Dispensa - Cineforum del Circolo

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Dispensa - Cineforum del Circolo
SALVADOR ALLENDE
C
onoscere la vera storia dell’umanità è sempre stato un privilegio di una stretta elite di
ricercatori, il potere coltiva l’oblio tra
le masse mentre i libri di scuola non
raccontano mai la verità ai giovani.
Ma il “passato non passa” e perciò è
importante costruire la “fabbrica della
memoria” affinché una sia pur piccola
parte di verità storica venga tramandata.
In Cile, con il governo di Unidad
Popular di Allende, era iniziato un
processo rivoluzionario unico nella
storia dell’umanità, in cui si è cercato
di realizzare un cambiamento pacificamente, senza l’uso delle armi, solo per via elettorale.
Poi la dittatura ha distrutto la coscienza di lotta del paese imponendo il denaro ed il consumo come unici valori di vita.
Per chi ha vissuto l’esperienza di Unidad Popular e del governo Allende oggi il Cile appare
come una terra frammentata con tante isole alla deriva che non si incontrano mai, gli ex
militanti si sentono stranieri nel loro stesso paese. Questo mi ricorda le ultime canzoni di
Giorgio Gaber in cui diceva “Io non mi sento italiano… il tutto è falso, il falso è tutto”.
In questa situazione l’alternativa è continuare a vivere nell’utopia e nella speranza di un
mondo più giusto e libero.
Salvador Allende è stato un rivoluzionario e un democratico allo stesso tempo, Non era né
marxista, né leninista perché rifiutava il concetto di dittatura del proletariato e il ruolo del
partito unico di governo; di Marx accettava solo il concetto di uguaglianza e la difesa dei
poveri. Il suo pensiero era fondamentalmente libertario e lo aveva ereditato negli anni della
sua adolescenza a Valparaiso, sua città natale, dalla frequentazione di un calzolaio anarchico italiano, José De Marchi, rifugiatosi in Cile negli anni della persecuzione fascista in
Italia.
Il suo partito sposava le idee socialiste perché affermava che una vera democrazia deve
essere socialista, ma non era allineato con Mosca. La sua propaganda elettorale viaggiava,
“a todo vapor con Salvador”, su un treno dipinto che raggiunse i luoghi più nascosti e
remoti del paese. Entrava nelle case della povera gente, parlava con tutti, fece innamorare
il popolo, durante il suo governo il Cile appariva come una società intera in stato amoroso
e questo lo si può ancora oggi, fortunatamente, vedere nel film documentario di Patricio
Guzman La battaglia del Cile.
Fece nazionalizzare le imprese più importanti (oggi in Italia si fa il contrario, si svende e si
privatizza tutto) e questo determinò per la prima volta l’embargo economico non solo da
parte degli Stati uniti, ma anche di tutte le multinazionali a livello mondiale, svelando in tal
modo la sottomissione della politica all’economia di tutto il pianeta.
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Il popolo è predisposto a fare sacrifici se vede che i suoi rappresentanti li fanno e così il
Cile affrontò e sconfisse tutti gli scioperi e gli attentati della borghesia aiutata dal governo
degli Usa. Solo con il golpe militare e la dittatura di Pinochet il governo tornò nelle mani
delle multinazionali e degli Usa.
Oggi nel mondo nessun rappresentante dei partiti della ormai ex sinistra, ricorda e parla di
Salvador Allende o, se ne parlano, dicono che è stato un illuso. Eppure è stato un uomo che
ha avuto il coraggio di rompere con lo stile politico abituale, un modello, una immagine
etica, una lezione morale per tutti.
Ma esiste oggi nel mondo una politica degna di questo nome? Una politica rivolta all’interesse comune e non ai piaceri della casta al potere? Forse l’ultimo esempio che ci rimane
è quello della Cuba di Fidel Castro.
Salvador Allende è morto perché il modello nuovo di transizione al socialismo da lui proposto non voleva la guerra civile, lo scontro armato tra borghesi e proletari, credeva sinceramente nelle istituzioni democratiche.
Credere nella democrazia è un’illusione?
Albino Francia
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I FILM
SALVADOR ALLENDE
Salvador Allende
Cile, 2004, 100’
Regia di Patricio Guzman
HCile, 1973: un altro 11 settembre nero della Storia, quello in cui il generale Pinochet –
alleato della Cia di Nixon (e non ostacolato dall’Urss) – iniziò il golpe militare bombardando il palazzo della Moneda e spingendo (forse) al suicidio il presidente Salvador
Allende, primo capo di stato socialista del blocco occidentale giunto al potere senza aver
fatto ricorso alle armi. Il documentario non convenzionale di Guzman ricostruisce con passione l’ascesa di Allende, dalle tre sconfitte elettorali consecutive alla sospirata vittoria del
1970 e alla conseguente pacifica rivoluzione socialista (ma ben poco marxista-leninista).
