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RELAZIONI
dffdaf
PATHOLOGICA 2005;97:163-166
Patologia neoplastica della prostata
Moderatore: G. Massarelli (Sassari)
Carcinoma prostatico: richieste dell’urologo
al patologo
S. Rocca Rossetti
Professore Emerito di Urologia, Università di Torino
La collaborazione tra anatomopatologi e urologi è assolutamente indispensabile, non soltanto sul piano della quotidianità assistenziale, ma anche (se non) soprattutto su quello
dottrinale e scientifico. Per i centri nei quali è d’uso l’incontro settimanale sui casi esaminati, collegialmente discussi, tale collaborazione esprime al massimo i suoi frutti e sarebbe
dunque auspicabile che in tutti i dipartimenti vigesse questa
ormai ben sperimentata consuetudine. L’urologo ha necessità
di dialogare strettamente col patologo per l’incessante evoluzione della sua materia, nella speranza che il patologo possa
risolvere i problemi che egli deve affrontare. In concreto per
il carcinoma della prostata, lì dove un paio di decenni or sono quasi tutto sembrava scontato e abbastanza semplice, attualmente non poche incognite cliniche angustiano la nostra
opera, che affondano le radici in problemi essenzialmente patologici; da ciò ci vien fatto di avanzare alcune richieste, di
cui sinteticamente espongo le motivazioni.
1°) Gleason score; per gli urologi rappresenta una classificazione pressoché indispensabile per il suo valore diagnostico e
ancor più per quello prognostico: è possibile uniformare le
conclusioni diagnostiche riguardo al Gleason, specificando
sempre lo score? Ho notato talora che l’urologo può confondere il numero del grado con la somma dei due numeri dello
score, il che può condurre ad errori di indicazione terapeutica;
presumibilmente l’omissione dello score è dovuta all’esiguità
del campione inviato; dunque potrebbe essere opportuno che
i patologi indichino la quantità minima di tessuto su cui esprimersi, perché gli urologi si adeguino tecnicamente nell’esecuzione delle biopsie, ossia inviando frustoli delle dimensioni richieste. Altro dato interessante è quello relativo alla corrispondenza del Gleason score bioptico con quello definitivo
dopo prostatectomia; è evidente che le indicazioni terapeutiche saranno tanto più precise quanto maggiore è la possibilità
di basarsi sull’attendibilità del dato bioptico; la letteratura recente valorizza questa problematica 1.
2°) Tumore insignificante; i problemi che tale concetto pone
non sono pochi; per la maggioranza degli urologi in pratica si
considera insignificante il tumore incidentale di basso grado,
del tutto circoscritto e di esigue proporzioni, benché anche per
queste lesioni non pochi urologi sono favorevoli alla terapia
radicale per pazienti giovani; ciò dimostra che il tumore si
presume abbia un’evolutività e dunque insignificante non sia:
Ma a parte il Ta, esiste una problematica interessante relativa
al riscontro non eccezionale di T0 dopo prostatectomia eseguita sia dopo terapia neoadiuvante (e una spiegazione è intravedibile) e sia senza 2-4. È evidente che in questi casi il dubbio dell’overtreatment esiste e moralmente pesa. In concreto,
l’urologo potrebbe porre una domanda apparentemente semplice se non addirittura banale: esiste il tumore insignificante
rilevabile alla biopsia (evidentemente eseguita per un qualche
sospetto obiettivo, strumentale o laboratoristico)?
3°) Il PIN d’alto grado in alta percentuale s’associa a carcinoma della prostata, ma in se non essendo un carcinoma, non
giustifica una terapia aggressiva, ossia radicale, né moralmente, né legalmente; biopsie ripetute nel tempo, spesso consentono di raggiungere la diagnosi di carcinoma, col risultato di aver perso tempo forse prezioso durante il quale la qualità della vita del paziente è ovviamente compromessa; nei
casi di PINHG trattati con prostatectomia radicale (nella mia
casistica si trattava di colleghi urologi o in ogni caso medici
che hanno voluto rischiare un intervento eventualmente sproporzionato) s’è sempre trovato un carcinoma. Quali contributi al riguardo può offrire oggi il patologo anche alla luce di
nuove acquisizioni di colorazioni immunoistochimiche con
anticorpi monoclinali 5?
4°) I tumori neuroendocrini puri della prostata, fortunatamente rari. costituiscono un capitolo complesso, reso difficile soprattutto per l’impossibilità pressoché costante di dimostrare la natura della sostanza secreta; non è raro invece trovare una componente neuroendocrina nel comune carcinoma
prostatico; essa può assumere non poco valore prognostico,
com’è dimostrato da ricerche anche recenti 6 sull’utilizzo di
marcatori specifici; specificare l’esistenza di tale componente istologicamente dimostrata potrebbe essere di grande aiuto nel formulare la prognosi e nell’impostare la terapia.
5°) Ricerche recenti hanno affermata l’importanza dello stroma nell’induzione di fenomeni carcinogenetici dell’epitelio,
di diffusione e di metastatizzazione; sarebbero già ipotizzabili ricadute terapeutiche da tali ricerche 7; fino a che punto il
patologo è attualmente in grado di utilizzare ai propri fini le
nuove acquisizioni molecolari sull’interazione tumorogenetica stroma-epitelio?
Bibliografia
1
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RELAZIONI
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Gleason grading of prostate cancer.
Contemporary approach
R. Montironi, F.R.C. Path, R. Mazzucchelli
Institute of Pathological Anatomy and Histopathology, Polytechnic University of the Marche Region, Ancona, Italy
The Gleason score of adenocarcinoma of the prostate is the
quintessential prognostic factor in predicting findings in radical prostatectomy (pathologic stage), biochemical failure,
local recurrences, lymph node or distant metastasis in patients receiving no treatment, radiation therapy, radical
prostatectomy and other therapies including cryotherapy and
neoadjuvant therapy. The needle biopsy Gleason score also
correlates with virtually all other pathologic parameters including tumor volume and inked margin status in radical
prostatectomy specimens, serum PSA levels and many molecular markers. Specifically, Gleason scores of 7-10 are associated with worse prognoses, and tumors with Gleason scores
5-6 are associated with lower progression rates after definitive therapy. The predictive value of Gleason score is enhanced when combined with other clinical parameters including digital rectal examination and serum PSA levels. In
recent years, nomograms have been developed to predict
pathological stage on radical prostatectomy, and disease progression after surgery or radiation therapy. Nomograms typically include pretreatment variables including clinical stage,
Gleason score, serum PSA, amount of cancer in needle biopsy, etc. Based on statistical modeling of cumulative, prospectively accrued data on large consecutive series of patients, the
nomograms have reasonable discriminatory ability to predict
(depending on the nomogram patient cohort and statistical
modeling) the pathologic stage, seminal vesicle involvement,
lymph node metastases, biochemical failure, small volume
organ-confined tumors, response to radiotherapy, etc. Such
nomograms are used with increasing frequency in clinical
practice by urologists and radiation oncologists to counsel
their patients regarding therapeutic options and potential risk
for failure based on therapy they may choose. Inclusion of
the needle biopsy Gleason score in all clinically valid nomograms is testimony to the prognostic and predictive power of
this grading system and its central role in contemporary
prostate cancer patient management. Gleason score is also
often used to determine eligibility for clinical trials, including those for watchful waiting.
While the pivotal role of Gleason score in the needle biopsy
is not in question, the method of reporting needs clarification
of few issues including some not addressed in the original
Gleason system. The most significant new recommendation
is to separately report the Gleason score for each recognizable core irrespective of whether the cores are individually
submitted (in individual container signifying specific
anatomic location, e.g., right base), or submitted together;
(more than one core, possibly sampling different areas of the
prostate, e.g., three cores from the left apex, mid and base
sent in one container). The needle biopsy core(s) with the
highest Gleason score is often given the most weight in clinical decision making and hence should be identifiable as a
separate Gleason score, information which would be lost if
individual cores were not graded. If extreme fragmentation
makes grading of individual cores difficult, the emphasis
should be to identify and provide information on the core
with the highest Gleason score. A recent survey of the surgical members of the Society of Urologic Oncology indicated
that 81% used the highest Gleason score in a positive biopsy,
regardless of the overall percentage involvement, to determine their treatment plan. This paradigm was also used in the
creation and validation of Kattan nomograms, Partin tables
that are currently in wide clinical use. Assigning a global
(composite) score is optional.
Another important change is the recognition and reporting of
the tertiary pattern in needle biopsies. Tertiary patterns are
uncommon but when the worst Gleason grade is the tertiary
pattern, it should influence the final Gleason score. Examples: a case with primary Gleason pattern 3, secondary pattern 4, and tertiary pattern 5 should be assigned a Gleason
score of 8; a case with primary Gleason pattern 4, secondary
pattern 3, and tertiary pattern 5 should also be assigned a
Gleason 8 (secondary score being 4 based on the average of
patterns 5 and 3 = 4) or Gleason score 9 (pattern 4 + 5).
The data regarding the importance of the percentage of Gleason 4 pattern in Gleason score 7 tumors is rapidly expanding.
In recently generated nomograms, patients with Gleason
score 4 + 3 vs. 3 + 4 are stratified differently, underscoring
the importance of the relative amount of pattern 4. Whether
or not the actual percentage of 4 pattern tumor should be included in the report is not clear based on published data to
date and, if this emerges as an important parameter, meaningful discriminatory cut-off points for percentage of pattern
4 will need to be defined.
The diagnosis of Gleason score 2-4 should not be made on
needle biopsies. The reasons for not making this diagnosis
are compelling: 1) Gleason score 2-4 cancer is extraordinarily rare in needle biopsies as compared to transurethral resection specimens; 2) there is poor reproducibility among experts for lower grade tumors; 3) the correlation with the
prostatectomy score for Gleason 2-4 tumors is poor and approximately half of the prostatectomies in one study had extraprostatic extension; and 4) a “low” score of Gleason 2-4
may misguide clinicians and patients into believing that there
is an indolent tumor.
Cancro prostatico: basi molecolari
F. Buttitta
Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Università di
Chieti; Aging Research Center (CeSI), “G. d’Annunzio”
University Foundation, Chieti
Come per altri tumori solidi, l’eziologia del carcinoma prostatico è di tipo multifattoriale e va ricercata in una complessa interazione fra fattori genetici ed ambientali. Il suo sviluppo è legato all’età e allo stato ormonale dell’individuo. Quest’ultimo aspetto, in modo particolare, è stato oggetto di svariate indagini molecolari in quanto la prostata è essenzialmente un organo sotto il controllo androgenico. Gli androgeni, nell’ambito dei quali il diidrotestosterone rappresenta il
metabolita attivo, si legano al corrispondente recettore (AR)
in sede citoplasmatica. Il complesso che ne deriva trasloca al
nucleo dove, a seguito di un processo di dimerizzazione, è in
grado di legarsi a sequenze geniche specifiche (ARE = elementi androgeno-responsivi) e conseguentemente attivare la
trascrizione di geni coinvolti nella proliferazione e sopravvivenza cellulare. Questa via di trasmissione del segnale sembra
essere essenziale per lo sviluppo e mantenimento delle funzioni prostatiche, ma anche per lo sviluppo della crescita neoplastica. La crescita della maggior parte dei carcinomi prostatici è infatti, almeno nelle fasi iniziali, androgeno-dipendente
e per tale motivo la terapia medica, basata sull’ablazione an-
PATOLOGIA NEOPLASTICA DELLA PROSTATA
drogenica associata ad antiandrogeni, è mirata al raggiungimento di un blocco androgenico totale. L’efficacia dell’androgeno-deprivazione è tuttavia notoriamente limitata nel tempo
e la maggior parte dei tumori prostatici con insita capacità
evolutiva, da una fase di ormono-responsività passa successivamente ad una fase definita ormonorefrattaria o ormono-indipendente. Questa transizione è di particolare interesse sia
biologico che clinico poiché l’individuazione precoce di fattori molecolari predittivi di ormono-indipendenza consentirebbe di selezionare in maniera più opportuna i pazienti da
sottoporre a protocolli terapeutici più aggressivi. La biologia
molecolare del cancro prostatico è caratterizzata da alterazioni a carico di alcune importanti vie di regolazione cellulare,
quali la via di trasmissione del segnale innescata dall’attivazione di AR e le vie che regolano l’apoptosi, e dalla compromissione di geni la cui funzione è cruciale nei processi di adesione cellulare e di trasmissione del segnale. Numerosi sono
gli studi condotti fino ad ora sulle alterazioni geniche di AR.
Il recettore per gli androgeni è raramente sede di mutazioni o
interessato da processi di amplificazione nei tumori primitivi
non trattati. Al contrario, sia mutazioni che eventi di amplificazione genica sono stati riscontrati in tumori trattati con antiandrogeni. In tali tumori mutazioni del recettore, infatti, sono state documentate in circa il 20-25% dei casi. Alcune di
queste mutazioni altererebbero la specificità di legame fra ligando e recettore per gli androgeni e quest’ultimo, paradossalmente, verrebbe attivato proprio dagli antiandrogeni. Amplificazioni del recettore sono presenti nel 30% dei tumori ormono-refrattari ed una over-epressione della proteina recettoriale è documentabile in quasi tutti questi tumori. Questo dato suggerisce che l’amplificazione genica e/o l’overespressione proteica potrebbero essere responsabili di una aumentata
sensibilità a bassi livelli di androgeni piuttosto che ad ormono-indipendenza e giustificare così la progressione neoplastica. Fra i geni più frequentemente alterati nel cancro prostatico va citato l’enzima Glutatione S-transferasi di classe π. Tale enzima va incontro a silenziamento per ipermetilazione del
promotore nel 70% delle lesioni di tipo PIN e nel 90-95% del
carcinoma prostatico. Si tratta quindi di una alterazione genica precoce che potrebbe rappresentare un marker diagnostico,
come alcuni autori hanno proposto. I principali geni coinvolti
nella regolazione del processo apoptotico, quali TP53 e Bcl2,
mostrano entrambi anomalie di espressione e di funzione. La
maggior parte degli studi sono concordi sul fatto che TP53 risulta implicato nei processi di ormono-resistenza. Esso presenta raramente mutazioni nei tumori precoci o localizzati,
mentre va incontro a mutazione in fase più tardiva. Il 20-40%
dei tumori metastatici e/o ormono-refrattari presentano infatti
mutazioni di TP53. Analogamente, l’overespressione di Bcl2
è presente nei tumori che non rispondono all’ormonoterapia o
che progrediscono precocemente dopo l’inizio del trattamento ormonale. Una delle vie più importanti che comporta una
deregolazione dei processi apoptotici e che viene attivata indipendentemente da AR è quella che coinvolge PTEN. Nelle
cellule normali PTEN inibisce l’attivazione della via Fosfatidil-inositolo 3 chinasi-AKT. All’attivazione di AKT consegue
una serie di eventi, tutti rivolti al mantenimento della sopravvivenza cellulare. Pertanto, nelle cellule normali PTEN consente alle cellule di andare in apoptosi, mentre nelle cellule
neoplastiche, il blocco di PTEN, documentato soprattutto nelle cellule ormono-indipendenti, consente una attivazione di
AKT e quindi una inibizione dei processi apoptotici attraverso l’inibizione di proteine a funzione proapoptotica. Tutte
queste acquisizioni bio-molecolari sono in armonia con studi
di ibridazione genomica comparativa che hanno dimostrato
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come aree cromosomiche soggette ad alterazione nel cancro
prostatico in fase ormono-responsiva siano differenti da quelle colpite durante la progressione neoplastica.
Negli ultimi anni un interesse notevole è stato rivolto alle alterazioni geniche germinali che potrebbero modificare la suscettibilità individuale all’insorgenza del cancro prostatico.
Recentemente è stato proposto un modello multigenico di suscettibilità basato sulla presenza di sequenze polimorfiche.
Un esempio è offerto dalla regione transattivante del gene AR
che è sede di polimorfismi, uno dei quali consiste in una ripetizione in tandem CAG nell’esone 1. L’attivazione genica
da parte di AR è inversamente correlata al numero delle triplette CAG. La presenza di varianti “corte” potrebbe predisporre ad una cronica iperstimolazione androgenica e ad un
alto rischio di sviluppare il tumore. Inoltre, è stato notato che
geni coinvolti con il metabolismo degli androgeni, quali il
gene “17-hydroxylase cytochrom P-450” (CYP17) e il gene
“5 reductase type II” (SRD5A2), sono sede di polimorfismi
che potrebbero influenzare la suscettibilità al cancro della
prostata. Una transizione T-C (allele 2) nel promotore di
CYP17 potrebbe associarsi a più alti livelli di trascrizione genica. Gli alleli A2 sarebbero presenti con maggior frequenza
in pazienti con cancro prostatico (70%) rispetto a pazienti
urologici di controllo. Il gene SRD5A2 presenta polimorfismi
con diversa attività enzimatica. Gli individui a più alta attività potrebbero essere a maggior rischio di cancro della prostata. Questo campo di indagini è in espansione e varie altre
sequenze polimorfiche entrano in gioco nella valutazione
globale del grado di suscettibilità.
Patologia neoplastica della prostata:
prospettive
E. Di Carlo
Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Sezione di Anatomia patologica, Università “G. d’Annunzio” e Centro Studi e Ricerche sull’Invecchiamento, Ce.SI., Chieti, Italia
Il carcinoma della prostata si colloca al secondo posto come
frequenza tra i tumori che colpiscono il sesso maschile ed al
terzo posto come causa di morte. La sua incidenza, legata all’età, è in aumento in relazione all’incremento della vita media della popolazione ed alla disponibilità di più accurate
procedure diagnostiche. Mentre progrediscono le ricerche di
genetica molecolare per l’identificazione di geni (es.:
SRD5A2 ed ELAC2) o regioni geniche (es.: HPC-1, PCaP,
CAPB ed i polimorfismi del gene CYP17) indicative del rischio di sviluppare carcinoma prostatico, non esistono attualmente trattamenti per prevenirne l’insorgenza o curarne gli
stadi precoci. Inoltre, le terapie disponibili per la cura degli
stadi tardivi presentano pesanti rischi collaterali e non hanno
ridotto significativamente l’incidenza ed il tasso di mortalità.
I trattamenti di tipo immunologico vanno incontro all’esigenza di un approccio preventivo e/o terapeutico privo di significativi effetti collaterali e facilmente accettabile dal paziente anziano.
Sulla base di queste considerazioni, il nostro gruppo di ricerca ha progettato di attuare una strategia immunologica in un
contesto di prevenzione, ovvero, somministrare un vaccino in
associazione ad una molecola immunomodulante (trattamento combinato) prima dell’insorgenza di cancro prostatico in
animali geneticamente condizionati a sviluppare questo tumore. Il modello sperimentale in questione, denominato
TRAMP (Transgenic Adenocarcinoma of Mouse Prostate),
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consiste in un ceppo di topi C57BL/6 che presenta il frammento -426/+28 del gene della probasina di ratto (PB) fuso
con il gene che codifica per SV40 T antigen. L’espressione
del transgene PB-SV40 T antigen, T-Ag, inizialmente regolata dagli androgeni, è ristretta all’epitelio della prostata dorsolaterale. I topi TRAMP rappresentano un ideale modello preclinico di cancro prostatico che riassume le caratteristiche
istopatologiche della carcinogenesi prostatica umana. Essi
sviluppano, nella prostata dorso laterale, multipli focolai di
neoplasia prostatica intraepiteliale (low and high grade PIN)
verso la 7a settimana di vita e, successivamente, un adenocarcinoma ben differenziato (8-12a settimana) che progredisce in carcinoma androgeno-indipendente scarsamente differenziato (15a e la 25a settimana) oppure a piccole cellule con
aspetto neuroendocrino e metastasi ai linfonodi, vertebre,
ghiandole surrenali e polmone (28-32a settimana) 1.
La validità e quindi il grado di predittività di questo modello
sperimentale di cancro prostatico sono dimostrate dalle numerose analogie con la patologia umana: a) istologicamente,
sia nel modello murino che nell’uomo, il carcinoma prostatico è contraddistinto dalla perdita dello strato di cellule basali (positività per citocheratine ad alto peso molecolare o per
p63), dalla espressione di Ep-CAM sulle cellule neoplastiche
e dalla perdita di AR nei carcinomi indifferenziati, b) in entrambi i casi l’espressione di EGFR, EGF, IGF-1, IGF-1R,
ERK-1 e -2, FGF-2 ed VEGFR2 è strettamente associata alla
crescita tumorale, c) sia nel carcinoma prostatico murino che
in quello umano i geni codificanti gli antigeni STEAP (sixtransmembrane epithelial antigen of the prostate) e PSCA
(prostate stem cell antigen) risultano up-regolati 2.
Il trattamento immunologico combinato, in corso di sperimentazione presso i nostri laboratori, consiste nel somministrare ai topi TRAMP, a partire dalla sesta settimana di vita,
in cicli della durata di tre settimane, un vaccino cellulare
(2x106 cellule allogeniche H-2d originate da topi BALB/c ed
ingegnerizzate ad esprimere l’antigene T-ag, i.p.) addizionato con interleuchina 12 (IL-12) (100 ng/die, i.p.).
Questa strategia preventiva, che ha già dimostrato notevole
efficacia in modelli murini di carcinogenesi mammaria spontanea 3 4, si basa concettualmente sull’associazione di differenti stimoli immunologici denominati: 1. T-Ag, un antigene
selettivamente espresso nell’epitelio della prostata dorso-laterale dei topi TRAMP e che ne condiziona la trasformazione neoplastica; 2. allo-MHC di classe I (H-2d) espresso da
cellule allogeniche del vaccino ed in grado di innescare una
imponente reazione infiammatoria ed una rapida distruzione
delle cellule del vaccino, facilitando la “cross-presentazione”
dell’antigene T-Ag da parte delle “Antigen Presenting Cells”
(APC) dell’ospite; 3. IL-12, una citochina di tipo Th1 dotata
di proprietà antitumorali mediate dalla attivazione di linfociti e cellule NK e secondario rilascio di interferon (IFN)-γ e
chemochine anti-angiogeniche di tipo CXC 4. Inoltre, l’IL-12
aumenta la generazione delle cellule APC in vivo e la loro resistenza all’apoptosi promossa dal microambiente tumorale
inducendo la proteina anti-apoptotica Bcl-xL.
RELAZIONI
La somministrazione della sola IL-12 determina un significativo (p < 0,05, test di Mantel-Haenszel) ritardo nell’insorgenza e progressione del cancro prostatico ed un aumento dei tempi di sopravvivenza. Alla 12-15 a settimana di vita
le analisi istologiche della prostata degli animali trattati rivelano unicamente la presenza di focolai di low grade PIN
e scarsi aspetti di high grade PIN. Tuttavia l’incidenza tumorale risulta invariata e tutti gli animali muoiono a causa
della malattia.
La somministrazione delle sole cellule allogeniche è meno
efficace rispetto a quella dell’IL-12, ma i loro effetti risultano sinergici nel trattamento combinato. Infatti, alla 30 settimana di età circa l’80% degli animali sottoposti a trattamento combinato presentano unicamente focolai di PIN e fino alla 40 settimana il 60% di essi non ha sviluppato adenocarcinoma. Al termine dell’esperimento (60a settimana) circa il
20% degli animali è libero da tumore e presenta ampi centri
germinativi a livello dei linfonodi peri-prostatici ed una elevata produzione di IFN-γ, prodotta soprattutto dai linfociti T
CD4+, a livello splenico, mentre l’attività CTL risulta scarsa.
Tali aspetti si associano ad elevati livelli sierici di anticorpi
anti-T-Ag e di IFN-γ.
Lo studio istopatologico delle prostate prelevate dagli animali sviluppanti tumore rivela a) una minore incidenza di
cancro indifferenziato rispetto ai controlli, b) frequenti zone di necrosi ischemico-emorragica del tumore coesistenti
con aspetti di apoptosi delle cellule tumorali, scarso sviluppo della rete microvascolare, modica infiltrazione di
linfo-monocitaria, c) ridotta incidenza di malattia metastatica.
In conclusione, la disponibilità di modelli transgenici in grado di riprodurre sotto il profilo biologico ed istopatologico il
processo multi-step della carcinogenesi prostatica umana offre la possibilità di 1) ricercare nuovi marcatori tissutali e sierologici (mutazioni geniche, proteine tumore-specifiche) di
cancro prostatico utili per la diagnosi precoce e per la prognosi e 2) sperimentare strategie di profilassi e cura che abbiano significato pre-clinico e traslazionale 5.
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PATHOLOGICA 2005;97:167-168
Patologia neoplastica della mammella
Moderatore: I. Nenci (Ferrara)
Le indagini di morfologia molecolare con
immunoistochimica nelle proliferazioni
duttali mammarie
D. Angelucci, G. Castrilli, L. Di Giovannantonio, T.
D’antuono, A. Pelliciotta, R. Bellocci
Istituto di Anatomia Patologica Università/ASL Chieti
La classificazione attuale della patologia proliferativa mammaria si basa sul riconoscimento di due distinte linee di differenziazione cellulare: quella luminale e quella basale/mioepiteliale. Le due popolazioni sono caratterizzate rispettivamente dalla
positività immunoistochimica per CK 8/18/19 e per AML.
Evidenze recenti hanno individuato un terzo tipo cellulare
con positività per CK5. Per tali cellule è stata ipotizzata una
funzione STEM con capacità di generare popolazioni a fenotipo intermedio (CK5+/CK18+ e CK5+/AML+) dalle quali
deriverebbero gli elementi luminali (CK18+) e mioepiteliali
(AML+) con differenziazione terminale 1.
Questa osservazione tenderebbe ad escludere il passaggio obbligato attraverso l’iperplasia duttale tipica (DH) per arrivare
alla iperplasia duttale atipica/carcinoma duttale in situ
(ADH/DCIS). Crescenti osservazioni, confortate anche da
valutazioni di natura citomorfologica e citogenetica, attestano l’esistenza di pattern immunofenotipici differenti nella
DH da un lato e nell’ADH/DCIS dall’altro, non spiegabili in
base al classico modello di progressione lineare, nella genesi
del carcinoma mammario 2 3. Secondo il nuovo modello patogenetico le DH e le ADH/DCIS rappresenterebbero due entità distinte causate da alterazioni, a diversi livelli, dei processi di proliferazione e differenziazione cellulare. Si confrontano pertanto 2 ipotesi: quella “evoluzionistica”, più datata e quella “compartimentalistica”, più recente.
I fautori della prima negano l’esistenza di una popolazione cellulare con funzioni STEM che esprima solo CK5 in assenza di
altri markers di differenziazione luminale o mioepiteliale. La
popolazione STEM-CK5+, potrebbe, pertanto, rappresentare
un “artefatto” giacché è repertata solo su sezioni ottenute da
materiale in paraffina, ma non su “frozen sections” 4.
L’ipotesi “evoluzionistica”, al contrario, considera la DH,
l’ADH ed il DCIS come tappe successive di un modello di
progressione lineare che inesorabilmente culmina nel Carcinoma Duttale Infiltrante (IDC). Queste considerazioni impongono ora la corretta interpretazione dei quadri di Morfologia Molecolare/Immmunoistochimica, assolutamente distinti, di DH vs. ADH/DCIS quando si usi un panel di anticorpi costituito da AML, p63 e da CK14, CK5 e CK18.
Morfologia Molecolare Immunoistochimica dell’epitelio del
DOTTO NORMALE non proliferante
Il versante luminale è caratterizzato dalla pressoché esclusiva presenza di cellule con markers di differenziazione specifici quali le CK8/18/19 con veramente rare cellule positive
per CK5/14. Lo strato basale consta di cellule uniformemente ed intensamente positive per markers di differenziazione
mioepiteliale/basale come AML, CK5/14 e p63.
Morfologia Molecolare Immunoistochimica dell’epitelio del
dotto con DH
Nel compartimento luminale proliferante si apprezza la commistione di due popolazioni cellulari distinte che mostrano,
rispettivamente, immunofenotipo CK18+ e CK14/CK5+ 2 3.
Nello strato basale le cellule mioepiteliali risultano positive
per AML, CK14, CK5 e p63. È interessante sottolineare come gli elementi cellulari basali/mioepiteliali CK5+/CK14+,
quando posizionati più “luminalmente” non esprimano
l’AML che resta, così, segregata al solo livello basale.
