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Bianca Paganini
Mi chiamo Bianca Paganini, sono nata a La Spezia il primo febbraio 1922. Appartengo ad
una famiglia molto religiosa, perciò babbo e mamma avevano aderito al movimento del
Partito Popolare prima dell'ascesa al potere di Mussolini. Erano persone molto generose,
molto buone, ed erano persone che amavano tanto la loro libertà. Eravamo cinque fratelli,
tre maschi e due femmine, ed eravamo vissuti in una famiglia veramente felice. Babbo e
mamma assecondavano, quando era possibile, i nostri desideri, anche però con una certa
rigidezza. Ci avevano insegnato poco per volta che si poteva vivere felici anche senza la
dittatura fascista. A casa mia non vedemmo mai una divisa fascista, né i miei fratelli
ebbero mai la divise da balilla o da figli della lupa, né io e mia sorella avemmo mai una
vera divisa da giovani italiane. Papà aveva posto il veto a mia madre, "se devono andare
vestite in divisa che si accontentino di quello che la casa può offrire". Eravamo studenti
nelle scuole spezzine, io frequenta vo il liceo, mia sorella frequentava l'istituto tecnico, i
miei fratelli invece erano stati messi da mio padre in collegi salesiani, affinché non
assorbissero la teoria fascista.
Noi assorbivamo però nella scuola tutta la teoria fascista, determinati giorni dovevamo
frequentare le adunate, e con un certo quale distacco la famiglia ci permetteva di farlo. Mio
padre morì nel 1938 e noi restammo soli con la mamma, la quale seguì in tutto e per tutto
il modo di educarci del papà. Scoppiò la guerra e noi dovemmo, a causa dei continui
bombardamenti e della salute malferma di mamma, trasferirci in una piccola casetta ai
margini della città, a San Benedetto, che si trova al di là della foce, dove avevamo già
preparato una casa per i momenti del pericolo.
Giunse l'8 settembre. Mio fratello, il più grande, era ufficiale degli alpini e si trovava nella
zona del Vipiteno e di Fortezza. Abbandonò il suo posto e si diresse verso casa. Ci
raggiunse ai primi di ottobre e insieme ad altri cominciò immediatamente a organizzare i
primi movimenti, i primi raduni dei partigiani. Mamma non si oppose a questo intendimento
dei suoi figlioli, anzi li appoggiò, anche se evidentemente l'aiuto che essa poteva dare a
loro era veramente poco. Poteva soltanto accettarli in casa quando venivano dalla
montagna, accettare soprattutto di ospitare gli amici che trovavano nella nostra casa
l'appoggio per poi salire la montagna. Ben presto a mio fratello Alberto si associò anche il
secondo, Alfredo, che faceva il quinto anno di medicina e che organizzò, con le sue
conoscenze di medicina, un piccolo ospedale su in montagna per accogliere i partigiani
che durante i rastrellamenti venivano feriti. Noi restammo in casa, mia madre, mia sorella,
io e mio fratello più piccolo che aveva soltanto 16 anni.
Quando cominciarono le prime avvisaglie, mamma cercò di avvertire i fratelli su in
montagna di essere più prudenti. La mattina del primo di luglio mio fratello Alfredo scese in
città insieme alla moglie di Vero del Carpio, che era allora il capo della formazione
partigiana. Erano venuti in città per prendere delle medicine in una delle farmacie spezzine
che avevano accettato di dare aiuti farmaceutici alla zona partigiana. Molto probabilmente
avevano anche intenzione di prendere una piccola radio trasmittente che sarebbe servita
per le formazioni su in montagna. Quando arrivarono in piazza Garibaldi, vennero
accerchiati da ufficiali della SS e dai fascisti, arrestati e portati nelle carceri di Villa
Andreini. Abbiamo saputo subito quello che stava succedendo e la mamma cominciò
subito con grande coraggio a cercare tutto quello che poteva esserci di pericoloso in casa.
Ma in casa c'era poco o niente. Allontanò il più piccolo affinché potesse essere sottratto a
qualsiasi rivendicazione da parte dei fascisti. Eravamo sicuri che nulla sarebbe successo
ad una donna di sessantatré anni e a due ragazze, una di ventuno e l'altra soltanto di
diciotto anni. Aspettammo. Durante tutta la notte e durante tutto il giorno arrivavano notizie
incomplete, non si sapeva nulla di quello che stava succedendo in città. Poco per volta
però venimmo a sapere che altri erano stati arrestati fino a che giunse la sera. Verso
mezzanotte sentimmo sotto casa parecchie persone. Ci affacciammo e vedemmo la casa
circondata da soldati fascisti che dal boschetto cercavano di impedire a chiunque di
entrare e di uscire. Bussarono alla porta, mamma con molto coraggio andò alla porta
dicendo a noi ragazze di restare a letto perché così avremmo dato l’impressione di non
sapere nulla.