Ovvi I tocchi di folklore (gli immancabili Inti Illimani), ma splendido il materiale di repertorio: dal cameraman che riprende la sua morte in diretta durante una sommossa di militari
al documento filmato in cui Allende si comporta da no global (sia pure ante litteram). Tra
testimonianze anche scomode (come quelle dell’ambasciatore Usa dell’epoca a Valparaiso,
che svela candidamente le imprese criminali di Nixon e Kissinger) e zone d’ombra (certe
opinioni a posteriori dei vecchi militanti), allo spettatore rimane un senso di disagio profondo: perchè nulla sembra essere cambiato nel mondo da allora a oggi, e non solo in
America latina. (***)
Paolo Mereghetti. Il Mereghetti – Dizionario dei film 2008. Baldini Castoldi Dalai Editore
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HAppassiona e indigna questo bel documentario sull'oblio di Allende. Soprattutto in
patria Guzmán, classe 1941, era stato uno dei registi di punta del cinema cileno all'epoca
del governo di Unidad Popular, prima del golpe, insieme a registi come Ruiz, Miguel Littin,
Helvio Soto. Documentarista, il destino ha voluto che la sua testimonianza più importante
la dovesse ultimare dopo (e su) il golpe: La batalla de Chile, montato nel 1973-76 dopo
essere riuscito a far espatriare il materiale filmato. Tutt'altro spirito invece dietro questo
film di trent'anni dopo. Il tema qui è l'oblio di Allende, in patria soprattutto. Si tratta dunque
di un viaggio nella memoria, in città (Santiago o Valparaiso) dove nessuno sembra voler
ricordare la storia della sinistra cilena. Seguiamo una biografia del politico socialista, la sua
faticosa ascesa a presidente, i vari tentativi degli Usa di farlo saltare (dal boicottaggio economico all'omicidio del capo delle Forze armate all'appoggio al golpe di Pinochet). Di
Allende si spiegano le radici ideologiche, il suo non-marxismo, la sua fede nelle istituzioni
democratiche nonostante tutto. Il film, dall'impostazione piana e tradizionale, è appassionante, emoziona e indigna. E, come spesso accade in questi casi, la parte più istruttiva è l'intervista all'allora ambasciatore americano, che racconta con agghiacciante cinismo i metodi del governo e della Cia.
Emiliano Morreale, FilmTV
HPochi anni fa era quasi una parolaccia. Poi è arrivato Michael Moore e il successo mondiale di Bowling a Colombine e Fahrenheit 9/11 ha donato al vecchio "documentario"
nuova vita. Altro che superato: in tempi di omologazione mediatica il cinema della realtà è
ridiventato un genere di punta perfino in Italia (e se finora ha avuto poco spazio c'è da
scommettere che il successo annunciato di Viva Zapatero! della Guzzanti, partito con una
media per sala altissima, riaprirà i giochi).
Accanto al vecchio ideale agit-prop esiste però una via al documentario più saggistica,
problematica, riflessiva. Una via che ha il suo capofila nel francese Chris Marker, maestro
del cileno Patricio Guzman, e che fonde ricerca storica e approccio personale, se non poetico (non c'è genere più "d'autore" del documentario, malgrado le apparenze). Messo un po'
in ombra dai clamori veneziani, il Salvador Allende di Guzman è in questo senso esemplare
per ampiezza di visione e profondità d'analisi.
Cileno come Allende, Guzman ha vissuto il golpe e l'esilio, è stato nel carcere-stadio di
Santiago (lo ricorda brevemente in apertura), dunque parla da una posizione precisa. E da
questa posizione ripercorre la vertiginosa ascesa e la tragica fine del presidente cileno che
oltre al suo paese fece sognare le sinistre di tutto il mondo prima di essere abbattuto, l'11
settembre 1973, da un golpe platealmente finanziato dagli Usa. Forte del suo coinvolgimento diretto, Guzman può dunque interrogare la Storia, che significa rintracciare non solo
straordinari e spesso inediti documenti d'archivio (campagne elettorali, riforma agraria,
manifestazioni, discorsi, ovviamente il bombardamento della Moneda), ma anche testimoni. Compagni di partito, semplici militanti, le molte donne di Allende. Per finire con
l'ex-ambasciatore Usa in Cile, Edward Kerry, che con modi squisiti e frequenti risatine racconta tutto.
