità, inteso come studio delle procedure messe in atto per ridurre la possibilità di errore, sia a livello tecnico che diagnostico. In particolare è da considerarsi molto importante il confronto citoistologico, in quanto l’istologia è considerata, per definizione, il “gold standard”. Nella nostra esperienza la comparazione avviene quotidianamente, facilitata dal fatto che alla nostra unità operativa, essendo l’unica della provincia, afferiscono tutti gli esami citologici ed istologici eseguiti sul territorio. Inoltre è tradizione effettuare il riscontro diagnostico sulla maggior parte dei decessi avvenuti in ambito ospedaliero e ciò consente di seguire tutto l’iter diagnostico del paziente e di avere a disposizione un archivio cito-istopatologico completo. Infine nella regione Friuli-Venezia Giulia è attivo da diversi anni un sistema informatico centralizzato in cui vengono condivisi tutti i referti delle Anatomie Patologiche regionali. Gli esami citologici da noi eseguiti annualmente sono circa 24.000, di cui 14.000 sono rappresentati da Pap test (85% di screening attivo); la rimanente parte è costituita da preparati extravaginali di citologia esfoliativa (urine, broncoaspirati, liquidi endocavitari) ed agoaspirativa (mammella, tiroide, ghiandole salivari, ecc.). In ambito cervicovaginale, essendo molto importante monitorare in tempo reale l’efficacia del programma di screening, sono stati definiti con precisione degli indicatori diretti ed indiretti di qualità sui quali eseguire le analisi statistiche utili per individuare eventuali scostamenti dai range ottimali. Fra i principali indicatori diretti di qualità ricordiamo il Detection Rate (DR), che è espressione del confronto tra la diagnosi citologica e quella istologica in quanto rappresenta il numero di lesioni citologiche di alto grado confermate istologicamente sul totale dei Pap test di screening. Questo valore fornisce una misura oggettiva della validità dei parametri diagnostici citologici adottati. Il range ottimale di DR grezzo ottenuto dal GISCi a livello nazionale per il 2001 è compreso tra 1,04 e 5,2‰. Nel nostro centro il valore osservato in quell’anno è stato 4,27‰. Nel caso di discordanza valutativa con la biopsia, il “falso positivo” citologico porta, nella nostra realtà, ad un ulteriore approfondimento diagnostico che, in un numero elevato di casi, consente di individuare la presenza di una lesione intraepiteliale non correttamente campionata, garantendo così la gestione ottimale della paziente 1-3. Il valore diagnostico della citologia urinaria dipende da molte variabili: numero di casi analizzati, tipo di lesione, numero di inadeguati, tecnica usata per l’allestimento dei vetrini, durata del follow-up e disponibilità di notizie anamnestiche del paziente. L’accuratezza diagnostica aumenta con l’aumentare del grado della neoplasia, con una sensibilità del 17% per le lesioni istologiche di grado 1 (lesioni prive di atipie cellulari), del 61% per il grado 2 fino al 90% per il grado 3. Anche in questo caso non tutti i risultati apparentemente falsi positivi lo sono davvero, in quanto la citologia urinaria scopre talora lesioni in una fase precoce o non visibili alla cistoscopia 4. Attualmente la nostra sensibilità citologica per tutte le lesioni uroteliali è del 61% e si avvicina al 100% per quelle di alto grado. Ogni anno pervengono al nostro servizio in media 600 casi di versamenti endocavitari, di cui il 20% rappresentativo di una lesione maligna. Nonostante gli enormi progressi delle tecniche d’indagine diagnostica (esami di laboratorio, Tac, Risonanza magnetica, PET, ecc.), sono ancora numerosi i casi in cui la prima diagnosi di malignità è quella citologica sul versamento. Da un lavoro retrospettivo risulta che la prima diagnosi riguarda il 55% dei versamenti pleurici ed il 44,5% dei peritoneali. Il confronto cito-istologico ci ha fornito nel tempo una serie di parametri morfologici che, aggiunti ad osservazioni statistiche e ad indagini immunoistochimiche su citoincluso, consentono di individuare la sede primitiva di una neoplasia sconosciuta 5. Il ruolo principale della citologia esfoliativa di tipo bronchiale è l’identificazione di neoplasie primitive o metastatiche a carico del polmone ed il monitoraggio post-terapeutico di pazienti con pregressa neoplasia polmonare. La sensibilità citologica dipende da diversi fattori, quali il tipo di campione, la modalità di raccolta, le dimensioni del tumore, la sua localizzazione e l’istotipo. Nella nostra Azienda Ospedaliero-Universitaria, esiste già da parecchi anni un Servizio di Broncologia in cui vengono eseguiti, su tutti i pazienti con sospetto radiologico, oltre all’indagine broncoscopica, anche un prelievo citologico e, se possibile, un prelievo bioptico. La citologia e la biopsia vengono lette in maniera separata e le due diagnosi confrontate. Pur essendo la sensibilità delle due metodiche elevata (rispettivamente 81% e 78%), la loro complementarietà consente di aumentare tale valore fino al 90%. La citologia agoaspirativa in ambito mammario rappresenta uno strumento efficace di diagnosi. Nella nostra realtà il prelievo viene quasi sempre eseguito sotto guida ecografica e con la partecipazione attiva del patologo che valuta immediatamente l’adeguatezza del materiale prelevato con una colorazione rapida; in tal modo il tasso di inadeguati si è attestato attualmente attorno al 7,5%. La diagnosi citologica viene sempre collocata in una precisa categoria diagnostica (da C1 a C5, secondo le Linee Guida Europee) che, confrontata con quella radiologica (R1-R5 e E1-E5), porta all’eventuale intervento chirurgico definitivo con un inquadramento diagnostico preoperatorio completo 6 7. I risultati sulla nostra casistica del 2003 sono quanto mai incoraggianti: su 748 noduli agoaspirati relativi a 580 pazienti, i valori di sensibilità e specificità sono rispettivamente del 96% e del 94,8%, con un VPP del 98,5% ed un VPN del 98,1%. In conclusione, la nostra esperienza dimostra come la citologia, se correttamente eseguita, sia una metodica estremamente valida ed accurata soprattutto quando è inserita in un contesto clinico ed istopatologico. Il confronto cito-istologico consente un monitoraggio continuo del proprio operato, rappresenta un importante supporto alla crescita culturale del citopatologo ed offre spesso la possibilità di definire meglio una lesione a vantaggio del paziente e delle strutture sanitarie. RELAZIONI 198 Bibliografia 1 Segnan N, et al. Eur J Cancer 2000;36:2235-9. 2 Wilson PO. Cytopathology 2002;13:141-4. 3 Ronco G, et al. Cytopathology 2003;14:115-20. 4 Weiner H, et al. Acta Cytol 1993;37:163-9. 5 Davidson B. Diagn Cytopathol 2004;31:246-54. 6 Giovagnoli MR, et al. Minerva Ginecol 2003;55:493-501. 