Si affacciarono alla porta Gallo e altri due fascisti. Dietro di loro c'erano due ufficiali della
SS e quattro o cinque soldati tedeschi. Entrarono in malo modo. Ci fecero alzare e per
cinque ore rovistarono per casa, una casa ben misera, perché era un rifugio dai
bombardamenti e tutte le cose erano state messe in salvo in altre case dove c'era
maggiore sicurezza. Frugarono e non trovarono null’altro che libri. Uno, ricordo come
fosse adesso, era intitolato Disobbedisco ed era stato dedicato a mio padre dallo stesso
autore. La cosa suscitò un profondo interesse e sdegno nei fascisti, così come suscitarono
sdegno le figure della Divina Commedia del Dorè che erano nella nostra biblioteca.
Durante la perquisizione venne trovata dai fascisti una lettera di un amico svizzero in cui
ringraziava mio padre – da notare, morto nel 38 - per del vino spezzino che gli aveva
inviato affinché potesse brindare durante il suo matrimonio. Era una lettera molto cara,
molto gentile da parte di questo amico. Non so per quale motivo questa lettera venne
presa e messa agli atti come se fosse la prova di spionaggio da parte di persone svizzere.
Alle cinque del mattino ci fecero vestire, ci fecero prendere i gioielli che mamma teneva in
casa e ci portarono in città. Ci schedarono nelle carceri di Villa Andreini. I gioielli per
fortuna che erano in mano di mamma vennero consegnati direttamente al direttore delle
carceri. Questo non successe con la mamma di un altro detenuto, l'avvocato Vironi, la
quale ingenuamente aveva affidato i gioielli agli ufficiali fascisti. Quando giunse in carcere,
questa signora invitò il fascista a dare i gioielli al direttore delle carceri, ma il fascista negò
di averli mai avuti. Questo per dire il clima che vigeva allora tra le file dei fascisti spezzini.
Ci misero in isolamento, tre celle per tre persone. In carcere trovammo due persone che
poi ci furono molto care, la signora Stanzione con la figlia, arrestate insieme al figlio e a
Italo Geloni, che poi troveremo anche durante i nostri viaggi a Mauthausen, anche loro
arrestati da fascisti e Tedeschi. Trovammo anche Dora Carpanese, arrestata con mio
fratello, e pochi giorni dopo ci raggiunse anche un'altra mamma di un partigiano amico dei
miei fratelli. Era stata arrestata insieme al marito perché non avevano trovato il figlio. Il
marito morirà poi a Dachau. Lei tornerà a casa soltanto alla fine della guerra, dopo essere
stata per tutto il tempo internata nel campo di Bolzano.
Il giorno dopo cominciarono l'interrogatorio, ma non da parte dei fascisti, che invece
interrogarono mio fratello. Noi fummo messe immediatamente sotto il controllo della SS,
che cominciò a interrogarci con l'interprete, uno spezzino che conosceva molto bene il
tedesco. Il colonnello non alzò mai la mano, né contro di me o mia sorella, né contro mia
madre. E' vero che la pistola era sempre nelle sue mani, che le parole talvolta erano
accompagnate da movimenti piuttosto bruschi, e che anche la voce molto spesso si alzava
durante l'interrogatorio, però non venne mai meno ai principi di sensibilità che qualsiasi
uomo ha verso le donne, soprattutto verso una persona anziana. Mia madre era
continuamente interrogata, perché da lei si voleva sapere chi erano e cosa facevano quei
banditi, quei disgraziati, quei delinquenti dei suoi figlioli e quali erano gli amici che
frequentavano la nostra casa. Malgrado i dinieghi e malgrado si ostinasse a dire che lei
non sapeva nulla, neanche dov'erano i suoi figli, gli interrogatori erano sempre più
pressanti e pesanti. Anche io e mia sorella venimmo sottoposte a questi interrogatori,
anche se molto meno, fino al 20 di luglio, data dell'attentato a Hitler. Mia madre, che era
una persona molto calma e equilibrata, con un cipiglio che non riconoscevo, obbligò Suor
Teresina, la madre superiore che teneva le carceri femminili, a chiedere un'udienza
immediata col comandante tedesco. Il comandante tedesco dapprima tergiversò, ma mia
madre lo obbligò a sentirla, e quando fu davanti a lui gli disse "vorrei sapere come tu
chiami la tua gente, quella che ha attentato al tuo capo. Ti do del tu perché tu dai del tu a
me, ma anche perché appartieni ad un popolo in cui ci sono anche persone che come i
miei figli amano la libertà. Non osare più chiedermi nulla perché non ti dirò mai nulla".