Racconta come gli fu ordinato di contrastare Allende con ogni mezzo. Racconta come
Nixon chiamasse il presidente cileno "bastardo figlio di p." e promettesse di annientarlo,
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sia pure "con gli strumenti dell'economia". Racconta come, a sua insaputa, gli Usa
spedirono armi e munizioni con la valigia diplomatica per far fuori l'unico generale rimasto dalla parte di Allende, nel '70 (autogol: l'indignazione fu tale che in Parlamento anche
i dc votarono per Allende). Racconta come la Cia e molte industrie europee, alcune famiglie
regnanti (il Belgio), la Dc italiana e tedesca, versassero fin dal '64 fiumi di denaro per alimentare una poderosa campagna di propaganda in Cile.
Basterebbe questo a rendere il lavoro di Guzman eccezionale. Ma il regista affonda il bisturi in zone ancor più delicate. Tenta di capire se Allende fu un martire o un illuso; si
chiede cosa avrebbe dovuto fare, se era giusto morire per degli ideali o se avrebbe dovuto
conquistare le forze armate, come suggeriva Castro. Domande aperte, che qualcuno per fortuna ha ancora il coraggio di porre.
Fabio Ferzetti da il Messaggero, 20 settembre 2005
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MISSING - SCOMPARSO
Missing
USA, 1982
Regia di Costa-Gavras
Con: Jack Lemmon, Sissy Spacek, Melanie Mayron, John Shea
Si basa sulla vicenda del giornalista newyorkese Charles Horman, scomparso in Cile nel
settembre 1973, durante il golpe del generale Augusto Pinochet, narrata nel libro The execution of Charles Horman: an American Sacrifice, scritto nel 1978 da Thomas Hauser.
La storia si sviluppa mostrando i tentativi del padre e della moglie di Horman (interpretati
rispettivamente da Jack Lemmon e Sissy Spacek) di conoscere la verità sulla sorte di
Charles.
Il film ricevette quattro nomination agli Oscar del 1983) (Miglior film, Miglior attore protagonista, Miglior attrice protagonista, Migliore sceneggiatura non originale), vincendo
quest’ultima.
Missing fu, inoltre, premiato nel 1982 al Festival di Cannes con la Palma d’oro come
miglior film e il premio per il miglior attore a Jack Lemmon.
La trama
Charles Horman (John Shea) è un giornalista free lance che lavora dal 1972 in Cile, dove
vive con la moglie Beth. Nel settembre 1973 assiste al golpe del generale Pinochet che
rovescia il governo del presidente Salvador Allende. Verso la metà del mese di settembre,
Horman si trova con l’amica Terry Simon e la moglie Beth a Viña del Mar, città balneare
vicina al porto di Valparaiso.
La mattina del 17 settembre 1973 I militari cileni irrompono in casa di Charles e lo
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arrestano. Sconvolta dalla scomparsa del marito, Beth chiede aiuto all’ambasciata e al console americano per ritrovare Charles. Le autorità americane e cilene comunicano alla
moglie di Horman che Charles è scomparso perchè probabilmente si è nascosto per sfuggire alla possibilità di essere rapito dai ribelli comunisti.
Ed Horman, il padre di Charles, un uomo d’affari americano molto religioso e tranquillo,
raggiunge Beth in Cile per avere notizie del figlio. Inizialmente convinto dalle spiegazioni
fornite dai funzionari dell’ambasciata americana (il console Putnam, l’ambasciatore e il
capitano Tower della Marina), Horman crede che il figlio abbia compiuto l’ennesima ragazzata decidendo di sparire.
Beth, al contrario, è persuasa del fatto che il marito sia stato rapito. L’incontro con la giornalista Kate Newman e il ritrovamento del cadavere di Frank Teruggi, un giornalista amico
e collega di Charles, rafforzano le convinzioni di Beth e inducono Ed a cambiare idea.
Grazie alla Newman, Ed e Beth vengono a conoscenza del lavoro di Charles nei giorni
precedenti la sua scomparsa. Egli avrebbe incontrato Andrei Babcock, un ingegnere navale
americano, e il colonnello Sean Patrick, entrambi agenti dei servizi segreti americani.
Consapevoli della pericolosa situazione in cui Charles si è invischiato, Ed e Beth iniziano
a perdere la speranza di rivederlo vivo.
Dopo un feroce diverbio all’ambasciata americana, dove Ed Horman si rifiuta di credere
alla versione fornitagli da Putnam e Tower secondo cui il figlio sarebbe ancora vivo e in
procinto espatriare dal nord del Cile, viene rilevata l’amara verità: Charles è stato ucciso a
Santiago nei sotterranei dello Stadio National il 19 o 20 settembre 1973 e successivamente
seppellito fra le mura della struttura.