7 Oyama T, et al. Breast Cancer 2004;11:339-42. Marker di progressione in citologia ginecologica (cervice) S. Rosini Sezione di Citodiagnostica, Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Università di “G. d’Annunzio”, Chieti-Pescara Donne infettate da Papillomavirus ad alto rischio oncogeno (HR-HPV) risultano essere cento volte più a rischio di sviluppare una lesione cervicale di alto grado rispetto a donne sane. Acidi nucleici di HR-HPV sono stati ritrovati in quasi tutte le lesioni cervicali di alto grado e nei carcinomi; in particolare, due geni E6 ed E7 codificati da HR-HPV vengono consistentemente espressi nelle suddette patologie ed anche in linee cellulari da esse derivate. Essi sono potenti oncogeni la cui continua espressione rappresenta un requisito essenziale ed indispensabile per il mantenimento della crescita neoplastica. Studi sui meccanismi molecolari relativi alla trasformazione neoplastica indotta da tali geni hanno evidenziato complesse interazioni con le proteine responsabili della modulazione del ciclo cellulare, dell’apoptosi, della differenziazione epiteliale, dell’omeostasi e della stabilità cromosomica. Queste osservazioni confermano il ruolo patogenetico degli HRHPVs nella carcinogenesi cervicale. Numerosi studi epidemiologici rivelano che le infezioni da HR-HPV, molto frequenti nelle donne tra i 20 ed i 35 anni, per la maggior parte si risolvono spontaneamente; solo le donne con persistenza dell’infezione virale sviluppano lesioni cervicali di alto grado. Alla luce di questi aspetti l’ipotesi di utilizzo di un test virologico nello screening primario del cervicocarcinoma ha ingenerato numerose controversie. La positività del test avrebbe un basso valore predittivo positivo, relativamente alla presenza di lesioni pre-neoplastiche; la sua negatività rappresenterebbe un alto valore predittivo negativo per lesioni di alto grado e carcinomi. Sicuramente di grande aiuto nella stratificazione delle pazienti con Pap test anormale, l’uso del test virologico nello screening primario potrebbe generare ulteriori costi aggiuntivi nella gestione di tutte le pazienti infette senza evidenze di anormalità citologica 1. Da tali considerazioni scaturisce l’attenzione verso biomarker più specifici, con un maggior valore predittivo positivo, allo scopo di ridurre i costi dei programmi di screening ed aumentare la compliance delle donne nei confronti di trattamenti indiscutibilmente necessari. La possibilità di traslare le conoscenze acquisite in anni recenti relativamente alla patogenesi molecolare ed alla storia naturale del cervicocarcinoma nella pratica clinica, passa attraverso l’utilizzo di metodiche che beneficiano dell’imponente ruolo innovativo della citologia in fase liquida nello screening del cervicocarcinoma. Il materiale residuo, disponibile dopo un primo allestimento per la valutazione morfologica del materiale cellulare, risulta prezioso per effettuare, sullo stesso campione, ulteriori inda- gini immunocitochimiche e/o molecolari che indirizzino, in modo più accurato, le indagini di secondo livello e migliorino quindi la gestione delle pazienti con Pap test anormale. Marker che correlano con infezioni da HPV possono essere particolarmente valutabili in questo contesto, nell’ottica di individuare soggetti che sono a più alto rischio di progressione verso la malignità. In particolare, attualmente, vengono studiati marker che riflettono la dis-regolazione del ciclo cellulare nella neoplasia cervicale indotta da HR-HPV. Molti candidati sono target dei fattori di trascrizione E2F e sono rappresentati da molecole implicate nelle progressione del ciclo cellulare (Ciclina E), nella replicazione del DNA (MCMs), nella sintesi del DNA (PCNA) e nel controllo del ciclo cellulare (INK4a e WAF1) 2. Tuttavia, i livelli di espressione di queste proteine possono essere modificati da numerosi fattori addizionali comprendenti altri fattori di trascrizione, promotori dell’ipermetilazione e modificazioni post-trascrizionali. Possono, perciò, variare in quantità e distribuzione sia temporalmente che spazialmente. Da un punto di vista pratico, marcatori con distribuzione esclusivamente nucleare possono più facilmente essere evidenziati a livello microscopico rispetto ad analoghi che producono una colorazione citoplasmatica. A corollario di queste considerazioni, va detto che ciascun candidato biomarker necessita di essere valutato rispetto ai propri meriti. Attualmente, di grande interesse risulta essere la proteina p16 INK4a 3, inibitore chinasico ciclina-dipendente, capace di regolare la fase G1-S del ciclo cellulare. Svariati studi hanno dimostrato l’overespressione di tale proteina nelle lesioni cervicali HR-HPV-indotte, da correlare all’interazione e degradazione della proteina pRb da parte di E7. Utile nel confermare lesioni HSIL-ASC-H, studi di follow-up sono necessari per validarne il valore predittivo di progressione della lesione per l’utilizzo nel triage delle lesioni LSIL-ASC. La funzione oncogena delle proteine codificate dai geni virali E6/E7 è chiara da circa un decennio; una enorme quantità di letteratura ad oggi documenta che non è il virione dell’HPV ad avere un ruolo attivo nel processo cancerogenico, e che non è possibile lo sviluppo un carcinoma HPV-correlato senza la presenza della piena espressione delle suddette oncoproteine nelle cellule anormali. Con tale premessa, nello studio dei marker di progressione delle lesioni cervicali HPV-indotte entra attualmente, ed a pieno titolo, un test capace di valutare la presenza dell’RNA messaggero di E6/E7 4. Il poter disporre di un test dotato di un alto significato prognostico e di un’alta specificità è di valore inestimabile nella gestione delle donne con Pap test anormale. Bibliografia 1 Cuschieri KS. J Clin Virol 2005;32S:S34-S42. 2 Baldwin P. Nat Rev Cancer 2003;3:1-10. 3 Bose S. Diagn Cytopathol 2005;32:21-4. 4 Cuschieri K.S. J Med Virol 2004;73:65-70. Markers di progressione in citologia ginecologica (endometrio) A.M. Buccoliero, G.L. Taddei Dipartimento di Patologia Umana e Oncologia, Università di Firenze, Firenze, Italia La valutazione patologica e funzionale dell’endometrio si avvale di molteplici possibili approcci diagnostici spesso inte- CITOPATOLOGIA I grati tra loro e ciascuno più idoneo per un particolare quesito e momento diagnostico. Tra questi, l’ecografia endometriale e l’isteroscopia, avvalendosi di importanti innovazioni tecnologiche quali l’ecografia transvaginale e la microisteroscopia, sono andate incontro ad una diffusione crescente. Tecnologie innovative sono state introdotte anche in ambito citologico in particolare per quel che riguarda l’allestimento dei preparati. Con la metodica dello strato sottile (o citologia in fase liquida) il materiale cellulare, raccolto con le consuete metodiche, non viene più immediatamente strisciato sul vetrino, ma posto in un liquido di fissazione ed in seguito, attraverso un’apparecchiatura dedicata ed in una porzione rappresentativa dell’intero campione prelevato trasferito sul vetrino in monostrato. Il materiale residuo, anch’esso rappresentativo di tutte le componenti cellulari prelevate, è inoltre disponibile per l’allestimento di ulteriori preparati, colorazioni istochimiche, immunocitochimiche o indagini di biologia molecolare. La citologia in fase liquida consente inoltre di ridurre le emazie ed il muco presenti nel campione prelevato e di ottenere preparati con sovrapposizione cellulare minima. Questa metodica offre proficue opportunità alla citologia endometriale. L’adenocarcinoma endometriale, contrariamente al carcinoma della cervice uterina, non è mai stato oggetto di importanti programmi di screening nonostante l’elevata incidenza e l’esistenza di precursori morfologici rappresentati dall’iperplasia endometriale (nel caso del più frequente, estrogeno-dipendente e relativamente indolente adenocarcinoma endometriale di Tipo I) e dal carcinoma sieroso intraepiteliale (nel caso del più raro, estrogeno-indipendente e a prognosi 199 peggiore adenocarcinoma endometriale di Tipo II). La sintomatologia precoce e la relativa buona prognosi spiegano solo in parte il disinteresse allo screening dell’adenocarcinoma endometriale. Mancava, infatti, per l’endometrio un test comparabile alla citologia cervico-vaginale per affidabilità diagnostica, tollerabilità da parte della donna e basso costo. La larga diffusione della citologia endometriale è stata fortemente ostacolata dalle notevoli difficoltà di lettura legate alla comune presenza di sangue e all’affollamento cellulare comuni nei preparati citologici