Quest'uomo un po' interdetto guardò mia madre, si alzò, le fece il saluto militare e poi le
disse "mille donne come te e io qua non ci sarei". Da quel giorno non fummo più
interrogate. Però il soggiorno in carcere continuò, tra alti e bassi. Alcune sere aspettavamo
i partigiani che ci avrebbero liberato, altre sere salutavamo qualcuno che forse poi non
avremmo più rivisto.
Nel frattempo ci fecero anche vedere mio fratello che, ridotto in condizioni pietose e
sorretto da due amici che lo avevano accompagnato, era venuto a salutare mia madre.
Penso che per mia madre questo fu l'inizio della sua morte. Finora ci aveva sempre
protetto, ci aveva sempre salvato, ma da quel momento cominciò ad accorgersi che come
madre nulla poteva più nulla, non poteva più aiutare i suoi figli. Il suo ruolo di madre era
completamente finito.
L'8 settembre sentimmo aprire la porta della cella e Suor Domitilla, una suora gentile e
buona che aveva sempre cercato di aiutarci anche con le parole, venne piangendo e ci
disse: "preparatevi perché dovete andar via". Era tardi, ci fecero uscire dalle carceri, ci
imbarcarono ammanettati sul cassone di un camion e così partimmo. Eravamo circa una
ventina, io mia madre e mia sorella eravamo insieme alle due Stanzione, un'altra donna di
cui adesso mi sfugge il nome, che poi seguì con noi il trasporto in Germania. Fummo
assaliti durante il cammino dai partigiani e noi sperammo in una prossima liberazione. In
realtà i Tedeschi puntarono i fucili contro di noi e impedirono perciò la nostra liberazione.
Questo avvenne in un rettilineo fra Ricò e Pian di Barca, nella zona di Caresano. Mamma
aveva sessantatré anni ed era gravemente ammalata di cuore, soffriva di uno scompenso
cardiaco che più di una volta ci aveva fatto temere per la sua vita. Arrivammo a Genova.
Fummo perquisite - come se provenendo dalle carceri avessimo potuto nascondere
qualcosa - e avviate al quarto raggio di Marassi. Fu un salto brutto perché a Spezia
avevamo amici, avevamo le suore che ci proteggevano, avevamo i parenti, soprattutto una
zia che ci portava da mangiare a mezzogiorno e ci faceva sentire ancora legati alla nostra
terra e alla nostra casa. Arrivati invece a Marassi ci trovammo in una nuova dimensione
della prigionia. Ci sbatterono in una cella, dove non c'erano neanche i letti, ma soltanto
materassi, sporca, piena di animali che camminavano sui muri, e cominciarono a darci da
mangiare in maniera sporca. Prima di mangiare dovevamo pulire il piatto da tutto quello
che c'era sopra il cibo. Il cibo era poco. Quando mia madre chiese qualcosa da leggere le
portarono Le ultime ore di un condannato a morte. Mia madre disse "capisco che sono utili
anche queste pagine, però evidentemente non è il momento che io legga queste cose" e
glielo restituì. Era una prigionia dura, pesante, anche durante la notte si viveva male,
erano urla continue di gente sotto tortura, e noi le sentivamo, perciò la notte era piena di
incubi.
Verso il 20 settembre, durante la mattinata, fummo presi, imbarcati su due pullman. Il
viaggio era lungo e ad un certo momento fummo costretti a fermarci e a fare i nostri
bisogni davanti a tutti. La cosa ci colpì profondamente, specialmente noi donne, che
certamente non avevamo l'abitudine di fare certe cose di fronte a tutti. A Milano ci
fermarono in una piccola strada, vicino a Piazza Duomo. Mamma aveva sete, si affacciò e
chiese alla gente per strada "ho sete, portatemi qualcosa da bere". Immediatamente i due
pullman vennero circondati da molte persone, le quali portarono tutto quello che potevano:
acqua minerale, pane, salame, di tutto. Però ad un certo momento, vista la ressa, forse
per paura che potessimo venir liberati, le SS cominciarono a sparare. La gente scappò e
noi restammo con la nostra sete e la nostra fame. Tutto quello che poteva soddisfare il
nostro desiderio era rimasto sopra la strada, senza che nessuno potesse usufruirne. Di lì,
dopo Milano, raggiungemmo Bolzano. Alla fine giungemmo a Bolzano. Qui cominciammo
a capire quello che ci aspettava sotto la prigionia delle SS.