Ed e Beth ottengono il permesso di lasciare il Cile con i resti di Charles e tornano negli Stati
uniti.
La critica
H(…)
Il film zoppica qua e là, ma ha un’avvincente progressione emotiva in sagace
equilibrio tra temi pubblici e privati. Per la prima volta Hollywood indica le responsabilità
della CIA nel colpo di stato in Cile. Palma d’oro a Cannes. Oscar per la sceneggiatura di
Costa-Gavras e Donald Stewart, basata su un libro di Thomas Hauser, e 3 candidature per
J. Lemmon, S. Spacek e miglior film (***)
Morando Morandini, Il Morandini
H(…) uno straordinario dramma umano e politico costruito come un vibrante thriller
cospirativo, dove il classico tema della sparizione della vittima è sviluppato ed esaltato
attraverso la scioccante disillusione degli “investigatori”. Un colpo di Stato e un colpo al
cuore di tutti gli spettatori democratici, una conferma per chi crede nel cinema di impegno
civile: fu il primo film hollywoodiano (prodotto da Polygram e Universal) a parlare esplicitamente di responsabilità militari di Washington in Cile, anche se non si citano mai né
Pinochet né Allende. Eccellente Lemmon, bravissima la Spacek. Oscar pe la miglior
sceneggiatura a Costa-Gavras e Donald Steward. Palma d’oro a Cannes, ex aequo con Yol.
Paolo Mereghetti. Il Mereghetti – Dizionario dei film 2008. Baldini Castoldi Dalai Editore
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THE TAKE - LA PRESA
The Take
Regia di Ari Lewis [e Naomi Klein]
Canada/Argentina, 2004, 93’
Benvenuti nel paese fantasma globalizzato.
Siamo in Argentina, ma potremmo essere
ovunque. Nei sobborghi più poveri di Buenos
Aires. Durante la grande crisi economica del
2001, trenta operai disoccupati da tre anni
entrano nella loro fabbrica dimessa, l’acciaieria
Forja San martin, tirano fuori I materassini sui
quali dormire e rifiutano di andarsene. Quello
che vogliono è riavviare le macchine ferme. Il
loro motto: “occupare, resistere, produrre”.
Ma questo semplice gesto, armati solo di fione
e di un’incrollabile fede nella democrazia Naomi Klein
operaia, I lavoratori si scontrano con I capi, I
banchieri e l’intero sistema che vede le loro amate fabbriche come nient’altro che un pezzo
di metallo da svendere.
Sullo sfondo la grave crisi economica del 2001, in cui da un giorno all’altro gli argentini
videro scomparire I risparmi di una vita.
Mescolando pubblico e privato, in The Take, Avi Lewis e Naomi Klein raccontano come le
politiche economiche spietatamente liberiste abbiano portato la nazione più ricca
dell’America Latina al collasso, e come dalla solidarietà tra I lavoratori e la gente comune
possano nascere alternative pacifiche autenticamente rivoluzionarie: un manifesto economico per il XXI secolo.
La critica
HArgentina 2003: la fabbrica Forja chiusa dai proprietari viene occupata dai suoi operai
che riescono a rimetterla in funzione con sucesso; intanto Kirchner diventa il nuovo presidente, scalzando Ménem. La giornalista Naomi Klein – autrice di No logo, sceneggiatrice
e co-produttrice col marito Lewis – trova nell’Argentina ridotta in povertà un banco di
prova delle sue teorie contro la globalizzazione. Al capitalismo selvaggio e ai maneggi del
Fondo monetario internazionale oppone l’autogestione degli operai (il caso della Forja non
è isolato), che mettono imn partica lo slogan: “Occupare, resistere, produrre”. Restano
ambiguità di fondo (come si fa a resistere nel mercato se non accettando le regole del capitalismo?) e un populismo superficiale e barricadiero. Su un tema analogo esiste anche
Fasinpat – Fabrica sin patron di Daniele Incalcaterra (2003). (**)
Paolo Mereghetti. Il Mereghetti – Dizionario dei film 2008. Baldini Castoldi Dalai Editore
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Una vita no logo
Naomi Klein, giornalista canadese classe ‘70, è ancora sulle barricate. All’attivo ha il libro
No Logo, “bibbia” del movimento no global pubblicata nel 2000 e tradotta in 25 lingue. E
sei anni trascorsi a viaggiare in tutto il mondo, per tirare le fila della protesta contro le
multinazionali. Suoi molti articoli pubblicati sul New York Times, Newsweek international,
The Guardian e sulla rivista italiana Internazionale. Ultima fatica il film-documentario The
take, realizzato insieme al regista Avi Lewis: la pellicola racconta in diretta l’occupazione
di una fabbrica nei sobborghi di Buenos Aires.