Morfologia Molecolare Immunoistochimica dell’epitelio del
dotto con ADH/DCIS
Il compartimento luminale proliferante della ADH/DCIS ha,
come peculiare pattern, l’assenza di commistione di popolazioni distinte. Le cellule luminali, infatti, mostrano reattività
solo per CK18, senza alcuna positività per CK5 2 3.
Questa rigida separazione sembra avvalorare l’ipotesi “compartimentalistica”, che prevede una crescita “monoclonale”
nel carcinoma a partire da una cellula indirizzata in senso
neoplastico maligno sin dall’inizio. Viceversa nella DH si
avrebbe una crescita “policlonale” caratterizzata dalla esuberanza di cellule proliferanti a fenotipo basale/mioepiteliale
accompagnata da un’iperplasia delle cellule luminali.
Vi sono però quadri di morfologia molecolare sicuramente
intermedi che pongono più di un dubbio sulla reale separazione dei due processi, carcinomatoso ed iperplastico, mentre sono molto evocativi di transizione (evoluzione) da DH
vs. ADH/DCIS.
Questi pattern evolutivi sono realmente stimolanti ed utili
perché suggeriscono, a nostro avviso, la possibilità di differenziare, nell’ambito delle proliferazioni “atipiche di grado
severo”, l’ADH dal DCIS. Sono certamente DCIS le proliferazioni duttali monoclonali a fenotipo CK18+, in cui residuano perifericamente, cioè a livello rigorosamente basale,
elementi CK5+/CK14+ e AML+.
Nelle crescite epiteliali intraduttali a tipo ADH si repertano
tre “strati”: a) uno basale con usuale pattern di morfologia
molecolare; b) uno atipico luminale, sovrabasale, esuberante,
con esclusivo immunofenotipo CK18 non-commisto; c) uno
costituito da residue cellule morfologicamente non atipiche,
localizzate al di sopra della popolazione neoplastica proliferante CK18+, a ridosso del lume del dotto, con immunofenotipo CK5+/CK14+ e AML-. Con questa modalità di classificazione, molto interessante appare l’osservazione di quadri
diversi di DH, ADH e DCIS non solo nell’ambito di una stessa zona del tessuto mammario, ma anche in differenti punti di
uno o più quadranti (multifocalità e multicentricità).
La dimostrazione di queste aree evolutive implica importanti ricadute terapeutico-prognostiche e di follow-up: 1) possibilità di individuare e discriminare le iperlasie dell’epitelio
duttale a rischio di evoluzione carcinomatosa; 2) maggiore
accuratezza nel predire la multifocalità e multicentricità; 3)
capacità di valutare di persistenza ed iper-intensità dello stimolo iperplasizzante (ormonale o di altra natura) quando integrata da altri parametri, come i recettori estro-progestinici,
per decidere su terapie a lungo termine.
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Patologia neoplastica della mammella:
prospettive
M. Iezzi
Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Università di
Chieti; Aging Research Center, CeSI, “G. d’Annunzio” University Foundation, Chieti
Il carcinoma della mammella è la più frequente malattia tumorale che colpisce la popolazione femminile nei paesi sviluppati e, solo in Italia, si registrano più di 30.000 nuovi casi all’anno. Nonostante i notevoli progressi nel trattamento
del carcinoma mammario, la ripresa di malattia e la formazione di metastasi continuano a rappresentare il problema
maggiore nella gestione clinica del tumore.
La visione tradizionale del processo di metastatizzazione
suggeriva che le cellule metastatizzanti del tumore primario
infiltrassero lo stroma, i linfatici ed i vasi sanguigni solo dopo aver subito un processo di selezione che le portava all’acquisizione di alterazioni genetiche aggiuntive in grado di
conferire loro capacità invasiva. Il processo di metastatizzazione era quindi considerato una caratteristica evolutiva delle fasi avanzate nella progressione del tumore primitivo.
Tale modello è stato recentemente messo in discussione da
dati epidemiologici e dai risultati degli studi sul profilo genico dei tumori primari e delle loro metastasi che sembrano indicare che durante la progressione neoplastica le cellule tumorali possono, fin dalle fasi iniziali, staccarsi dal tumore
primario, cioè disseminare per via linfatica o ematica ed acquisire poi ulteriori alterazioni negli organi secondari sotto la
pressione selettiva del nuovo microambiente.
La propensione delle cellule tumorali a disseminare per via
ematica o linfatica sembra essere determinata dal loro assetto genico. È stato infatti riportato che i profili genici associati a tumori che metastatizzano per via linfatica o per via ematica non sono sovrapponibili suggerendo che il pattern di
espressione genica che determina sia la capacità metastatica
che la via preferenziale di disseminazione può essere già
identificabile nelle fasi precoci dello sviluppo del tumore primario. Sono state inoltre individuate categorie di geni particolarmente influenti sulla metastatizzazione per via ematica
quali quelli codificanti per proteine coinvolte nel rimodellamento della matrice extracellulare, nella plasticità del citoscheletro e nelle varie vie di segnale.
Estremizzando i risultati ottenuti dal profiling genico si è arrivati addirittura a proporre una riclassificazione molecolare
del carcinoma della mammella in due grandi sottogruppi: di
tipo luminale e di tipo basale. Il primo include prevalentemente tumori positivi per il recettore degli estrogeni esprimenti geni relativamente più espressi nelle cellule luminali;
il secondo comprende tumori per lo più negativi per il recettore degli estrogeni ed esprimenti markers delle cellule basali. I tumori umani iperesprimenti HER-2 tendono ad aggregarsi ai carcinomi di tipo basale e condividono con essi una
prognosi negativa.
RELAZIONI
È indubbio che una riclassificazione come quella sopra esposta
non fornisce parametri prognostici direttamente trasferibili alla
pratica clinica e deve essere integrata non solo dalla validazione dei dati ottenuti dagli array ma anche con i dati ottenuti ed
ottenibili tramite le analisi istologiche ed immunoistochimiche
su campioni tissutali. La strategia che vede il confronto delle
analisi di espressione genica mediante cDNA microarrays e l’analisi del fenotipo tumorale mediante studi di immunoistochimica su tissue microarrays (TMAs) rappresenta un valido approccio per facilitare il trasferimento delle nuove scoperte di
biologia molecolare da ambiti di ricerca alla pratica clinica.
Le nuove ipotesi che vedono la disseminazione delle cellule
tumorali come “evento precoce” non sono ancora totalmente
accettate dalla comunità scientifica internazionale e necessitano di ulteriori approfondimenti e conferme.
Per indubbi motivi etici e per effettuare studi sistematici sui
processi di disseminazione e metastatizzazione è molto importante avere a disposizione modelli animali spontaneamente sviluppanti carcinomi mammari metastatizzanti. Il modello più conosciuto è rappresentato dai topi BALB neuT, transgenici per il gene attivato di ratto HER2/neu, che dalla quarta alla decima settimana di vita sviluppano iperplasia atipica
dell’epitelio dei dotti mammari, dalla undicesima alla quindicesima multipli foci di carcinoma in situ che, confluendo,
dalla sedicesima alla ventiduesima evolvono in carcinomi invasivi. Dalla trentatreesima settimana in poi si osservano anche metastasi polmonari. Si è potuto osservare che fin dalla
settima settimana di vita cellule citocheratina e HER2 positive sono presenti nel midollo osseo e nel sangue. Alcune di tali cellule si ritrovano anche nei capillari polmonari. La disseminazione di cellule neoplastiche sembra essere più pronunciata durante le fasi di iperplasia e di carcinoma in situ che
durante le fasi più avanzate, istologicamente definibili come
carcinomi invasivi. Osservazioni di microscopia elettronica
rivelano inoltre che già nelle prime fasi di iperplasia sono
presenti cellule che superano la membrana basale sconfinando nello stroma. Studi di “Comparative Genomic Hybridization” indicano che le cellule disseminate nel midollo sono
portatrici di mutazioni cromosomiche in gran parte diverse
da quelle rilevabili nei tumori primitivi. Questi sorprendenti
risultati sono stati anche ottenuti tramite le stesse analisi sulle metastasi polmonari. L’insieme di questi dati supporta gli
studi recentemente condotti nell’uomo ed attualmente oggetto di intensa discussione internazionale. Essi infatti suggeriscono che le cellule neoplastiche disseminano in fasi molto
precoci dello sviluppo tumorale ed acquisiscono sotto la
pressione selettiva del nuovo microambiente ulteriori alterazioni geniche che ne facilitano la crescita e quindi la progressione metastatica. La somiglianza nello sviluppo del carcinoma mammario tra questo modello (topi BALB neuT) e
l’uomo consente anche di identificare i geni coinvolti nel
processo di disseminazione e metastatizzazione e quindi di
identificare nuovi bersagli molecolari per terapie immunologiche (vaccini) da associare ai protocolli già in uso. Si è infatti osservato che vaccinazioni a DNA contro il prodotto
(p185) dell’HER2 sono in grado di prevenire e di curare le
fasi iniziali della carcinogenesi mammaria sviluppantesi nei
topi BALB neuT. La reattività immune dipende quasi totalmente dalla produzione di anticorpi. La vaccinazione contro
l’HER2 o prodotti di altri geni coinvolti nel processo di disseminazione potrebbe essere in grado di bloccare o uccidere
le cellule tumorali nella fase di disseminazione e quindi in
una fase di “dormancy” nella quale l’attività proliferativa non
è particolarmente elevata rendendo le stesse cellule non facilmente aggredibili dai comuni protocolli chemioterapici.
PATHOLOGICA 2005;97:169-173
Patologia neoplastica del polmone e della pleura
Moderatore: L. Ruco (Roma)
Aree problematiche e controversie in
diagnostica istopatologica pleuropolmonare
O. Nappi, R. Monaco, A. Boscaino, P. Galloro
U.O. di Anatomia patologica, Azienda Ospedaliera “A. Cardarelli”, Napoli
Alla fine del 2004 è stato pubblicato il volume della WHO sui
Tumori del polmone, pleura, timo e cuore, prodotto da un nutrito panel di esperti internazionali 1.
Come per il passato, anche in questa occasione, per alcuni problemi aperti è stata prospettata una soluzione di compromesso,
mentre per altri si è preferito conservare l’impostazione esistente, non trovandosi un accordo. In questa nuova serie di
Bleu books gli aspetti genetici diventano, inoltre, parte integrante della classificazione dei tumori, in una prospettiva, probabilmente nemmeno troppo lontana, che possano divenire la
base per classificazioni e programmi terapeutici futuri.
L’immunoistochimica può contribuire a risolvere alcuni casi
che presentano una morfologia citoistologica sovrapponibile
ma con una differente implicazione diagnostica e prognostica; appare infatti assolutamente rilevante distinguere il carcinoma squamocellulare a piccole cellule dal carcinoma indifferenziato a piccole cellule e tipizzare con precisione il “carcinoma a cellule chiare”; quest’ultimo, infatti, non è altro che
un pattern di presentazione morfologica per il carcinoma
squamocellulare, l’adenocarcinoma e il carcinoma indifferenziato a grandi cellule.
Per entrambe le situazioni non infrequentemente sono implicati anche problemi differenziali con tumori metastatici e, in
particolare per la seconda, anche mimics benigni.
Immunoistochimicamente il carcinoma squamocellulare del
polmone presenta positività per citocheratina ad alto peso
molecolare, CK 5/6, spesso per CEA, mentre molto raramente esprime TTF-1, il carcinoma indifferenziato a piccole cellule esprime pressoché sempre TTF-1 e, generalmente, i
markers neuroendocrini, in particolare il CD56 con pattern di
membrana;non mancano tuttavia casi in cui sinaptofisina e
cromogranina non sono espressi e nemmeno citocheratine di
alcun genere. Molto variabile l’espressione immunofenotipica degli adenocarcinomi polmonari, prevalendo tuttavia
EMA, CEA e CK 7, con una consistente percentuale di positività anche per TTF-1.
Sul piano pratico appare sempre utile un’attenta valutazione
del materiale disponibile specialmente se molto esiguo, per
evitare sopra o sottovalutazioni; particolarmente rilevante è il
possibile rischio di sopravalutare materiale apparentemente
rappresentativo di carcinoma indifferenziato a piccole cellule 2.
In una prossima revisione della classificazione potrebbe essere utile sottolineare il peggioramento prognostico ormai
sufficientemente consolidato dagli studi esistenti del “pattern
micropapillare” associato con l’adenocarcinoma 3.
Il “carcinoma a grandi cellule” continua ad essere un contenitore di istotipi accomunati dalle dimensioni cellulari ma sicuramente non omogenei sul piano biologico e prognostico.
In particolare, il carcinoma lymphoepithelioma-like appare
sufficientemente caratterizzato come entità autonoma 4, il
carcinoma neuroendocrino a grandi cellule andrebbe ricompreso in una organica rivisitazione classificativa delle neo-
plasie endocrine mentre il fenotipo rabdoide è probabilmente un approdo anche di altri istotipi come effetto di selezione
di cloni più aggressivi.
I carcinomi sarcomatoidi nell’attuale classificazione acquistano una maggiore dignità tassonomica e vengono presi in
considerazione alcuni patterns particolarmente insidiosi sul
piano diagnostico quali l’angiosarcomatoide e l’infiammatorio 5-8. La distinzione semplificata in carcinoma monofasico e
bifasico è invece al momento “non raccomandata”, anche se,
a nostro giudizio, potrebbe essere la più idonea a supportare
in termini classificativi la teoria unitaria ormai consolidata
della genesi monoclonale di queste neoplasie 9 10.
Subsets di carcinomi indifferenziati a piccole cellule esprimono CD117 e subsets di “carcinomi non a piccole cellule”
esprimono EGFR/HER1 ma la semplice espressione immunoistochimica di tali marcatori non appare allo stato un elemento predittivo convincente di risposta a target-therapy.
Appare rilevante la presenza classificativa consolidata di sarcomi sinoviali di ogni tipo sia a livello polmonare che a livello pleurico, oltre che mediastinico, con notevoli problemi
diagnostici e terapeutici.
Per quanto riguarda le neoplasie pleuriche, a parte la ben nota e usuale diagnostica differenziale immunoistochimica, va
sempre sottolineato di valutare con prudenza la positività alle citocheratine nel mesotelioma desmoplastico. Il concetto
di mesotelioma maligno localizzato rappresenta un’area di
approfondimento e ricerca.
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170
Cancro polmonare: basi molecolari
A. Marchetti
Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Università di
Chieti; Aging Research Center (CeSI), “G. d’Annunzio”
University Foundation, Chieti
Nei paesi industrializzati il cancro del polmone rappresenta
la più frequente causa di morte per patologia neoplastica in
entrambi i sessi. In Italia si registrano annualmente circa
35.000 nuovi casi con una sopravvivenza globale a 5 anni
dalla diagnosi del 13%, percentuale rimasta immodificata nel
corso degli ultimi 20 anni. Il fumo di tabacco costituisce il
più importante fattore di rischio e si ritiene sia responsabile
dell’85% circa dei casi di carcinoma polmonare. Altri fattori
di rischio sono rappresentati dall’esposizione a cancerogeni
in ambito lavorativo, dall’inquinamento ambientale e dalla
predisposizione genetica. L’insorgenza di neoplasie polmonari in individui non fumatori (in Italia 10-15% dei casi) e i
risultati ottenuti in studi di segregazione in particolari famiglie a più alta incidenza di questa patologia hanno suggerito
che fattori genetici di suscettibilità possano rendere i soggetti più sensibili all’azione di cancerogeni inalati. Si tratta di
polimorfismi metabolici, fra cui quelli a carico dell’enzima
citocromo P450, dell’enzima glutathione S-transferasi e polimorfismi in geni deputati ai processi di riparazione del DNA,
includenti quelli nel gene p53. Di particolare interesse sono
risultati anche i polimorfismi a carico del gene mieloperossidasi e idrolasi ipossidica microsomale. L’argomento risulta
tuttavia particolarmente complesso considerando quanti sono
gli enzimi, attivanti o detossificanti, coinvolti con il metabolismo di potenziali cancerogeni inalati, le loro variazioni di
espressione, la complessità dell’esposizione ai cancerogeni
presenti nel fumo di tabacco o ambientali e l’esistenza di svariate forme alleliche per i loci polimorfici.
Il carcinoma polmonare è un processo multifasico caratterizzato dall’accumulo di alterazioni genetiche includenti mutazioni di sequenza, perdita dello stato di eterozigosità allelica
(delezioni), amplificazioni. Numerose evidenze sperimentali
suggeriscono che anche fenomeni epigenetici (alterazioni
della metilazione del DNA) o variazioni dell’espressione in
assenza di lesioni genomiche possano contribuire al processo
di cancerogenesi polmonare. Studi sulla funzione dei geni
coinvolti, indicano che un ruolo chiave è svolto da molecole
implicate nella trasduzione del segnale, nel controllo del ciclo cellulare e del processo apoptotico, funzioni essenziali
per i processi di proliferazione e differenziazione. Un punto
di controllo estremamente importante ai fini del processo oncogenetico, è quello che si realizza in fase G1 avanzata, il cosiddetto “punto di restrizione”. Alterazioni di proteine deputate alla regolazione del punto di restrizione, in particolare la
perdita di funzione delle vie p53-p21WAF1 e Rb-ciclina D/E p16 (CDKN2A) sembrano rappresentare fenomeni cruciali
della cancerogenesi polmonare. Ancora in merito al processo
di divisione cellulare, è emersa l’importanza dell’alterazione
dell’espressione e della funzione dell’enzima telomerasi nella genesi e nella progressione del cancro polmonare. Analogamente, notevole importanza nella patogenesi del cancro
polmonare sembrano avere proteine interessate alla trasmissione intracellulare del segnale, sia proteine transmembrana
(EGFR, cErbB2), sia molecole intracitoplasmatiche che funzionano da interruttori del segnale. Lo sviluppo, in questi ultimi anni, di nanotecnologie ad alta processività (microarrays) per l’analisi simultanea dell’espressione di migliaia di
geni e la possibilità di correlare i profili di espressione geni-
RELAZIONI
ca tumorale con numerosi parametri clinico-patologici mediante innovativi metodi biostatistici stanno fornendo nuovi,
importanti contributi per una più profonda comprensione del
processo neoplastico. Nell’insieme tutte queste acquisizioni,
oltre a far luce sulla complessità degli eventi coinvolti nella
cancerogenesi polmonare e a confermare o meno in termini
biologici l’esistenza di specifiche entità morfologiche, possono fornire utili elementi per la pratica clinica.
Vari aspetti clinici ancora molto critici potrebbero beneficiare delle nuove conoscenze bio-molecolari: a) la diagnosi di
carcinoma polmonare è da considerarsi estremamente tardiva: una diagnosi precoce potrebbe permettere di aumentare il
numero dei pazienti operabili; b) i pazienti operati radicalmente sono ad alto rischio di recidiva ma non sono disponibili validi mezzi per individuare quelli a rischio; c) i trattamenti chemioterapici classici sono scarsamente attivi, i pazienti potrebbero trarre beneficio da nuove strategie terapeutiche mirate a specifici bersagli molecolari.
La prevenzione del cancro polmonare mediante screening
diagnostici, radiologici e citologici, si è dimostrata tutt’altro
che semplice. L’analisi molecolare dell’espettorato e/o del
condensato di esalazione potrebbe, assieme alla diagnostica
per immagini (TAC spirale) e alla tecnica broncoscopia a
fluorescenza, risultare utile nei futuri programmi di screening
diagnostici. A questo proposito di particolare interesse risulta attualmente lo studio di fenomeni epigenetici, in particolare del processo di metilazione di geni coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare (p16 (CDKN2A), PAX5α, PAX5β,
CHFR) nella riparazione del DNA (MGMT), nel processo
apoptotico (DAPK, Caspase-8, FAS, TRAILR1), nella trasduzione del segnale ras-mediata (RASSF1A, NORE1A), e
nel processo di invasione (E-cadherin, H-cadherin, TIMP3,
LAMA3, LAMB3, LAMC2).
Tra i marcatori prognostici finora emersi da studi traslazionali, possono essere considerati potenzialmente utili le mutazioni di K-ras negli adenocarcinomi, le mutazioni e/o l’alterazione di espressione di p53, l’espressione del gene hTERT
e/o l’attività telomerasica. Le analisi condotte con tecnologie
basate sui microarrays hanno permesso di identificare profili
di espressione genica significativamente correlati con la prognosi. I risultati prodotti devono essere considerati promettenti, ma preliminari. Solo studi su ampie casistiche che possano permettere di individuare con sufficiente potenza statistica set di geni correlati con la prognosi da cui ottenere indici di rischio da validare successivamente su casistiche indipendenti, potranno fornire risultati utili nella pratica clinica.
La rapida progressione delle conoscenze biomolecolari sui
meccanismi di cancerogenesi bronchiale ha permesso anche
lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici mirati, rivolti cioè a
colpire specifiche molecole o pathways molecolari che rappresentano eventi cruciali per la crescita neoplastica. Fra
questi, di particolare importanza recettori di membrana quali
EGFR e ERB-2, il gene K-ras, la cascata di eventi coinvolta
con l’angiogenesi, l’attivazione del processo apoptotico e del
ciclo cellulare tramite chinasi ciclino-dipendenti. La speranza per il futuro è che l’avvento delle tecnologie genomiche ad
alta processività possa favorire lo sviluppo di trattamenti individualizzati.
PATOLOGIA NEOPLASTICA DEL POLMONE E DELLA PLEURA
Pleura: basi molecolari
S. Bosari, M. Falleni, C. Pellegrini, S. Romagnoli, L.
Santambrogio*, M. Nosotti*, G. Coggi
Department of Medicine Surgery and Dentistry, Division of
Pathology, University of Milan, A.O. “S. Paolo” and Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico “Mangiagalli e
Regina Elena”, Milano, Italy; * Division of Thoracic Surgery, Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico
“Mangiagalli e Regina Elena”, University of Milano, Italy
Malignant mesothelioma (MM) is a highly lethal human malignancy of mesothelial cells, highly refractory to current
multimodal therapies, with increasing worldwide incidence.
Technological advances in molecular biology and genetics
can provide data useful to cancer prevention and treatment.
In particular, identification of specific molecular changes in
neoplastic mesothelial cells could provide new insights in the
mechanisms of MM pathogenesis with the aim to improve
the accuracy of MM classification and predict prognosis.
Furthermore, the delineation of altered pathways and their
possible pharmacological reversal, constitutes the most
promising goal to treat MM and overcome its unresponsiveness to therapy 1 2. MM is associated with prolonged environmental carcinogens exposure, particularly asbestos, with
SV40 virus infection and with somatic genetic alterations; in
about 30-40% of cases, risk factors remain unknown, with
other carcinogens and mechanisms probably implicated in
mesothelial cell transformation. Multiple molecular defects
involved in DNA repair capacity, cell growth and death control, invasiveness, angiogenesis, and immune surveillance
have been described in MMs. Different asbestos fibers can
also activate different carcinogenic pathways. Specifically,
exposure to crocidolite asbestos fibers has been shown to induce marked and persistent DNA damage, EGFR phosphorylation in rat pleural mesothelial cells and disregulation of
ERK1/2 and Akt pathways, with up-regulation of genes such
as fra-1, in turn linked to cd44 and c-met gene expression 3 4.
Conversely, chrysotile fibers exposure is associated to multiple deletions and down-regulation of p21 and integrin receptor associated gene BigH3 5. Another possible mechanism in
the pathogenicity of asbestos fibers could be lipid peroxidation, mediated by reactive oxygen species, produced in inflammatory conditions. Cyclooxygenase-2 (COX-2), involved in eicosanoid biosyntesis, is overexpressed in human
MM and related to poor patients’ outcome 6. Recent data document that mesothelial cells are the most susceptible human
cells to the infection by SV40, an oncogenic DNA virus.
SV40 causes mesothelial cell transformation, probably by
aberrant methylation of several genes like the tumor suppressor gene RASSF1A 7. In addition SV40 can improve
mesothelial cell survival by Hepatocyte Growth Factor
(HGF) receptor activation 8. SV40 and asbestos are considered co-carcinogens acting sinergically in mesothelial cell
malignant transformation. Characteristically, p53, Rb, Ras,
WT1, DCC or APC gene alterations found in the majority of
human cancers, are uncommon in MM. Conversely, NF2
gene mutations are frequently reported and homozygous
deletion of the 9p21 locus within a cluster of genes comprising CDKN2A, with loss of p16INK4A and or p14ARF expression, seems to be the most common molecular defect in MM
9
. This deletion results in defects of both cell cycle and cell
death control probably by functional inactivation of p53 and
inhibition of Rb phosphorilation. Identification of defects involved in MM resistence to apoptosis is becoming crucial in
171
the control of unresponsiveness to therapy. Multiple gene expression alterations have been documented in apoptosis.
Specifically, FLIP, a caspase – 8 inhibitor, is overexpressed
and constitutively activated in MM cells 10. IAP-1 and Survivin, members of the IAP family (with Bcl-2 one of the most
important regulators of apoptosis) are overexpressed in MM
11 12
. Most of these data, obtained with single gene evaluation
and simple ratios of gene expression levels using as few as
four to six genes, with Western Blot, immunoblotting and/or
quantitative real time RT-PCR, have been documented to be
extremely useful in reaching an accurate diagnosis of cancer
and likely they will be useful for additional clinical application. However, the evaluation of the expression of proapoptotic and antiapoptotic proteins of the Bcl-2 family, like Bcl2, Bcl-xL, Bax, requires the understanding of entire complex
network of pathways leading to apoptosis. New genomic
technologies provide new data related to the molecular profiling of gene expression of human MM. High-Density DNA
microarrays and microfluidic cards are currently the most
useful techniques to identify genes differentially expressed in
MMs. Our group investigated the apoptosis pathway with microfluidic cards, profiling 88 genes and comparing MMs to
normal pleuras. Results show that genes belonging to the IAP
and Bcl-2 families are differentially expressed; furthermore
we observed differences in the expression of some caspases,
TNF receptors and their ligands, therefore delineating a complex patterns of apoptosis-related alterations in this disease.
Future challenges will include a thorough understanding of
the significance of the gene expression patterns and the application of this knowledge towards the therapy of MM patients.
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172
La targeted therapy nei tumori polmonari
non a piccole cellule: recenti acquisizioni e
prospettive future
P.F. Conte, F. Barbieri
Dipartimento Oncologia, Ematologia e Pneumologia, Università di Modena e Reggio Emilia, Modena, Italia
Le neoplasie polmonari sono la principale causa di mortalità
per tumore nel mondo, con 1,2 milioni di nuovi casi per anno
e oltre 1 milione di morti. Il carcinoma polmonare non a piccole cellule (CPNPC) rappresenta oltre l’80% di tutti i tumori
polmonari. La chirurgia rimane l’unico presidio dotato di capacità curative (a parte rari casi di radioterapia) ma solo il 1520% dei casi può giovarsi di questa modalità ma anche in questi casi un certo numero ricade a varia distanza di tempo limitando la sopravvivenza a 5 anni dei casi operati al 40%. Nuove speranze sembrano derivare dall’uso sequenziale di chirurgia e chemioterapia pre- e/o post-operatoria ma nella maggior
parte dei casi, soprattutto per lo stadio avanzato alla diagnosi,
la terapia risulta provvista solo di possibilità palliative con un
modesto 15% di sopravvivenza a 5 anni considerando tutti gli
stadi. Gli sviluppi sulle conoscenze della biologia tumorali e
sui meccanismi di carcinogenesi hanno consentito di individuare nuovi bersagli terapeutici per la terapia del CPNPC; queste cosiddette “targeted therapies” sono concepite quindi per
interferire con vie biologiche anomale durante i vari stadi della proliferazione tumorale. I numerosi contributi biologici e
clinici sin qui completati hanno fornito nuove ed importanti
informazioni sulle proprietà antineoplastiche di questi nuovi
agenti così come sulle loro limitazioni e, soprattutto, sulla notevole complessità delle interconnessioni biologiche esistenti a
livello delle cellule neoplastiche.