Fummo spogliate di tutte le nostre cose, i nostri vestiti furono messi in un sacco e ci
dettero una tuta. Quando entrammo nel campo io ebbi la ventura di trovare tra i deportati il
mio professore di matematica nel primo e secondo anno di liceo, professor Vittorio
Sturbese che era stato arrestato per motivi politici. Il professore mi venne incontro, mi
abbracciò, pianse perché non si sapeva capacitare che delle ragazze potessero anche
loro essere arrestate, internate e soprattutto avviate alla deportazione. Lì ricevemmo il
numero, contrassegnato in una grande striscia bianca sulla tuta. Il numero di
immatricolazione non me lo ricordo, mi pare fosse sul quattromila, ma potrei sbagliarmi,
anche perché non veniva utilizzato come sistema per chiamarci. Per noi però Bolzano fu
una specie di oasi, erano tre mesi che stavamo chiusi dentro una cella senza poter vedere
la luce del giorno, chiuse in nove, dieci persone in una sala che poteva essere cinque per
sei metri, dove non avevamo neanche il letto per dormire ed era molto sporco. Lì c'era
l'aria frizzante della montagna che ci veniva incontro ogni volta che uscivamo dalla
baracca. C'erano dei letti a castello, è vero, però ognuno aveva il proprio e avevamo la
possibilità di conoscere altre donne con le quali ben presto abbiamo condiviso la prigionia.
Non stavamo tutto il giorno nel campo. Alla mattina venivamo portate nella caserma dei
carabinieri ad attaccare i bottoni nelle tende da campo. E anche lì trovammo persone
amiche, chi lungo le scale ci facevano trovare un cioccolato, una caramella, una sigaretta.
Addirittura una volta trovammo persino un piatto di pastasciutta, che per noi a vent’anni
era una cosa veramente stupenda.
Il capo del campo era Tito. Poi c'era un certo Hans che la mattina dell'8 ottobre, in cui
fummo convocate per il trasporto, ci disse “non vi preoccupate, ben presto sarete
all'inferno”. E ci mandarono veramente all'inferno. Lui evidentemente conosceva bene il
campo dove saremmo dovute andare. Ci fecero uscire dalla baracca, ci incolonnarono e la
maggior parte delle donne e degli uomini venne portata alla stazione. Riempirono due carri
bestiame con centotredici donne. Altri quattro carri bestiame vennero occupati da altri
prigionieri che da Bolzano venivano trasportati in Germania. Il viaggio fu terribile, anche
perché nel vagone non c'erano i servizi igienici e con noi c'erano donne che erano incinte,
che erano di una certa età. Ci preoccupammo immediatamente di fare un buco da qualche
parte, per supplire alla mancanza di servizi, perché non sapevamo quanto dovevamo
restare in viaggio. Nessuna di noi aveva cibo e neanche da bere, soltanto qualche biscotto
che c'era stato dato dal CNN di Bolzano che ci era venuto in aiuto portandoci abiti, mi
hanno detto anche soldi - anche se io non l’ho visto direttamente - qualcosa che avrebbe
potuto servirci durante il viaggio. Ci fermammo a Dachau dove lasciammo gli uomini e noi
proseguimmo. Eravamo chiuse, praticamente senza aria, senza neanche poterci sedere
per terra, lasciando alle più anziane e alle più deboli il posto per sedersi, per cercare di
riposarsi, e a turno cercavamo di respirare un po' d'aria da quei piccoli finestrini dei carri
bestiame. Il quinto giorno ci fermarono a Lipsia, aprirono i vagoni e ci fecero scendere.
Eravamo quasi al centro della stazione, i militari ci circondarono con il fucile spianato e ci
obbligarono davanti a tutti a fare le nostre necessità. Poi ci diedero una piccola gamella,
una scodella che ognuna di noi aveva come dotazione, di roba calda.
La mattina del 13 ottobre arrivammo a Ravensbrück. Ravensbruck era il campo femminile,
dove venivano raccolte le donne arrestate per motivi politici in tutta quanta l'Europa.
Quando scendemmo dal vagone ci guardammo intorno, eravamo sfatte, sfinite, la discesa
dai vagoni era stata fatta in maniera quasi bestiale, venimmo spinte, venimmo esortate a
far presto anche con le parole. Gli ordini venivano dati in tedesco, che noi non capivamo, e
la mancanza di conoscenza della lingua ci provocò subito botte e calci a non finire.