endometriali. L’allestimento dei preparati citologici con la metodica dello strato sottile consente di ridurre drammaticamente la presenza di tutti i fattori oscuranti la lettura. Al fine pertanto di valutare l’efficacia diagnostica della citologia endometriale in fase liquida abbiamo comparato i risultati cito-istologici su un campione di 918 donne consecutive sottoposte ad esame isteroscopico cui veniva praticato un prelievo citologico e bioptico dell’endometrio. L’età media delle donne era di 52 anni (range 23-89). Nel 72% dei casi la principale indicazione all’isteroscopia era l’ispessimento endometriale ecograficamente rilevato; il 38% delle donne riferiva sanguinamenti endometriali. La citologia endometriale in fase liquida ha fornito preparati diagnostici più spesso della biopsia (96% vs. 58%; p = < 0,04). La sensibilità è stata 96%, la specificità 98%, il valore predittivo positivo 87,6% ed il valore predittivo negativo 99,5%. Su queste basi, riteniamo che la citologia in fase liquida possa offrire alla citologia endometriale interessanti prospettive di utilizzo nel dépistage, almeno selettivo, dell’adenocarcinoma endometriale. PATHOLOGICA 2005;97:200-202 Citopatologia II Moderatore: P. Dalla Palma (Trento) Fish e strato sottile in citologia urinaria M. Paglierani, F. Castiglione, F. Garbini, A.M. Buccoliero, M.R. Raspollini, A. Lapini*, G. Vignolini*, G.L. Taddei Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia; * Clinica Urologica I, Università di Firenze Il carcinoma a cellule transizionali della vescica è uno dei più frequenti tumori del tratto genitourinario. La malattia neoplastica dell’urotelio è un tipico esempio di “field cancerization”, cioè di malattia multifocale con rilevante instabilità. Il potenziale di progressione è strettamente dipendente dalle caratteristiche morfologiche delle lesioni (grading e istotipo). La citologia urinaria e la cistoscopia rappresentano due strumenti fondamentali per la diagnosi del carcinoma della vescica. La citologia è altamente specifica per la diagnosi di carcinoma uroteliale scarsamente differenziato ma è poco sensibile (1525%) nei tumori uroteliali a basso grado 1. D’altra parte la cistoscopia è una tecnica invasiva e relativamente costosa. Le conoscenze sempre più approfondite sulle alterazioni genetiche delle cellule tumorali, evidenti già nelle fasi iniziali della cancerogenesi 2, offrono la possibilità di utilizzare tecniche non-invasive di diagnostica molecolare. Numerosi studi 1 3 4-6 hanno evidenziato come la tecnica FISH (Fluorescence in situ Hybridization) rappresenti un valido contributo nella diagnosi precoce e nel follow-up del carcinoma della vescica: alterazioni genetiche quali l’aumento nel numero di copie di alcuni cromosomi o delezioni geniche possono essere evidenziate in cellule uroteliali morfologicamente normali di pazienti malati. La FISH è una tecnica non invasiva, sensibile e specifica, facilmente applicabile alla routine citologica con una semplice preparazione del campione 5. L’analisi, applicata a nuclei in interfase, utilizza sonde centromeriche e locus-specifiche che evidenziano variazioni cromosomiche numeriche (aneusomie) e perdite o aumenti di specifiche regioni cromosomiche. Lo scopo di questo studio è stato quello di applicare l’analisi FISH a tutti i casi che alla diagnosi citologica sono stati refertati come “Cellule uroteliali con note di atipia” e che vengono sottoposti a cistoscopia entro tre mesi. Sono stati selezionati retrospettivamente (periodo 20022004) presso l’archivio di Cito-diagnostica del Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia dell’Università di Firenze, casi con diagnosi citologica di “Cellule uroteliali con note di atipia” di pazienti sottoposti ad un follow-up cistoscopico a uno o a due anni. I campioni di citologia esfoliativa urinaria, allestiti in strato sottile con il metodo Thin-Prep, colorati routinariamente con Papanicolau, sono stati sottoposti a rivalutazione citologica. Su tutti i campioni, compreso un controllo negativo per citologia urinaria rappresentato da un gruppo di volontari sani, è stata eseguita la tecnica Multi-color FISH UroVysion per l’identificazione di cellule uroteliali disomiche e di cellule uroteliali che presentano polisomia dei cromosomi 3, 7 e 17 e/o perdita di una porzione del cromosoma 9 (la regione 9p21 contenente il gene p16/CDKN2A). Abbiamo utilizzato il kit commerciale Multi-target Multi-color FISH UroVysion (Vysis, Downers Grove, IL) composto di 3 sonde centromeriche CEP (Cromosome Enumeration Probe), CEP 3, CEP 7, e CEP 17 e di una sonda locus-specifica per la regione 9p21. Con un microscopio a fluorescenza (Leica DMRD, Leica Microsystems, Switzerland) viene evidenziato uno spot fluorescente di colore diverso (verde, rosso, acqua, giallo) relativo al punto in cui il probe ha ibridizzato il DNA target. Utilizzando Multi-color FISH possono essere visualizzati contemporaneamente molti DNA target in una unica reazione di ibridizzazione eseguita su un singolo vetrino 5. I risultati preliminari di questo studio ci consentono di affermare che l’introduzione della tecnica FISH applicata alla diagnostica citologica routinaria può selezionare precocemente pazienti FISH-positivi associati ad un rischio maggiore di progressione neoplastica e che necessitano di un follow-up cistoscopico serrato, da pazienti FISH-negativi che risultano avere un rischio molto più basso di carcinoma uroteliale e che potrebbero essere sottoposti ad un follow-up cistoscopico meno frequente 1. Bibliografia 1 Bubendorf L, Grilli B, Sauter G, et al. Multiprobe FISH for enhanced detection of bladder cancer in voided urine specimens and bladder washings. Am J Clin Pathol 2001;116:79-86. 2 Migali M, Sartori G, Rossi G, Garagnani L, Faraglia B, Gaetani CD, et al. Prevalence and prognostic significance of microsatellite alterations in young patients with bladder cancer. Mod Pathol 2005 Apr 22. 3 Okamura T, Umemoto Y, Yasui T, Saiki S, Kuroda H, Kotoh S, et al. Noninvasive detection of alterations in chromosome numbers in urinary bladder cancer cells, using fluorescence in situ hybridization. Int J Clin Oncol 2004;9:373-7. 4 Kruger S, Mess F, Bohle A, Feller AC. Numerical aberrations of chromosome 17 and the 9p21 locus are independent predictors of tumor recurrence in non-invasive transitional cell carcinoma of the urinary bladder. Int J Oncol 2003;23:41-8. 5 Bubendorf L, Grilli B. UroVysion multiprobe FISH in urinary cytology. Methods Mol Med 2004;97:117-31. 6 Skacel M, Fahmy M, Brainard JA, Pettay JD, Biscotti CV, Liou LS, et al. Multitarget fluorescence in situ hybridization assay detects transitional cell carcinoma in the majority of patients with bladder cancer and atypical or negative urine cytology. J Urol 2003;169:2101-5. Contributo della immunocitochimica in citologia S. Fiaccavento Servizio di Anatomia Patologica, Casa di Cura Poliambulanza, Brescia Se è vero che l’immunoistochimica ha avuto un ruolo fondamentale nel determinare una rivoluzione nella diagnostica istopatologica ed ha attualmente un ruolo importante nella nostra attività diagnostica quotidiana, si può comprendere come l’utilizzo della stessa metodica in citologica, ed in particolare nella citologia agoaspirativa, possa assumere una importanza ancora maggiore. Infatti in un materiale ove la valutazione diagnostica viene effettuata su cellule singole o in aggregati, nel tentativo di ricomporre un mosaico che corrisponda ad una nostra immagine istologica, i dati forniti dalle indagini immunocitochimiche possono essere, in situazioni particolari, di fondamentale od insostituibile ausilio 1. CITOPATOLOGIA II Analogamente a quanto accade in istologia