I primi e più conosciuti esponenti di questa nuova categoria
di farmaci sono gli inibitori (intra- ed extracellulari) dei recettori per ERBB1 (EGF) e ERBB2 seguiti dai farmaci antiangiogenetici.
EGF-1. Cetuximab (inibitore recettoriale), Gefitinib ed Erlotinib (inibitori del EGFR-TK) appartengono a questa categoria. Cetuximab (Erbitux, IMC-225) è un anticorpo chimerico
anti-EGFR che ha dimostrato notevole attività nei tumori del
colon e cervicofaciali, sia da solo che associato a chemio- e/o
radioterapia. I dati disponibili sui CPNPC in associazione a
chemioterapia sia in I che II linea, riferiti ad un numero non
elevato di casi, mostrano una buona tollerabilità ma attività
limitata. Gefitinib (ZD1839, Iressa) ed Erlotinib (OSI 774,
Tarceva), entrambi derivati quinazolinici, sono inibitori competitivi per l’ATP a livello del dominio intracellulare del recettore per l’EGFR. Sulla base degli studi di fase II 1 2, hanno
dimostrato moderata attività nei CPNPC protrattati ma notevole efficacia nel controllo dei sintomi, soprattutto negli istotipi adenocarcinoma e bronchioloalveolare; nessuno dei 2
farmaci si è rivelato efficace in abbinamento con chemioterapia (studi INTACT 1 e 2 per gefitinib, TALENT e TRIBUTE per Erlotinib), in ragione principalmente di un effetto antagonista nei confronti dei chemioterapici 3 4. Mentre Erlotinib, però, ha dimostrato di ridurre in modo significativo la
mortalità nell’ambito di tre studi clinici che ne hanno motivato il via all’impiego clinico 5, ciò non si è registrato per Gefitinib, tanto in questi studi quanto nel più recente studio
ISEL. Molti quesiti rimangono peraltro ancora aperti, come,
ad es, il significato delle mutazioni a carico del dominio TK,
la durata ottimale della terapia, l’insorgenza di resistenza e la
combinazione di farmaci a bersaglio molecolare tra loro e
con chemioterapia o radioterapia.
RELAZIONI
La precisazione delle strette interconnessioni tra EGFRs e
mTOR e tra EGFRs e recettori estrogenici sembra fornire
nuove e più solide basi per l’utilizzo combinato di questi
nuovi agenti antitumorali. mTOR rappresenta infatti un momento chiave nel trasferimento di segnale tra ERB, processo
traslazionale e crescita cellulare attraverso la via PI3K-AKT
ma è altresì in grado di agire indipendentemente: su questi
presupposti si basa l’impiego degli analoghi della rapamicina già in corso di studio in diverse neoplasie. Analogamente
sono state documentate interazioni a diversi livelli tra recettori estrogenici e EGFR che sembrano fornire un razionale
per l’impiego combinato di inibitori di EGFR e antiaromatasici o antiestrogeni non solo nel carcinoma mammario ma anche nel CPNPC 6. È stato altresì notato che soggetti con mutazione a carico della TK avevano una migliore probabilità di
risposta agli inibitori dell’EGFR 7 8, anche se un certo numero di risposte si registra in pazienti senza mutazione: ciò si
verifica probabilmente perché i soggetti con mutazione attivano preferenzialmente le vie AKT e STAT e quindi il blocco con TKI induce apoptosi. Un altro aspetto messo in luce
di recente è la comparsa di resistenza agli inibitori, probabilmente in relazione alla comparsa di nuove mutazioni somatiche o ad incrementata attività di K-ras 9, analogamente a
quanto già descritto per la CML.
HER-2. Nel CPNPC l’espressione dell’ERBB2 (HER-2) è
variabile a seconda dell’istologia ma in ogni caso bassa sia in
IHC che in FISH (positività 3+ in meno del 5%); il significato prognostico di questo dato è tuttora incerto. Il Trastuzumab (Herceptin), anticorpo monoclonale umanizzato in grado di competere per il recettore HER-2 e dotato di notevole
attività nel carcinoma mammario, è risultato, nell’unico trial
di fase II completato, completamente inattivo nel CPNPC 10.
Agenti anti-angiogenici. La presenza di livelli elevate di
VEGF sulle cellule e nel siero di diversi pazienti con CPNPC
ha costituito il razionale per l’utilizzo di Bevacizumab nel
CPNPC. Sono stati recentemente comunicati i risultati di uno
studio di confronto tra carboplatino/paclitaxel e la medesima
combinazione + bevacizumab in pazienti con CPNPC nonsquamoso con risultati incoraggianti sia in termini di risposta
che di sopravvivenza: in quest’ultimo gruppo è stata peraltro
evidenziata una maggiore incidenza di ipertensione, proteinuria, emoftoe e morti legate al trattamento 11. Meritano menzione infine i risultati della combinazione tra gefitinib e bevacizumab, riportati da Herbst et al. 12, che sembrano mostrare come il blocco combinato dell’angiogenesi risulti promettente sia in termini di risposte che di tollerabilità.
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PATHOLOGICA 2005;97:174-175
Patologia gastro-intestinale
Moderatore: E. Bucciarelli (Perugia)
Lesioni infiammatorie e metaplastiche alla
giunzione esofago-gastrica
R. Fiocca, L. Mastracci, P. Spaggiari, Y. Musizzano, P.
Zentilin*, P. Dulbecco*, V. Savarino*
Anatomia Patologica e * Gastroenterologia, Università di
Genova ed Ospedale “S. Martino”, Genova
La malattia da reflusso gastro-esofageo (GERD = GastroEsophageal Reflux Disease) è causata dal refluire ricorrente
e patologico del contenuto gastrico in esofago e si accompagna a sintomi sia digestivi che extradigestivi. Nonostante che
la sua prevalenza sia in costante aumento nei paesi occidentali (si calcola che circa il 10-20% della popolazione europea
e nord americana presenti sintomi almeno settimanali della
malattia), non è stato definito a tutt’oggi un gold standard
diagnostico. La diagnosi si basa attualmente sulla valutazione dei sintomi, sul riconoscimento di lesioni endoscopiche,
sulla pHmetria esofagea delle 24 h e sulla risposta ai farmaci inibitori della pompa protonica. È peraltro noto che meno
della metà dei pazienti con sintomi tipici presenta un’esofagite macroscopica (ERD = Erosive Reflux Disease) 1 mentre
la maggior parte di essi manca di lesioni endoscopiche
(NERD = Non Erosive Reflux Disease) e non infrequente è
la negatività anche dei dati pH-metrici (FH = Functional
Heartburn). Per quanto sia nota da tempo la presenza di lesioni infiammatorie e metaplastiche a livello del 3° esofageo
inferiore e della giunzione esofago-gastrica 2, la pratica attuale restringe l’uso dell’istologia alla diagnosi dell’esofago di
Barrett e delle sue complicanze displastiche e neoplastiche 3.
Ciò è legato alla vistosa eterogeneità dei risultati sinora pubblicati sulle lesioni dell’epitelio squamoso che, a sua volta, è
conseguenza della mancanza in molti di tali studi di gruppi di
controllo e/o di metodologie adeguate.
Questo articolo prende in considerazione due aspetti della
diagnosi istologica della GERD:
1. il significato diagnostico delle lesioni dell’epitelio squamoso;
2. le malattie associate alla metaplasia intestinale alla giunzione esofago-gastrica.
Significato diagnostico delle lesioni dell’epitelio squamoso
I dati qui riportati si basano sullo studio di 119 pazienti
GERD e di 20 controlli 4. Tutti sono stati sottoposti ad
un’accurata analisi dei sintomi, ad esofago-gastroscopia
con biopsie a 4 cm, a 2 cm ed alla linea Z ed a pHmetria delle 24h. Sulla base del quadro clinico i pazienti sono stati divisi in 3 gruppi: con esofagite endoscopica (ERD), con sintomi e pHmetria patologica ma senza lesioni endoscopiche
(NERD), con sintomi ma con endoscopia e pHmetria normali (FH). I controlli non presentavano sintomi GERD né
alterazioni endoscopiche o pHmetriche. In tutte le sedi biopsiate sono stati valutati l’iperplasia dello strato basale,
l’allungamento delle papille coriali, la presenza di granulociti eosinofili e neutrofili intraepiteliali, di necrosi ed erosioni e la dilatazione degli spazi intercellulari 5; la severità
di ciascuna lesione è stata graduata con uno score compreso da 0 a 2, costruendo poi uno score complessivo di tutte
le lesioni. I dati complessivi sono riportati in Tabella I. L’analisi dei reperti nelle singole sedi biopsiate (3.336 lesioni
graduate da 2 osservatori indipendenti) ha consentito di
trarre le seguenti conclusioni:
• i soggetti con GERD presentano lesioni istologiche che sono invece rare nei controlli;
• le biopsie sulla linea Z aumentano grandemente la sensibilità dell’istologia ma ne riducono la specificità;
• dato che lesioni di grado lieve sono presenti anche nei controlli (soprattutto sulla linea Z) è necessario introdurre un
cut off (score > 2) per distinguere efficacemente i pazienti
dai controlli;
• le biopsie a 2 cm e sulla linea Z forniscono quasi tutte le
informazioni e quindi quelle a 4 cm non sono necessarie;
• la riproducibilità interosservatore della graduazione istologica è elevata (91%, K = 0,89);
• vi è correlazione tra i dati istologici e pH-metrici.
Tab. I. Prevalenza dell’esofagite microscopica in soggetti con
GERD ed in controlli, utilizzando un valore di cut-off (> 2).
Gruppo
N.
di casi
ERD
NERD
FH
Tutti
Controlli
48
59
12
119
20
Casi con
score > 2 (N.)
46
47
7
100
3
Casi con
score > 2 (%)
96%
80%
58%
84%
15%
Sulla base di tali elementi è possibile affermare che l’istologia costituisce un utile strumento diagnostico nella malattia
da reflusso ed in particolare nelle forme non erosive. Dato
che attualmente non esiste un parametro obiettivo per valutare la risposta alla terapia nelle NERD, l’istologia può essere
proposta a tale scopo nell’ambito di trials terapeutici 6.
Malattie associate alla metaplasia intestinale alla giunzione
esofago-gastrica
La metaplasia intestinale alla giunzione esofago-gastrica
(MIG) costituisce un reperto abbastanza frequente (15-20%
di endoscopie non selezionate), il cui rischio di cancro sembra essere assai inferiore a quello associato all’esofago di
Barrett 7. Il significato della sua presenza su biopsie provenienti da una linea Z endoscopicamente regolare è stato ampiamente dibattuto, considerandola alcuni l’estensione a livello cardiale di una gastrite atrofico-metaplastica, altri invece l’espressione di una forma iniziale di Barrett conseguente
alla malattia da reflusso (Ultra-short Barrett). Nell’ipotesi
che le lesioni gastriche e/o esofagee associate alla MIG possano fornire indicazioni sul significato biologico della MIG,
abbiamo studiato una serie continua di 485 soggetti non selezionati, sottoposti ad endoscopia per varie motivazioni e tutti provvisti di biopsie esofagee, della linea Z e gastriche (antro + corpo). Si è osservata MIG in 91/485 casi (18,8%), in
11 casi la MI era di tipo completo, in 77 di tipo incompleto,
in 3 mista. L’età mediana dei casi con MIG (59,5) era superiore a quella dei controlli (53,3, p = 0,0003). La prevalenza
di lesioni associate ai casi rispettivamente con e senza MIG
PATOLOGIA GASTRO-INTESTINALE
175
Tab. II. Prevalenza di lesioni gastriche ed esofagee in pazienti con e senza MIG.
Lesioni associate
Solo lesioni esofagee
Solo lesioni gastriche
Lesioni esofagee + gastriche
Esofago e stomaco normali
Prevalenza
in casi con MIG
46,1%
13,2%
36,3%
4,4%
(42/91)
(12/91)
(33/91)
(4/91)
era la seguente: esofagite microscopica 50,5% vs. 58,6%,
esofago di Barrett 31,9% vs. 0%, gastrite da H. pylori 22,0%
vs. 23,9%, metaplasia intestinale dello stomaco 27,5% vs.
17,3% (p = 0,037), assenza di lesioni gastriche ed esofagee
4,4% vs. 24,1% (la somma delle lesioni in ciascun gruppo eccede il 100% per la presenza di lesioni multiple in alcuni casi). La Tabella II mostra la distribuzione del totale lesioni associate, raggruppate per organo.
Tali dati suggeriscono che la MIG possa essere espressione a
livello giunzionale sia di una malattia da reflusso (più frequentemente) che di una gastrite che di entrambe. La bassissima prevalenza di reperti normali sia esofagei che gastrici in
casi con MIG (ma non nei controlli) dimostra che la MIG non
rappresenta un’entità isolata ma che riflette una storia di malattia esofagea o gastrica.
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17,2% (68/394)
23,9% (94/394)
24,1% (95/394)
0,053
0,93
0,017
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PATHOLOGICA 2005;97:176-179
Transizione pre-cancerosi – cancro
Moderatore: C. Clemente (Milano)
Agenti trasformanti e basi molecolari della
carcinogenesi
M. Roncalli
Università di Milano, Istituto Clinico “Humanitas”
È noto come svariati siano gli agenti etiologici implicati nella
carcinogenesi umana. Tra questi importanza rilevante assumono gli agenti virali (quali HPV, HBV, EBV, HSV8), chimici (agenti alchilanti, attivatori metabolici, idrocarburi aromatici contenuti nel fumo di sigaretta, azocoloranti, prodotti naturali tipo aflatossina B1 e composti chimici tipo cloruro di
vinile) e radianti (ultravioletti e radiazioni ionizzanti). Solo in
alcuni casi stati ipotizzati e provati meccanismi molecolari
più o meno complessi che legano un determinato carcinogeno
al processo di trasformazione molecolare. Ad esempio l’aflatossina B1 è in grado di indurre una specifica mutazione al codon 249 di p53 intervenendo nella carcinogenesi epatica,
mentre i prodotti proteici E6 ed E7 dei virus HPV 16 e 18, legando e inattivando due oncosoppressori critici come p53 e
Rb1, inducono il processo di trasformazione cervicale mentre
le radiazioni ultraviolette, determinando mutazioni di p53 e kras, intervengono nel processo di cancerogenesi cutanea.
Le basi molecolari della sequenza carcinogenetica sono assai
complesse e l’innesco del processo deve essere seguito dalla
capacità delle cellule alterate di fissare il danno e di trasmetterlo alla progenie. In definitiva il processo di trasformazione (e di progressione) neoplastica è costituito da una serie di
alterazioni molecolari di geni strategici, noti e ignoti, nella
regolazione agonista e antagonista della crescita e differenziazione cellulare, dell’apoptosi, dell’adesione cellulare, del
controllo dell’integrità e del riparo del DNA, ecc. Ciò è stato
ben documentato nel modello di cancerogenesi colorettale in
cui alterazioni di tipo genetico ed epigenetico (non legate
cioè a modificazioni strutturali del DNA) sequenziali ed additive, accompagnano la sequenza morfologica cellula normale-adenoma/displasia-cancro. Emerge che vi sono diverse
categorie di tumori (la maggior parte dei tumori del coloretto, mammella, fegato, polmone, testa-collo) caratterizzati da
elevata instabilità cromosomica (pathway CIN, vale a dire
con importanti alterazioni cromosomiche rappresentate da
guadagno o perdita di frammenti cromosomici, da perdita di
eterozigosità e in definitiva da aneuploidia), che accelera la
probabilità che si realizzino mutazioni in geni critici a carico
stessa cellula/clone cellulare. Vi sono altresì categorie di neoplasie caratterizzate, all’opposto, da bassa instabilità cromosomica (tumori in genere diploidi) come le neoplasie colorettali con pathway MSI (alta instabilità microsatellitare), in cui
il processo carcinogenetico viene determinato ad esempio dal
difetto di geni di riparo del DNA. Vi è infine un terzo gruppo di neoplasie, quelle con fenotipo cosiddetto metilatore, in
cui diversi geni vengono silenziati epigeneticamente (p16,
p14, ecc.), contribuendo alla tumorigenesi.
È oggi importante stabilire se queste alterazioni molecolari si
realizzano nel corso della progressione tumorale o la anticipano, intervenendo nelle fasi iniziali del processo di trasformazione. Alcune evidenze suggeriscono che alterazioni tipo
CIN possono essere già documentabili in condizioni di displasia (ad es displasie colorettali o del cavo orale con evi-
denza di aneuploidia). La sistematizzazione di queste informazioni dovrebbe consentire di chiarire le basi molecolari
delle stesse lesioni displastiche che noi classifichiamo
morfologicamente in 2/3 categorie (basso-alto grado; lievemoderata e severa) ma che verosimilmente sono tarate da elevata eterogeneità biologica e conseguentemente evolutiva (e
di risposta terapeutica), nell’ambito delle stesse subcategorie
displastiche.
Le basi biologiche della CIN sono attualmente oggetto di studi intensi che hanno identificato alcuni geni critici coinvolti ad
es. nella segregazione cromosomica, nel controllo di checkpoints cellulari della mitosi e nel riparo di DNA (MAD2,
BUB1, BRCA2, CDC4) che, se alterati, sono in grado di indurre rapidamente fenomeni di aneuploidia cellulare. Ancora
più interessante rilevare che anche alcuni agenti virali (JC,
HBV, HPV e HTLV-1) a loro volta sono in grado di indurre
aneuploidia interferendo verosimilmente con la regolazione
dei geni sopraddetti. Sta emergendo il concetto di neoplasie
immortali, contrapposte alle mortali, ovvero con la capacità di
attecchire rapidamente in coltura, in quanto fortemente aneuploidi e biologicamente più aggressive. A sua volta questa ipotesi richiama l’origine tumorale delle cosiddette neoplasie immortali da cellule differenziate (ma divenute aneuploidi) contrapposta all’origine di neoplasie mortali da stem cells (normoploidi). Queste ipotesi hanno ovvie implicazioni anche per
quanto attiene la identificazione e definizione della eterogenità
delle lesioni displastiche (displasie mortali, normoploidi e displasie immortali, aneuploidi) nonché per la comprensione
biologica della cosiddetta “field cancerization”.
In questo contesto verranno infine richiamati anche alcuni
aspetti eziopatogenetici e molecolari della cancerogenesi
epatica laddove alla relativa complessità delle pathways
coinvolte nel carcinoma epatico (dovuta anche alla multifattorialità degli agenti etiologici) si contrappone la carenza relativa di informazioni per quanto attiene le basi morfologiche
e molecolari della transizione precancerosi-cancro.
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Accumulation of genetic changes during the
development and progression of bladder
cancer
A.M. Cianciulli, R. Merola, E. Vico, G. Orlandi, S. Sentinelli, M. Gallucci
“Regina Elena” Cancer Institute, Rome, Italy
Bladder cancer may be even more of a public health issue
when one considers its true prevalence and issues of survival.
Most bladder cancers present themselves as “superficial” disease and are likely to recur in 50% to 75% of cases 1. Thus,
the ongoing prevalence of bladder cancer far exceeds its primary incidence. Moreover, although only 15% to 25% of
these cases are likely to progress, an additional 25% of cases
are “invasive” at their initial presentation 2. A staging schema,
based on the progressive depth of the tumor’s involvement of
the bladder wall, has been used to assign treatment and to assess outcome and prognosis 3 4. Analysis of the prognosis of
various forms of bladder cancer suggests, however, that this
staging schema may not adequately reflect the true biological
nature of different forms of the disease. Consequently we
need new molecular markers to identify and monitor those
patients presenting with superficial tumors who are likely to
develop recurrent or progressive disease and to provide additional important informations in patients with muscle invasive carcinomas concerning their metastatic potential and response to adjuvant regimens.Recent studies have identified
distinct genetic changes in association with these neoplastic
diatheses, thereby supporting the concept of disparate, but interrelated, pathways of tumor development, as illustrated in
Figure 1. For example, tumors with changes in chromosome
9 appear to manifest a proliferative diathesis with little likelihood of progression. In contrast, tumors with changes in
chromosome 17p (with enhanced of p53) generally appear as
high-grade lesions and as flat carcinoma in situ 5.
177
Fig. 1.
On this basis, in our previous study, we examined, by fluorescence in situ hybridization method, 70 different stages of
bladder primary tumors for chromosomes 1, 7, 9, 17 and
ploidy evaluated by flow cytometry (FCM). The results were
correlated, after a mean time of follow-up, with ploidy,
histopathological characteristics, recurrence and progression.
The frequency of chromosome 1 and 9 aberrations did not
show significative differences in diploid and aneuploid tumors in different stage and grade. On the contrary, the chromosome 7 and 17 aneusomy showed greater differences between T1 and T2-3 tumors than between stage Ta and T1. In
our investigation an increasing number of aberrations was
observed in all chromosomes examined in tumors of patients
which afterwards underwent cystectomy and/or had recurrent
tumors 6.
Another clinically important feature of the urinary bladder
cancer is multifocality. Urothelial carcinomas are commonly
accompanied by surrounding abnormal urothelium to be
found near the base of 25% of primary urothelial cell carcinomas of the bladder and ranging from dysplasia to carcinoma in situ. These findings may support the “field defect” theory: the occurrence of many genetic alterations, independent
of the presence of transformed bladder cells, could be a consequence of continued exposure to both exogenous and endogenous carcinogenic compounds excreted in urine 7. The
alternative theory postulates a clonal development of multifocal bladder cancer 8. Identical genetic alterations in later
stages of tumor development could reflect monoclonal occurrence of multiple tumors, as well as dominant overgrowth
of malignant tumor cell clones. At present, one cannot predict
among patients with non invasive tumors who will experience progression and/or recurrence. In fact, the clinical
course in urinary superficial bladder cancer is difficult or impossible to predict when based on conventional disease parameters. A reasonable hypothesis is that the genetic aberrations acquired by the tumor cells may also hold the key to
more reliable prognostication. Genetic studies of bladder
cancer have focused either on superficial papillary cancers or
on invasive primary tumors and their metastatic evolution,
but have not concentrated on the sequence of genetic defects
associated with evolution from “normal appearing urothelium” to superficial cancer. We investigated chromosome 1, 7,
9, 17 aneusomy in 25 superficial papillary carcinomas and in
tissue samples taken from sites of macroscopically uninvolved urothelium surrounding the tumors, as well as from
distant sites, using the fluorescence in situ hybridization
method (FISH) in order to determine whether genetic aberra-
RELAZIONI
178
tions found in bladder cancers are also present in the morphologically normal epithelium of the same patient 9. The results demonstrated a close genetic relationship between all
examined tumors and normal-appearing mucosa. Numerical
aberrations of chromosomes 1, 7, 9 and 17 were found to exhibit similar patterns in all analyzed specimens, although
with different frequencies. On the basis of histological evaluation, we divided the viciniore mucosa in morphological
normal mucosa and pathological mucosa. The comparison
between tumors and pathological non-neoplasia surrounding
mucosa aberrations showed statistical differences only in
chromosomes 1 and 17, while for chromosomes 7 and 9 statistical evaluation was not significant. These data suggest
that general genetic instability already present in the entire
transitional epithelium at the time of tumor occurrence is a
reason for multifocality. Moreover, such an approach can
identify genetic alterations evident in early clonal expansion
of preneoplastic changes that could serve as markers of clinically occult neoplasia: most investigated bladder carcinomas
and their adjacent, uninvolved tissues are characterized by
distinctive, partially overlapping patterns of genetic instability. Aneusomy of evaluated chromosomes, especially of
chromosomes 7 and 9, may represent an intermediate biomarker of bladder tumorigenesis. This could be potentially
useful in identifying patients prone to metachronous or synchronous tumors who may benefit from preventive measures.
Identification of patients at increased risk of progression is
an important goal in bladder cancer research because such
patients will be candidates for newer treatments and followup strategies.
In our recent cytogenetics analysis, we analyzed deletions of
9p21 (p16), 17p13.1 (p53) and 13q14 (RB1) chromosomal
loci in 48 muscle-invasive bladder cancer and adjacent normal mucosae. On the basis of the obtained results, we propose that chromosomal 3, 7, 17 monosomy and RB1 heterozygous deletion could be considered potentially useful intermediate biomarkers to detect patients at high risk of progression who may benefit from particular and innovative
therapeutic interventions 10.
We emphasize that the use of cytogenetic changes in the clinical staging and/or therapeutic strategies should be employed
in clinical and pathological characteristic’s panel. Each of
these parameters individually and in the aggregate could improve the understanding of the disease and contribute in categorizing either superficial or advanced bladder cancer patients. Only larger studies with long-term follow-up will determine the validity of this noteworthy observation.
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Eventi morfogenetici e molecolari nelle fasi
iniziali della carcinogenesi colorettale
M. Risio
Servizio di Anatomia ed Istologia Patologica, Istituto per la
Ricerca e la Cura del Cancro, Candiolo, Torino, Italia
L’adenoma che contiene un carcinoma che invade la sottomucosa (stadio pT1) rappresenta la forma più precoce di carcinoma colorettale clinicamente rilevante nella maggior parte dei
pazienti. L’invasione della sottomucosa viene unanimemente
considerata l’espressione morfologica dell’acquisizione del fenotipo metastatico che, mediante l’accesso alla rete linfatica da
parte della neoplasia, apre la via alla diffusione a distanza della malattia 1. L’osservazione microanatomica della paucità o
della completa assenza della rete linfatica intramucosa nel colon 2, è coerente con tale modello di carcinogenesi, anche se recenti evidenze genetico-molecolari appaiono più profondamente esplicative. Un diverso coinvolgimento del sistema delle caderine nei segnali di contatto ed adesione intercellulari
rende ragione della assenza di potenziale metastatico delle
neoplasie coliche ad esclusiva infiltrazione mucosa, contrariamente all’effettiva, seppure percentualmente minima, diffusione metastatica dei carcinomi gastrici intramucosi, frequentemente associati a mutazione del gene E-caderina 3.
L’invasione neoplastica della sottomucosa colica inferiore ai
300 micron non si accompagna mai a diffusione metastatica 4.
In effetti, anche se l’invasione sottomucosa rappresenta, dal
punto di vista istopatologico, la completa trasformazione maligna con piena acquisizione del fenotipo metastatico, un certo grado di dissociazione tra comportamento biologico ed
istologia nella transizione neoplasia intraepiteliale – carcinoma precoce è suggerita dall’associazione tra alterazioni numeriche (monosomia) e strutturali (delezioni della banda
p13.3) del cromosoma 17 con il carcinoma colorettale iniziale ed avanzato, rispettivamente 5. Si ritiene comunemente che
quando si verifica la trasformazione maligna di un adenoma,
la crescita del carcinoma nel contesto della parete intestinale
(transizione pT1-pT4) sia un processo continuo, progressivo
ed irreversibile che va di pari passo con il potenziale metastatico e la mortalità della malattia neoplastica. È concepibile, allo stato attuale delle conoscenze, un modello stocastico della
carcinogenesi colorettale, secondo il quale il carcinoma iniziale, pT1, associato a delezione 17p13.3 rappresenta una fase di rapida transizione verso stadi di progressiva invasione
della parete intestinale, mentre i carcinomi pT1 associati a
monosomia del cromosoma 17, seppure morfologicamente indistinguibili dai primi, corrispondono a neoplasie biologicamente distinte, probabilisticamente orientate alla stabilizza-
TRANSIZIONE PRE-CANCEROSI – CANCRO
zione e, forse, alla regressione. Dati preliminari di genomica
funzionale indicano come effettori dei diversi percorsi evolutivi i livelli di attivazione dei geni legati all’angiogenesi
(VEGF, VEGFr).
Il potenziale metastatico di un adenoma cancerizzato è relativamente alto e solo i parametri istopatologici (grado di
differenziazione del carcinoma, livello di invasione, invasione vascolare neoplastica) sono discriminanti tra un “basso rischio” (7%) ed un “alto rischio” (35%) di metastasi
linfonodali 1. In particolare, mentre l’interessamento del
margine di exeresi del polipo è altamente predittivo della ripresa locale di malattia neoplastica (in forma di recidiva o
di ricorrenza), l’invasione linfatica è fortemente associata
alle localizzazioni linfonodali secondarie e la scarsa differenziazione del carcinoma alla mortalità complessiva dell’adenoma cancerizzato 6. Il “budding” tumorale, la presenza cioè di nidi o singole cellule tumorali anaplastiche al
margine di avanzamento carcinomatoso nella sottomucosa è
risultato essere altamente predittivo del potenziale metastatico linfonodale, pressoché nullo se un basso grado di “budding” si associa ad una profondità di infiltrazione della sottomucosa non superiore ai 2.000 micron 7. Gli eventi molecolari che sottostanno alla morfogenesi del “budding” sono
riconducibili ad alterazioni delle interazioni cellula-matrice, in particolar modo al ruolo esplicato da TIMP-1 e Laminina-5 8 9: qui dovranno verosimilmente essere ricercati
nuovi biomarcatori molecolari predittivi della storia naturale dell’adenoma cancerizzato.