Parla Naomi Klein (da Terre di mezzo, 24 aprile 2005)
Un estratto dell’intervista che Naomi Klein, giornalista canadese autrice di No logo, ha
rilasciato in occasione del suo arrivo alla fiera “Fa’ la cosa giusta!”. A 360° su consumi e
consumismo etico” - Francesca Sala.
Il consumo critico è un efficace strumento di lotta, ma non basta. La giornalista canadese
Naomi Klein, in Italia per presentare il film “The Take”, dice la sua sul ruolo del consumo
critico nelle società occidentali. Intervistata da Miriam Giovanzana, direttore di
Altreconomia, da Carlo Giorgi, direttore di “Terre” e da Anna Morelli, redattrice di
Altreconomia, durante la fiera milanese “Fa’ la cosa giusta!”, la Klein ha parlato a lungo di
consumi e attivismo politico. Pubblichiamo un estratto dell’intervista.
“Lo spirito con cui abbiamo realizzato il film The take è lo stesso che pervade la fiera “Fa’
la cosa giusta!”: il desiderio di creare spazi per alternative positive a un sistema economico criticabile. Abbiamo ritrovato questo spirito in fiera, dove ci sono molti esempi di
prodotti realizzati da cooperative di lavoratori. Ma voglio essere chiara: lo shopping, per
quanto etico, non potrà mai cambiare il mondo. È solo uno strumento di cui dispongono i
cittadini per esprimersi e dare un parere, ma abbiamo bisogno di dotarci di altri strumenti.
Dopo la pubblicazione di No logo mi sono ritrovata spesso a incontri come questo, gremiti di persone preoccupate di trovare un modo di migliorare il mondo. Dopo la mia relazione
sui problemi del mondo e su quelli legati ai marchi delle multinazionali e all’economia
impostata dalle aziende, inevitabilmente qualcuno si alzava per domandare “vorrei aiutare,
cosa posso comprare?”. C’è una risposta a questa domanda: comprare delle scarpe da ginnastica che non siano fabbricate nelle sweatshops (aziende che sfruttano i dipendenti, n.d.r.)
in Cina ma prodotte da cooperative dove ogni decisione è presa in modo democratico.
Eppure mi turbava che la prima domanda che mi veniva rivolta fosse sempre quella. Mi turbava l’idea che di fronte a problemi così complessi come quelli che affliggono il mondo, il
nostro primo impulso di reazione sia in termini di acquirenti, di compratori, che rispondono
ai problemi con i dollari. Credo che questo esprima molto bene quello che è il problema
principale dell’Occidente: la privatizzazione di ogni aspetto della vita, che comprende la
perdita degli spazi pubblici e di cittadinanza. Non siamo più attori politici e il nostro principale mezzo di espressione è l’acquisto. Noi acquistiamo anziché esprimerci in modo
politico, anziché organizzarci. Anziché intraprendere azioni dirette e occupare noi stessi le
fabbriche.
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I lavoratori argentini di cui abbiamo raccontato la storia stanno producendo all’interno di
cooperative gestite democraticamente. Vorrebbero vendere i loro prodotti: se arrivassero in
Italia credo che molti li comprerebbero. Ma dobbiamo essere molto chiari su un fatto: noi
compriamo i prodotti ma sono loro che fanno politica, loro che costruiscono movimenti
sociali, che si mobilitano, che si muovono per cambiare qualcosa nel loro Paese. Non
dimentichiamo che i prodotti di Paesi come il Nepal, il Guatemala o l’Argentina sono frutto di una lotta molto profonda. I lavoratori in Argentina non hanno solamente occupato una
fabbrica ma hanno fatto sì che l’occupazione potesse durare nel tempo, coinvolgendo tutta
la comunità, che ha offerto un forte sostegno. Gli studenti hanno ridisegnato l’insegna della
fabbrica e curato le pubbliche relazioni. Ci sono state donne disposte a mettere il loro corpo
fra la polizia e i lavoratori per impedire lo sgombero della fabbrica. I lavoratori sono riusciti a passare da quella che era una lotta operaia a un vero e proprio movimento sociale che
ha convolto la comunità. Quando mostriamo il film in Europa e in Nord America i lavoratori ci dicono ‘vorremmo poter fare la stessa cosa: proteggere il nostro posto di lavoro, però
non avremo mai il sostegno della classe media, perchè non siamo un movimento sociale’.