l’immunocitochimica può essere utilizzata non solo a fini diagnostici per risolvere problematiche irrisolte con la valutazione morfologica tradizionale, ma anche per offrire un giudizio prognostico aggiuntivo come ad esempio si verifica in patologia neoplastica della mammella con le valutazioni di vari Markers prognostici (ER e PR, Cerb-B2, Ki-67-Mib-1 etc.) 2 3. Inoltre la possibilità che pazienti con iperespressione di HER2 possano essere trattati con Herceptin consente di ampliare l’utilizzo della indagine in citologia quando non vi sia la possibilità di tale valutazione a livello istologico. Tuttavia non si tratta di un semplice trasferimento di una metodologia dalla istologia alla citologia. Infatti alcune differenze fondamentali riguardano sia la fase preanalitica che analitica delle procedure. Infine anche le modalità di approccio logico alla diagnosi possono essere differenti in quanto utilizzano pannelli di anticorpi e algoritmi che, per i diversi presupposti morfologici di partenza, possono non essere identici a quelli previsti per l’istologia. Faremo solo un breve cenno ai fattori che in fase preanalitica e analitica che possono influenzare in citologica la buona riuscita delle immunocolorazioni senza però entrare in dettagli tecnici che tra l’altro esulano dalle mie specifiche competenze. Comunque una premessa indispensabile è che quando noi parliamo di immunocitochimica in citologia ci riferiamo essenzialmente ad indagini effettuate su preparati allestiti per striscio e gia colorati con ematossilina ed eosina o Papanicolaou e di tale atteggiamento metodologico daremo giustificazione. Tra le tecniche ancillari di possibile utilizzo in citologia l’immunocitochimica rappresenta attualmente quella più accessibile per la maggior parte dei laboratori. Tuttavia il suo utilizzo varia nelle diverse istituzioni in quanto alcuni patologi impiegano la diagnosi citologica solo come valutazione preliminare ad un approccio diagnostico “definitivo” istologico mentre altri ritengono che il contributo diagnostico citologico possa e debba, nei limiti del possibile, essere definitivo. I problemi da risolvere sono fondamentalmente di due tipi: a) quello di definire malignità ed istotipo di una neoplasia in prima diagnosi; b)riconoscere, da una localizzazione metastatica, la sede primitiva di una neoplasia al momento ignota o correlare la lesione secondaria ad una primitività nota. L’immunocitochimica per la risoluzione di tali problematiche può avere talora un ruolo fondamentale e in questa sede cercheremo di documentare con esempi il contributo diagnostico di questa indagine ancillare nei diversi campi della diagnostica citologica non rinunciando ad evidenziare anche possibili pitfall legati ad erronee procedure della fase analitica e preanalita, con suggerimenti per evitarli. Bibliografia 1 Chess Q Haidu DI. The role of immunoperoxidase staining in diagnostic cytology. Acta Cytol 1986;30:1-7. 2 Masood S. Estrogen and progesterone receptor in citology: a comprensive review. Diagn Cytopathol 1992;8:475-91. 3 Sneige N. Utility of cytologic specimens in the evaluation of prognostic and predictive factors of breast cancer: current issuee and future direction. Diagn Cytopathol 2004;30:158-65. 4 Abendroth CS, Dabbs DJ. Immunocytochemical staining of unstained versus previously stained cytologic preparation. Acta Cytol 1995;39:379-86. 201 Immunocitochimica negli agoaspirati tiroidei M. Papotti, A. Fornari, I. Rapa, S. Cappia, N. Bergero, E. Saggiorato, M. Volante* Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, Ospedale “San Luigi” di Orbassano; * Dipartimento di Scienze Biomediche ed Oncologia Umana, Università di Torino Il ricorso all’agoaspirato (AA) è una procedura di routine nella diagnostica della patologia nodulare (e diffusa) della tiroide, in virtù del suo basso costo, della elevata riproducibilità e dell’accuratezza interpretativa. Rari casi richiedono approfondimenti diagnostici con marcatori immunocitochimici (ICC), che possono essere adeguatamente localizzati su strisci fissati, strisci decolorati, o sezioni di cito-inclusi (cellblocks). Marcatori con valore diagnostico comprendono classicamente la tireoglobulina e la calcitonina, per definire in lesioni dubbie la derivazione dalle cellule follicolari o parafollicolari, rispettivamente. Il ricorso a tali marcatori tuttavia è limitato a rari casi in quanto le caratteristiche citologiche sono dirimenti nella maggioranza dei casi. Numerosi marcatori con valore prognostico sono stati saggiati su AA, ma rivestono scarso impiego nella pratica di routine. Molecole quali il Ki-67 (indice di proliferazione), o altre proteine legate al ciclo cellulare o prodotto di specifici oncogeni non trovano corrente impiego su AA tiroidei. Da un punto di vista terapeutico, in patologia tiroidea la valutazione su AA di recettori ormonali (per gli estrogeni, per la somatostatina, altri …) non presenta rilevanza clinica (fatta eccezione per i recettori della somatostatina nel carcinoma midollare) e pertanto il ruolo dell’ICC pareva fino a qualche anno fa confinato a riconoscere la natura follicolare o parafollicolare di lesioni tumorali di dubbio inquadramento (e solitamente a crescita solida o trabecolare). Negli ultimi anni, si è stato tuttavia osservato uno sviluppo notevole dell’ICC per la determinazione di “marcatori di malignità” in neoplasie di origine follicolare, utili per la diagnosi differenziale tra adenoma e carcinoma (che all’esame citologico convenzionale sono classificate come “neoformazioni follicolari indeterminate”). L’elenco, assai lungo, comprende le proteine RET, p27, e keratan-solfato (KS) specificatamente per il carcinoma papillifero, e galectina-3, HBME-1, CK19, PAX8-PPARgamma, FRA-1, tireoperossidasi (TPO), topoisomerasi (tra le altre) per il carcinoma papillifero e follicolare. Questi marcatori sono espressi anche in tumori maligni di cellule ossifile. Premesso che non tutti questi marcatori hanno uguale sensibilità e specificità, esiste una marcata eterogeneità nella reattività (e nell’interpretazione) nei vari laboratori: presupposto indispensabile all’utilizzo di tali marcatori nella pratica diagnostica deve essere pertanto la accurata messa a punto del metodo in ogni laboratorio. Sulla base della vasta letteratura disponibile, e pur in presenza di alcune discrepanze, è possibile suggerire che: 1. galectina-3, HBME-1, CK-19, sono superiori ad altre molecole nel riconoscere i carcinomi papilliferi e follicolari su AA; 2 anche TPO e KS sono relativamente sensibili ma meno specifici e, utilizzati in combinazione, non aumentano la sensibilità e specificità degli altri tre marcatori; 3 il RET è sensibile quale marcatore per il carcinoma papillifero, ma non vi sono anticorpi commerciali di facile utilizzo nella pratica diagnostica; 4 l’attendibilità di questi marcatori rimane elevata anche in neoplasie ossifile, se pur con sensibilità e specificità minori (in particolar modo per l’HBME-1), fenomeno in parte 202 spiegabile con la caratteristica abbondanza di mitocondri nel citoplasma di tali cellule che può alterare la immunoreattività. Un recente studio del nostro gruppo suggerisce che il miglior approccio diagnostico (in termini di sensibilità/specificità da un lato e rapporto costo/beneficio dall’altro) nella diagnostica su AA di neoformazioni follicolari, è l’utilizzo RELAZIONI sequenziale di una serie di marcatori, rappresentati dalla combinazione di galectina-3 e CK19 o galectina-3 e HBME-1, per le neoformazioni follicolari ossifile e non ossifile, rispettivamente. L’esame citologico standard pertanto guida la scelta dei marcatori (due soltanto), riducendo i costi e fornendo allo