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Tumorigenesi del sistema endocrino diffuso:
aspetti morfologici e basi genetiche
G. Rindi
Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio, Università di Parma
In accordo con la classificazione corrente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le neoplasie (neuro)endocrine (NE) sono classificate in tumore NE ben differenziato
(carcinoide), carcinoma NE ben differenziato (carcinoide
maligno) e carcinoma NE poco differenziato (a piccole cellule). A questi, la classificazione OMS del 2000 ha aggiunto
le lesioni definite come simil-tumorali, spesso ad includere le
lesioni preneoplastiche così definite nella successiva classificazione del 2004. In questa relazione verranno brevemente
descritte su base anatomica le lesioni considerate come preneoplastiche di organi endocrini e del sistema endocrino diffuso del tratto gastroenterico e del pancreas dell’uomo. Ove
possibile verranno effettuati confronti con indicatori morfofunzionali di trasformazione osservati in topi transgenici per
costrutti con sequenze regolatorie di geni di ormoni a guidare l’espressione della regione “early” di SV40 (AVP-Tag;
RIP1Tag”/RIP2Pyst1; GLU-Tag; Sec-Tag). Si discuteranno
possibile somiglianze o differenze e la rilevanza clinica di tali lesioni nell’uomo.
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Markers tumorali (non linfoidi)
Moderatori: M. Chilosi (Verona), A.P. Dei Tos (Treviso)
Il ruolo prognostico/predittivo dell’Epidermal
Growth Factor Receptor (EGFR) nel carcinoma
del colonretto
S. Rossi
Anatomia Patologica, Ospedale Regionale di Treviso, Treviso, Italia
Nell’ambito dei fattori prognostici del carcinoma del colonretto (CRC), la mia presentazione sarà focalizzata sull’Epidermal Growth Factor Receptor (EGFR). Verranno discussi i
suoi possibili ruoli prognostico e predittivo nella terapia targhettata con anticorpo monoclonale anti-EGFR e le problematiche legate alla determinazione della sua espressione.
Background
EGFR è un oncogene cellulare omologo all’oncogene virale
v-erb-b, codificante per un recettore transmembrana con attività tirosinkinasica 1. L’overespressione di EGFR è un evento trasformante e la sua attivazione comporta il recruitment di
diversi substrati intracellulari, tra i quali MAPK, AKT e p27,
che da ultimo si ripercuote su importanti processi cellulari,
quali la proliferazione, l’apoptosi, l’angiogenesi e la capacità
di metastatizzare.
EGRF nel carcinoma colonrettale
La presenza della proteina EGFR è stata dimostrata in diverse
neoplasie solide con un ampio range di espressione. In particolare nel CRC, la percentuale di casi positivi negli studi più
accreditati è compresa tra il 75,5% e l’82,1% 2-5. Per quanto riguarda il possibile ruolo prognostico di EGFR nel CRC, dalla
metanalisi di Nicholson 6 EGFR risultava solo un modesto
marcatore prognostico. Tuttavia, l’autore stesso notava l’eterogeneità dei dati dello studio relativamente ai pazienti inclusi ed
alle tecniche usate. Ancora oggi non esiste un parere unanime
sull’argomento. Alcuni studi sottolineano l’associazione tra
EGFR e prognosi 2 7 8, sebbene talora limitandola alla percentuale di cellule con intensità forte 2 o moderata/forte presenti in
tutto l’ambito della neoplasia 8 o alla percentuale di cellule con
intensità moderata/forte presenti in corrispondenza del fronte
di invasione della neoplasia 2. Al contrario, altre casistiche ne-
gano la valenza prognostica di EGFR 3 9 10. Inoltre, l’espressione di EGFR sembra correlare con il grado della neoplasia 3 11,
con l’invasione vascolare e perineurale 2 e con la sede della
neoplasia 11. Interessanti i recenti dati sulla concordanza nell’espressione di EGFR tra casi primitivi e metastatici. Infatti la
frequenza di non concordanza non sarebbe trascurabile 11 12,
con più di un terzo dei casi non concordanti tra quelli con primitivo positivo ed un 15% di casi non concordanti tra quelli
con primitivo negativo, rispettivamente, sebbene ancora una
volta non manchino studi con evidenze diverse 13. Unanime è
il giudizio sulla minore frequenza di espressione di EGFR nei
campioni bioptici rispetto a quelli operatori 11 13. Ciò sarebbe da
ascrivere all’eterogeneità di espressione di EGFR nel CRC,
ben descritta da Goldestein 2, il quale notava l’esistenza di un
gradiente di positività con una maggiore percentuale di cellule
positive al di sotto della tonaca muscolare e osservava che la
maggiore intensità di immunocolorazione era più frequente
nelle cellule infiltranti singolarmente lo stroma (Fig. 1a) e nei
piccoli gruppi cellulari di forma angolata, che apparivano
gemmare da ghiandole neoplastiche negative o solo lievemente positive (Fig. 1b). Sempre connesse all’eterogeneità della
colorazione sono le emergenti perplessità sull’uso dei microarray tissutali 13.
Determinazione dell’espressione di EGFR e terapia targhettata nel carcinoma colonrettale
Con l’avvento dell’anticorpo monoclonale anti-EGFR, Cetuximab, enorme importanza ha assunto la determinazione dell’espressione della molecola target EGFR, necessaria per la selezione dei pazienti da trattare con la terapia targhettata. Tra le
numerose tecniche che possono essere usate (Tab. I), la più comunemente utilizzata è quella immunoistochimica (IHC). Da
sottolineare che, mentre l’overespressione di HER-2 nel carcinoma mammario dipende in modo predominante dall’amplificazione del gene 14, l’overespressione di EGFR nel CRC non
correla con l’amplificazione genica 15-17. Di conseguenza, l’ibridazione in situ per fluorescenza (FISH) o l’ibridazione cromogenica in situ (CISH) non sembrano le metodiche più adatte per determinare l’espressione di EGFR nel CRC. Per quanto riguarda la determinazione IHC di EGFR, sebbene l’avven-
Tab. I. Determinazione dell’espressione di EGFR.
Metodo
Campione ideale
Metodi in situ
IHC
FISH
Sezione di tessuto
Sezione di tessuto
CISH
Sezione di tessuto
Metodi estrattivi
Western/Northern blot
RT-PCR
ELISA
Flow cytometry
Estratto
Estratto
Estratto
Estratto
*
di
di
di
di
tessuto/siero*
tessuto/sieroa
tessuto/sieroa
tessuto
Limitazioni
Eterogeneità del campione
Mancanza di correlazione tra amplificazione del gene ed overespressione
della proteina
Mancanza di correlazione tra amplificazione del gene ed overespressione
della proteina
Complessità tecnica
Complessità tecnica
Nessuna
Nessuna
La rilevanza dell’EGFR sierico nei pazienti neoplastici non è ancora ben stabilita. IHC, immunohistochemistry; FISH, fluorescence in situ hybridization; RT-PCR, reverse transcript-polymerase chain reaction; CISH, chromogenic in situ hybridization; ELISA, enzyme-linked immunosorbent assay.
MARKERS TUMORALI (NON LINFOIDI)
Fig. 1. a. Cellule singole infiltranti lo stroma con forte intensità di
colorazione per EGFR. b. Piccolo gruppo di cellule neoplastiche
con intensità di colorazione forte emergente da ghiandole caratterizzate da una lieve intensità.
to dei kit standardizzati abbia minimizzato le problematiche legate più strettamente alla procedura, punti critici rimangono
quelli legati alle caratteristiche del campione tissutale ed, in
misura minore, all’interpretazione della colorazione. Riguardo
al campione, punto critico, oltre alla quantità di cellule che lo
compongono, problema evidenziato dalla differente frequenza
di casi positivi nelle biopsie vs. i pezzi operatori 11 13, è rappresentato dalla qualità del medesimo. Infatti, è stato dimostrato
che la presenza di necrosi può causare false positività, mentre
un’overfissazione, l’uso di un fissativo diverso dalla formalina
tamponata al 4% ed un intervallo temporale superiore a 12 mesi tra il taglio della sezione e la colorazione IHC possono dar
ragione di falsi negativi 18. Per quanto riguarda la valutazione
della colorazione, i parametri considerati nei maggiori studi
sono la percentuale di cellule positive, la localizzazione subcellulare e l’intensità della colorazione 3 5 16. Per minimizzare i
problemi interpretativi, possono essere utili alcune semplici
accortezze, quali l’uso di sezioni di cute normale, in cui esiste
di un gradiente di intensità dallo strato basale a quelli più superficiali dell’epidermide (Fig. 2), che può essere di supporto
nel calibrare l’intensità della colorazione in uno scoring accurato, o la ricerca di strutture normali nello stesso preparato da
valutare, come il mesotelio, il perineurio, le cripte coliche che
fungono da controlli interni, utili soprattutto in caso di assenza di espressione di EGFR, al fine escludere falsi negativi.
Inoltre, è da notare che un pitfall, motivo di falsi positivi nella
181
Fig. 2. Sezione di cute con gradiente di intensità di colorazione
da forte a lieve dallo strato basale a quelli più superficiali dell’epidermide e fibroblasti del derma lievemente positivi.
valutazione di metastasi epatiche, è rappresentato dalla presenza di epatociti e dotti biliari che talora mostrano una positività moderata/forte (Fig. 3). Infine, sempre in relazione all’interpretazione della colorazione, sarebbe auspicabile individuare un cut-off di espressione, per cui pazienti con tumori con
una positività inferiore ad una certa soglia siano esclusi da trial
clinici con terapie inefficaci. Nello studio BOND, in cui si testava l’efficacia del Cetuximab 5, venivano arruolati tutti i pazienti con un’espressione di EGFR maggiore di zero, di qualsiasi intensità e percentuale di cellule positive, al fine di individuare un cut-off di espressione, al di sotto del quale la terapia non fosse efficace. Stesso criterio veniva utilizzato in uno
studio analogo 4. Tuttavia, i livelli di EGFR non mostravano
avere alcun valore predittivo. Inoltre, a complicare ulteriormente il quadro, il recente studio in cui 4 di 16 pazienti con tumore negativo per EGFR rispondevano a Cetuximab 19. Molte
possono essere le ipotesi che tentino di spiegare l’inaspettata
mancanza di correlazione tra espressione della molecola target
e risposta alla specifica terapia targhettata. Innanzitutto, si considerino una serie di motivazioni metodologiche. Oltre a quel-
Fig. 3. Cordoni di epatociti con forte intensità di colorazione per
EGFR intrappolati tra le ghiandole neoplastiche negative per EGFR in una metastasi epatica di CRC.
RELAZIONI
182
le più intuitive legate all’eterogeneità delle condizioni di fissazione dei campioni usati nei trial clinici, è stato ipotizzato che
il campione su cui è di solito effettuata la colorazione possa
non essere rappresentativo del tumore al momento della somministrazione della terapia, ipotesi sostenuta dall’esistenza già
citata di casi con tumore primitivo e metastasi non concordanti nell’espressione di EGFR 11 12. Inoltre, è stato dimostrato che
l’anticorpo anti-EGFR usato in IHC non discrimina tra la forma più comune di EGFR, quella a bassa affinità, e la forma ad
alta affinità, che, pur rappresentando solo il 2-3% della quantità totale della proteina, sarebbe la forma più attiva 20. Accanto alle ragioni metodologiche, considerando la biologia dell’EGFR, non si può non pensare alle molteplici vie di fuga offerte dalla complessa cascata molecolare (reviewed in 21). Infatti, alti livelli di AKT inducono resistenza agli inibitori di
EGFR in coltura. Importanti sono anche le interazioni tra EGFR ed altre molecole chiave nella biologia della cellula neoplastica, quali HER2, IGF, VEGF. Analogamente a quanto accade per le molecole downstream, la loro overespressione in
coltura conferisce resistenza agli inibitori di EGFR, la quale
viene a sua volta abrogata dagli inibitori specifici per queste
molecole. Proprio sulla base di questi dati sono iniziati i primi
trial clinici che vedono la combinazione di inibitori di EGFR
con inibitori delle molecole downstream o con inibitori dell’angiogenesi 21.
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Marcatori prognostici dei tumori ovarici
M.R. Raspollini
Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia, Università
di Firenze
Il carcinoma ovarico è la principale causa di morte fra le malignità ginecologiche in Europa e nel Nord America. La sopravvivenza media delle pazienti è andata progressivamente
aumentando nelle ultime decadi grazie ai progressi della chemioterapia, passando dai 12 mesi negli anni ’60, ai 38 mesi
degli anni recenti. Nella maggioranza dei casi la malattia è
diagnosticata in stadio avanzato con diffusioni pelviche e peritoneali. Il carcinoma ovarico di stadio III o IV rappresenta
una malattia con prognosi pessima. Al momento attuale, la
guarigione nelle pazienti con recidiva di malattia non rappresenta un obiettivo realistico, e la maggior parte delle donne,
che non rispondono alla chemioterapia di prima linea dopo
l’intervento chirurgico, vanno incontro a brevi periodi di remissione di malattia dopo ogni ciclo di trattamento.
Al momento attuale, in seguito ad una citoriduzione ottimale, l’attenzione dei chemioterapisti è diretta ad aumentare
l’intervallo libero da malattia. A tale riguardo, nuovi obiettivi terapeutici sono stati ipotizzati con terapie adiuvanti più
aggressive quali l’introduzione in terapia di prima linea di un
terzo farmaco, in aggiunta alla combinazione di platino e
taxolo, oppure una terapia di consolidamento con l’utilizzo di
un terzo chemiofarmaco al termine dei sei cicli di terapia a
base di platino e taxolo 1 2.
Gli eventi che conducono allo sviluppo del carcinoma ovarico ed anche i fattori molecolari che possono predire una risposta al trattamento non sono completamente noti.
Da una attenta valutazione istopatologica, quale la caratterizzazione dell’istotipo, del grading, e della diffusione della malattia, possono scaturire importanti informazioni prognostiche.
Note
In aggiunta a ciò, con il progredire delle conoscenze, anche
nei tumori ovarici, il patologo con indagini immunoistochimiche e molecolari avrà la possibilità di individuare fattori
molecolari che siano di ausilio non solo nella prognosi, ma
anche come target terapeutici per certi sottogruppi di pazienti, così da consentire, anche in queste neoplasie, un trattamento modulato alla malattia.
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MARKERS TUMORALI (NON LINFOIDI)
Marcatori diagnostici e prognostici nei
tumori renali
G Martignoni**, A Remo*, M Pea*, P Cossu Rocca**, M
Brunelli*, S Gobbo*, F Bonetti*, F Menestrina*
**
Dipartimento di Patologia, Università degli studi di Sassari; *Dipartimento di Patologia,Università degli studi di Verona
La recente classificazione dei tumori renali dell’OMS riconosce l’esistenza di diversi tipi di neoplasie renali in aggiunta al carcinoma convenzionale a cellule chiare. Queste
forme hanno caratteri morfologici, genetici e comportamento
clinico diversi, e comprendono l’oncocitoma, il carcinoma
papillare, il carcinoma cromofobo, il carcinoma dei dotti collettori, l’adenoma metanefrico, l’angiomiolipoma epitelioide,
i carcinomi con traslocazione Xp11 ed altre rare neoplasie 1.
È stato inoltre descritto recentemente una ulteriore “neoplasia
con traslocazione 6;11”. Gli studi genetici hanno identificato
la inattivazione del gene VHL nella maggioranza dei carcinomi convenzionali a cellule chiare. Sono state osservate trisomie dei cromosomi 7 e 17 e frequente perdita del cromosoma Y nonché mutazioni nel gene Met nei carcinomi papillari;
monosomie dei cromosomi 1, 2, 6, 10 e 17 nelle cellule del
carcinoma cromofobo; la sostanziale assenza di anomalie cromosomiche numeriche nell’adenoma metanefrico e la perdita
del gene TSC2 nell’angiomiolipoma epitelioide. Accanto allo
studio genetico, in questi ultimi anni, è stato eseguito un ampio lavoro in campo immunoistochimico al fine di trovare
marcatori che consentissero, nella routine diagnostica, la diagnosi differenziale delle diverse forme di tumore renale.
L’importanza di un’accurata definizione dell’istotipo è stata
sottolineata dalla dimostrazione di una prognosi differente
nelle diverse neoplasie. Inoltre in riferimento ai tre tipi più comuni di carcinoma renale, cellule chiare, papillare e cromofobo, è risultato evidente il diverso peso che deve essere attribuito a fattori prognostici quali il grado nucleare e la presenza di necrosi nei singoli istotipi. L’avvento di nuove forme
di terapia mini-invasiva, quali la crioterapia e la termoablazione, presuppone una formulazione diagnostica preterapeutica su minuti prelievi agobioptici; pertanto la possibilità di associare ai dati morfologici quelli derivanti dall’esame immunoistochimico e dall’analisi genetica, ottenibili
anche da scarso materiale, risulterà di estrema importanza.
Così facendo sono per esempio state identificate nuove molecole utili sia dal punto di vista diagnostico quali l’alphamethylacyl-CoA racemase e la parvalbumina, che dal punto di
vista prognostico e predittivo di risposta alla terapia quali i recettori di membrana per c-kit e per EGFR. Nella nostra routine diagnostica dei tumori renali ci avvaliamo costantemente
oltre che dell’esame istopatologico anche di un pannello immunistochimico di minima che comprende i seguenti marcatori: CD10, parvalbumina, S100A1, vimentina, alpha-methylacyl-CoA racemase, citocheratina 7, e HMB45. Il CD10 è
costantemente espresso nel carcinoma a cellule chiare del
rene e in percentuale variabile dal 60% al 90% dei carcinomi
papillari; recentemente è stata dimostrata la sua espressione in
circa il 25% dei casi di carcinoma cromofobo. Parvalbumina
ed S100A1 sono due molecole leganti il calcio; l’espressione
di parvalbumina nelle neoplasie è limitata al carcinoma cromofobo (100% dei casi) e agli oncocitomi (70% dei casi),
183
mentre i carcinomi a cellule renali chiare e i carcinomi papillari, se si esclude un particolare sottotipo a cellule oncocitarie,
sono risultati costantemente negativi. S100A1 è risultato, nella nostra esperienza, estremamente utile nella diagnosi differenziale più difficoltosa sul piano morfologico, quella tra il
carcinoma cromofobo e l’oncocitoma. Mentre più del 90% dei
primi risulta negativo, il 94% dei secondi risulta positivo, con
un’espressione variabile dal 5 al 75% degli elementi cellulari.
Vimentina è espressa in una percentuale di carcinomi a cellule
renali chiare e di carcinomi papillari variabile dal 50-60% ad
oltre l’80%. L’alpha-methylacyl-CoA racemase e citocheratina 7 sono stati proposti come marcatori per il carcinoma papillare; rari casi di carcinoma a cellule renali chiare e di oncocitoma sono risultati positivi all’alpha-methylacyl-CoA
racemase, mentre la citocheratina 7 è stata riportata seppur
variabilmente anche nei carcinomi cromofobi e negli oncocitomi. L’angiomiolipoma renale, la variante epitelioide e quella composta da elementi ossifili che simula l’oncocitoma,
sono negativi per i marcatori sopra descritti mentre esprimono
caratteristicamente l’HMB45, marcatore di melanogenesi.
Tale molecola non è espressa da nessuna neoplasia epiteliale
del rene, se si escludono i rari e recentemente descritti carcinomi con traslocazione della regione Xp11 e 6;11. In questi
casi un secondo livello di analisi immunoistochimica con
marcatori che riconoscono i rispettivi prodotti della traslocazioni, i fattori di trascrizione TFE3 e TFEB, ci permette una
corretta diagnosi differenziale. Qualora la morfologia e l’analisi immunoistochimica non siano sufficienti per una corretta
diagnosi differenziale ci avvaliamo dello studio delle anomalie numeriche dei cromosomi, già ben note in letteratura grazie agli studi di citogenetica classica, avvalendoci della
metodica di ibridizazione in situ fluorescente (FISH) con
sonde centromeriche. I campi di applicazione principali risultano le neoplasie epiteliali ossifile (oncocitoma, carcinoma
cromofobo, in particolare la sua variante eosinofila, e il carcinoma papillare a cellule oncocitiche) e la diagnosi differenziale tra adenoma metanefrico e carcinoma papillare di tipo 1.
Oggi i fattori prognostici di maggior rilievo consistono nell’istotipo, nel grado nucleare e nella presenza o meno della
necrosi, oltre che ovviamente nell’attribuzione del TNM sul
pezzo operatorio. Il fatto che l’istotipo presenti un rilevante
significato prognostico sottolinea come la sua corretta attribuzione risulti determinante e pertanto tutti i mezzi diagnostici sopradescritti debbano essere opportunamente utilizzati. È diverso porre una diagnosi di adenoma metanefrico e
oncocitoma che sono neoplasie a comportamento biologico
benigno dal porre una diagnosi di carcinoa a cellule renali
chiare che risulta essere il più aggressivo tra gli istotipi. Altri
fattori prognostici poi come il grado nucleare assegnato secondo Fuhrman e la presenza o meno di necrosi hanno un significato nell’ambito dei carcinomi a cellule renali chiare 2,
mentre sembrano non averne alcuno per quanto riguarda il
carcinoma cromofobo.
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Cellule staminali
Moderatore: S. Pileri (Bologna)
Le cellule staminali: generalità
W. Piacibello, Y. Pignochino
Dipartimento di Scienze Oncologiche, IRCC, Istituto per la
Ricerca e la Cura del Cancro, Candiolo (TO), Università di
Torino
Le cellule staminali sono cellule non specializzate in grado di
dividersi dando origine contemporaneamente ad una cellula
staminale (uguale alla cellula madre) ed a una cellula precursore di una progenie cellulare che alla fine darà a sua volta
origine a cellule terminalmente differenziate (mature). Si definiscono totipotenti le cellule staminali che possono dar luogo a tutti i tipi di tessuti, multi (o pluri) potenti quelle che
possono dar luogo ad alcuni tipi cellulari o tessuti ed unipotenti quelle che possono originare soltanto un tipo cellulare.
Le cellule staminali rappresentano un’importante prospettiva
per la rigenerazione di organi danneggiati. Infatti, la possibilità di espandere in vitro queste cellule fino a quantità elevatissime, se non proprio illimitate, risolverebbe il problema legato alla disponibilità di materiale biologico da utilizzare in
fase di trapianto.
Esistono diversi tipi di cellule staminali.
• Cellule staminali embrionali (ES): derivano dalla regione
interna dell’embrione (inner cell mass) prima del suo impianto nella parete dell’utero. Dotate di elevata capacità
proliferativa, sono in grado di generare qualsiasi tipo di cellula matura (Schuldiner et al., Pnas 2000). Queste cellule
possono essere isolate da blastocisti e cresciute in vitro con
particolari metodiche che ne mantengono inalterate le proprietà di plasticità e totipotenza per periodi di alcuni anni
(Evans e Kaufman, Nature, 1981).Ciò consente, a partire da
poche decine di cellule, di ottenerne centinaia di milioni
con le stesse caratteristiche e potenzialità iniziali. Quando
aggregate con un embrione precoce possono integrarsi nell’embrione, crescere e differenziarsi in tutti i tipi cellulari
del nuovo organismo senza causare nessun disturbo allo
sviluppo di quest’ultimo. In più, sono stati messi a punto
particolari metodiche di coltura che guidano il differenziamento delle cellule ES in specifici tipi cellulari per generare, ad esempio, una grande quantità di neuroni (Okabe et
al., Mech Dev, 1996), cellule della glia (Brustle et al.,
Science 1999), cardiomiociti e progenitori ematopoietici
(Keller Nat Med, 1999).
Non è certo che il prelievo permetta di isolare “vere” cellule
ES ad ogni tentativo. Infatti, l’organismo nel suo complesso
deriva da sole 3-4 delle circa 100 cellule che compongono la
blastocisti (Clonal expression in allophenic mice. Symp Int
Soc Cell Biol, 1970 e Markert e Petters Science, 1978) e non
è chiaro se questa minoranza di cellule è pre-costituita o se
tutte le cellule della blastocisti posseggono un uguale potenziale.
Infine, va ricordato che linee stabili di cellule ES si sviluppano solo dall’epiblasto delle blastocisti (Brook, Pnas, 1997)
e che il corredo cromosomico delle cellule prelevate non è
necessariamente sempre identico a quello della rimanente
morula-blastocisti. Le colture di cellule ES umane finora prodotte sono state ottenute a partire da cellule isolate mediante
immunomicrochirurgia dalla massa cellulare interna della
blastocisti umana (rappresentante lo stadio dell’embrione
umano corrispondente a circa il 5° giorno di sviluppo): tale
tecnica di prelievo ha finora comportato la distruzione della
blastocisti (Reubinoff et al., Nat Biotechnol 2000;18:399404).
Va tenuto presente che le cellule ES, nel loro stato indifferenziato, se iniettate per sé o come contaminante di cellule
preventivamente sottoposte a procedure di differenziamento, possono dare origine a teratocarcinomi in vivo. Si rende quindi necessario uno studio approfondito degli elementi di sicurezza associati alla procedura di trapianto di
cellule ES differenziate in vitro ed all’identificazione di
una, anche minima, residua presenza di cellule ES indifferenziate.
• Cellule staminali fetali: ottenute da tessuti di feti abortiti
possiedono caratteristiche intermedie tra quelle embrionali e
quelle adulte. Sono generalmente pluripotenti e deputate all’accrescimento peri-natale dei tessuti.
• Cellule staminali da cordone ombelicale: sono un’importante fonte di cellule staminali emopoietiche utilizzabili nel
trattamento di patologie ematologiche nel contesto del trapianto allogenico. Ancora controversa la possibilità di isolare dal cordone ombelicale cellule staminali in grado di originare qualsiasi tipo di tessuto maturo.
• Cellule staminali adulte: provvedono al mantenimento dei
tessuti in condizioni fisiologiche ed alla loro riparazione in
seguito a un danno. Tali cellule erano fino a pochi anni fa
considerate tessuto-specifiche poiché si riteneva che fossero specializzate nel generare cellule mature tipiche del tessuto in cui risiedono. In realtà studi recenti hanno mostrato
un’inattesa plasticità di delle cellule staminali adulte. Il caso più emblematico è rappresentato dal transdifferenziamento di cellule staminali neurali adulte in cellule mesodermiche ematopoietiche (Bjornson CR et al., Science,
1999). Tale “salto” differenziativo tra cellule di foglietti
embrionali diversi si osserva con cellule staminali di adulto
sia inserite in tessuti embrionali, sia in tessuti adulti (Taylor
G et al., Cell, 2000; Clarke DL et al., Science, 2000; Galli
et al., Nat Neurosci, 2000) e riguarda anche le cellule del
midollo osseo che possono dare origine a muscolo (Ferrari
et al., Science, 1998) ed a epatociti (Petersen et al., 1999,
2000), mentre i miociti possono colonizzare il sistema ematopoietico (Gussoni et al., Nature, 1999). Dai numerosi tentativi di definire un profilo di espressione genica tipico della cellula staminale si evince che la cellula staminale non
può considerarsi una entità a sé stante, ma è uno stato funzionale che può essere mantenuto da qualsiasi cellula e dipende dagli stimoli che il microambiente fornisce alla cellula mantenendola in uno stato di quiescenza o di proliferazione piuttosto che di differenziazione. Tuttora non è possibile stabilire le caratteristiche puntuali di una cellula staminale perché i test finora utilizzati per dimostrarne la presenza sono basati sulla specifica caratteristica di pluripontenzialità e di differenziazione in qualsiasi linea maturativa, richiedono periodo molto lunghi (mesi) e sono studi in retrospettiva. Non è ancora possibile isolare e definire con certezza una cellula staminale autorinnovantesi senza avvalersi di tali studi funzionali.