Malgrado tutto questo ci misero per cinque e ci portarono verso una destinazione che
ancora non conoscevamo. La strada che ci fecero seguire costeggiava un lago e dall'altra
parte della strada c'erano ville ben tenute, piene di fiori. Parecchie di noi dissero "siamo
state male fino adesso, chiuse in carcere, ma ora che ci hanno portato qua aiuteremo le
donne tedesche nella direzione della casa, faremo le donne di servizio". Il nostro cuore si
allargava, anche perché l'aria che si respirava lì vicino al lago era molto corroborante.
Arrivammo davanti ad un cancello, sopra il quale c'era una scritta, Arbeit macht frei, che
allora non sapevamo cosa volesse dire. Era tardi, ci fecero entrare e poi misero alcune di
noi dentro una baracca, altre invece furono lasciate all'addiaccio. Durante la notte,
sentivamo delle ombre intorno a noi che ci dicevano "se avete da mangiare datecelo, se
avete oro datecelo" ma di cibo ne avevamo poco e oro evidentemente nulla. Qualcuna
aveva ancora l'oro, ma mai si sarebbe fidata di darlo alla voce che proveniva da un posto
a noi ignoto.
Venne giorno e fummo subito destate dal suono di una sirena. Vedemmo uscire dalle
baracche delle donne, che non erano donne, ma figure magre, macilente, vestite a righe,
che noi guardammo stupefatte. Non riuscivamo a capire. Tutte le donne avevano un
triangolo e un numero. Non riuscivamo a capire cosa fosse né perché avessero questo
numero. A un certo momento vedemmo arrivare davanti a noi un carro fiancheggiato da
due donne con un forcone, che ogni tanto prendevano quello che cascava e lo
rimettevano su. Una disse “sembrano stracci”, e un’altra “ma figurati! è legna, non vedi
come sono legnosi? chissà dove la porteranno” Nel momento in cui questo carro ci passò
davanti capimmo che erano cadaveri nudi e sul petto vedemmo i numeri. La paura ci
prese, sapevamo che ormai eravamo in un posto dove la nostra vita era soltanto in balia
degli altri.
Ci portarono dentro a delle baracche e ci obbligarono a spogliarci nude. Questa nudità,
per noi donne di allora, era dura. Non eravamo abituate alla mancanza del pudore,
eravamo abituate al nostro privato, ma quello che maggiormente ci fece star male era il
fatto che vecchie e giovani, soprattutto mamme e figlie, dovessero vedersi nella loro
completa nudità. Capii che mia madre aveva vergogna, che anche altre donne avevano
vergogna. Allora cominciammo a guardarci soltanto in volto. Ci fecero fare la doccia, ci
portarono in un luogo dove fummo depilate di tutto. Molte di noi furono anche ispezionate
in maniera tale da poter scoprire se qualcuna avesse nascosto oro o gioielli. Ci portarono
via tutto l'oro, la catenina e il braccialetto e - devo dire la verità - tutto fu sistemato in una
forma quanto mai precisa. Tirarono fuori per ognuna di noi una piccola busta, segnarono
quello che avevano portato via, chiusero la busta e su ogni busta misero il nome. Ci
portarono via le fotografie dei nostri cari e ci lasciarono soltanto, a chi ancora l'aveva, un
po' di sapone e il dentifricio con lo spazzolino da denti.
Dopo la doccia e la depilazione ci gettarono degli stracci. Non sapevamo che cosa
farcene, ma alla fine capimmo che tra gli stracci dovevamo scegliere quelli che
maggiormente potevamo avvicinarsi alla nostra taglia. Evidentemente non avevano
misurato le taglie di nessuna, perciò chi aveva un cappotto che gli arrivava ai piedi, chi
una gonnellina leggera che arrivava sì e no alle anche, chi non aveva niente. Ai piedi
zoccoli, sennò scarpe spaiate, o che non corrispondevano al nostro numero. Le mutande
erano di tutte le misure possibili e immaginabili ma certamente non adatte a noi. Poi ci
diedero il nostro numero e ci dissero anche che dovevamo impararlo subito a memoria, in
tedesco, perché semmai fossimo state chiamate non ci avrebbero chiamato col nostro
nome,
ma
col
numero.
Il
mio
numero
era
77.399.