Quello che sto cercando di dire è che corriamo il pericolo di convincere noi stessi che possiamo dare l’attivismo in appalto, delegandolo ai Paesi poveri e che possiamo autoassegnarci una parte molto più comoda, quella di consumatori etici. Abbiamo chiesto ai lavoratori in Argentina come aiutarli. Abbiamo chiesto se volevano vendere i loro prodotti in
Nord America e in Europa: naturalmente rispondevano di sì con entusiasmo ma poi
aggiungevano: ‘La cosa più importante è che voi raccontiate alla gente quello che stiamo
facendo, così che anche loro lo facciano. Vogliamo vendere i nostri prodotti ma ci piacerebbe ancora di più esportare le nostre idee, il nostro modello. Persone come loro, che
hanno lottato così strenuamente per il cambiamento e hanno senz’altro imparato il valore
della solidarietà non vogliono solo dei clienti, ma dei ‘companeros’, dei compagni”.
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ARGENTINA – BREVE CRONISTORIA DAL 1946 A OGGI
1946 – Il generale Juan Domingo Peron viene eletto Presidente dell’Argentina. Peron
favorisce la produzione nazionale contro il controllo straniero dell’economia. Sua moglie,
Eva Duarte, è una figura molto popolare e, nel 1947, aiuta le donne a ottenere il diritto di
voto.
1955 – Peron viene cacciato con un colpo di stato per essersi schierato contro la classe dei
proprietari terrieri. Viene mandato in esilio in Spagna.
1973 – Per la prima volta dopo dieci anni, in Argentina vengono indette le elezioni. Il
ritorno di Peron provoca un massacro all’aeroporto Ezeiza di Buenos Aires fra i suoi
sostenitori.
Luglio 1974 – Juan Domingo Peron muore e la sua terza moglie Isabel gli succede. Il suo
breve incarico è caratterizzato dal rafforzarsi del potere politico delle forze armate e della
“AAA”, squadra della morte, che tenta di eliminare attivisti di sinistra, scrittori e politici.
Marzo 1976 – Una giunta militare organizza un colpo di stato e dichiara lo stato d’assedio.
Per i successivi sei anni della cosiddetta “guerra sporca” il governo militare uccide e fa
sparire più di trentamila argentini (desaparecidos), per lo più studenti e militanti. Il Fondo
Monetario Internazionale fornisce miliardi di dollari alla giunta militare. La nuova politica
economica favorisce gli investimenti stranieri a scapito dell’industria nazionale.
1983 – L’Argentina subisce dall’Inghilterra un’umiliante sconfitta militare nello sfortunato
tentativo di assumere il controllo delle isole Falkland/Malvinas. La corruzione e gli scandali del regime militare scatenano la protesta pubblica e una graduale conversione verso un
governo più democratico.
Raul Alfonsin diventa presidente della Repubblica. Il nuovo governo si muove per render
conto dei desaparecidos, stabilisce il controllo civile delle forze armate e consolida le istituzioni democratiche. Ha, tuttavia, vita difficile soprattutto a causa di un debito di 45 miliardi di dollari, cinque volte più ingente di quello che era il debito quando in militari presero il potere nel ’76.
1989 – Carlos Menem vince le elezioni presidenziali, dando una forte impostazione di
destra e imponendo quella che lui chiama “un’operazione senza anestesia”. La politica di
Menem fa dell’Argentina il modello del Fondo Monetario Internazionale e della World
Bank. Quasi tutte le attività vengono privatizzate. Mentre il PIL dell’Argentina raddoppia,
il tasso di disoccupazione sale dal 6 al 18% e i lavoratori vengono messi in cassa integrazione.
La sua amministrazione, e quella successiva di De La Rua, tenta di fronteggiare una diminuita competitività nelle esportazioni, massicce importazioni che danneggiarono l’industria
nazionale e ridussero l’impiego, un deficit fiscale e commerciale cronico, e il contagio di
diverse crisi economiche.
1998 – La crisi finanziaria asiatica causa una fuoriuscita di capitale che sfocia nella recessione, culminando con la crisi economica nel novembre 2001.
Dicembre 2001 – A seguito di rivolte sanguinose contro la profonda crisi economica in cui
l’Argentina è sprofondata , si hanno le dimissioni del presidente De la Rua. A De la Rua
succedono, nell’arco di poche settimane, ben quattro presidenti, sino ad arrivare, il
2 gennaio 2002 – alla nomina come presidente ad interim di Eduardo Duhalde.
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L’Argentina andò in default sulle sue obbligazioni internazionali. L’ancoraggio del Peso al
Dollaro, vecchio di quasi undici anni, venne abbandonato, producendo un grosso deprezzamento della valuta e un picco di inflazione.
14 maggio 2003 – Nestor Kirchner diventa il nuovo presidente dell’Argentina.