CELLULE STAMINALI
Investigation on possible cell sources to be
utilized for cardiac cell therapy
A.P. Beltrami*, D. Cesselli, N. Bergamin, P. Marcon, S.
Rigo, S. Burelli, E. Puppato, F. D’Aurizio, M. Bottecchia,
P. Masolini, L. Mariuzzi, N. Finato, C.A. Beltrami
Istituto di Anatomia Patologica, Università di Udine; * Clinica Ematologica, Università di Udine
Congenital and acquired cardiac pathologies are the leading
cause of death in the Western World.
Cell therapy is emerging as a novel strategy for the treatment of
those patients suffering from post-ischemic heart failure, whose
illness and/or clinical history are so severe to be predictive for
a negative outcome, even if they are treated to the best of nowadays knowledge.
The loss of myocardial cell mass determines an increase in end
diastolic volume (volume overload). The diastolic stretch of
surviving myocardium, associated with an increased work per
spared myocyte (normotensive overload) generates an increase
in cell death rate and results in ventricular wall remodeling. The
final effect is a terminal cardiac failure, whose only therapy is
heart transplantation. Nowadays the request for organ transplantation far outstrips the number of anatomical gifts. Moreover, transplantation procedures are not devoid of risks and
complications.
Encouraging therapeutical results would have been achieved by
a technique called cellular cardiomyoplasty (CCM). This term
refers to the injection of cells of different type and in the infarcted-scarred area with the intention of ameliorating myocardial function. Actually, the comprehension of the mechanisms
by which transplanted cells exert their positive effects is poor
and less is known about the long term effects of this novel strategy.
Moreover, while it is known that transplanted skeletal myoblasts give rise exclusively to myofibers, the ability of bone
marrow stem cells to generate new myocardium is a controversial issue. Most of the latest published data seem to attribute the
clinical amelioration to the induction of neo-angiogenesis.
Many Authors, in addition, agree in identifying in the modifications of the elastic properties of the scar the mechanism responsible for the positive interference with cardiac remodeling.
Lately our group has identified cardiac stem cells residing in
adult rat hearts. These cells have a potential therapeutic role
since they are able to regenerate viable myocardium in an experimental model of acute myocardial infarction (AMI). These
data are consistent with the recent observation of myocyte regeneration occurring soon after AMI in humans.
What is emerging in both cases is that the heart possesses a population of primitive cells that, at least in the murine model, can
be isolated, in vitro expanded, genetically modified and utilized
for regenerative purposes.
The most attractive scenario in cardiac cell therapy is myocardial cell autotransplantation.
We intend with this term a procedure that implies the explantation, from a patient’s heart, of a myocardial fragment followed
by the isolation and in vitro expansion of those cardiac stem and
progenitor cells that are endowed in it. Once obtained a sufficient number of cells, they could be, theoretically, transplanted
back to the same patient, eventually after an in vitro pre-differentiation.
The probable advantages of this procedure are: the lack of immunological rejection, the opportunity to utilize cells already
committed to a myocardial fate and the possible absence of
transplantation waiting lists.
185
The potential disadvantages are: the time requested for in vitro
cardiac cell expansion, the expensive costs of such a procedure,
the utilization of cells derived from a decompensated organ
(therefore, possibly characterized by a limited proliferative/differentiative potential) and, last but not least, the necessity to obtain tissue fragments from patients with depressed cardiac performance.
The utilization of autologous cells obtained from other, more
accessible sources could overcome some of these problems.
The possiblility that cardiomyocytes can be generated from
primitive cells of non-cardiac origin introduces the controversial issue of stem cell plasticity. An intriguing explanation for
stem cell plasticity could reside in the existence of a class of
multipotent adult progenitor cells (MAPCs) able to give rise to
derivatives of all the three germ layers.
Following Verfailliés methods17, our research group has isolated and characterized MAPCs lines from explanted human
hearts (n = 22) as well as from livers judged to be inapt for
transplantation (n = 15), and from healthy donor-derived bone
marrow samples (n = 10).
The antigenic pattern of the obtained cell lines (CD45-/CD34/ C D 3 8 - / C D 11 7 - / C D 1 3 3 - / H L A - D R /CD29lo/KDRlo/CD90hi/CD13hi/CD49bhi) was very similar to
the one described for MAPCs. Moreover, when exposed to appropriate differentiation inducing conditions, all the cell lines
were able to differentiate along an adipogenic, osteogenic, endothelial, and myogenic fate.
If cells isolated from different sources would be equipotent in
their regenerative capacity, cellular based therapies could be
performed choosing as a cell source the easiest one to be accessed.
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Cellule staminali scheletriche
M. Riminucci
Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università dell’Aquila, L’Aquila, Italia
Cellule staminali mesenchimali capaci di rigenerare tutti i
tessuti scheletrici (osso, cartilagine, tessuto fibroso, midollo
adiposo e stroma di supporto dell’emopoiesi) sono presenti
nel compartimento non emopoietico del midollo osseo umano dell’adulto, da cui possono essere isolate in vitro come
cellule aderenti al substrato (cellule stromali del midollo osseo) 1. Il potenziale differenziativo scheletrico delle cellule
stromali del midollo osseo è dimostrabile attraverso l’impiego di opportuni modelli sperimentali in vivo. Il trapianto di
cellule stromali umane nel sottocute di topi immunodeficienti esita nella formazione di un “ossicolo” ectopico costituto
da tessuto osseo, midollo adiposo e stroma di supporto dell’emopoiesi. L’inoculo delle stesse cellule in difetti scheletrici “critical size” generati in animali di grandi dimensioni, ne
dimostra la capacità rigenerativa scheletrica in sede ortotopica. Come dimostrato mediante studi di trapianto in vivo, cellule staminali e progenitori committed sono contenuti nella
frazione clonogenica della popolazione stromale, ovvero nella frazione di cellule che, in colture in vitro a bassa densità di
inoculo, generano colonie discrete ognuna delle quali rappresenta la progenie di una singola cellula 2. Il loro profilo fenotipico rimane, tuttavia, ancora oggi elusivo, giustificando così l’impossibilità di generare popolazioni pure di cellule staminali scheletriche e/o precursori osteogenici da campioni di
midollo osseo non coltivati in vitro. Diverse molecole sono
state recentemente proposte come marcatori di cellule staminali mesenchimali, tra questi la molecola di adesione CD146
(Muc-18, Mel-CAM) 3. CD146 appare selettivamente espressa nel midollo osseo umano in vivo in una sottopopolazione
di cellule stromali a localizzazione perivascolare. Studi in vitro dimostrano che l’impiego di anticorpi anti-CD146 permette di selezionare da campioni di aspirato midollare mediante metodica FACS, una popolazione stromale arricchita
in cellule clonogeniche. Esperimenti condotti nel topo immunodeficiente dimostrano che una sottopopolazione di cellule stromali esprimenti CD146 è direttamente coinvolta nella organizzazione del midollo osseo e nella sua rigenerazione
in vivo. L’impiego di cellule staminali mesenchimali permette lo sviluppo di approcci innovativi attraverso i quali generare modelli originali di malattie scheletriche umane che spaziano dalle malattie genetiche alla patologia neoplastica metastatica. Il trapianto nel topo immunodeficiente di cellule
stromali isolate da midollo osseo patologico in corso di malattie genetiche permette di riprodurre la lesione scheletrica,
RELAZIONI
di individuarne gli aspetti istopatologici caratterizzanti e di
studiarne i meccanismi patogenetici 4 5. L’impiego di questo
modello sperimentale ha rivelato aspetti patogenetici sconosciuti e sorprendenti della Displasia Fibrosa dello scheletro,
una malattia genetica correlata a mutazioni attivanti del gene
GNAS 6 7. La possibilità di riprodurre nell’animale da esperimento un microambiente scheletrico umano normale (ossicolo) fornisce, inoltre, un modello sul quale analizzare le interazioni cellulari e molecolari che sottendono il coinvolgimento osseo in corso di patologie extrascheletriche, quali ad
esempio le metastasi. Partendo da tale presupposto, abbiamo
recentemente sviluppato un modello murino “umanizzato” di
metastasi scheletriche di carcinoma della prostata, una neoplasia per la quale la disponibilità di modelli sperimentali
animali è limitata dalla necessità di interazioni cellulari specie-specifiche tra neoplasia e microambiente scheletrico. In
questo modello, cellule stromali umane ottenute da donatori
sani sono utilizzate per generare un ossicolo ectopico nel topo immunodeficiente successivamente inoculato con cellule
di carcinoma prostatico umano. La selettiva localizzazione
delle cellule neoplastiche nell’ossicolo umano, anziché nello
scheletro murino, genera un modello unico nel quale studiare e, soprattutto, manipolare sperimentalmente le interazioni
cellulari e molecolari tra cellule neoplastiche e microambiente scheletrico.
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Tecniche “High Throughput” in patologia umana
Moderatore: M. Piantelli (Chieti)
Microarrays tissutali
R. Lattanzio, R. Lasorda, S. Alberti, M. Piantelli
Unità di Patologia Oncologica, Dipartimento di Oncologia
& Neuroscienze e Fondazione Università “G. d’Annunzio”,
Chieti
I microarrays sono alla base di tecnologie “ad alta processività”, di recente sviluppo, capaci di fornire una piattaforma
rivoluzionaria per lo studio dell’espressione, della regolazione e della funzione genica. Enorme è quindi il loro potenziale nello studio dei processi biologici normali e patologici.
Esempi importanti di questo potenziale sono costituiti dall’identificazione dei geni regolatori del ciclo cellulare e dei geni responsabili di malattia nelle patologie neoplastiche ed in
quelle neurodegenerative. Le nuove tecniche impieganti microarrays hanno generato, in un lasso di tempo relativamente
breve, un’abbondanza e talora forse una pletora, di nuovi dati promettendo contestualmente di fornirci indizi e strumenti
utili ai fini diagnostici e terapeutici, soprattutto in campo oncologico. A questo proposito va ricordato che le pubblicazioni basate sull’uso dei microarrays sono passate dalle 10 del
1997 alle 361 del 2000, per raggiungere il numero di 4.130
nel 2004 (65% delle quali riguardanti l’uomo, 30% l’animale e 5% il mondo vegetale). Con lo sviluppo di queste tecniche rivoluzionarie, è stato necessario mettere a punto nuovi
strumenti, statistici e non, atti alla validazione ed alla interpretazione dei voluminosi set di dati generati. La tecnologia
dei microarray tissutali (TMA) è uno di questi strumenti ed è
basata sull’impiego della miniaturizzazione in una tecnica ad
alta processività per l’analisi di un tessuto (incluso in paraffina od anche congelato). L’idea di studiare diversi campioni
tissutali simultaneamente in una singola sezione istologica
non è nuova (vedi ad esempio la cosiddetta “sausage technique”) 1, ma una vera ed efficace miniaturizzazione è stata ottenuta solo più tardi, nel 1998, quando Kononen et al. 2 hanno introdotto uno strumento di alta precisione per il prelievo
da tessuti inclusi, in grado di consentire la allocazione, precisa e riproducibile, e la rilocalizzazione in un nuovo blocco,
di frammenti di tessuto numerosi, distinti e minuti (sino a 0,6
mm di diametro). Queste piccole dimensioni richiedono ovviamente una accurata preselezione microscopica delle aree
da prelevare. La successiva identificazione delle molecole
d’interesse viene effettuata con tecniche istochimiche di affinità, utilizzando anticorpi (IHC), o sonde a DNA, RNA etc.,
variamente marcate (FISH, ibridizzazione in situ cromogenica, ISH, etc.). La rapida diffusione dell’impiego di TMA è testimoniata dalle pubblicazioni originate da questa tecnica: da
25 nel 1999 a 1055 nel 2004. I TMA sono stati considerati
uno “spin-off” concettuale dai cDNA microarrays 3 e sono
stati utilizzati per validare i risultati riguardanti i profili di
espressione genica. Nella maggior parte dei casi un’aumentata espressione di mRNA correla con un aumento dei livelli
proteici documentabili in IHC. Importanti eccezioni comunque esistono, dovute ai meccanismi di regolazione post-trascrizionale della sintesi proteica. Gene microarrays e TMA in
base alle informazioni che possono fornire, sono in definitiva complementari: ogni elemento in un TMA rappresenta il
tessuto di un singolo paziente e è pertanto possibile, in un so-
lo vetrino, l’analisi di un marker molecolare in molti soggetti, anche centinaia. Al contrario, i microarray per l’analisi
dell’espressione genica, consentono la valutazione di centinaia/migliaia di markers in un singolo soggetto. Anche senza
ricorrere alla microdissezione laser-assistita dei tessuti con
successive analisi gnomiche o proteomiche, i TMA possono
fornire fondamentali informazioni topografiche sull’espressione genica. Possono ad esempio distinguere molecole
espresse dal tumore da quelle stromali, così come differenziano una localizzazione nucleare da una citoplasmatica o di
membrana. Una rapida identificazione immunoistochimica
dell’espressione di una data molecola richiede la disponibilità del relativo anticorpo. E comunque possibile valutare su
TMA eventi di amplificazione genica generando, così come
per i DNA microarrays, sonde adatte alle tecniche di ibridizzazione ISH. Con l’uso della microscopia confocale è anche
possibile l’analisi simultanea di markers multipli, combinando l’uso non solo di diversi anticorpi ma anche di anticorpi e
sonde per ISH, consentendo di valutare contemporaneamente espressione genica e espressione proteica a livello di una
singola cellula. Le maggiori applicazioni nella ricerca oncologica traslazionale comprendono la costruzione di TMA dedicati all’analisi della progressione tumorale, all’individuazione del valore prognostico e/o predittivo di singoli o meglio multipli markers raggruppati in clusters Sebbene i TMA
siano stati inizialmente pensati per la ricerca oncologica, il
loro possibile utilizzo è molto più ampio e comprende anche
utilizzazioni routinarie in campo istopatologico come la costituzione di banche tissutali, il test di nuovi anticorpi, il controllo di qualità di reagenti e procedure (intra e inter laboratorio) in IHC e ISH, l’educazione continua in patologia.
A differenza della maggior parte delle ricerche “usuali”, lo
studio di molti (ed ancor più di tutti) geni espressi in un campione non è “hypothesis-driven” ed è meglio definito come
“discovery-type research” o in modo meno accademico come
“fishing expeditions”. In questo contesto, non solo i “gene arrays” ma anche i TMA si sono dimostrati capaci di indirizzare la ricerca generando nuove ipotesi 4. Le strategie guidate e
quelle non guidate da un’ipotesi, non sono e non dovrebbero
quindi essere mutuamente esclusive: fondendo questi due diversi approcci sarà possibile accelerare il processo di traslazione delle scoperte “from the bench to bedside, and back
again”. A tal fine è auspicabile l’utilizzo congiunto delle tecniche genomiche, proteomiche, “isto-citomiche” 3, gluconiche, lipidomiche, metabolomiche, con l’ovvio fondersi di
competenze biologiche, mediche, chimico-fisiche, ingegneristiche, e non da ultimo statistiche e bioinformatiche.
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DNA mitocondriale e CGH array in patologia
mammaria
L. Morandi, GL. Marucci, A. Pession, V. Eusebi
Anatomia Patologica Università di Bologna Presso Ospedale Bellaria, Bologna
Apocrine epithelium is commonly regarded as a “normal”
change of the lobular epithelium of breast. It is commonly
called “pink” epithelium for its eosinophilia. It is part of the
changes seen in cystic disease and lines up tension cysts. It is
stained by PAS after diastase and reacts with anti GCDFP-15
which is considered a marker of apocrine differentiation. In
situ hybridization reveals PIPmRNA which is the same sequence as GCDFP15 1. The proliferative capacity of apocrine
cells is uncertain. The flat apocrine cell lining cysts may be
an end stage of cellular differentiation, but some studies indicate metabolic activity. A number of FU studies have suggested that apocrine epithelium may be a predictor for subsequent development of carcinoma. Nevertheless a relative risk
of only 1.7 was reported in a long term FU of women with
benign breast diseases, while a slightly increased risk of 2.4
has been reported for those lesions showing complex patterns
of papillary changes 5. The more complex forms of micropapillary apocrine changes are seen within tension cysts.
The micropapillary structures have the cytology of the ordinary benign apocrine cells, but their architecture is identical
to micropapillary structures seen in micropapillary carcinomas. Using comparative genomic hybridization the mean
number of alterations in apocrine hyperplasia was 4.1 (n =
10) compared to 10.2 in apocrine DCIS (n = 10) and 14.8 (n
= 4) in invasive apocrine carcinoma 2. The most common alterations in apocrine hyperplasia were gains of 2q, 13q, and
1p and losses of 1p, 17q, 22q, 2p, 10q and 16q. Apocrine
DCIS and invasive carcinoma showed gains of 1q, 2q, 1p and
losses of 1p, 22q, 17q, 12q and 16q as the most common
DNA copy number changes. It apperas that apocrine hyperplasia shows a mean number of alterations lower than DCIS
and DCI, but the alterations overlap with those identified in
in situ and invasive apocrine carcinomas. The same changes
are seen in non apocrine breast carcinomas. These data led to
the conclusion that apocrine hyperplasia is a non obligatory
precursor of apocrine carcinoma. Paget’s carcinoma (PC) of
the breast is characterized by neoplastic cells of “glandular”
type located within the epidermis of the nipple-areolar complex, often associated with an underlying ductal carcinoma,
either in situ or invasive. PC cells show irregular nuclei, are
irregularly scattered in the epidermis, are positive for keratin
7 (K7), negative for keratin 20 (K20) and positive for HER2neu. They have to be distinguished from Merkel cells (K 20
positive and HER-2neu negative) and Toker cells (TC) that
are also present in the epidermis of the areola-nipple complex. TC are usually suprabasally located and show regular
nuclei. They are dendritic and K7 positive as PC, but are K
20 and HER-2neu negative 3. At the present the origin of PC
cells is controversial, although there is a widespread opinion
that PC cells are “foreign” elements to the epidermis resulting from an epidermotropic migration of neoplastic elements
from an underlying carcinoma. Nevertheless in about 5% of
cases PC cells are present in the epidermis only and no carcinoma is observed elsewhere. In addition there are cases in
which the associated carcinoma to PC is located in a quadrant
far away from cancerized skin. There is space for the alternative theory that some cases result from neoplastic transformation of pre-existing innocent intra-epidermal TC. Ten cas-
RELAZIONI
es of PC with underlying carcinoma were studied using
methods for clonality that included loss of heterozygosity
and mitochondrial DNA displacement loop sequence analysis
4
. It was found that in no fewer than 2 cases PC cells and the
related underlying carcinoma were completely genetically
different. These data have led to the conclusion that the rule
of epidermotropism by neoplastic cells from an underlying
carcinoma is not applicable to all cases and that in some cases PC cells might be the result of neoplastic transformation
of pre-existing Toker cells.
Lobular Carcinoma In Situ (LCIS) and Invasive Lobular Carcinoma (ILC) were described over 50 years ago, yet their biology remains largely unknown 6.
LCIS is an incidental finding in biopsies usually carried out
for other purposes, such as the investigation of benign lumps.
Patients are usually between 40 and 50 years old. Approximately 20-25% of patients with a diagnosis of LCIS will
progress to the invasive form of the disease, but over a very
long time period (typically 20 to 25 years). To date no specific markers or features have been identified that could
demonstrate that LCIS is a precursor of ILC 7. E-cadherin is
an adhesion molecule that is lost in most lobular lesions 8-10,
and some authors have advocated to use antibodies against Ecadherin as an adjunct marker for the differentiation of LCIS
and ductal carcinoma in situ 9. We developed a comparative
genome wide analysis and clonality assays between LCIS
and ILC present in the same patient evaluating chromosome
gains and losses by CGH-array 11 and direct sequencing of
mitochondrial(mt) D-loop region 4. CGH-array provides a
means to quantitatively measure DNA copy number aberrations and to map them directly onto genomic sequence with
a resolution power of about 75 kbases 12. The discovery of
gains and deletions was made using the CGH-Explorer
(http://www.ifi.uio.no/bioinf/Papers/CGH/) developed by the
University of Oslo (Norway). The genetic distance among
different lobular carcinomas was measured by a hierarchical
cluster analysis using the Expression Profiler software (Fig.
1). Another approach useful to verify a clonal derivation of
ILC from LCIS will be the direct sequencing of the mt Dloop region 4. The high frequency of mutation rate of mtDNA
in tumors, especially those found in the D-loop region, and
the large number of mitochondrial genome presence in one
cell, makes mtDNA a reliable marker for clonality assays
from microdissected paraffin embedded tissue samples. A direct alignment followed by phylogenetic neighbor joining
trees among sequences was useful to evaluate the genetic distance between LCIS and ILC with respect to normal tissue.
Concurrent carcinomas were cluster together by array CGH
data except for case 16,744 (7/8 cases). Phylogenetic trees
based on mtDNA analysis showed a strong genetic correlation between synchronous LCISs and ILCs except for cases
16,744, giving good agreement with array CGH data. We
conclude that genomic alterations, particularly 16q loss and
6p gain, are highly prevalent in ILC and LCIS respectively,
with invasive lesions exhibiting more alterations overall
compared with in situ lesions. The clonal relation exhibited
by most of these matched pairs supports the idea of a precursor-product relation between LCIS and ILC and indicates
that LCIS is more than simply a marker for an increased risk
of breast carcinoma.
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Analisi proteomica di tumori solidi
M. Trerotola, G. Vacca, M. Piantelli, S. Alberti
Unità di Patologia Oncologica, Dipartimento di Oncologia
& Neuroscienze e Fondazione Università “G. d’Annunzio”,
Chieti
Introduzione
Analisi di livelli di mRNA su microarray di DNA sono state
utilizzate per ottenere un “ritratto panoramico” dell’espressione genica del tumore della mammella 1. Tuttavia, per
quanto importanti per l’identificazione di reti di controllo
cellulari, i livelli di RNA non possono essere assunti come
indicatori diretti dei livelli della proteina codificata corrispondente. Variabili critiche sono infatti efficienza la proteina viene sintetizzata (efficienza traduzionale di un mRNA) e
degradata (emivita della proteina). Altrettanto critiche sono
le modificazioni post-traduzionali cui la proteina studiata
può andare incontro (es. processazione proteolitica, coniugazione a lipidi, fosforilazione, metilazione, acetilazione). Diventa quindi critico il poter analizzare direttamente il proteoma tumorale a livello di singolo paziente.
Approccio sperimentale
Due tecnologie vengono usate in modo prevalente. La prima
(separazione su gel bidimensionali) si basa sull’uso di gel di
poliacrilamide per separare le proteine tumorali in base a dimensione e punto isoelettrico. I gel vengono successivamente colorati con nitrato d’argento o coloranti fluorescenti, e la
quantità relativa di ciascuna proteina (spot) nel gel viene
quantificata. La seconda tecnologia si basa sull’utilizzo di
spettrometri di massa (separazione di proteine in base al peso molecolare nativo e alle modificazioni post-traduzionali).
Anche nel caso di utilizzazione di gel bidimensionali la spet-
189
trometria di massa gioca un ruolo critico nell’identificazione
delle proteine costituenti gli spot di interesse 2.
Una delle modificazioni post-traduzionali più critiche è la fosforilazione di proteine segnale in siti regolatori. Analisi efficienti dei livelli di fosforilazione di proteine specifiche possono essere condotte in saggi multiplex con anticorpi diversi
che rivelano sullo stesso filtro bande a peso molecolare diverso in chemiluminescenza. Questo approccio permette il
paragone interno dei livelli di espressione/modificazione di
intere famiglie di proteine segnale (es. MAPK).
Esempi di applicazioni delle tecniche descritte includono il
paragone di tessuti normali/cellule trasformate. Gel bidimensionali di alta qualità permettono di evidenziare oltre 1.000
specie proteiche per campione. L’analisi combinata di numeri significativi di tumori, es. di 100 pazienti, con questa metodica in modi statisticamente/biologicamente/clinicamente
accurati resta un problema aperto. Un secondo livello di
complessità resta la successiva integrazione dei dati di proteomica con tutti gli altri parametri disponibili (indicatori
prognostici classici, parametri istopatologici, analisi molecolari e dati di DNA microarray).
Analisi proteomica del siero
Metodiche tradizionali di diagnosi di tumore del seno (mammografia, ecografia) non sono in grado di rivelare tumori di
dimensioni inferiori a 0,5 cm di diametro. Sostanze presenti
nel tumore e rilasciate dallo stesso nella circolazione sanguigna (i marcatori tumorali) sono potenzialmente in grado di rivelare la presenza di malattia nelle fasi più precoci del suo
sviluppo, in particolare nei tumori più aggressivi. I marcatori usati fino ad ora non hanno però una sensibilità e specificità sufficienti per un uso efficace. Per identificare nuovi
marcatori tumorali in campioni di siero o plasma (e di tessuto) sono state tecnologie innovative quali l’analisi proteomica e la spettrometria di massa. Per quanto promettenti, queste
tecnologie presentano ancora limitazioni critiche, in particolare di sensibilità assoluta (ordini di grandezza inferiore rispetto all’atteso). Una seconda limitazione è nel separare in
modo non ambiguo picchi di segnale correlato alla presenza
di tumore da picchi di rumore 3. Tecniche recenti di spettrometria di massa accoppiate a deplezione selettiva delle proteine sieriche più abbondanti (albumina e immunoglobuline),
o sull’uso di albumina come carrier di piccole molecole 4 sono promettenti a questo riguardo.
Sviluppi futuri
Metodiche ad alta processività di ultima generazione utilizzano la rilevazione diretta di segnali di fluorescenza piuttosto
che, es., saggi enzimatici con cromogeni, che invece vengono ampiamente utilizzati per la rilevazione di singole proteine (ad esempio tecniche di immunoistochimica basate sull’uso come tracciante della perossidasi, o tecniche della categoria ELISA).
Normalmente, i lisati proteici sono marcati fluorocromi specifici, es. Cy3/Cy5. Un campione di riferimento, es. lisato
proteico di un pool di linee cellulari tumorali, viene marcato,
es., con il fluorocromo Cy3 (verde) e mescolato in proporzioni note con il campione da analizzare, marcato con il Cy5
(rosso). La mistura viene poi applicata ad una matrice di anticorpi specifici per un certo numero di proteine ed i segnali
di fluorescenza sono registrati. Il rapporto tra fluorescenza
verde e fluorescenza rossa in ogni punto della matrice, viene
utilizzato come misura dell’abbondanza relativa della corrispondente proteina nei due campioni (test e di riferimento).
Un problema rilevante di questo tipo di approccio, è rappresentato dalla poca riproducibilità delle reazioni di marcatura.
190
Una prima difficoltà deriva dall’eterogenea reattività chimica di specie proteiche diverse. A seguito di questo alcune proteine verranno marcate molto più efficiente di altre. Ne consegue una perdita di sensibilità della metodica nella rilevazione delle proteine meno marcate, oltre che perdita di specificità, poiché la fluorescenza delle proteine meglio marcate
può oscurare anche il legame specifico di proteine molto
scarse. Una seconda difficoltà deriva dalla natura eterogenea
dei campioni tumorali utilizzati (es. tumori scirrosi, ad alto
contenuto di collagene o tumori ad elevata cellularità o zone
necrotiche). Una terza difficoltà deriva dalla diversa struttura chimica dei fluorocromi utilizzati correntemente
(Cy3/Cy5). È importante notare che l’eliminazione completa
di questi fenomeni è virtualmente impossibile. Anche una
semplice ottimizzazione caso per caso delle procedure di
marcatura suesposte non è realistica, e comporterebbe seri
problemi di riproducibilità e consistenza dei risultati e, di fatto, ne impedirebbe una standardizzazione, obbligatoria per
uso in clinica, e lo stesso impiego di routine della metodica.
Sulla base di queste considerazioni, abbiamo sviluppato approcci innovativi che permettano di analizzare i lisati tumorali in condizioni native, ossia senza necessità di alcuna manipolazione.