stesso tempo una sensibilità e specificità prossimi al 100%. PATHOLOGICA 2005;97:203-207 Genomica: corso di base A cura di A. Marchetti (Chieti) Acidi nucleici: estrazione da materiale d’archivio 4 G. Stanta, S. Bonin 5 Dipartimento di Scienze Cliniche, Morfologiche e Tecnologiche, Università di Trieste, Italia; International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology, Trieste, Italia La ricerca medico-biologica è oggigiorno strettamente correlata allo sviluppo delle tecniche molecolari. Ci sono molti ed importanti motivi per studiare gli RNA messaggeri nei tessuti fissati ed inclusi in paraffina (PET), poiché tutti i tessuti umani di origine chirurgica o bioptica prelevati in qualsiasi ospedale vengono fissati per lo più in formalina e quindi inclusi in paraffina. Questo permette di ottenere delle sezioni istologiche per la diagnosi microscopica. Soltanto dopo il riconoscimento istopatologico delle lesioni si possono infatti suggerire ulteriori esami mirati, come esami immunoistochimici o analisi molecolari. Per analizzare soltanto le cellule di interesse è sempre necessaria un’accurata microdissezione del tessuto. I PET sono il miglior materiale su cui avere un perfetto riconoscimento diagnostico ed un’accurata microdissezione senza modificare le procedure di routine. La paraffina protegge anche l’RNA dalla degradazione e questo è un utilissimo vantaggio conseguente al lungo uso dell’inclusione in questa sostanza. L’RNA è parzialmente degradato, ma rimangono frammenti di circa 100 basi 1 2. Su questo materiale si possono eseguire anche delle analisi quantitative degli RNA messaggeri dopo averne standardizzato il livello di degradazione 3-9. L’RNA estratto dai PET può essere analizzato a livello qualitativo o quantitativo con tecniche di RTPCR o Real Time RT-PCR. Gli enormi archivi di PET presenti negli istituti di anatomia patologica di ogni ospedale possono permettere: 1. l’uso di materiale processato di routine per ulteriori procedure diagnostiche molecolari; 2. ricerche su malattie con lunghi periodi di follow-up; 3. la raccolta di tessuti in malattie rare; 4. materiale biologico per studi di epidemiologia molecolare. Una adeguata tecnologia per studiare a livello molecolare di DNA e RNA i tessuti d’archivio è importante per incrementare la ricerca in patologia umana come contributo di ricerca translazionale 9-17. Possono essere eseguiti vari studi a livello di espressione genica quantitativa su casistiche numerose con storie cliniche complete di lunghissimi periodi di follow-up. L’esperienza di ricerca, quindi, dato il tipo di tessuti utilizzati, può essere direttamente trasferita in tempi brevi alla pratica clinica. Bibliografia 1 Stanta G, Schneider C. RNA extracted from paraffin-embedded human tissues is amenable to analysis by PCR amplification. Biotechniques 1991;11:304-8. 2 Stanta G, Bonin S, Perin R. RNA extraction from formalin-fixed and paraffin-embedded tissues. In: Rapley R, Manning DL, eds. Methods in molecular biology: RNA isolation and characterization protocols. Totowa, NY: Humana Press 1998. 3 Stanta G, Bonin S, Utrera R. RNA quantitative analysis from fixed and paraffin-embedded tissues. In: Rapley R, Manning DL, eds. Methods in molecular biology: RNA isolation and characterization protocols. Totowa, NY: Humana Press 1998. 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 Stanta G, Bonin S. RNA quantitative analysis from fixed and paraffinembedded tissues: membrane hybridization and capillary electrophoresis. BioTechniques 1998;24:271-6. Stanta G, Bonin S, Niccolini B, Raccanelli A, Baralle F. Catalytic subunit of telomerase expression is related to RNA component expression. FEBS Letters 1999;460:285-8. 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Br J Dermatol 2004;151:1108-10. La PCR: potenzialità e problematiche G. Cipollini, G. Bevilacqua* MGM Biotecnologie srl, Pisa; * Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina, Università di Pisa, Pisa Definizione La tecnica della reazione a catena della DNA polimerasi o PCR (Polymerase Chain Reaction) è un metodo attraverso il RELAZIONI 204 quale una sequenza di acido nucleico specifica può essere amplificata esponenzialmente in vitro. Lo stesso metodo può essere usato per modificare la sequenza amplificata o per aggiungerle una nuova informazione di sequenza. È necessario che le estremità della sequenza da amplificare siano note con sufficiente precisione per poter sintetizzare degli oligonucleotidi (o primers di innesco) che si appaieranno (annealing) ad esse e che una piccola quantità della sequenza sia disponibile per dare inizio alla reazione. Vantaggi e versatilità applicative I vantaggi, che hanno reso la PCR una tecnica tanto diffusa derivano sia dall’ampia varietà della natura dei campioni analizzabili, sia dall’approccio tecnico. Le altre tecniche di amplificazione richiedono l’utilizzo di vettori (plasmidi, virus e cosmidi) per trasferire il DNA da amplificare in cellule viventi dove verranno clonate. Tutto ciò si traduce in tempi lunghi e costi elevati. Data la sua versatilità, sono intuibili le molteplici applicazioni nel campo della diagnostica clinica, in quello della terapia genica, in campo ambientale, agrario, animale, alimentare. Per citare alcuni esempi, ricordiamo come la PCR abbia portato innumerevoli contributi nella diagnosi clinica di malattie causate da mutazioni, sia riducendo la quantità di materiale di partenza sia abbreviando la tempistica di analisi del dato. Nella insorgenza di forme tumorali, la PCR è risultata estremamente efficace grazie al suo alto potere amplificatorio, che permette di individuare la fase precoce della neoplasia, o addirittura di identificare i soggetti sani a rischio di malattia (diagnosi dei tumori ereditari). Inoltre le tecniche basate sulla PCR hanno permesso di poter quantificare accuratamente l’espressione genica. Ad esempio, la real-time PCR (Fig. 1), può essere applicata in tutti quei settori che richiedono o la quantificazione del numero di bersagli specifici nei campioni, o lo studio della reazione di popolazioni di cellule ad uno stimolo, o il confronto del profilo genico di differenti campioni (validazione dei risultati ottenuti mediante esperimenti di microarray). Funzionamento In una cellula vivente la replicazione del DNA è un processo molto complesso (Fig. 2). Ogni filamento del DNA parentale è usato dalla DNA polimerasi come stampo per sintetizzare un filamento complementare. Questo processo si basa sulla capacità dei nucleotidi di appaiarsi secondo le regole di Watson e Crick. La reazione della PCR riproduce in vitro il processo di replicazione usando solo i componenti basilari e copiando frammenti relativamente corti di DNA. La Figura 3, riassume questa procedura: il DNA genomico (contenente la sequenza bersaglio da amplificare), viene denaturata riscaldando il DNA a Fig. 1. Real Time PCR: rappresentazione grafica dei risultati. Fig. 2. Schema del processo di polimerizzazione. doppia elica a temperature vicine a quella di ebollizione, 94-95 °C (denaturazione); la sequenza stampo a singolo filamento (entrambi i filamenti di DNA possono servire da stampo) viene individuata da corti segmenti di DNA di circa 20-30 paia di basi, (primers, senso ed antisenso); ciò viene reso possibile diminuendo la temperatura di reazione a circa 55-65 °C, (annealing); la sintesi del DNA stampo avviene grazie all’utilizzo della DNA polimerasi a partire dall’estremità 3’OH di ciascun primer d’innesco; la temperatura viene resa ottimale per l’attività della DNA polimerasi, (extension). La PCR si basa quindi sull’uso di diverse temperature per i tre passaggi della reazione: denaturazione-annealing-estensione (Fig. 4). Per amplificare il DNA bersaglio è necessario ripetere questo ciclo di 3 temperature diverse e questo viene attuato grazie all’uso di uno strumento programmabile (termociclatore). La composizione tipica di una reazione di PCR: è la seguente: 1 il DNA stampo contenente la sequenza bersaglio da amplificare; 2 i due primers di innesco; 3 l’enzima DNA polimerasi; 4 la miscela dei quattro nucleotidi precursori (dNTPs: 2’ desossinucleosidi 5’ trifosfato); 5 il buffer di reazione. La quantità di DNA stampo richiesta varia a seconda delle esigenze e situazioni. In genere la PCR funziona in maniera ottimale quando il DNA è estremamente pulito e puro, in quanto l’enzima può subire o meno impedimento sterico per raggiungere il bersaglio. In queste condizioni, caso per caso si introducono accorgimenti particolari atti a minimizzare il disturbo (evitare tutti i contaminanti chimici che non permettano l’attività polimerasica efficace, EDTA; gli acidi forti, i sali, etc.). È importante che i primers di innesco della reazione abbiano una struttura ottimale in modo tale da garantire una buona specificità per la sequenza target. La lunghezza dei primers senso ed antisenso deve essere simile; non deve contenere sequenze ripetute o file di uno stesso nucleotide, né ripetizioni di G e C all’estremità 3’, né sequenze palindromiche all’interno del primer, né sequenze complementari all’altro e infine devono avere due temperature di melting molto vicine. La concentrazione dei primer equimolare è in eccesso rispetto al DNA stampo. Tuttavia usare concentrazione troppo elevate può portare ad artefatti con un aumento delle probabilità di formazione di dimeri o di appaiamento scorretto. GENOMICA: CORSO DI BASE 205 Fig. 3. Reazione di polimerizzazione a catena in vitro (PCR). Due tipi di polimerasi vengono comunemente usati a seconda del DNA stampo utilizzato: a) DNA polimerasi DNA dipendente; b) DNA polimerasi RNA dipendente. Entrambe sono caratterizzate da elevata e veloce processività L’enzima più comunemente utilizzato è la Taq polimerasi. Oltre alla Taq polimerasi, vi è la Pwo DNA polimerasi, che oltre all’attività polimerasica in direzione 5’- > 3’, possiede attività esonucleasica in direzione 3’- > 5’, nota anche come attività proof-reading, che la rende dieci volte più fedele nella sintesi del DNA rispetto alla Taq polimerasi. Le soluzioni di dNTP contengono le quattro basi che costituiscono il DNA. È molto importante che i 4 nucleotidi siano presenti in concentrazioni equimolari, altrimenti si può disturbare la fedeltà della polimerasi. La concentrazione ottimale è intorno ai 50-200 uM. I nucleotidi in base alle necessità dello sperimentatore possono essere modificati. Fig. 4. Cicli di PCR con tre differenti temperature. Il Buffer è costituito da Tris-HCl e Magnesio e mantiene il pH tra 6,8 e 8,3 al variare della temperatura durante la reazione. In altri casi anche il KCl può aiutare la reazione di annealing fra primer e DNA stampo ma ad alte concentrazioni può favorire la produzione di frammenti anomali dovuti all’appaiamento dei primers a siti aspecifici. Dalla concentrazione del magnesio dipende la specificità e l’efficienza di reazione, ossia la stessa attività della DNA polimerasi, influenzandone la fedeltà o tasso di errore. La concentrazione di magnesio libero è tuttavia influenzata dalla concentrazione di nucleotidi, stabilendo un legame equimolare tra magnesio e dNTP. Bibliografia Dieffenbach CW, Dveksler GS. PCR Primer: A Laboratory Manual. Second Edition. Cold Spring Harbor, NY: Cold Spring Harbor Laboratory Press 2003. Bustin SA. A-Z of Quantitative PCR (IUL Biotechnology, No. 5). International University Line 2004. Innis MA, Gelfand DH, Sninsky JJ, Sninksy JJ, Innis M, Gelfand D, et al. PCR Applications: Protocols for Functional Genomics. Academic Press 1999. Alterazioni della metilazione genica M. Roncalli Università di Milano, Istituto Clinico “Humanitas” La metilazione è un processo epigenetico di controllo della espressione genica, provvedendo l’epigenetica informazioni significative del come, dove e quando i dati del codice genetico debbano essere utilizzati. La regolazione della espressione genica è un meccanismo centrale attraverso il quale la cel- 206 lule è in grado di rispondere a stimoli di sviluppo e ambientali e dipende in larga misura dal controllo epigenetico che è basato su modificazioni trasmissibili da cellula a cellula non legate alla sequenza del DNA. Tale controllo epigenetico è particolarmente rilevante durante lo sviluppo embrionale. Infatti il DNA di una cellula somatica è uguale a quello di uno zigote ma profondamente diversi sono i meccanismi di controllo della espressione genica. Quest’ultima infatti è determinata non soltanto dalla presenza di fattori di trascrizione ma anche dalla accessibilità del DNA agli stessi, dalla condizione di “apertura” della cromatina, a sua volta influenzata anche dallo stato di acetilazione delle proteine istoniche legate al DNA. Quando il DNA va incontro a metilazione la base Citosina, legata in maniera covalente alla Guanina con legame fosfodiesterico entro il dinucleotide CpG, si trasforma in Metil-Citosina, ciò che rende la catene del DNA in quel sito non accessibile a fattori di trascrizione. Questi processi di metilazione possono coinvolgere in condizioni fisiologiche, dinucleotidi CpG i quali sono disseminati nel genoma in regioni a bassa densità ovvero sono raggruppati in isole ad alta densità (CpG islands), presenti nel promotore di numerosi geni. Fisiologicamente esiste un elevato livello di metilazione dei nucleotidi CpG nelle regioni a bassa densità, mentre, all’opposto, bassi sono i livelli di metilazione delle isole ad alta densità. Ciò implica che la maggioranza dei nostri geni sia governata da promotori non metilati e che dunque l’espressione della maggior parte dei nostri geni sia condizionata da meccanismi diversi rispetto alla metilazione. Si suppone che lo stato di non metilazione costituisca un prerequisito fondamentale perché i geni siano attivamente trascritti. Due tipi di geni fanno eccezione alla regola, quali il gene X nella femmina e quelli che si trasmettono con meccanismi di imprinting. Queste classi di geni hanno promotori altamente metilati e questa capacità metilatoria si trasmette alle generazioni di cellule somatiche con meccanismi epigenetici ancora poco noti, verosimilmente legati alla capacità dell’enzima DNAmetiltrasferasi (DNMT) di attivarsi in corrispondenza delle isole dei promotori di questi geni. Il significato biologico della metilazione è ancora poco noto ed è legato oltre che alla inattivazione dei geni sopracitati, alla difesa del genoma contro agenti retrovirali, all’immobilizzo di trasposoni e al controllo dell’espressione genica tessuto-specifica o, infine, si manifesta come conseguenza biologica di un precedente modificazione cromatinica repressiva della espressione di un determinato gene. Va detto che questa capacità di difesa dell’integrità genomica può costituire un ostacolo alla terapia genica. Il processo di metilazione non è del tipo tutto o nulla potendo conseguire livelli di differente saturazione metilatoria delle isole CpG con conseguente diverso “dosaggio” dell’espressione genica. Metodologicamente la tecnica di PCRMSP è la più utilizzata per riconoscere la presenza/assenza di alleli metilati e la Real Time MSP-PCR per dosare i livelli di metilazione. Il silenziamento genico deve poi essere documentato attraverso lo studio dei trascritti e delle corrispondenti proteine. Un aspetto peculiare della metilazione è la sua reversibilità che si può acquisire utilizzando agenti demetilanti (ad es 