11 settembre 2003 – Il governo argentino cerca un nuovo accordo con il Fondo Monetario
Internazionale che presuppone che l’Argentina mantenga un surplus pari al 3% del PIL per
risanare il debito estero.
2004 – L’andamento dell’economia nei primi del 2004 fa segnare importanti avanzi che,
in alcuni casi, hanno superato le aspettative iniziali e che hanno permesso di consolidare il
contesto di stabilità macroeconomia e di raffreddare le problematiche sociali. Tutti gli indicatori macroeconomici sono risultati di segno favorevole: la crescita del PIL ha subito un
incremento dell’8,7% rispetto all’anno precedente; l’attività industriale ha registrato segnali di ripresa, l’inflazione è rimasta abbastanza stabile e il tasso di disoccupazione è passato dal 18% di maggio al 14,5% del dicembre dello stesso anno.
2005 – A due anni dall’elezione Nestor Kirchner può dirsi soddisfatto: può vantare per il
suo governo risultati piuttosto incoraggianti. Oltre a ciò le inchieste sulla popolarità del
governo hanno mostrato una buona risposta della popolazione ai risultati raggiunti. La
popolarità di Kirchner resta alta tra i ceti a bassa reddito, che sono i maggiori beneficiari
delle politiche sociali messe in atto dal governo, mentre risulta in calo nella classe media e
tra i gruppi ad alto reddito.
28 ottobre 2007 - Nuove elezioni presidenziali. Vince la first lady Christina Elizabeth
Fernandez de Kirchner, che succede al marito nella carica di presidente d'Argentina.
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SALVADOR
Salvador
Regia di Oliver Stone
Con James Woods, James Belushi, John
Savage, Michael Murphy, Elpidia Carrillo,
John Doe, Cynthia Gibb
Usa, 1986, 123’
Due americani in viaggio nel Salvador scoprono un paese lacerato dalla guerra civile e
oppresso dalla dittatura sostenuta dal governo Reagan. È il 1980, anno dell’assassinio di
monsignor Romero.
All’inizio degli anni ’80 il giornalista americano Richard Boyle ha rischiato la sua vita per
poter raccontare l’orrore della guerra civile in Salvador. Lui e gli altri reporter hanno cercato di cogliere l’”ironia” della situazione che si era creata nel paese centro-americano: da
un lato il continuo flusso di aiuti militari dagli Stati Uniti (paese anti comunista per eccellenza), dall’altro il governo del Salvador che, per debellare dissidenti e ribelli, ricalcava i
metodi utilizzati nei regimi comunisti.
Nel dicembre 1984 Boyle diede al regista Oliver Stone un manoscritto in cui raccontava la
sua esperienza in quel paese. Stone ne fu immediatamente conquistato e si rese conto che
avrebbe dovuto realizzarne un film, anche se non sapeva ancora come e con quali soldi.
Coinvolto dall’argomento scabroso e spinto anche dall’esperienza di guerra in comune con
Boyle (entrambi erano stati in Vietnam, Boyle come giornalista, Stone come soldato), il
regista decise di fare con lui un viaggio in Salvador.
Turbato e affascinato al tempo stesso da ciò che vide in quel paese devastato, Stone decise
che il tema centrale del film sarebbe stato un altro. La sua intenzione non era quella di fare
una pellicola di denuncia sul Salvador, bensì sulla vita dei giornalisti testimoni dei massacri. Si lasciò ispirare quindi dalle opere , dal carattere e dalle qualità di Boyle stesso.
A causa del tema complesso e della difficoltà delle riprese “lontano da casa”, Stone dovette
affrontare una lunga serie di ostacoli che superò senza perdersi d’animo. “Lavorai per un
anno senza paga e senza prospettive di un ritorno economico neppure per il futuro ma”,
afferma, “pur di realizzare altri film come questo, sarei pronto a ricominciare tutto da
capo”.
Ecco come è nata una pellicola “radicale e anarchica” sul tema del discutibile ruolo avuto
dagli Stati uniti in un Salvador devastato.
Definito un impressionante capolavoro pieno di coraggio e uno dei pochi thriller politici in
cui la psicologia è commeovente quanto la storia, Salvador si è meritato due nomination
all’Oscar, tra cui una per la toccante sceneggiatura scritta da Stone e Boyle.
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La critica
H(…)Ispirato a un personaggio reale, forte, serrato, coinvolgente, è il più aspro tra i film
americani sul Terzo Mondo, quello che denuncia con maggior vigore le complicità di
Washington con i regimi militari nell’America Centrale. (***)
Morando Morandini, Il Morandini
H(…) Sincero nella sua condanna degli orrori del fascismo, coraggioso nel fare nomi e
cognomi (c’è anche l’assassinio di monsignor Romero); sgradevole, esagitato, sovraccarico, e girato con una furia che spesso lascia stupefatti. Meglio peccare per eccesso che per
difetto. Da confrontare con Sotto tiro. (***).