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Statistica Medica e Biometria, Università di Milano, Milano,
Italy
In cancer research, expectations concerning tailoring of therapies on a biological basis have been dramatically increased
following the introduction of high throughput genomic/proteomic techniques that can simultaneously evaluate the expression of large numbers of tumour genes. However, clinical decision-making still largely relies on classical information like pathological staging, grading and steroid receptor
status, without a clear indication on how to integrate the results of emerging techniques with consolidated traditional
markers 1-3.
Despite the strong expectations that biological tumour markers could help in tailoring systemic treatments, the proper application of their information remains to be defined. A possible reason could be related to the large number of contrasting
results. Unfortunately the advent of genomic/proteomic studies has not yet solved this issue. A concerning aspect of these
studies, is their tendency in proposing new criteria for tumour sub-typing and prognostic classification from “the
scratch”, i.e. without resorting to previous knowledge about
the disease biology. This is potentially dangerous since their
RELAZIONI
findings are actually based on a limited number of subjects
with huge number of imprecisely measured variables 4.
Moreover, few efforts have been done for the development of
standardised criteria for the evaluation of the accuracy of
prognostic classification criteria. Consequently, there seems
to be an increasing gap between the resources employed for
basic and translational research on tumour markers and actual patient benefits and overall social gain.
Until now, translational research focused on single biological
markers which could putatively discriminate patients’ prognosis or treatment response. Now, in the “omic” era, the limited prognostic power of single genes seems to be generally
acknowledged, whilst highlighting the need for a prognostic
classification based an optimised, quantitative analysis of
many genes. However, it could be argued that different conventional biomarkers could still be useful to determine individual prognosis and treatment response if reliably measured
and jointly analysed with suitable statistical methodologies 5.
Considering the paradigmatic example of steroid receptors in
breast cancer, the question could be whether the optimal
quantitative analysis of traditional markers would better support clinical decision, waiting for improving the reliability
and reducing the costs of new molecular techniques.
Following this perspective, research could follow the lines:
i) identification of distinct tumour bioprofiles from molecular markers routinely measured and genomic/proteomic. In
breast cancer, gene expression profiling studies “rediscovered” a separation between tumour subtypes with steroid receptor absent and those with low or high levels of receptors,
more distinct tumour subtypes may be associated with different levels of ER and PgR. Such a biological evidence match
the initial indications of consensus panels 2 3 for the development of treatment guidelines for early breast cancer, thus providing a quantitative means for the biological profiling of tumours with different chance of responding to adjuvant therapy on the basis of biological markers.
ii) Definition and validation on different case series of benchmark predictive models for the risk of disease recurrence of
post-menopausal breast cancer patients with axillary lymphnode involvement, treated with adjuvant hormone therapy
(Tamoxifen), using only the patho-biological variables which
are currently available in almost clinical Institutions, on their
original continuous scale of measurement, according to the
indication emerged from past biostatistical papers and more
recent clinical guidelines. The contribution of new genomic/proteomic markers should be assessed on the basis of such
benchmark predictive models.
iii) Finally, it has to be pointed The need to carefully consider the clinical relevance of prognostic criteria either from traditional or genomic studies in terms of the probability of relapse according to the classification (i.e. area under the ROC
curve and positive/negative predictive values). Overall, such
issues support the need for cohort studies, planned ad hoc,
following initial studies. Validations should be subsequently
performed in prospective studies with appropriate designs 6 7,
targeted to provide answers in the clinical decision-making
process. The need for integrating exploratory studies addressing relevant biological issues (knowledge phase) with
subsequent prospective clinical studies (decision phase) must
be carefully considered to exploit biological knowledge in a
clinical context 8 9. It is unlikely that the oncologist would apply a decision criterion without clearly understanding its biological basis, but this is the underlying risk of developing
TECNICHE “HIGH THROUGHPUT” IN PATOLOGIA UMANA
blind “black-box” classifications based on multiple markers,
by means of sophisticated statistical techniques.
A rapid increase in the number of studies on markers identified by means of high throughput genomic techniques, at
considerable expense is likely. It would therefore be relevant
to promote the application of suitable study designs and statistical methods for the reliable assessment of data collected
on tumour markers, either genomic or “old”, and a faster
translation of basic research to medical decision-making.
These goals can be most successfully met through the cooperation of clinicians, biologists, biomedical informaticians
and biostatisticians.
Acknowledgements
This work was partially supported the EU Network of Excellence: Biopattern
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Cattedra di Anatomia Patologica, Università Tor Vergata,
Roma, Italia
Le biobanche e banche dei tessuti nascono dall’esigenza di
raccogliere tessuti, cellule e altri materiali biologici che, verificati attraverso stringenti controlli di qualità, vengano resi
disponibili per la cura delle malattie e per la ricerca. La richiesta di tessuti umani per ricerca è fortemente aumentata
negli ultimi anni soprattutto a seguito delle nuove conoscenze acquisite dal sequenziamento del genoma umano che hanno aperto nuovi orizzonti nell’uso dei tessuti umani sia per la
ricerca della eziopatogenesi delle malattie che per l’individuazione di nuovi target farmacologici. A fronte di quest’aumentata richiesta l’attuale disponibilità di tessuto umano è
insufficiente e pertanto si ritiene necessaria la creazione di
reti di banche dei tessuti e cellule umani. L’armonizzazione
sul piano normativo e delle regole di funzionamento delle
singole banche dei vari paesi è un prerequisito indispensabile per la realizzazione di reti nazionali e internazionali. Spesso i termini “biobanca” e “banca dei tessuti” vengono usati
come sinonimi per indicare le raccolte di tessuti, cellule e
DNA umani associate ad una banca dati. C’è tuttavia un certo dibattito in corso sull’opportunità o meno di sviluppare
una legislazione specifica per le biobanche usate nella genetica (Thomsen, 2004). Il Comitato etico europeo nella sua
Opinione del 1998 sugli aspetti etici relativi alle banche dei
tessuti umani sottolinea che, anche se ogni tessuto conservato è una potenziale fonte di informazioni genetiche (DNA), la
suddetta opinione non riguarda le banche genomiche (banche
DNA o biobanche) che pongono importanti questioni legali
ed etiche (in particolare riguardo alla riservatezza dei dati,
accesso a tali dati e usi possibili anche nel lungo periodo) che
saranno trattate in una successiva opinione. Una definizione
di biobanche genetiche si può trovare nella proposta di Linee
guida sulle biobanche genetiche della Società di genetica
umana e di Telethon Fondazione Onlus. Sono definite biobanche genetiche le raccolte di campioni di tessuti e linee
cellulari, da cui si ottengono acidi nucleici e proteine, che
rappresentano un’importante fonte di risorse per la diagnosi
e la ricerca da quella di base fino alla sperimentazione di terapie per le malattie genetiche. La peculiarità delle biobanche
genetiche richiede che i campioni conservati siano collegabili ai dati anagrafici, genealogici e clinici relativi ai soggetti
da cui deriva il materiale depositato.
In riferimento al sito di raccolta, alle figure professionali coinvolte, ed agli obiettivi, appare ragionevole che vengano distinte, ai fini regolatori e normativi, le biobanche genetiche per
studi epidemiologici dalle banche dei tessuti umani anche se
queste ultime possono essere fonte di DNA, RNA e proteine.
Le fonti più comuni di tessuto umano per le banche sono:
• materiale derivato da un intervento diagnostico (tra cui
screening) o terapeutico – noto anche come surplus materiale rispetto alle richieste cliniche;
• materiale specificamente donato per un progetto di ricerca
e conservato per successivo uso;
• materiale in origine donato per trapianto e o non utilizzato
o ritenuto inadatto per trapianto;
• materiale proveniente da persone decedute e sottoposte ad
autopsia.
Va sottolineato che questi tessuti sono generalmente prelevati nei laboratori di Anatomia Patologica. Gli archivi tradizionali (blocchetti di paraffina) rappresentano, inoltre, un patrimonio di valore inestimabile per la comunità scientifica ed
una potenziale sorgente di una mole imponente di dati personali. Negli ultimi anni accanto agli archivi in paraffina si sono costituite banche di tessuto normale e patologico congelato utilizzando i tessuti residuali.
Le biobanche esistenti sono di varie dimensioni, molte sono
piccole e solo alcune sono molto grandi: la tendenza attuale
è di predisporre grandi raccolte di popolazione, come è in
corso in Islanda (DeCODE), Estonia (Estonian Genome
Project), Gran Bretagna (UK Biobank), Finlandia (GenomEUtwin). Si è diffusa una maggiore consapevolezza in Europa sul valore dell’integrazione europea nel contesto delle
biobanche: la diversità di stili di vita, climi, popoli offre
un’opportunità unica per lo sviluppo di biobanche che favoriscano la valutazione dell’interazione tra fattori genetici e
ambientali in molte malattie (Hainaut, 2002). Inoltre è utile
ricordare alcune iniziative di rilievo quali la banca dei tumori dell’EORTC (European Organisation for Research and
treatment of Cancer) e il progetto Tubafrost che si propone di
creare una banca dei tumori pan-europea attraverso la creazione di una rete di raccolte di campioni tumorali congelati
standardizzati, ben documentati, (con le corrispondenti accurate diagnosi) per la ricerca.
Mentre esistono chiare normative per l’utilizzo di tessuti per
trapianti, sono tuttora da definire nella maggior parte dei paesi occidentali norme che regolino i vari aspetti inerenti alla
raccolta, conservazione, controllo di qualità, distribuzione,
aspetti etici e legali dei materiali biologici per la ricerca ed in
particolare per quelli di origine umana.
Recentemente in Gran Bretagna e Svezia è stata adottata una
normativa specifica sulle banche dei tessuti/biobanche. Lo
“Human Tissue Act” (HTA) approvato in Inghilterra nel 2004
istituisce un’autorità “human tissue authority” con funzione
consultiva e che sovrintende al rispetto dell’atto. Essa emanerà codici di condotta (su consenso, comunicazione con i
parenti sulle autopsie, esame anatomico, importazione ed
esportazione, materiali esistenti e smaltimento di tessuti).
In Svezia la normativa è molto severa e per questo è stata criticata per i limiti posti alla ricerca. Il paziente deve essere
informato su ogni singolo progetto in cui siano coinvolti i
suoi tessuti (la cui origine sia rintracciabile) e deve dare il
consenso per quell’uso specifico. Le biobanche possono essere stabilite solo presso istituzioni mediche ma possono essere rese disponibili per altri progetti di ricerca condotti in
istituzioni di ricerca pubblica, nei locali di una società farmaceutica. Per l’istituzione e l’uso di una biobanca è necessaria l’approvazione del comitato etico di ricerca. I campioni
anonimi non sono disciplinati dalla normativa suddetta. Possono sorgere problemi pratici e di metodo in mancanza di
consenso precedente o in caso di donatore deceduto.
In Italia non esistono specifiche norme e regolamenti sulle
banche dei tessuti umani per ricerca. A tal fine è stato recen-
BANCHE TISSUTALI: ORGANIZZAZIONE DI UNA RETE NAZIONALE
temente costituito un Gruppo di lavoro sulla “Certificazione
delle biobanche” per iniziativa del Comitato di Bioetica della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Tale iniziativa, analogamente alla proposta di legge sulla “Donazione del corpo
ai fini di studio e ricerca”, presentata dalla Commissione Affari Sociali della Camera e alla proposta di nuovo Regolamento di polizia mortuaria, potrebbero costituire occasioni
irripetibili per affrontare la complessità dei problemi sollevati dalla utilizzazione dei tessuti umani per la ricerca attraverso la costituzione di biobanche e banche dei tessuti e superare gli attuali limiti (normativi).
Banca di Tessuti Congelati. Presupposti, piano
operativo e struttura organizzativa
A. Carbone, M.G. Daidone*
Direttore del Dipartimento di Anatomia Patologica, Istituto
Nazionale Tumori, Milano, Italia; * Responsabile della Struttura Complessa di Ricerca Translazionale, Istituto Nazionale Tumori, Milano, Italia
Introduzione
L’integrazione tra le attività connesse alla banca tessuti e la
routine chirurgica e diagnostica è essenziale per un’efficiente raccolta di tessuto. A tale proposito, la definizione delle
procedure strategiche e operative necessarie all’attivazione e
al mantenimento della banca Tessuti deve derivare dalle proposte di un team multidisciplinare, del quale facciano parte,
oltre agli Anatomo-Patologi, rappresentanti delle équipes
chirurgiche, dello staff del reparto di Anestesia e Rianimazione e dei responsabili dei progetti di ricerca che utilizzeranno parte del materiale raccolto.
Metodi
Procedure e piano operativo devono trovare concretezza in
un Progetto Istituzionale, a cura della Direzione Sanitaria/Direzione Scientifica. Tale Progetto deve essere spiegato e condiviso, enfatizzando la necessità di preservare in maniera ottimale il tessuto fresco e congelato da destinare alla ricerca e
allo studio biotecnologico.
Risultati
Stabilire una procedura operativa per raccogliere e conservare il tessuto patologico residuo dopo la diagnosi e destinarlo
alla ricerca e allo studio biotecnologico dovrebbe minimizzare la probabilità che i campioni operatori possano essere
compromessi dal punto di vista diagnostico.
Verrebbe anche ad essere di vantaggio per il Dipartimento di
Patologia un rapido ed efficiente trasferimento del tessuto
dalle sale operatorie all’Anatomia Patologica che verrebbe a
ridurre il tempo richiesto all’Anatomo-Patologo per le attività connesse alla banca tessuti.
Conclusioni
È ovviamente necessario un adeguato supporto alla banca
tessuti e al suo mantenimento che si può concretizzare non
solo in termini di Infrastrutture dedicate ma anche di un regolare e costante aggiornamento di attività e iniziative che
gravitano intorno ad essa.
La formazione del personale della banca tessuti deve essere
specificatamente finalizzata agli obiettivi e alle modalità di
raccolta del materiale per una banca ottimale, non trascurando ovviamente anche tutte le normative relative alla sicurezza del lavoro.
L’attivazione di un Progetto Istituzionale Banca di Tessuti
Congelati non si esaurisce, tuttavia, nella raccolta e distribuzione di materiale biologico ma mette in moto una serie di
193
iniziative collaterali di carattere normativo ed etico-legale
volte a definire non solo nuove modalità per l’acquisizione
del consenso informato e per garantire la riservatezza delle
informazioni disponibili, ma anche per stabilire le priorità
per la distribuzione del materiale biologico e la possibile condivisione a livello Istituzionale delle informazioni generate
dalle diverse ricerche condotte sugli stessi campioni. Se ben
implementato e sostenuto, un Progetto di tale portata rappresenta un collante tra le diverse iniziative di un Istituto di ricerca e ne sinergizza risorse e risultati.”
Banca di tessuti congelati: l’esperienza
dell’istituto nazionale tumori di Milano
A. Pellegrinelli, P. Collini, A. Carbone
Dipartimento di Anatomia Patologica Istituto Nazionale Tumori di Milano
Introduzione
La genomica e la proteomica sono attualmente i campi di
maggior interesse e sviluppo scientifico in oncologia.
Prelevare una parte di tessuto tumorale inviato per la diagnosi istopatologica, congelarla e conservarla a -80 °C è indispensabile per lo studio e l’utilizzo ottimale degli acidi nucleici e delle proteine contenuti nel tumore avvalendosi delle
attuali biotecnologie. Inoltre, implementare una banca di tessuti congelati, oggi, significa garantire lo studio e l’utilizzo
futuro del tessuto stoccato avvalendosi di biotecnologie innovative che prossimamente saranno validate.
Questo progetto è diventato imperativo in un Centro, l’Istituto Nazionale Tumori di Milano (INT), dove quotidianamente
perviene al Dipartimento di Anatomia Patologica un considerevole quantitativo di tessuti umani rappresentativi di un ampio spettro oncologico.
Metodi
Poiché il proprietario legittimo della parte del tessuto che
verrà destinato alla banca è il paziente, condizione preliminare e indispensabile è il suo consenso informato.
Condizione obbligatoria e fondamentale è la stretta collaborazione interdisciplinare coinvolgente il patologo, il chirurgo, l’oncologo medico ed il personale di supporto per i seguenti motivi:
1. prelevare una parte di tumore per la banca potrebbe, in alcuni casi, pregiudicare la successiva e ben più importante
diagnosi istopatologica. È necessario che, almeno in particolari casi, siano inviate insieme al campione, oltre ai dati
clinici ordinari, tutte le informazioni riguardanti la storia
clinico-patologica del paziente;
2. il tempo che deve intercorrere tra l’asportazione chirurgica
del tessuto ed il suo congelamento non dovrebbe essere superiore ai 30 minuti per ottenere un buon campione congelato in senso di qualità di conservazione delle molecole.
Per di più, durante il trasporto, il tessuto dovrebbe essere
messo in ghiaccio fondente in contenitori/involucri di plastica o avvolto in garze umide.
Per soddisfare le due condizioni, quindi, è necessario attivare
procedure affinché sia reso veloce ed efficiente il trasporto del
campione dalla sala operatoria alla anatomia patologica.
Risultati
La necessaria stretta collaborazione interdisciplinare si è
concretizzata in istituto nella formazione di un gruppo di lavoro comprendente rappresentanti della anatomia patologica,
della chirurgia, della oncologia e della anestesia e nella successiva stesura di un protocollo che prevede:
194
1. la stesura del consenso informato da parte del comitato etico;
2. un “work-flow” che definisca tutti i passaggi, dalla firma
del consenso informato alla archiviazione del tessuto congelato con le rispettive competenze ed eventuali sostituzioni in caso di emergenze;
3. la identificazione dei campioni congelati mediante un codice a barre e la conservazione in congelatori a -80 °C dotati di allarme;
4. la immissione in un database di tutte le informazioni riguardanti il paziente, il tempo intercorso dall’asportazione
RELAZIONI
al congelamento, la diagnosi istologica e la posizione nel
congelatore;
5. la effettuazione di controlli periodici sulla qualità delle
molecole conservate.
Conclusioni
Il protocollo concordato e le procedure avviate hanno reso
evidente la necessità di risorse in termini di infrastrutture,
personale dedicato e finanziamenti.
Inoltre, è in corso il coordinamento da parte della Direzione
Scientifica di un aggiornamento dei protocolli di ricerca già
esistenti in Istituto che utilizzano tessuto fresco o congelato.
PATHOLOGICA 2005;97:195-196
Trapianti
A cura di M. Rugge (Padova)
Il controllo autoptico: normativa e
raccomandazioni
M. Valente, F. Calabrese, A. Angelini, C. Rago*
Istituto di Anatomia Patologica, Università di Padova; * Centro Regionale Trapianti del Veneto, Padova, Italia
Le neoplasie sono una complicanza dei trapianti d’organo:
alla loro insorgenza concorrono l’immunosoppressione, per
la perdita della sorveglianza immunitaria nei confronti dell’insorgenza del tumore e per la possibile carcinogenicità di
alcuni farmaci immunosoppressori, e le infezioni virali. Accanto alle neoplasie proprie del ricevente insorte dopo il trapianto, possiamo avere anche tumori trasmessi dal donatore.
Nel 1991 Israel Penn pubblicò un articolo intitolato: Donor
transmitted Disease: Cancer. Era la prima casistica rilevante
di tumori trasmessi da Donatore a Ricevente e riportava l’esperienza del “Cincinnati Transplant Tumor Registry” 1. Riguardava 118 donatori con neoplasia maligna (96 cadaveri e
22 viventi): la neoplasia era stata trasmessa a 72 riceventi
(44%). Per quanto riguarda i donatori cadavere la neoplasia
era stata scoperta all’autopsia, e il tumore si era sviluppato
nel ricevente precocemente o comunque entro 38 mesi dal
trapianto. Successivamente Penn formulò alcune raccomandazioni per ridurre al minimo il rischio di trasmissione di
neoplasie, e fra queste era inclusa l’autopsia: “Precautions to
prevent cancer transmission include meticulous preoperative
screening of donors, careful examination of all organs at the
time of harvesting, biopsy of any suspicious lesions, and routine donor autopsy, if possible” 2.
L’autopsia del donatore con controllo istologico degli organi
sospetti, anche se non “contestuale” al prelievo, è raccomandabile, perché il riconoscimento di un tumore maligno nel
donatore, anche dopo che è stato effettuato il trapianto, può
guidare il follow-up del paziente. Non è possibile eseguire
una autopsia contestuale al prelievo di cuore e polmoni, se il
Donatore deve donare anche fegato e reni. Dopo il prelievo
di fegato e reni è difficile, ma non impossibile eseguire
un’autopsia prima del trapianto di fegato, rispettando i tempi
di ischemia compatibili per l’organo. La difficoltà riguarda
problemi di ordine organizzativo ed economico, dato che
l’attività trapiantologica si svolge solitamente di notte. Per i
reni, per cui sono consentiti tempi di ischemia più lunghi,
non vi sono difficoltà perché l’autopsia può essere eseguita
all’inizio del normale orario di lavoro di una unità Operativa
di Anatomia Patologica.
La domanda di organi solidi disponibili ai fini di trapianto è
in continuo aumento. Per soddisfare la richiesta, vengono impiegati sempre più spesso donatori “anziani”. L’aumento annuo del 3,7% che si è verificato negli ultimi anni nel numero
di donatori cadavere, secondo i dati dell’United Network for
Organ Sharing è dovuto in larga misura a donatori anziani 3.
Il rischio di insorgenza di neoplasia per individui di età uguale o superiore a 65 anni è due o tre volte maggiore rispetto a
quelli di età compresa fra 45 e 64 anni, e più di 12 volte rispetto agli individui di età compresa fra 25 e 44 anni 4. Si può
supporre pertanto che espandendo il pool dei donatori ad individui anziani si aumenti il rischio di trasmissione di neoplasie da donatore a ricevente.
“Anamnesi, esame obiettivo, esami strumentali e di laboratorio, esami istopatologici e/o autoptici eventualmente suggeriti dai tre precedenti livelli di valutazione” sono le raccomandazioni già contenute nelle linee guida del NITp 5 e successivamente nel documento “Criteri generali per la valutazione di idoneità del donatore” redatto dal Centro Nazionale
Trapianti e approvato dalla Conferenza Stato-Regioni. L’applicazione delle linnee guida nazionali consente un corretto
processo di valutazione del rischio per tutti i donatori proposti e permette di ampliare il pool degli organi disponibili 6.
Nella realtà padovana esiste dal 1985 (data del I trapianto di
cuore in Italia) una reperibilità anatomo-patologica di 24 ore
su 24 per Trapianti, che fa capo al nostro Gruppo, e che è attiva per tutto il Veneto e, su richiesta del NITp, anche per donatori esterni alla Regione Veneto. Tale attività, che è “bioptica” con esami estemporanei o in inclusione rapida, per i Donatori di Padova prevede anche l’autopsia, eseguita il più rapidamente possibile. L’indagine istopatologica relativa ai
prelievi degli organi rimasti in sede, viene effettuata in
estemporanea per lesioni sospette. Vengono effettuati anche
prelievi di midollo dalla cresta iliaca, per aumentare la sicurezza anche in caso di donazione di cornea e tessuti. Il protocollo è stato discusso durante il Corso di Aggiornamento promosso dalla FITO “L’Anatomia Patologica nel Processo Donazione-Trapianto”, organizzato da M. Valente e C. Rago
presso il Centro Congressi Abbazia di Praglia, il 28 Maggio
2004, e viene messo in pratica nelle UO di Anatomia Patologica in cui è possibile effettuare un riscontro autoptico in
tempi brevi.
Secondo uno studio danese il rischio di utilizzare un donatore con una neoplasia occulta è dell’1,3% 7 e, anche se non sono numerose le segnalazioni in letteratura, è ragionevole pensare che l’autopsia del donatore di organi e di tessuti permetta di evidenziare patologie occulte, non solo neoplastiche, ma
anche infettive 8, tanto da indurre Kauffman et al. ad affermare: “Ideally, every cadaveric donors should have a complete autopsy performed …” 9.
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Il patologo e la sicurezza del trapianto: il
controllo istologico
A. Altimari, E. Gruppioni, E. Gabusi, E. Benedettini, M.
Fiorentino, B. Corti, M.G. Pirini, W.F. Grigioni, A. D’Errico Grigioni
Laboratorio di Patologia Molecolare e dei Trapianti, Istituto
Oncologico “F. Addarii”, Policlinico “S. Orsola-Malpighi”,
Università di Bologna, Bologna, Italia
L’attività del patologo, finalizzata alla valutazione della idoneità dei donatori e degli organi sta assumendo una rilevanza
sempre maggiore negli ultimi anni. L’elevata età media dei
donatori comporta sia un peggioramento della qualità generale degli organi, sia un aumento consistente del rischio potenziale di trasmissione di malattie neoplastiche dal donatore
al ricevente. La nostra Unità Operativa di Anatomia Patologica, unitamente al Centro Trapianti Regione Emilia-Romagna e alle strutture Ospedaliere Regionali coinvolte nella attività di donazione e trapianto, ha elaborato un protocollo di
screening per malattie neoplastiche dei donatori multiorgano
che costituisce la base delle linee guida nazionali approvate
dal Centro Nazionale Trapianti ed applicate su tutto il territorio dal 2003 1. Tale protocollo prevede una fase pre-chirurgica che comprende la raccolta accurata della anamnesi, esaminazione esterna, l’effettuazione di test laboratoristici e microbiologici mirati alla esclusione di malattie trasmissibili
unitamente ad Rx del torace e ad uno screening ecografico
dei maggiori organi addomino-pelvici. Fa seguito una seconda fase invasiva, durante la quale il chirurgo prelevatore
esplora tutti gli organi interni segnalando e prelevando lesioni sospette. Tutti i campioni tissutali sospetti vengono esaminati istologicamente mediante esame al congelatore. Pur nella consapevolezza che il rischio zero non esiste, l’obiettivo è
quello di ridurre al minimo il rischio di trasmissione di malattie da donatore e ricevente. Per quanto riguarda la patologia neoplastica, i donatori vengono classificati in base al rischio di trasmissione neoplastica nelle seguenti categorie: 1)
rischio standard; 2) rischio non-standard (basso rischio di trasmissione, eleggibilità ristretta agli organi salvavita con consenso informato del paziente); 3) rischio inaccettabile (esclusione incondizionata a causa di un alto rischio di trasmissione neoplastica).
Nella nostra esperienza regionale, da gennaio 2001 a febbraio 2005, il protocollo di screening per malattie neoplastiche è stato applicato in 638 donatori. Il sospetto clinico di lesione neoplastica era insorto in 131 (21%) donatori. L’esame
istologico in estemporanea, ha portato all’esclusione di 20
(3%) donatori dovuti alla presenza di neoplasie (11 carcinomi prostatici, 3 carcinomi renali, 2 carcinomi della tiroide, 2
linfomi a cellule B, 1 carcinoma del colon) o infezioni (1 tu-
RELAZIONI
bercolosi), mentre in 7 casi la qualità degli organi era ritenuta non soddisfacente. Il recupero dei rimanenti 104 donatori
multiorgano, tutti portatori di neoplasie benigne neoplastiche
o infiammatorie all’esame istologico ha portato all’utilizzo di
244 organi (134 reni, 93 fegati, 12 cuori, 4 polmoni, 1 pancreas). Da qui si evince come l’applicazione di questo protocollo, permetta sia una donazione più sicura, sia l’utilizzo di
organi che non sarebbero ritenuti idonei seguendo i soli criteri clinici, implementando e ottimizzandone l’impiego. La
sua applicazione potrebbe essere di grande aiuto in particolare per l’utilizzo di donatori marginali come i soggetti anziani
oggi sempre in aumento.
I donatori con neoplasia che rientrano nella categoria a rischio standard sono soltanto i portatori di carcinoma in situ,
per gli altri donatori a rischio non-standard che in situazioni
di urgenza/emergenza possono essere utilizzati, una valutazione più precisa della quantizzazione del rischio dovrebbe
essere considerata. Gli unici parametri al momento utilizzabili per la quantizzazione del rischio sono:
1)la valutazione del comportamento biologico della neoplasia (limite: modelli esistenti sono applicabili ai pazienti
convenzionali, non sottoposti a trapianto e a situazioni di
immunodepressione farmacologia);
2)revisione dei dati della letteratura, validati a livello internazionale, riferiti specificatamente alla trasmissione neoplastica donatore/ricevente (limite: dati abbondanti ma
spesso contraddittori).