Siebenundsiebzigdreihundertneunundnuenzig. Come vedi lo ricordo ancora. Poi arrivò il
triangolo rosso, simbolo della deportazione politica, che doveva essere messo sul petto
del cappotto o della casacca e sul braccio affinché fosse ben chiaro e leggibile a chiunque
ci avesse incontrato. Di lì, fummo portate nella baracca. La mia baracca era la 17. E qua
cominciò un'odissea terribile. Noi Italiane ci avevano divise in due o tre baracche,
conoscevamo soltanto l’italiano e molte di noi neanche quello perché parlavano soltanto
un dialetto. C'era tra di noi l'Antonia che poverina parlava soltanto il bergamasco e già
capiva poco di noi, figurarsi sentire parlare tedesco. Noi non capivamo niente, era una
babele di lingue, perché nelle baracche le internate appartenevano a tutte le nazionalità,
francesi, olandesi, polacche, russe. Tra l'altro avevamo capito subito che noi Italiane non
eravamo tanto ben accette, perché avevamo contribuito alla disfatta della Germania,
avevamo distrutto con gli aerei le case dei Polacchi, dei Russi, le case degli Olandesi, dei
Belgi, perciò eravamo considerate nemiche sia dei Tedeschi sia de li altri. Fummo isolate,
difficilmente i primi giorni fummo aiutate dalle nostre compagne.
In tutto il periodo di deportazione, il ciclo mestruale non esisteva più. Appena entrate ci
tolsero tutto quello che ci poteva essere necessario, perciò loro sapevano che non ci
sarebbero stati più problemi in tal senso. E infatti finì.
La capo baracca, capo stube, era una francese, Madame Shup, me la ricordo ancora, non
era buona ma non era neanche cattiva, faceva quello che poteva, gridava tanto ma non
picchiava mai. Questa era già una cosa molto positiva. Ad ogni modo entrati in baracca
non sapevamo cosa fare, capimmo che dovevamo cercarci un letto, ma di letti non ce
n'erano perché ormai la baracca era sovrappopolata. Alla fine una francese - io parlavo
francese e cercavo perciò di contattare qualcuna che lo parlasse - capì la nostra
situazione, si rivolse ad altre donne, si strinsero, e noi trovammo posto, due o tre letti dove
ci accucciammo per la notte. Chi dormì quella notte? Nessuno, anche perché non
sapendo che cosa ci aspettava avevamo paura del giorno dopo.
Il giorno dopo per la prima volta cominciammo a conoscere anche gli appelli. La sirena
suonò molto prima dell'alba. Fummo fatte scendere immediatamente e capimmo che
bisognava lasciare il letto nel migliore dei modi. Poi bisognava andare di corsa al
gabinetto, il Wascheraum. Era una grande baracca divisa in due camerate con al centro
una decina di lavandini e una decina di gabinetti. Da notare che eravamo in mille donne,
due baracche al completo, a gravare la mattina su questi dieci lavandini, che erano
piccolissimi, e questi dieci gabinetti. Bisognava farlo. Si vedevano tutte queste donne che
cercavano disperatamente di lavarsi perlomeno gli occhi. Poi ci misero in fila per dieci
ferme sull'attenti, per ore, e l'attesa fu lunga. Cominciammo a capire la tragedia che ci
aveva colpite. Perché se sei da solo soffri per te, ma se hai vicino tre persone, soffri per te
e per la sorella che ti è vicina, che vedi più debole di te, e soffri tremendamente per quella
donna che è tua madre, che vorresti aiutare ma non puoi. La vedi cascare ma la devi
lasciar per terra, la vedi soffrire e non puoi fare nulla per aiutarla. Perciò la sofferenza era
moltiplicata per tre. Finito l'appello, fummo di nuovo riprese per altre visite e questo si
ripeté per due o tre giorni. Visite assurde, sciocche, ti facevano visite alle mani, agli occhi,
guardavano se eri forte. Visite che poi capivi non sarebbero servite a nulla, che non
avevano senso. Alla mattina dopo l'appello, io e mia sorella - mamma no, perché non
poteva muoversi - fummo prese e avviate al lavoro. Anche quello era un lavoro assurdo. Ti
davano una pala per cinque, cantando, con a fianco i cani che ti avrebbero azzannato le
gambe se ti fossi spostata dalla fila di due millimetri, ma forse anche due millimetri
sarebbero stati troppi, e ci portavano su di un'altura. Con questa pala dovevamo
“smucchiare” la sabbia da una parte e fare un altro mucchio dall’altra. Insomma, il lavoro
non serviva a niente, serviva però a debilitarti, a fare sì che le tue mani si spaccassero per
l'uso continuo di questa pala, e anche, in un certo qual senso, a metterti già subito alla
prova con le tue compagne. Se avevi davanti a te una donna robusta che in due minuti
spalava e tu invece non ce la facevi, il tuo lavoro era considerato lento ed erano
necessarie delle botte per farlo accelerare. Questo lavoro durò per circa dieci giorni. Ogni
volta che tornavamo in baracca, dopo dodici ore di lavoro, trovavamo mia mamma sempre
più debole, col viso sempre più affilato, però sempre presente a se stessa, tanto presente
che malgrado tutto riusciva ancora a spingerci a sperare e a pregare per chiedere la
cessazione di questo terribile stato che vivevamo.