Paolo Mereghetti. Il Mereghetti – Dizionario dei film 2008. Baldini Castoldi Dalai Editore
HIn USA molti critici hanno elogiato questo film controdorrente, girato a basso costo da
Oliver Stone che subito dopo ha avuto un grande successo con Platoon. Basato sulle memorie di un giornalista formato hippy, Richard Boyle, reduce da tutte le guerre combattute
sul pianeta negli ultimi vent’anni, Salvador racconta i tragici eventi accaduti in quel Paese
tra l’80 e l’81, incluso l’assassinio dell’arcivescovo Romero sul quale sta scrivendo un
copione Gillo Pontecorvo. La guerra civile salvadoregna è vista attraverso gli occhi di due
vitelloni americani, Boyle e un amico “disc-jockey”, che calano al sud tra fumi di alcol e
marijuana in cerca di emozioni. Ai loro casi si intreccia il destino di uno spericolato
fotografo, che nella realtà si chiamava John Hogland e morì sul campo come corrispondente di Newsweek. Scriteriato e inattendibile secondo i normali parametri, il protagonista
Boyle (un esagitato James Woods) si butta nella mischia da autentico ribelle senza causa e
non rinuncia a trasformare ogni cosa in bevute e bagordi; ma il suo itinerario irresponsabile
ci consente di osservare le atroci convulsioni del Salvador ferito a morte dalle mene dell’amministrazione Reagan. Tra lo sdegno anti-Washington e l’istinto di sopravvivenza, la
realtà della “revolución” e la retorica dei canti proletari, l’impotenza di fronte ai massacri
e le vigliaccate improvvise, l’anti-eroe individualista di Stone guadagna una certa plausibilità dalla veristica concitazione dello sfondo. Nel suo insieme il film sembra sopraffatto
dalla grossolanità delle valutazioni politiche, dal disordine dell’esposizione e dall’eccesso
di colore locale che induce il regista a inscenare cariche di cavalleria in una guerra dove i
cavalli non furono mai impiegati. La nostra idea di film politico diverge sensibilmente dallo
spettacolo forsennato e fracassone che ci offre Salvador, ma il film girato in Messico conserva a tratti la ruspante aggressività di un evento annotato al volo come una cosa vista.
Tullio Kezich da Il filmnovanta: cinque anni al cinema: 1986-1990, Mondadori, Milano, 1990
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Il potere nasce dalla canna del fucile
Q
uesta frase di Mao Tze Tung definisce molto bene su quale base siano state costruite le cosiddette società civili di oggi. Ieri la spada, oggi il fucile. Con queste armi
viene mantenuto l’ordine sociale interno alle nazioni, mentre per i rapporti di forza
internazionali funziona ancora il deterrente atomico.
Da questo stato di cose nascono alcune domande.
Il potere non dovrebbe nascere dal popolo?
La democrazia si basa sul governo del popolo o delle armi?
Sembra che senza il fucile l’uomo non riesca a imporre nessun potere, nessun ordine o
regola sociale. Quando un uomo imbraccia un fucile può usarlo per uccidere un altro uomo,
magari nel nome di ideali di giustizia e libertà. Fucile contro fucile, odio contro odio, non
certo amore contro amore.
Il potere che l’uso delle armi ha dato all’uomo ha creato quella divisione tra i padroni, proprietari del mondo, e schiavi nullatenenti. Il lavoro coatto degli schiavi di ieri e lo sfruttamento dei contadini e operai di oggi ha permesso di costruire nel corso dei secoli il mondo
degli umani come lo vediamo oggi, con lo sviluppo tecnologico e la produzione di immense
ricchezze materiali, il cui godimento e la fatalità del destino sembra aver riservato solo per
pochi.
“Mors tua vita mea” è la regola che domina la società civile del terzo millennio. Eppure in
questa società si sono generati tanti ideali di giustizia, eguaglianza, solidarietà, tolleranza,
libertà e indipendenza il cui ruolo, però, è sempre stato quello di rimanere quello che sono
e cioè degli ideali e delle utopie. Curiosa questa scissione tra ideali di amore e giustizia da
una parte e realtà di odio e guerra dall’altra.
A questo punto mi viene spontanea un’ultima domanda: se il mondo degli umani cominciasse a funzionare al contrario di oggi sarebbe meglio o peggio? Ai posteri l’ardua sentenza.
(Considerazioni di un ex sessantottino).
Albino Francia
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