Nuovi studi e nuovi strumenti per la valutazione del rischio
di trasmissione neoplastica sono auspicabili. L’evoluzione
delle metodiche di patologia molecolare, ha influenzato anche la medicina dei trapianti. Nel nostro Laboratorio di Patologia Molecolare e dei Trapianti siamo impegnati in una seri
di progetti di ricerca finalizzati al miglioramento delle procedure diagnostiche e del monitoraggio dei pazienti trapiantati.
La valutazione tramite metodiche di amplificazione genica
quantitativa (Real Time PCR) di cellule tumorali circolanti e
la quantificazione del DNA libero circolante sono strumenti
sperimentali di “quantificazione” del rischio di trasmissione
neoplastica, in fase di ulteriori validazioni, ma che stiamo applicando sia a potenziali donatori sia a pazienti che hanno ricevuto organi da donatori portatori di neoplasie accertate accidentalmente dopo il trapianto. Infine altra metodica utile in
medicina dei trapianti che il laboratorio ha messo a punto, è
un test diagnostico normalmente in uso per le analisi forensi,
al fine di stabilire con elevata sensibilità e specificità la “paternità” dei tessuti dai quali origina una neoplasia 2. Discriminare tra neoplasie recidive e neoplasie de novo in un ricevente di organi solidi si rivela infatti particolarmente utile sia
per le implicazioni cliniche sia medico-legali che questo
comporta.
Bibliografia
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orthotopic liver transplantation. Diagn Mol Pathol 2005;14:34-8.
PATHOLOGICA 2005;97:197-199
Citopatologia I
Moderatore: R. Navone (Torino)
Il confronto cito-istologico
L. Di Bonito, S. Dudine, D. Bonifacio, A. Romano, F.
Zanconati, F. Martellani, E. Gerardi
Dipartimento di Scienze Cliniche, Morfologiche e Tecnologiche, Università di Trieste, Italia
Uno degli aspetti di maggior rilievo nella gestione di un laboratorio di Citodiagnostica è il controllo di qualità, inteso
come studio delle procedure messe in atto per ridurre la possibilità di errore, sia a livello tecnico che diagnostico. In particolare è da considerarsi molto importante il confronto citoistologico, in quanto l’istologia è considerata, per definizione,
il “gold standard”. Nella nostra esperienza la comparazione
avviene quotidianamente, facilitata dal fatto che alla nostra
unità operativa, essendo l’unica della provincia, afferiscono
tutti gli esami citologici ed istologici eseguiti sul territorio.
Inoltre è tradizione effettuare il riscontro diagnostico sulla
maggior parte dei decessi avvenuti in ambito ospedaliero e
ciò consente di seguire tutto l’iter diagnostico del paziente e
di avere a disposizione un archivio cito-istopatologico completo. Infine nella regione Friuli-Venezia Giulia è attivo da
diversi anni un sistema informatico centralizzato in cui vengono condivisi tutti i referti delle Anatomie Patologiche regionali.
Gli esami citologici da noi eseguiti annualmente sono circa
24.000, di cui 14.000 sono rappresentati da Pap test (85% di
screening attivo); la rimanente parte è costituita da preparati
extravaginali di citologia esfoliativa (urine, broncoaspirati,
liquidi endocavitari) ed agoaspirativa (mammella, tiroide,
ghiandole salivari, ecc.).
In ambito cervicovaginale, essendo molto importante monitorare in tempo reale l’efficacia del programma di screening, sono stati definiti con precisione degli indicatori diretti ed indiretti di qualità sui quali eseguire le analisi statistiche utili per
individuare eventuali scostamenti dai range ottimali. Fra i
principali indicatori diretti di qualità ricordiamo il Detection
Rate (DR), che è espressione del confronto tra la diagnosi citologica e quella istologica in quanto rappresenta il numero di
lesioni citologiche di alto grado confermate istologicamente
sul totale dei Pap test di screening. Questo valore fornisce una
misura oggettiva della validità dei parametri diagnostici citologici adottati. Il range ottimale di DR grezzo ottenuto dal GISCi a livello nazionale per il 2001 è compreso tra 1,04 e
5,2‰. Nel nostro centro il valore osservato in quell’anno è
stato 4,27‰. Nel caso di discordanza valutativa con la biopsia, il “falso positivo” citologico porta, nella nostra realtà, ad
un ulteriore approfondimento diagnostico che, in un numero
elevato di casi, consente di individuare la presenza di una lesione intraepiteliale non correttamente campionata, garantendo così la gestione ottimale della paziente 1-3.
Il valore diagnostico della citologia urinaria dipende da molte variabili: numero di casi analizzati, tipo di lesione, numero di inadeguati, tecnica usata per l’allestimento dei vetrini,
durata del follow-up e disponibilità di notizie anamnestiche
del paziente. L’accuratezza diagnostica aumenta con l’aumentare del grado della neoplasia, con una sensibilità del
17% per le lesioni istologiche di grado 1 (lesioni prive di atipie cellulari), del 61% per il grado 2 fino al 90% per il grado
3. Anche in questo caso non tutti i risultati apparentemente
falsi positivi lo sono davvero, in quanto la citologia urinaria
scopre talora lesioni in una fase precoce o non visibili alla cistoscopia 4. Attualmente la nostra sensibilità citologica per
tutte le lesioni uroteliali è del 61% e si avvicina al 100% per
quelle di alto grado.
Ogni anno pervengono al nostro servizio in media 600 casi di
versamenti endocavitari, di cui il 20% rappresentativo di una
lesione maligna. Nonostante gli enormi progressi delle tecniche d’indagine diagnostica (esami di laboratorio, Tac, Risonanza magnetica, PET, ecc.), sono ancora numerosi i casi in
cui la prima diagnosi di malignità è quella citologica sul versamento. Da un lavoro retrospettivo risulta che la prima diagnosi riguarda il 55% dei versamenti pleurici ed il 44,5% dei
peritoneali. Il confronto cito-istologico ci ha fornito nel tempo una serie di parametri morfologici che, aggiunti ad osservazioni statistiche e ad indagini immunoistochimiche su citoincluso, consentono di individuare la sede primitiva di una
neoplasia sconosciuta 5.
Il ruolo principale della citologia esfoliativa di tipo bronchiale è l’identificazione di neoplasie primitive o metastatiche a
carico del polmone ed il monitoraggio post-terapeutico di pazienti con pregressa neoplasia polmonare. La sensibilità citologica dipende da diversi fattori, quali il tipo di campione, la
modalità di raccolta, le dimensioni del tumore, la sua localizzazione e l’istotipo. Nella nostra Azienda Ospedaliero-Universitaria, esiste già da parecchi anni un Servizio di Broncologia in cui vengono eseguiti, su tutti i pazienti con sospetto
radiologico, oltre all’indagine broncoscopica, anche un prelievo citologico e, se possibile, un prelievo bioptico. La citologia e la biopsia vengono lette in maniera separata e le due
diagnosi confrontate. Pur essendo la sensibilità delle due metodiche elevata (rispettivamente 81% e 78%), la loro complementarietà consente di aumentare tale valore fino al 90%.
La citologia agoaspirativa in ambito mammario rappresenta
uno strumento efficace di diagnosi. Nella nostra realtà il prelievo viene quasi sempre eseguito sotto guida ecografica e
con la partecipazione attiva del patologo che valuta immediatamente l’adeguatezza del materiale prelevato con una colorazione rapida; in tal modo il tasso di inadeguati si è attestato attualmente attorno al 7,5%. La diagnosi citologica viene sempre collocata in una precisa categoria diagnostica (da
C1 a C5, secondo le Linee Guida Europee) che, confrontata
con quella radiologica (R1-R5 e E1-E5), porta all’eventuale
intervento chirurgico definitivo con un inquadramento diagnostico preoperatorio completo 6 7. I risultati sulla nostra casistica del 2003 sono quanto mai incoraggianti: su 748 noduli agoaspirati relativi a 580 pazienti, i valori di sensibilità e
specificità sono rispettivamente del 96% e del 94,8%, con un
VPP del 98,5% ed un VPN del 98,1%.
In conclusione, la nostra esperienza dimostra come la citologia, se correttamente eseguita, sia una metodica estremamente valida ed accurata soprattutto quando è inserita in un contesto clinico ed istopatologico. Il confronto cito-istologico
consente un monitoraggio continuo del proprio operato, rappresenta un importante supporto alla crescita culturale del citopatologo ed offre spesso la possibilità di definire meglio
una lesione a vantaggio del paziente e delle strutture sanitarie.
RELAZIONI
198
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Marker di progressione in citologia
ginecologica (cervice)
S. Rosini
Sezione di Citodiagnostica, Dipartimento di Oncologia e Neuroscienze, Università di “G. d’Annunzio”, Chieti-Pescara
Donne infettate da Papillomavirus ad alto rischio oncogeno
(HR-HPV) risultano essere cento volte più a rischio di sviluppare una lesione cervicale di alto grado rispetto a donne
sane.
Acidi nucleici di HR-HPV sono stati ritrovati in quasi tutte le
lesioni cervicali di alto grado e nei carcinomi; in particolare,
due geni E6 ed E7 codificati da HR-HPV vengono consistentemente espressi nelle suddette patologie ed anche in linee
cellulari da esse derivate.
Essi sono potenti oncogeni la cui continua espressione rappresenta un requisito essenziale ed indispensabile per il mantenimento della crescita neoplastica.
Studi sui meccanismi molecolari relativi alla trasformazione
neoplastica indotta da tali geni hanno evidenziato complesse
interazioni con le proteine responsabili della modulazione
del ciclo cellulare, dell’apoptosi, della differenziazione epiteliale, dell’omeostasi e della stabilità cromosomica. Queste
osservazioni confermano il ruolo patogenetico degli HRHPVs nella carcinogenesi cervicale.
Numerosi studi epidemiologici rivelano che le infezioni da
HR-HPV, molto frequenti nelle donne tra i 20 ed i 35 anni,
per la maggior parte si risolvono spontaneamente; solo le
donne con persistenza dell’infezione virale sviluppano lesioni cervicali di alto grado.
Alla luce di questi aspetti l’ipotesi di utilizzo di un test virologico nello screening primario del cervicocarcinoma ha ingenerato numerose controversie. La positività del test avrebbe un basso valore predittivo positivo, relativamente alla presenza di lesioni pre-neoplastiche; la sua negatività rappresenterebbe un alto valore predittivo negativo per lesioni di alto
grado e carcinomi.
Sicuramente di grande aiuto nella stratificazione delle pazienti con Pap test anormale, l’uso del test virologico nello
screening primario potrebbe generare ulteriori costi aggiuntivi nella gestione di tutte le pazienti infette senza evidenze di
anormalità citologica 1. Da tali considerazioni scaturisce l’attenzione verso biomarker più specifici, con un maggior valore predittivo positivo, allo scopo di ridurre i costi dei programmi di screening ed aumentare la compliance delle donne nei confronti di trattamenti indiscutibilmente necessari.
La possibilità di traslare le conoscenze acquisite in anni recenti relativamente alla patogenesi molecolare ed alla storia
naturale del cervicocarcinoma nella pratica clinica, passa attraverso l’utilizzo di metodiche che beneficiano dell’imponente ruolo innovativo della citologia in fase liquida nello
screening del cervicocarcinoma.
Il materiale residuo, disponibile dopo un primo allestimento
per la valutazione morfologica del materiale cellulare, risulta
prezioso per effettuare, sullo stesso campione, ulteriori inda-
gini immunocitochimiche e/o molecolari che indirizzino, in
modo più accurato, le indagini di secondo livello e migliorino quindi la gestione delle pazienti con Pap test anormale.
Marker che correlano con infezioni da HPV possono essere
particolarmente valutabili in questo contesto, nell’ottica di
individuare soggetti che sono a più alto rischio di progressione verso la malignità. In particolare, attualmente, vengono
studiati marker che riflettono la dis-regolazione del ciclo cellulare nella neoplasia cervicale indotta da HR-HPV. Molti
candidati sono target dei fattori di trascrizione E2F e sono
rappresentati da molecole implicate nelle progressione del ciclo cellulare (Ciclina E), nella replicazione del DNA
(MCMs), nella sintesi del DNA (PCNA) e nel controllo del
ciclo cellulare (INK4a e WAF1) 2.
Tuttavia, i livelli di espressione di queste proteine possono
essere modificati da numerosi fattori addizionali comprendenti altri fattori di trascrizione, promotori dell’ipermetilazione e modificazioni post-trascrizionali. Possono, perciò,
variare in quantità e distribuzione sia temporalmente che spazialmente. Da un punto di vista pratico, marcatori con distribuzione esclusivamente nucleare possono più facilmente essere evidenziati a livello microscopico rispetto ad analoghi
che producono una colorazione citoplasmatica. A corollario
di queste considerazioni, va detto che ciascun candidato biomarker necessita di essere valutato rispetto ai propri meriti.
Attualmente, di grande interesse risulta essere la proteina p16
INK4a 3, inibitore chinasico ciclina-dipendente, capace di regolare la fase G1-S del ciclo cellulare. Svariati studi hanno
dimostrato l’overespressione di tale proteina nelle lesioni
cervicali HR-HPV-indotte, da correlare all’interazione e degradazione della proteina pRb da parte di E7. Utile nel confermare lesioni HSIL-ASC-H, studi di follow-up sono necessari per validarne il valore predittivo di progressione della lesione per l’utilizzo nel triage delle lesioni LSIL-ASC.
La funzione oncogena delle proteine codificate dai geni virali E6/E7 è chiara da circa un decennio; una enorme quantità
di letteratura ad oggi documenta che non è il virione dell’HPV ad avere un ruolo attivo nel processo cancerogenico, e
che non è possibile lo sviluppo un carcinoma HPV-correlato
senza la presenza della piena espressione delle suddette oncoproteine nelle cellule anormali.
Con tale premessa, nello studio dei marker di progressione
delle lesioni cervicali HPV-indotte entra attualmente, ed a
pieno titolo, un test capace di valutare la presenza dell’RNA
messaggero di E6/E7 4.
Il poter disporre di un test dotato di un alto significato prognostico e di un’alta specificità è di valore inestimabile nella
gestione delle donne con Pap test anormale.
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Markers di progressione in citologia
ginecologica (endometrio)
A.M. Buccoliero, G.L. Taddei
Dipartimento di Patologia Umana e Oncologia, Università
di Firenze, Firenze, Italia
La valutazione patologica e funzionale dell’endometrio si avvale di molteplici possibili approcci diagnostici spesso inte-
CITOPATOLOGIA I
grati tra loro e ciascuno più idoneo per un particolare quesito e momento diagnostico.
Tra questi, l’ecografia endometriale e l’isteroscopia, avvalendosi di importanti innovazioni tecnologiche quali l’ecografia transvaginale e la microisteroscopia, sono andate incontro ad una diffusione crescente.
Tecnologie innovative sono state introdotte anche in ambito citologico in particolare per quel che riguarda l’allestimento dei
preparati. Con la metodica dello strato sottile (o citologia in fase liquida) il materiale cellulare, raccolto con le consuete metodiche, non viene più immediatamente strisciato sul vetrino,
ma posto in un liquido di fissazione ed in seguito, attraverso
un’apparecchiatura dedicata ed in una porzione rappresentativa dell’intero campione prelevato trasferito sul vetrino in monostrato. Il materiale residuo, anch’esso rappresentativo di tutte le componenti cellulari prelevate, è inoltre disponibile per
l’allestimento di ulteriori preparati, colorazioni istochimiche,
immunocitochimiche o indagini di biologia molecolare. La citologia in fase liquida consente inoltre di ridurre le emazie ed
il muco presenti nel campione prelevato e di ottenere preparati con sovrapposizione cellulare minima. Questa metodica offre proficue opportunità alla citologia endometriale.
L’adenocarcinoma endometriale, contrariamente al carcinoma della cervice uterina, non è mai stato oggetto di importanti programmi di screening nonostante l’elevata incidenza
e l’esistenza di precursori morfologici rappresentati dall’iperplasia endometriale (nel caso del più frequente, estrogeno-dipendente e relativamente indolente adenocarcinoma endometriale di Tipo I) e dal carcinoma sieroso intraepiteliale
(nel caso del più raro, estrogeno-indipendente e a prognosi
199
peggiore adenocarcinoma endometriale di Tipo II). La sintomatologia precoce e la relativa buona prognosi spiegano solo in parte il disinteresse allo screening dell’adenocarcinoma
endometriale. Mancava, infatti, per l’endometrio un test
comparabile alla citologia cervico-vaginale per affidabilità
diagnostica, tollerabilità da parte della donna e basso costo.
La larga diffusione della citologia endometriale è stata fortemente ostacolata dalle notevoli difficoltà di lettura legate alla comune presenza di sangue e all’affollamento cellulare comuni nei preparati citologici endometriali. L’allestimento dei
preparati citologici con la metodica dello strato sottile consente di ridurre drammaticamente la presenza di tutti i fattori oscuranti la lettura.
Al fine pertanto di valutare l’efficacia diagnostica della citologia endometriale in fase liquida abbiamo comparato i risultati cito-istologici su un campione di 918 donne consecutive
sottoposte ad esame isteroscopico cui veniva praticato un
prelievo citologico e bioptico dell’endometrio. L’età media
delle donne era di 52 anni (range 23-89). Nel 72% dei casi la
principale indicazione all’isteroscopia era l’ispessimento endometriale ecograficamente rilevato; il 38% delle donne riferiva sanguinamenti endometriali.
La citologia endometriale in fase liquida ha fornito preparati
diagnostici più spesso della biopsia (96% vs. 58%; p = < 0,04).
La sensibilità è stata 96%, la specificità 98%, il valore predittivo positivo 87,6% ed il valore predittivo negativo 99,5%.
Su queste basi, riteniamo che la citologia in fase liquida possa offrire alla citologia endometriale interessanti prospettive
di utilizzo nel dépistage, almeno selettivo, dell’adenocarcinoma endometriale.
PATHOLOGICA 2005;97:200-202
Citopatologia II
Moderatore: P. Dalla Palma (Trento)
Fish e strato sottile in citologia urinaria
M. Paglierani, F. Castiglione, F. Garbini, A.M. Buccoliero, M.R. Raspollini, A. Lapini*, G. Vignolini*, G.L. Taddei
Dipartimento di Patologia Umana ed Oncologia; * Clinica
Urologica I, Università di Firenze
Il carcinoma a cellule transizionali della vescica è uno dei più
frequenti tumori del tratto genitourinario. La malattia neoplastica dell’urotelio è un tipico esempio di “field cancerization”, cioè di malattia multifocale con rilevante instabilità. Il
potenziale di progressione è strettamente dipendente dalle caratteristiche morfologiche delle lesioni (grading e istotipo).
La citologia urinaria e la cistoscopia rappresentano due strumenti fondamentali per la diagnosi del carcinoma della vescica.
La citologia è altamente specifica per la diagnosi di carcinoma
uroteliale scarsamente differenziato ma è poco sensibile (1525%) nei tumori uroteliali a basso grado 1. D’altra parte la cistoscopia è una tecnica invasiva e relativamente costosa.
Le conoscenze sempre più approfondite sulle alterazioni genetiche delle cellule tumorali, evidenti già nelle fasi iniziali
della cancerogenesi 2, offrono la possibilità di utilizzare tecniche non-invasive di diagnostica molecolare.
Numerosi studi 1 3 4-6 hanno evidenziato come la tecnica FISH
(Fluorescence in situ Hybridization) rappresenti un valido
contributo nella diagnosi precoce e nel follow-up del carcinoma della vescica: alterazioni genetiche quali l’aumento nel
numero di copie di alcuni cromosomi o delezioni geniche
possono essere evidenziate in cellule uroteliali morfologicamente normali di pazienti malati.
La FISH è una tecnica non invasiva, sensibile e specifica, facilmente applicabile alla routine citologica con una semplice
preparazione del campione 5.
L’analisi, applicata a nuclei in interfase, utilizza sonde centromeriche e locus-specifiche che evidenziano variazioni cromosomiche numeriche (aneusomie) e perdite o aumenti di
specifiche regioni cromosomiche.
Lo scopo di questo studio è stato quello di applicare l’analisi
FISH a tutti i casi che alla diagnosi citologica sono stati refertati come “Cellule uroteliali con note di atipia” e che vengono sottoposti a cistoscopia entro tre mesi.
Sono stati selezionati retrospettivamente (periodo 20022004) presso l’archivio di Cito-diagnostica del Dipartimento
di Patologia Umana ed Oncologia dell’Università di Firenze,
casi con diagnosi citologica di “Cellule uroteliali con note di
atipia” di pazienti sottoposti ad un follow-up cistoscopico a
uno o a due anni.
I campioni di citologia esfoliativa urinaria, allestiti in strato
sottile con il metodo Thin-Prep, colorati routinariamente con
Papanicolau, sono stati sottoposti a rivalutazione citologica.
Su tutti i campioni, compreso un controllo negativo per citologia urinaria rappresentato da un gruppo di volontari sani, è
stata eseguita la tecnica Multi-color FISH UroVysion per l’identificazione di cellule uroteliali disomiche e di cellule uroteliali che presentano polisomia dei cromosomi 3, 7 e 17 e/o
perdita di una porzione del cromosoma 9 (la regione 9p21
contenente il gene p16/CDKN2A).
Abbiamo utilizzato il kit commerciale Multi-target Multi-color
FISH UroVysion (Vysis, Downers Grove, IL) composto di 3
sonde centromeriche CEP (Cromosome Enumeration Probe),
CEP 3, CEP 7, e CEP 17 e di una sonda locus-specifica per la
regione 9p21. Con un microscopio a fluorescenza (Leica
DMRD, Leica Microsystems, Switzerland) viene evidenziato
uno spot fluorescente di colore diverso (verde, rosso, acqua,
giallo) relativo al punto in cui il probe ha ibridizzato il DNA
target. Utilizzando Multi-color FISH possono essere visualizzati contemporaneamente molti DNA target in una unica reazione di ibridizzazione eseguita su un singolo vetrino 5.
I risultati preliminari di questo studio ci consentono di affermare che l’introduzione della tecnica FISH applicata alla diagnostica citologica routinaria può selezionare precocemente
pazienti FISH-positivi associati ad un rischio maggiore di
progressione neoplastica e che necessitano di un follow-up
cistoscopico serrato, da pazienti FISH-negativi che risultano
avere un rischio molto più basso di carcinoma uroteliale e
che potrebbero essere sottoposti ad un follow-up cistoscopico meno frequente 1.
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Contributo della immunocitochimica in
citologia
S. Fiaccavento
Servizio di Anatomia Patologica, Casa di Cura Poliambulanza, Brescia
Se è vero che l’immunoistochimica ha avuto un ruolo fondamentale nel determinare una rivoluzione nella diagnostica
istopatologica ed ha attualmente un ruolo importante nella
nostra attività diagnostica quotidiana, si può comprendere
come l’utilizzo della stessa metodica in citologica, ed in particolare nella citologia agoaspirativa, possa assumere una importanza ancora maggiore.
Infatti in un materiale ove la valutazione diagnostica viene
effettuata su cellule singole o in aggregati, nel tentativo di ricomporre un mosaico che corrisponda ad una nostra immagine istologica, i dati forniti dalle indagini immunocitochimiche possono essere, in situazioni particolari, di fondamentale
od insostituibile ausilio 1.
CITOPATOLOGIA II
Analogamente a quanto accade in istologia l’immunocitochimica può essere utilizzata non solo a fini diagnostici per risolvere problematiche irrisolte con la valutazione morfologica tradizionale, ma anche per offrire un giudizio prognostico
aggiuntivo come ad esempio si verifica in patologia neoplastica della mammella con le valutazioni di vari Markers prognostici (ER e PR, Cerb-B2, Ki-67-Mib-1 etc.) 2 3.
Inoltre la possibilità che pazienti con iperespressione di
HER2 possano essere trattati con Herceptin consente di ampliare l’utilizzo della indagine in citologia quando non vi sia
la possibilità di tale valutazione a livello istologico.
Tuttavia non si tratta di un semplice trasferimento di una metodologia dalla istologia alla citologia. Infatti alcune differenze fondamentali riguardano sia la fase preanalitica che
analitica delle procedure. Infine anche le modalità di approccio logico alla diagnosi possono essere differenti in quanto
utilizzano pannelli di anticorpi e algoritmi che, per i diversi
presupposti morfologici di partenza, possono non essere
identici a quelli previsti per l’istologia.
Faremo solo un breve cenno ai fattori che in fase preanalitica e analitica che possono influenzare in citologica la buona
riuscita delle immunocolorazioni senza però entrare in dettagli tecnici che tra l’altro esulano dalle mie specifiche competenze.
Comunque una premessa indispensabile è che quando noi
parliamo di immunocitochimica in citologia ci riferiamo essenzialmente ad indagini effettuate su preparati allestiti per
striscio e gia colorati con ematossilina ed eosina o Papanicolaou e di tale atteggiamento metodologico daremo giustificazione.
Tra le tecniche ancillari di possibile utilizzo in citologia l’immunocitochimica rappresenta attualmente quella più accessibile per la maggior parte dei laboratori. Tuttavia il suo utilizzo varia nelle diverse istituzioni in quanto alcuni patologi impiegano la diagnosi citologica solo come valutazione preliminare ad un approccio diagnostico “definitivo” istologico
mentre altri ritengono che il contributo diagnostico citologico possa e debba, nei limiti del possibile, essere definitivo.
I problemi da risolvere sono fondamentalmente di due tipi:
a) quello di definire malignità ed istotipo di una neoplasia in
prima diagnosi;
b)riconoscere, da una localizzazione metastatica, la sede primitiva di una neoplasia al momento ignota o correlare la
lesione secondaria ad una primitività nota.
L’immunocitochimica per la risoluzione di tali problematiche
può avere talora un ruolo fondamentale e in questa sede cercheremo di documentare con esempi il contributo diagnostico di questa indagine ancillare nei diversi campi della diagnostica citologica non rinunciando ad evidenziare anche
possibili pitfall legati ad erronee procedure della fase analitica e preanalita, con suggerimenti per evitarli.
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201
Immunocitochimica negli agoaspirati tiroidei
M. Papotti, A. Fornari, I. Rapa, S. Cappia, N. Bergero, E.
Saggiorato, M. Volante*
Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, Ospedale
“San Luigi” di Orbassano; * Dipartimento di Scienze Biomediche ed Oncologia Umana, Università di Torino
Il ricorso all’agoaspirato (AA) è una procedura di routine
nella diagnostica della patologia nodulare (e diffusa) della tiroide, in virtù del suo basso costo, della elevata riproducibilità e dell’accuratezza interpretativa. Rari casi richiedono approfondimenti diagnostici con marcatori immunocitochimici
(ICC), che possono essere adeguatamente localizzati su strisci fissati, strisci decolorati, o sezioni di cito-inclusi (cellblocks). Marcatori con valore diagnostico comprendono classicamente la tireoglobulina e la calcitonina, per definire in lesioni dubbie la derivazione dalle cellule follicolari o parafollicolari, rispettivamente. Il ricorso a tali marcatori tuttavia è
limitato a rari casi in quanto le caratteristiche citologiche sono dirimenti nella maggioranza dei casi. Numerosi marcatori
con valore prognostico sono stati saggiati su AA, ma rivestono scarso impiego nella pratica di routine. Molecole quali il
Ki-67 (indice di proliferazione), o altre proteine legate al ciclo cellulare o prodotto di specifici oncogeni non trovano
corrente impiego su AA tiroidei. Da un punto di vista terapeutico, in patologia tiroidea la valutazione su AA di recettori ormonali (per gli estrogeni, per la somatostatina, altri …)
non presenta rilevanza clinica (fatta eccezione per i recettori
della somatostatina nel carcinoma midollare) e pertanto il
ruolo dell’ICC pareva fino a qualche anno fa confinato a riconoscere la natura follicolare o parafollicolare di lesioni tumorali di dubbio inquadramento (e solitamente a crescita solida o trabecolare).