5-azacitidina) ovvero di oligonucleotidi antisenso della DNMT con conseguente riespressione del gene silenziato. Questa reversibilità assume importanza clinica nella pratica oncologica. Nelle neoplasia infatti così come in linee cellulari, numerosi promotori di diverse classi di geni (particolarmente TSG) implicati nella crescita, differenziazione, apoptosi, adesione intercellulare, trasmissione del segnale, RELAZIONI ecc., risultano metilati “de novo” con conseguente perdita della espressione funzionale del gene. Ciò ha portato a considerare la metilazione come il più significativo tra i meccanismi epigenetici noti, per quanto attiene la trasformazione e progressione tumorale. Nei tumori si assiste infatti al capovolgimento funzionale dei normali meccanismi metilatori. Le regioni infatti di dinucleotidi CpG, normalmente metilate, risultano ipometilate (e questo è alla base di una delle ipotesi di nuovi meccanismi di trasformazione tumorale, la cosiddetta instabilità cromosomica o CIN) e, all’opposto, le isole ad alta densità, normalmente ipometilate, risultano ipermetilate (e questo è alla base della teoria carcinogenetica del cosiddetto fenotipo metilatore). Dal punto di vista traslazionale lo studio della metilazione di geni noti e non può risultare significativa per definire a) nuove linee terapeutiche che si avvalgono della revertazione della metilazione; b) patterns di geni silenziati tumore-specifici per la diagnosi precoce di tumori, di malattia minima residua e di recidiva, in tessuti e liquidi biologici (urine, sangue, saliva, liquido seminale, secreto mammario, liquidi da lavaggio ecc.); c) marcatori molecolari a significato prognostico e predittivo di sensibilità alla terapia. Nella pianificazione degli studi e nella interpretazione dei risultati va considerato che, con l’aumentare dell’età, alcuni geni, (recettori per estrogeni) possono risultare metilati. Alcuni possono risultare metilati in relazione all’età in maniera tessuto specifica. È dunque importante stabilire se i geni allo studio siano metilati in conseguenza dell’età (age-related methylation) o a causa del processo tumorale (cancer-related methylation). Va detto comunque che lo studio della metilazione genica ha contribuito a stabilire importanti connessioni biologiche e molecolari tra invecchiamento e neoplasie. Bibliografia 1 Bird A. DNA methylation patterns and epigenetic memory. Genes Dev 2002;16:6-21. 2 Strathdee G, Brown R. Epigenetic cancer therapies: DNA methyltransferase inhibitors. Expert Opin Investig Drugs 2002;11:747-54. 3 Costello JF, Fruhwald MC, Smiraglia DJ, Rush LJ, Robertson GP, Gao X, et al. Aberrant CpG-island methylation has non-random and tumour-type-specific patterns. Nat Genet 2000;24:132-8. 4 Esteller M, Fraga MF, Paz MF, Campo E, Colomer D, Novo FJ, et al. Cancer epigenetics and methylation. Science 2002;297:1807-8. 5 Esteller M. CpG island hypermethylation and tumor suppressor genes: a booming present, a brighter future. Oncogene 2002;21:542740. 6 Esteller M, Herman JG. Cancer as an epigenetic disease: DNA methylation and chromatin alterations in human tumours. J Pathol 2002;196:1-7. 7 Feinberg AP. Methylation meets genomics. Nat Genet 2001;27:9-10. 8 Palmisano WA, Crume KP, Grimes MJ, Winters SA, Toyota M, Esteller M, et al. Aberrant promoter methylation of the transcription factor genes PAX5 alpha and beta in human cancers. Cancer Res. 2003 Aug 1;63(15):4620-5. 9 Belinsky SA, Palmisano WA, Gilliland FD, Crooks LA, Divine KK, Winters SA, et al. Aberrant promoter methylation in bronchial epithelium and sputum from current and former smokers. Cancer Res 200215;62:2370-7. 10 Dote H, Toyooka S, Tsukuda K, Yano M, Ota T, Murakami M, et al. Aberrant promoter methylation in human DAB2 interactive protein (hDAB2IP) gene in gastrointestinal tumour. Br J Cancer 200528;92:1117-25. 11 Murai M, Toyota M, Suzuki H, Satoh A, Sasaki Y, Akino K, et al. Aberrant methylation and silencing of the BNIP3 gene in colorectal and gastric cancer. Clin Cancer Res 2005;11:1021-7. 12 Endo T, Toyota M, Imai K. Silencing of negative regulator of JAK/STAT in colorectal cancer. J Gastroenterol 2004;39:200-1. 13 Dote H, Toyooka S, Tsukuda K, Yano M, Ota T, Murakami M, et al. Aberrant promoter methylation in human DAB2 interactive protein GENOMICA: CORSO DI BASE 14 15 16 (hDAB2IP) gene in gastrointestinal tumour. Br J Cancer 200528;92:1117-25. Murai M, Toyota M, Suzuki H, Satoh A, Sasaki Y, Akino K, et al. Aberrant methylation and silencing of the BNIP3 gene in colorectal and gastric cancer. Clin Cancer Res 2005;11:1021-7. Destro A, Bianchi P, Alloisio M, Laghi L, Di Gioia S, Malesci A, et al. K-ras and p16(INK4A)alterations in sputum of NSCLC patients and in heavy asymptomatic chronic smokers. Lung Cancer 2004;44:23-32. Roncalli M, Bianchi P, Bruni B, Laghi L, Destro A, Di Gioia S, et al. Methylation framework of cell cycle gene inhibitors in cirrhosis and associated hepatocellular carcinoma. Hepatology 2002;36:427-32. 207 17 18 19 20 Muller HM, Fiegl H, Widschwendter A, Widschwendter M. Prognostic DNA methylation marker in serum of cancer patients. Ann N Y Acad Sci 2004;1022:44-9. Widschwendter A, Muller HM, Fiegl H, Ivarsson L, Wiedemair A, Muller-Holzner E, et al. DNA methylation in serum and tumors of cervical cancer patients. Clin Cancer Res 2004;10:565-71. Hoque MO, Begum S, Topaloglu O, Jeronimo C, Mambo E, Westra WH, et al. Quantitative detection of promoter hypermethylation of multiple genes in the tumor, urine, and serum DNA of patients with renal cancer. Cancer Res 2004;64:5511-7. Ushijima T. Detection and interpretation of altered methylation patterns in cancer cells. Nat Rev Cancer 2005;5:223-31. PATHOLOGICA 2005;97:208-209 Genomica: corso intermedio A cura di A. Marchetti (Chieti) Metodiche per lo studio delle mutazioni L. Stuppia Dipartimento di Scienze Biomediche, Sezione di Genetica Medica, Università “G. D’Annunzio”, Chieti Il recente completamento del Progetto Genoma Umano ha reso disponibili le sequenze nucleotidiche di tutti i principali geni responsabili di patologie umane, consentendo in questo modo l’inserimento delle analisi di screening di mutazioni geniche nei protocolli diagnostici di numerose ed importanti malattie genetiche. I test genetici diagnostici, predittivi e di suscettibilità si sono così largamente diffusi sul territorio, consentendo una più precisa caratterizzazione delle patologie genetiche ed una loro migliore prevenzione attraverso la identificazione dei portatori sani e la diagnosi prenatale. La grande maggioranza delle mutazioni geniche responsabili di patologie genetiche nell’uomo può essere divisa in due grandi classi: quella delle mutazioni puntiformi (che interessano uno o pochi nucleotidi della sequenza genica) e quella dei grandi riarrangiamenti genici (delezioni o duplicazioni dell’intero gene). Le tecniche utilizzate per lo studio di queste due classi di mutazioni sono completamente diverse, in quanto nel caso delle mutazioni puntiformi lo scopo della analisi è quello di verificare la presenza di una corretta sequenza nucleotidica del DNA di un gene, mentre nel caso dei grandi riarrangiamenti lo scopo della analisi è quello di verificare la integrità del gene, attraverso la identificazione di rotture o duplicazioni dello stesso. Per la ricerca delle mutazioni puntiformi, la tecnica di elezione resta allo stato attuale quella basata sul sequenziamento diretto di un gene, che permette la lettura di ogni singolo nucleotide della sequenza genica e pertanto la accurata verifica della presenza di alterazioni (sostituzioni di base) rispetto alla sequenza normale. Tale tecnica, oltre alla sua elevatissima sensibilità, è caratterizzata