Poi io e mia sorella fummo convocate per andare a lavorare alla Siemens e dovemmo
lasciare mamma. L'abbiamo lasciata in condizioni pietose, capivamo che la salutavamo
forse per l'ultima volta e anche lei lo aveva capito. Il campo distava cinquecento metri, non
di più. Non c’erano scritte, però sapevamo che era la Siemens. Era il campo Siemens. Era
su una piccola montagnola che era stata fatta tra l'altro dalle prigioniere, come abbiamo
poi saputo in seguito. Su questa piccola piazzola era stata installata la fabbrica della
Siemens, che aveva circa venti capannoni ed lì stato costruito un piccolo campo composto
da sette baracche, dentro la quale poi noi prendemmo posto. La mia baracca era la
numero 3 ed eravamo insieme alle Tedesche, quasi tutte triangolo verde. La capo baracca
si chiamava Maria, era un triangolo verde e molto probabilmente aveva avuto qualche
legame con l’Italia perché ogni tanto si ricordava di canzoni italiane. Con noi c'erano le
due Stanzione, Ginet Portalupi di Milano, Maria Fasano di Torino, Albertina Radaelli di
Ivrea, Carlotta Villa di Lecco e Maria Rossi di Melegnano, una ragazza dolcissima che
tutte le mattine si svegliava dicendo di aver sognato Cristo. Avevamo la fortuna di avere
mani piccole e occhi buoni, perciò fummo destinate all'équillibrage dei manometri e dei
voltometri. Alla fine del lavoro le ossa facevano male, perché eri costretta a stare su un
piccolo sgabello senza la spalliera e lavorare continuamente, il più delle volte con la lente
d'ingrandimento per equilibrare questi apparecchi. Però non era un lavoro molto pesante e
ci teneva ferme in baracca al caldo per dodici ore. Alla Siemens c'erano anche civili, i
master, che ci aiutavano nello svolgimento del lavoro perché a volte quegli apparecchi
erano difficili per noi che non avevamo una conoscenza operaia a questo livello. Erano un
tedesco e un alsaziano, che qualche volta riusciva persino a darci qualche notizia. Non
infierirono mai contro di noi, né mai alcuno ci denunciò per non aver fatto il compito che ci
veniva assegnato. Questo va detto.
Dopo le dodici ore rientravamo di nuovo con le SS e lì c'era la violenza, la fame e la
cattiveria più inaudita. Si inventavano sempre qualche cosa e tu dovevi stare allo straf
appell magari per tutto il giorno. Stare all'appello di punizione tutto il giorno era
terribilmente duro perché si raggiungevano temperature di dieci o dodici gradi sotto zero.
C'era la neve o c'era il vento e noi non eravamo vestite, avevamo sì e no un cappottino,
delle volte senza calze, e nient'altro. La fame ti annientava e alla fine dell'appello eri
talmente sfinita che non ce la facevi più. Non era difficile che al sabato sera fossi
convocata per la domenica mattina a fare un lavoro extra, per esempio andare a togliere
l'acqua con dei secchi mezzi bucati dai bunker delle SS, o andare a scavare per fare una
nuova fognatura, o ripulire tutta la baracca. Era un lavoro continuo. Quando avevamo il
turno di dodici ore la notte, arrivavi alla fine della settimana che non ragionavi più, perché
dopo dodici ore dovevi rientrare in baracca a pulire e vuotare i secchi riempiti durante la
notte. Ad una certa ora della giornata poi dovevi andare a prendere il mangiare, distribuire
il pane, dopo il pranzo riportare tutta la roba in cucina e riandare a prendere tutto alle
quattro del pomeriggio. Solo noi Italiane lavoravamo di notte. Perciò durante il giorno non
si riusciva a dormire nella maniera più assoluta, anche perché di giorno la baracca era
fredda e il più delle volte per arieggiare lasciavano le finestre aperte, sicché noi
dormivamo con una sola copertina e i ghiaccioli venivano fuori dai tetti della baracca. Nel
campo della Siemens il Wascheraum era una grande stanza con al centro una buca e
intorno un muretto di cemento. La sera era il luogo di ritrovo di tutte, c'erano le russe che
facevano le danze, le polacche che cantavano, le slave che si muovevano al suono di una
canzone slava. Noi vi trascorrevamo un quarto d'ora, venti minuti. Vi era poi un gabinetto
anche alla fabbrica, e lì io a volte vi gettavo gli apparecchi che non mi venivano, che erano
troppo difficili e a causa dei quali sarei stata punita. Me li nascondevo nelle tasche del
cappotto e poi li gettavo, sperando che non se ne sarebbero mai accorti.