Negli ultimi anni, si è stato tuttavia osservato uno sviluppo
notevole dell’ICC per la determinazione di “marcatori di malignità” in neoplasie di origine follicolare, utili per la diagnosi differenziale tra adenoma e carcinoma (che all’esame citologico convenzionale sono classificate come “neoformazioni
follicolari indeterminate”). L’elenco, assai lungo, comprende
le proteine RET, p27, e keratan-solfato (KS) specificatamente per il carcinoma papillifero, e galectina-3, HBME-1, CK19, PAX8-PPARgamma, FRA-1, tireoperossidasi (TPO), topoisomerasi (tra le altre) per il carcinoma papillifero e follicolare. Questi marcatori sono espressi anche in tumori maligni di cellule ossifile. Premesso che non tutti questi marcatori hanno uguale sensibilità e specificità, esiste una marcata
eterogeneità nella reattività (e nell’interpretazione) nei vari
laboratori: presupposto indispensabile all’utilizzo di tali marcatori nella pratica diagnostica deve essere pertanto la accurata messa a punto del metodo in ogni laboratorio.
Sulla base della vasta letteratura disponibile, e pur in presenza di alcune discrepanze, è possibile suggerire che:
1. galectina-3, HBME-1, CK-19, sono superiori ad altre molecole nel riconoscere i carcinomi papilliferi e follicolari su
AA;
2 anche TPO e KS sono relativamente sensibili ma meno
specifici e, utilizzati in combinazione, non aumentano la
sensibilità e specificità degli altri tre marcatori;
3 il RET è sensibile quale marcatore per il carcinoma papillifero, ma non vi sono anticorpi commerciali di facile utilizzo nella pratica diagnostica;
4 l’attendibilità di questi marcatori rimane elevata anche in
neoplasie ossifile, se pur con sensibilità e specificità minori (in particolar modo per l’HBME-1), fenomeno in parte
202
spiegabile con la caratteristica abbondanza di mitocondri
nel citoplasma di tali cellule che può alterare la immunoreattività.
Un recente studio del nostro gruppo suggerisce che il miglior approccio diagnostico (in termini di sensibilità/specificità da un lato e rapporto costo/beneficio dall’altro) nella
diagnostica su AA di neoformazioni follicolari, è l’utilizzo
RELAZIONI
sequenziale di una serie di marcatori, rappresentati dalla
combinazione di galectina-3 e CK19 o galectina-3 e HBME-1, per le neoformazioni follicolari ossifile e non ossifile, rispettivamente. L’esame citologico standard pertanto
guida la scelta dei marcatori (due soltanto), riducendo i costi e fornendo allo stesso tempo una sensibilità e specificità
prossimi al 100%.
PATHOLOGICA 2005;97:203-207
Genomica: corso di base
A cura di A. Marchetti (Chieti)
Acidi nucleici: estrazione da materiale
d’archivio
4
G. Stanta, S. Bonin
5
Dipartimento di Scienze Cliniche, Morfologiche e Tecnologiche, Università di Trieste, Italia; International Centre for
Genetic Engineering and Biotechnology, Trieste, Italia
La ricerca medico-biologica è oggigiorno strettamente correlata allo sviluppo delle tecniche molecolari. Ci sono molti ed
importanti motivi per studiare gli RNA messaggeri nei tessuti fissati ed inclusi in paraffina (PET), poiché tutti i tessuti
umani di origine chirurgica o bioptica prelevati in qualsiasi
ospedale vengono fissati per lo più in formalina e quindi inclusi in paraffina. Questo permette di ottenere delle sezioni
istologiche per la diagnosi microscopica. Soltanto dopo il riconoscimento istopatologico delle lesioni si possono infatti
suggerire ulteriori esami mirati, come esami immunoistochimici o analisi molecolari. Per analizzare soltanto le cellule di
interesse è sempre necessaria un’accurata microdissezione
del tessuto. I PET sono il miglior materiale su cui avere un
perfetto riconoscimento diagnostico ed un’accurata microdissezione senza modificare le procedure di routine. La paraffina protegge anche l’RNA dalla degradazione e questo è
un utilissimo vantaggio conseguente al lungo uso dell’inclusione in questa sostanza. L’RNA è parzialmente degradato,
ma rimangono frammenti di circa 100 basi 1 2. Su questo materiale si possono eseguire anche delle analisi quantitative
degli RNA messaggeri dopo averne standardizzato il livello
di degradazione 3-9. L’RNA estratto dai PET può essere analizzato a livello qualitativo o quantitativo con tecniche di RTPCR o Real Time RT-PCR. Gli enormi archivi di PET presenti negli istituti di anatomia patologica di ogni ospedale
possono permettere:
1. l’uso di materiale processato di routine per ulteriori procedure diagnostiche molecolari;
2. ricerche su malattie con lunghi periodi di follow-up;
3. la raccolta di tessuti in malattie rare;
4. materiale biologico per studi di epidemiologia molecolare.
Una adeguata tecnologia per studiare a livello molecolare di
DNA e RNA i tessuti d’archivio è importante per incrementare la ricerca in patologia umana come contributo di ricerca
translazionale 9-17. Possono essere eseguiti vari studi a livello
di espressione genica quantitativa su casistiche numerose con
storie cliniche complete di lunghissimi periodi di follow-up.
L’esperienza di ricerca, quindi, dato il tipo di tessuti utilizzati, può essere direttamente trasferita in tempi brevi alla pratica clinica.
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La PCR: potenzialità e problematiche
G. Cipollini, G. Bevilacqua*
MGM Biotecnologie srl, Pisa; * Dipartimento di Oncologia,
dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina, Università di Pisa, Pisa
Definizione
La tecnica della reazione a catena della DNA polimerasi o
PCR (Polymerase Chain Reaction) è un metodo attraverso il
RELAZIONI
204
quale una sequenza di acido nucleico specifica può essere
amplificata esponenzialmente in vitro. Lo stesso metodo può
essere usato per modificare la sequenza amplificata o per aggiungerle una nuova informazione di sequenza. È necessario
che le estremità della sequenza da amplificare siano note con
sufficiente precisione per poter sintetizzare degli oligonucleotidi (o primers di innesco) che si appaieranno (annealing)
ad esse e che una piccola quantità della sequenza sia disponibile per dare inizio alla reazione.
Vantaggi e versatilità applicative
I vantaggi, che hanno reso la PCR una tecnica tanto diffusa
derivano sia dall’ampia varietà della natura dei campioni
analizzabili, sia dall’approccio tecnico. Le altre tecniche di
amplificazione richiedono l’utilizzo di vettori (plasmidi, virus e cosmidi) per trasferire il DNA da amplificare in cellule
viventi dove verranno clonate. Tutto ciò si traduce in tempi
lunghi e costi elevati. Data la sua versatilità, sono intuibili le
molteplici applicazioni nel campo della diagnostica clinica,
in quello della terapia genica, in campo ambientale, agrario,
animale, alimentare. Per citare alcuni esempi, ricordiamo come la PCR abbia portato innumerevoli contributi nella diagnosi clinica di malattie causate da mutazioni, sia riducendo
la quantità di materiale di partenza sia abbreviando la tempistica di analisi del dato. Nella insorgenza di forme tumorali,
la PCR è risultata estremamente efficace grazie al suo alto
potere amplificatorio, che permette di individuare la fase precoce della neoplasia, o addirittura di identificare i soggetti sani a rischio di malattia (diagnosi dei tumori ereditari). Inoltre
le tecniche basate sulla PCR hanno permesso di poter quantificare accuratamente l’espressione genica. Ad esempio, la
real-time PCR (Fig. 1), può essere applicata in tutti quei settori che richiedono o la quantificazione del numero di bersagli specifici nei campioni, o lo studio della reazione di popolazioni di cellule ad uno stimolo, o il confronto del profilo
genico di differenti campioni (validazione dei risultati ottenuti mediante esperimenti di microarray).
Funzionamento
In una cellula vivente la replicazione del DNA è un processo
molto complesso (Fig. 2). Ogni filamento del DNA parentale
è usato dalla DNA polimerasi come stampo per sintetizzare
un filamento complementare. Questo processo si basa sulla
capacità dei nucleotidi di appaiarsi secondo le regole di Watson e Crick.
La reazione della PCR riproduce in vitro il processo di replicazione usando solo i componenti basilari e copiando frammenti relativamente corti di DNA. La Figura 3, riassume questa procedura: il DNA genomico (contenente la sequenza bersaglio da amplificare), viene denaturata riscaldando il DNA a
Fig. 1. Real Time PCR: rappresentazione grafica dei risultati.
Fig. 2. Schema del processo di polimerizzazione.
doppia elica a temperature vicine a quella di ebollizione, 94-95
°C (denaturazione); la sequenza stampo a singolo filamento
(entrambi i filamenti di DNA possono servire da stampo) viene individuata da corti segmenti di DNA di circa 20-30 paia di
basi, (primers, senso ed antisenso); ciò viene reso possibile diminuendo la temperatura di reazione a circa 55-65 °C, (annealing); la sintesi del DNA stampo avviene grazie all’utilizzo
della DNA polimerasi a partire dall’estremità 3’OH di ciascun
primer d’innesco; la temperatura viene resa ottimale per l’attività della DNA polimerasi, (extension).
La PCR si basa quindi sull’uso di diverse temperature per i
tre passaggi della reazione: denaturazione-annealing-estensione (Fig. 4). Per amplificare il DNA bersaglio è necessario
ripetere questo ciclo di 3 temperature diverse e questo viene
attuato grazie all’uso di uno strumento programmabile (termociclatore).
La composizione tipica di una reazione di PCR: è la seguente:
1 il DNA stampo contenente la sequenza bersaglio da amplificare;
2 i due primers di innesco;
3 l’enzima DNA polimerasi;
4 la miscela dei quattro nucleotidi precursori (dNTPs: 2’ desossinucleosidi 5’ trifosfato);
5 il buffer di reazione.
La quantità di DNA stampo richiesta varia a seconda delle esigenze e situazioni. In genere la PCR funziona in maniera ottimale quando il DNA è estremamente pulito e puro, in quanto
l’enzima può subire o meno impedimento sterico per raggiungere il bersaglio. In queste condizioni, caso per caso si introducono accorgimenti particolari atti a minimizzare il disturbo
(evitare tutti i contaminanti chimici che non permettano l’attività polimerasica efficace, EDTA; gli acidi forti, i sali, etc.).
È importante che i primers di innesco della reazione abbiano
una struttura ottimale in modo tale da garantire una buona
specificità per la sequenza target. La lunghezza dei primers
senso ed antisenso deve essere simile; non deve contenere sequenze ripetute o file di uno stesso nucleotide, né ripetizioni
di G e C all’estremità 3’, né sequenze palindromiche all’interno del primer, né sequenze complementari all’altro e infine devono avere due temperature di melting molto vicine. La
concentrazione dei primer equimolare è in eccesso rispetto al
DNA stampo. Tuttavia usare concentrazione troppo elevate
può portare ad artefatti con un aumento delle probabilità di
formazione di dimeri o di appaiamento scorretto.
GENOMICA: CORSO DI BASE
205
Fig. 3. Reazione di polimerizzazione a catena in vitro (PCR).
Due tipi di polimerasi vengono comunemente usati a seconda del DNA stampo utilizzato: a) DNA polimerasi DNA dipendente; b) DNA polimerasi RNA dipendente. Entrambe sono caratterizzate da elevata e veloce processività L’enzima
più comunemente utilizzato è la Taq polimerasi. Oltre alla
Taq polimerasi, vi è la Pwo DNA polimerasi, che oltre all’attività polimerasica in direzione 5’- > 3’, possiede attività esonucleasica in direzione 3’- > 5’, nota anche come attività
proof-reading, che la rende dieci volte più fedele nella sintesi del DNA rispetto alla Taq polimerasi.
Le soluzioni di dNTP contengono le quattro basi che costituiscono il DNA. È molto importante che i 4 nucleotidi siano
presenti in concentrazioni equimolari, altrimenti si può disturbare la fedeltà della polimerasi. La concentrazione ottimale è intorno ai 50-200 uM. I nucleotidi in base alle necessità dello sperimentatore possono essere modificati.
Fig. 4. Cicli di PCR con tre differenti temperature.
Il Buffer è costituito da Tris-HCl e Magnesio e mantiene il pH
tra 6,8 e 8,3 al variare della temperatura durante la reazione. In
altri casi anche il KCl può aiutare la reazione di annealing fra
primer e DNA stampo ma ad alte concentrazioni può favorire
la produzione di frammenti anomali dovuti all’appaiamento
dei primers a siti aspecifici. Dalla concentrazione del magnesio dipende la specificità e l’efficienza di reazione, ossia la
stessa attività della DNA polimerasi, influenzandone la fedeltà
o tasso di errore. La concentrazione di magnesio libero è tuttavia influenzata dalla concentrazione di nucleotidi, stabilendo
un legame equimolare tra magnesio e dNTP.
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Alterazioni della metilazione genica
M. Roncalli
Università di Milano, Istituto Clinico “Humanitas”
La metilazione è un processo epigenetico di controllo della
espressione genica, provvedendo l’epigenetica informazioni
significative del come, dove e quando i dati del codice genetico debbano essere utilizzati. La regolazione della espressione genica è un meccanismo centrale attraverso il quale la cel-
206
lule è in grado di rispondere a stimoli di sviluppo e ambientali e dipende in larga misura dal controllo epigenetico che è
basato su modificazioni trasmissibili da cellula a cellula non
legate alla sequenza del DNA. Tale controllo epigenetico è
particolarmente rilevante durante lo sviluppo embrionale. Infatti il DNA di una cellula somatica è uguale a quello di uno
zigote ma profondamente diversi sono i meccanismi di controllo della espressione genica. Quest’ultima infatti è determinata non soltanto dalla presenza di fattori di trascrizione
ma anche dalla accessibilità del DNA agli stessi, dalla condizione di “apertura” della cromatina, a sua volta influenzata
anche dallo stato di acetilazione delle proteine istoniche legate al DNA. Quando il DNA va incontro a metilazione la base Citosina, legata in maniera covalente alla Guanina con legame fosfodiesterico entro il dinucleotide CpG, si trasforma
in Metil-Citosina, ciò che rende la catene del DNA in quel sito non accessibile a fattori di trascrizione. Questi processi di
metilazione possono coinvolgere in condizioni fisiologiche,
dinucleotidi CpG i quali sono disseminati nel genoma in regioni a bassa densità ovvero sono raggruppati in isole ad alta densità (CpG islands), presenti nel promotore di numerosi
geni. Fisiologicamente esiste un elevato livello di metilazione dei nucleotidi CpG nelle regioni a bassa densità, mentre,
all’opposto, bassi sono i livelli di metilazione delle isole ad
alta densità. Ciò implica che la maggioranza dei nostri geni
sia governata da promotori non metilati e che dunque l’espressione della maggior parte dei nostri geni sia condizionata da meccanismi diversi rispetto alla metilazione. Si suppone che lo stato di non metilazione costituisca un prerequisito
fondamentale perché i geni siano attivamente trascritti. Due
tipi di geni fanno eccezione alla regola, quali il gene X nella
femmina e quelli che si trasmettono con meccanismi di imprinting. Queste classi di geni hanno promotori altamente
metilati e questa capacità metilatoria si trasmette alle generazioni di cellule somatiche con meccanismi epigenetici ancora poco noti, verosimilmente legati alla capacità dell’enzima
DNAmetiltrasferasi (DNMT) di attivarsi in corrispondenza
delle isole dei promotori di questi geni.
Il significato biologico della metilazione è ancora poco noto
ed è legato oltre che alla inattivazione dei geni sopracitati, alla difesa del genoma contro agenti retrovirali, all’immobilizzo di trasposoni e al controllo dell’espressione genica tessuto-specifica o, infine, si manifesta come conseguenza biologica di un precedente modificazione cromatinica repressiva
della espressione di un determinato gene. Va detto che questa
capacità di difesa dell’integrità genomica può costituire un
ostacolo alla terapia genica.
Il processo di metilazione non è del tipo tutto o nulla potendo conseguire livelli di differente saturazione metilatoria delle isole CpG con conseguente diverso “dosaggio” dell’espressione genica. Metodologicamente la tecnica di PCRMSP è la più utilizzata per riconoscere la presenza/assenza di
alleli metilati e la Real Time MSP-PCR per dosare i livelli di
metilazione. Il silenziamento genico deve poi essere documentato attraverso lo studio dei trascritti e delle corrispondenti proteine. Un aspetto peculiare della metilazione è la sua
reversibilità che si può acquisire utilizzando agenti demetilanti (ad es 5-azacitidina) ovvero di oligonucleotidi antisenso
della DNMT con conseguente riespressione del gene silenziato. Questa reversibilità assume importanza clinica nella
pratica oncologica. Nelle neoplasia infatti così come in linee
cellulari, numerosi promotori di diverse classi di geni (particolarmente TSG) implicati nella crescita, differenziazione,
apoptosi, adesione intercellulare, trasmissione del segnale,
RELAZIONI
ecc., risultano metilati “de novo” con conseguente perdita
della espressione funzionale del gene. Ciò ha portato a considerare la metilazione come il più significativo tra i meccanismi epigenetici noti, per quanto attiene la trasformazione e
progressione tumorale. Nei tumori si assiste infatti al capovolgimento funzionale dei normali meccanismi metilatori. Le
regioni infatti di dinucleotidi CpG, normalmente metilate, risultano ipometilate (e questo è alla base di una delle ipotesi
di nuovi meccanismi di trasformazione tumorale, la cosiddetta instabilità cromosomica o CIN) e, all’opposto, le isole
ad alta densità, normalmente ipometilate, risultano ipermetilate (e questo è alla base della teoria carcinogenetica del cosiddetto fenotipo metilatore). Dal punto di vista traslazionale
lo studio della metilazione di geni noti e non può risultare significativa per definire a) nuove linee terapeutiche che si avvalgono della revertazione della metilazione; b) patterns di
geni silenziati tumore-specifici per la diagnosi precoce di tumori, di malattia minima residua e di recidiva, in tessuti e liquidi biologici (urine, sangue, saliva, liquido seminale, secreto mammario, liquidi da lavaggio ecc.); c) marcatori molecolari a significato prognostico e predittivo di sensibilità alla terapia.
Nella pianificazione degli studi e nella interpretazione dei risultati va considerato che, con l’aumentare dell’età, alcuni
geni, (recettori per estrogeni) possono risultare metilati. Alcuni possono risultare metilati in relazione all’età in maniera
tessuto specifica. È dunque importante stabilire se i geni allo
studio siano metilati in conseguenza dell’età (age-related
methylation) o a causa del processo tumorale (cancer-related
methylation). Va detto comunque che lo studio della metilazione genica ha contribuito a stabilire importanti connessioni
biologiche e molecolari tra invecchiamento e neoplasie.
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Genomica: corso intermedio
A cura di A. Marchetti (Chieti)
Metodiche per lo studio delle mutazioni
L. Stuppia
Dipartimento di Scienze Biomediche, Sezione di Genetica
Medica, Università “G. D’Annunzio”, Chieti
Il recente completamento del Progetto Genoma Umano ha reso disponibili le sequenze nucleotidiche di tutti i principali
geni responsabili di patologie umane, consentendo in questo
modo l’inserimento delle analisi di screening di mutazioni
geniche nei protocolli diagnostici di numerose ed importanti
malattie genetiche. I test genetici diagnostici, predittivi e di
suscettibilità si sono così largamente diffusi sul territorio,
consentendo una più precisa caratterizzazione delle patologie
genetiche ed una loro migliore prevenzione attraverso la
identificazione dei portatori sani e la diagnosi prenatale. La
grande maggioranza delle mutazioni geniche responsabili di
patologie genetiche nell’uomo può essere divisa in due grandi classi: quella delle mutazioni puntiformi (che interessano
uno o pochi nucleotidi della sequenza genica) e quella dei
grandi riarrangiamenti genici (delezioni o duplicazioni dell’intero gene). Le tecniche utilizzate per lo studio di queste
due classi di mutazioni sono completamente diverse, in quanto nel caso delle mutazioni puntiformi lo scopo della analisi
è quello di verificare la presenza di una corretta sequenza nucleotidica del DNA di un gene, mentre nel caso dei grandi
riarrangiamenti lo scopo della analisi è quello di verificare la
integrità del gene, attraverso la identificazione di rotture o
duplicazioni dello stesso. Per la ricerca delle mutazioni puntiformi, la tecnica di elezione resta allo stato attuale quella
basata sul sequenziamento diretto di un gene, che permette la
lettura di ogni singolo nucleotide della sequenza genica e
pertanto la accurata verifica della presenza di alterazioni (sostituzioni di base) rispetto alla sequenza normale. Tale tecnica, oltre alla sua elevatissima sensibilità, è caratterizzata ormai da qualche tempo anche da una elevata processività, grazie alla presenza di sequenziatori automatici capaci di correre e leggere fino a decine di campioni contemporaneamente
e permettere quindi la lettura in una sola giornata di decine di
migliaia di basi di DNA. Lo svantaggio di questo tipo di approccio è legato ai costi tuttora piuttosto elevati della metodica, specialmente nei casi in cui sia necessario studiare molti campioni e nel caso di geni molto estesi o caratterizzati da
un gran numero di esoni. Per tale motivo, si preferisce in
molti casi far precedere la metodica del sequenziamento diretto da tecniche di screening che, seppur dotate di sensibilità
inferiore, permettono comunque di identificare varianti della
sequenza analizzata. Tra tali metodiche, quella attualmente
più utilizzata è la cosiddetta DHPLC (Denaturing High Pressure Liquid Chromatography). Tale metodica, che presenta
una sensibilità del 95-97%, si basa sulla denaturazione e rinaturazione di due frammenti di DNA seguita da una analisi
cromatografica. Quando i due frammenti di DNA non sono
uguali per la presenza di una mutazione in eterozigosi, la
combinazione delle molecole darà luogo ad una conformazione che verrà evidenziata sotto forma di un “picco” aggiuntivo rispetto a quello specifico per la sequenza normale.
Questo tipo di approccio, dotato di una processività elevatissima e sensibilmente più economico rispetto al sequenziamento diretto, permette di evidenziare le variazioni di se-
quenza dei geni analizzati, ma non di determinare la natura di
tali variazioni e il loro eventuale ruolo patogenetico. Pertanto, una volta identificata la presenza di una variante mediante DHPLC, è comunque necessario sottoporre il campione a
sequenziamento diretto per permettere la caratterizzazione
della variante identificata.
Le tecniche appena descritte non sono utilizzabili per lo studio dei grandi riarrangiamenti genici, in quanto la presenza di
una delezione o di una duplicazione di un gene o anche solo
di una parte di esso non sarebbe identificabile con queste
analisi, che sono capaci solo di mettere in evidenza varianti
della sequenza genica. Fino a pochissimo tempo fa, la analisi dei grandi riarrangiamenti genici costituiva un problema
notevole per la mancanza di tecniche dotate di sensibilità e
processività sufficienti a consentire la ricerca di tali alterazioni a scopo diagnostico. La metodica classica per l’analisi
delle delezioni del genoma è il Southern Blot, che si basa sulla digestione del DNA mediante enzimi di restrizione, elettroforesi su gel di agarosio, trasferimento del DNA su una
membrana di nylon o nitrocellulosa, ibridazione con una sonda specifica e detection mediante un sistema di rivelazione
radioattivo o chemiluminescente. Questa metodica, benché
dotata di una buona sensibilità, è tuttora estremamente laboriosa e richiede l’uso di una sonda specifica per il gene da
analizzare. Di più larga diffusione è la tecnica della FISH,
che si basa sulla ibridazione di una sonda specifica su preparati cromosomi metafisici e alla sua rivelazione mediante
fluorescenza e osservazione al microscopio ottico. Tale metodica presenta i limiti di una bassa processività e di una sensibilità limitata nel caso in cui le alterazioni colpiscano non
l’intero gene ma solo una parte di esso. Molto recentemente,
una nuova tecnica per lo studio delle delezioni e duplicazioni geniche si è imposta alla attenzione generale per la sua
estrema sensibilità e processività. Tale tecnica, definita MLPA (Multiple Ligation-Dependent Probe Amplification) si
basa sulla ibridazione simultanea sul DNA in soluzione mediante una serie di sonde specifiche per ogni singolo esone
del gene oggetto di indagine. Le sonde dopo la ibridazione
vengono amplificate mediante PCR e i prodotti di amplificazione vengono analizzati mediante un sequenziatore automatico. Tale metodica si è dimostrata capace di evidenziare delezioni e duplicazioni di numerosi geni responsabili di importanti patologie umane, quali la Distrofia Muscolare di Duchenne, la Atrofia Muscolo Spinale, il tumore ereditario alla
mammella (geni BRCA1 e BRCA2), la malattia di Charcot
Marie Tooth, la Nerofibromatosi ed altre. La estrema processività di questa tecnica, la sua elevata sensibilità ed i costi
contenuti rendono questa metodica una tecnica di elezione
per lo studio delle grandi alterazioni del genoma.
La dimostrazione molecolare di cellule
neoplastiche
D. Calistri
Laboratorio Biologia Molecolare, Divisione di Oncologia
Medica, Ospedale “Morgani-Pierantoni”
Ad un’analisi globale degli approcci diagnostici attualmente
disponibili, risulta chiaro come sia molto importante la ricer-
GENOMICA: CORSO INTERMEDIO
ca di test diagnostici non invasivi, di costo accettabile ma caratterizzati al tempo stesso da elevata sensibilità e specificità
nell’individuare lesioni neoplastiche e pre-neoplastiche. La
diagnosi precoce infatti è tuttora la strategia più efficace per
la curabilità e guaribilità di molte neoplasie. Purtroppo molto
spesso, a causa dei costi, della complessità e dei tempi ancora necessari per attuare efficaci programmi di screening diagnostico, risulta difficile, se non impossibile, l’attuazione di
efficaci programmi di prevenzione oncologica. A questo riguardo, l’utilizzo delle alterazioni genetiche presenti nelle
cellule neoplastiche come target per nuovi test diagnostici non
invasivi sta sempre più acquisendo importanza grazie ad alcune caratteristiche peculiari di tali alterazioni. Esse, infatti,
sono generalmente molto specifiche per la neoplasia, e quindi
in grado di ridurre il rischio di falsi positivi e le conseguenti
ed inutili indagini strumentali, e possono essere eseguite su
fluidi biologici, minimizzando l'invasività ed il disagio per il
paziente. Studi sulla possibilità di individuare cellule tumorali in fluidi biologici tramite l'analisi di alterazioni molecolari
specifiche per tali cellule è un campo di ricerca che si sta sviluppando molto rapidamente e per molte neoplasie vi sono
oramai dati interessanti. Per ottenere questi risultati occorre
ovviamente utilizzare sistemi di indagine in grado di individuare le lesioni neoplastiche in modo specifico e con estrema
209
sensibilità visto che comunque le cellule tumorali che possiamo ritrovare nei fluidi biologici di un paziente sono estremamente rare. Inoltre è necessario cercare di sviluppare test diagnostici che, oltre ad avere a una estrema sensibilità e specificità per le cellule neoplastiche, siano al tempo stesso sufficientemente semplici e rapidi da poter essere poi impiegati su
larga scala come, ad esempio, in programmi di prevenzione su
popolazioni a rischio di sviluppare una determinata neoplasia.
Un approccio rivelatosi molto interessante per la diagnosi precoce dei tumori colorettali consiste nella individuazione delle
cellule neoplastiche tramite la valutazione di alterazioni molecolari presenti nelle cellule di esfoliazione delle feci. L'estrazione di DNA da materiale fecale e la successiva analisi
molecolare potrebbe quindi rappresentare un approccio diagnostico non invasivo in alternativa o ad integrazione delle
tecniche fino ad oggi utilizzate per l'individuazione di tali
neoplasie. Altri importanti esempi sono la diagnosi precoce
non invasiva dei tumori della vescica e del polmone per i quali molti marker molecolari sono allo studio con promettenti risultati. Questi studi e studi analoghi, condotti per altre neoplasie e che utilizzano i più disparati sistemi di indagine molecolare e i più diversi fluidi biologici, stanno fornendo e forniranno in futuro importanti risultati aprendo nuove prospettive per la diagnosi e la cura dei tumori.
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