ormai da qualche tempo anche da una elevata processività, grazie alla presenza di sequenziatori automatici capaci di correre e leggere fino a decine di campioni contemporaneamente e permettere quindi la lettura in una sola giornata di decine di migliaia di basi di DNA. Lo svantaggio di questo tipo di approccio è legato ai costi tuttora piuttosto elevati della metodica, specialmente nei casi in cui sia necessario studiare molti campioni e nel caso di geni molto estesi o caratterizzati da un gran numero di esoni. Per tale motivo, si preferisce in molti casi far precedere la metodica del sequenziamento diretto da tecniche di screening che, seppur dotate di sensibilità inferiore, permettono comunque di identificare varianti della sequenza analizzata. Tra tali metodiche, quella attualmente più utilizzata è la cosiddetta DHPLC (Denaturing High Pressure Liquid Chromatography). Tale metodica, che presenta una sensibilità del 95-97%, si basa sulla denaturazione e rinaturazione di due frammenti di DNA seguita da una analisi cromatografica. Quando i due frammenti di DNA non sono uguali per la presenza di una mutazione in eterozigosi, la combinazione delle molecole darà luogo ad una conformazione che verrà evidenziata sotto forma di un “picco” aggiuntivo rispetto a quello specifico per la sequenza normale. Questo tipo di approccio, dotato di una processività elevatissima e sensibilmente più economico rispetto al sequenziamento diretto, permette di evidenziare le variazioni di se- quenza dei geni analizzati, ma non di determinare la natura di tali variazioni e il loro eventuale ruolo patogenetico. Pertanto, una volta identificata la presenza di una variante mediante DHPLC, è comunque necessario sottoporre il campione a sequenziamento diretto per permettere la caratterizzazione della variante identificata. Le tecniche appena descritte non sono utilizzabili per lo studio dei grandi riarrangiamenti genici, in quanto la presenza di una delezione o di una duplicazione di un gene o anche solo di una parte di esso non sarebbe identificabile con queste analisi, che sono capaci solo di mettere in evidenza varianti della sequenza genica. Fino a pochissimo tempo fa, la analisi dei grandi riarrangiamenti genici costituiva un problema notevole per la mancanza di tecniche dotate di sensibilità e processività sufficienti a consentire la ricerca di tali alterazioni a scopo diagnostico. La metodica classica per l’analisi delle delezioni del genoma è il Southern Blot, che si basa sulla digestione del DNA mediante enzimi di restrizione, elettroforesi su gel di agarosio, trasferimento del DNA su una membrana di nylon o nitrocellulosa, ibridazione con una sonda specifica e detection mediante un sistema di rivelazione radioattivo o chemiluminescente. Questa metodica, benché dotata di una buona sensibilità, è tuttora estremamente laboriosa e richiede l’uso di una sonda specifica per il gene da analizzare. Di più larga diffusione è la tecnica della FISH, che si basa sulla ibridazione di una sonda specifica su preparati cromosomi metafisici e alla sua rivelazione mediante fluorescenza e osservazione al microscopio ottico. Tale metodica presenta i limiti di una bassa processività e di una sensibilità limitata nel caso in cui le alterazioni colpiscano non l’intero gene ma solo una parte di esso. Molto recentemente, una nuova tecnica per lo studio delle delezioni e duplicazioni geniche si è imposta alla attenzione generale per la sua estrema sensibilità e processività. Tale tecnica, definita MLPA (Multiple Ligation-Dependent Probe Amplification) si basa sulla ibridazione simultanea sul DNA in soluzione mediante una serie di sonde specifiche per ogni singolo esone del gene oggetto di indagine. Le sonde dopo la ibridazione vengono amplificate mediante PCR e i prodotti di amplificazione vengono analizzati mediante un sequenziatore automatico. Tale metodica si è dimostrata capace di evidenziare delezioni e duplicazioni di numerosi geni responsabili di importanti patologie umane, quali la Distrofia Muscolare di Duchenne, la Atrofia Muscolo Spinale, il tumore ereditario alla mammella (geni BRCA1 e BRCA2), la malattia di Charcot Marie Tooth, la Nerofibromatosi ed altre. La estrema processività di questa tecnica, la sua elevata sensibilità ed i costi contenuti rendono questa metodica una tecnica di elezione per lo studio delle grandi alterazioni del genoma. La dimostrazione molecolare di cellule neoplastiche D. Calistri Laboratorio Biologia Molecolare, Divisione di Oncologia Medica, Ospedale “Morgani-Pierantoni” Ad un’analisi globale degli approcci diagnostici attualmente disponibili, risulta chiaro come sia molto importante la ricer- GENOMICA: CORSO INTERMEDIO ca di test diagnostici non invasivi, di costo accettabile ma caratterizzati al tempo stesso da elevata sensibilità e specificità nell’individuare lesioni neoplastiche e pre-neoplastiche. La diagnosi precoce infatti è tuttora la strategia più efficace per la curabilità e guaribilità di molte neoplasie. Purtroppo molto spesso, a causa dei costi, della complessità e dei tempi ancora necessari per attuare efficaci programmi di screening diagnostico, risulta difficile, se non impossibile, l’attuazione di efficaci programmi di prevenzione oncologica. A questo riguardo, l’utilizzo delle alterazioni genetiche presenti nelle cellule neoplastiche come target per nuovi test diagnostici non invasivi sta sempre più acquisendo importanza grazie ad alcune caratteristiche peculiari di tali alterazioni. Esse, infatti, sono generalmente molto specifiche per la neoplasia, e quindi in grado di ridurre il rischio di falsi positivi e le conseguenti ed inutili indagini strumentali, e possono essere eseguite su fluidi biologici, minimizzando l'invasività ed il disagio per il paziente. Studi sulla possibilità di individuare cellule tumorali in fluidi biologici tramite l'analisi di alterazioni molecolari specifiche per tali cellule è un campo di ricerca che si sta sviluppando molto rapidamente e per molte neoplasie vi sono oramai dati interessanti. Per ottenere questi risultati occorre ovviamente utilizzare sistemi di indagine in grado di individuare le lesioni neoplastiche in modo specifico e con estrema 209 sensibilità visto che comunque le cellule tumorali che possiamo ritrovare nei fluidi biologici di un paziente sono estremamente rare. Inoltre è necessario cercare di sviluppare test diagnostici che, oltre ad avere a una estrema sensibilità e specificità per le cellule neoplastiche, siano al tempo stesso sufficientemente semplici e rapidi da poter essere poi impiegati su larga scala come, ad esempio, in programmi di prevenzione su popolazioni a rischio di sviluppare una determinata neoplasia. Un approccio rivelatosi molto interessante per la diagnosi precoce dei tumori colorettali consiste nella individuazione delle cellule neoplastiche tramite la valutazione di alterazioni molecolari presenti nelle cellule di esfoliazione delle feci. L'estrazione di DNA da materiale fecale e la successiva analisi molecolare potrebbe quindi rappresentare un approccio diagnostico non invasivo in alternativa o ad integrazione delle tecniche fino ad oggi utilizzate per l'individuazione di tali neoplasie. Altri importanti esempi sono la diagnosi precoce non invasiva dei tumori della vescica e del polmone per i quali molti marker molecolari sono allo studio con promettenti risultati. Questi studi e studi analoghi, condotti per altre neoplasie e che utilizzano i più disparati sistemi di indagine molecolare e i più diversi fluidi biologici, stanno fornendo e forniranno in futuro importanti risultati aprendo nuove prospettive per la diagnosi e la cura dei tumori. dfafd