Il giorno di Natale 1944 fu un giorno molto particolare. Eravamo in baracca, noi italiane
avevamo fatto la notte e brontolavamo perché un gruppo di donne si era messo intorno
alla stufa e stava chiacchierando. Alla fine ci siamo alzate e siamo andate a vedere cosa
facevano. Facevano delle strane figure, come dei fiocchetti, in carta argentata. La cosa ci
stupì perché non ricordavamo neanche più che era Natale. La sera un soldato portò un
abete in baracca, le donne cominciarono subito a infiocchettarlo, di doni non ce n'era
evidentemente, c'erano soltanto questi bei fiocchetti di carta stagnola. La capo baracca
venne da noi Italiane a chiederci se potevamo cantare la canzone di Natale. Fra di noi
c'era Maria Fasano di Torino che aveva una voce discreta e cominciò a cantare Tu scendi
dalle stelle. Per la prima volta sentii quella bellissima canzone tedesca, Stillenacht, cioè
notte silenziosa, cantata da queste donne. Fu una cosa molto particolare, la baracca di
dilatò e noi ricordammo dei nostri Natali fatti nelle nostre case, dove non c'era l'odore
dell'abete ma il profumo del pino, perché da noi il pino è simbolo del Natale. E poi il fuoco,
i mandarini attaccati all'albero, altri profumi e altre cose che però avevano lo stesso
profumo di amore. Era Natale anche per loro. Quel giorno avemmo un pranzo particolare,
delle polpette o degli hamburger col contorno di rape rosse. Io da quel giorno le rape rosse
non le posso più vedere e gli hamburger li mangio proprio mal volentieri. Ad ogni modo ci
venne dato questo. Poi tutto ritornò come prima. La sera la capo baracca ci diede il solito
caffè e cercò di fare la cresta sulla divisione del burro. Il giorno dopo ancora dovemmo far
presto a ritirare la nostra ciotola perché lei non gettasse dentro il suo cucchiaio e non
cercasse di tirare fuori dalla nostra zuppa quella piccolissima fettina, un filamento che
chiamavano carne, ma che in realtà non so cosa fosse. Roba da darla al gatto. Quando si
vedeva che lei armeggiava col cucchiaio, bisognava subito ritirare la nostra zuppa onde
evitare il furto.
Venne il primo di gennaio. Era nevicato la sera prima e la neve si era subito ghiacciata. Ci
chiamano all'appello e ad un certo momento sento che viene chiamato il mio numero.
Essere chiamati dal comandante del campo era una cosa terribile, ci si poteva aspettare
solo male. Lì per lì quasi non capii, poi il capo baracca mi disse “guarda che ti chiamano”.
Mi avviai verso il centro del campo dove c'era il comandante che mi aveva mandato a
chiamare. Ricordo quel momento, nel campo si era venuto a creare un silenzio assoluto,
perché ognuna di noi sapeva che essere chiamato significava botte, quando non
addirittura camera a gas. Potevi essere accusata di sabotaggio, il che comportava la
morte. Nel tragitto non sapevo che cosa pensare, spaventatissima mi chiedevo che cosa
mai avessi potuto fare di male, con chi avevo parlato. Non riuscivo a capire. Mia sorella
era in infermeria, non stava bene, perciò pensavo anche a lei. Quando sono davanti al
comandante, questo mi guarda e mi dice “tua mamma è morta e stai zitta, perché tua
sorella è grave in infermeria”. Non capii subito quello che mi disse, me lo disse in tedesco,
me lo ripeté in una forma più lenta e allora io capii. Fui annientata, evidentemente, però
capivo anche che dovevo star zitta, perché quell'altra era grave in infermeria. Poi
cominciai a piangere, mi presero e mi riportarono a lavorare, perché evidentemente la
morte della madre non era fonte di festa per un lavoratore. Mi ricordo che mi si avvicinò
una soldatessa, alla quale più di una volta io mia sorella e un'altra ragazza francese, che
aveva la mamma in campo come noi, avevamo chiesto di portarci a vedere la mamma. In
fondo erano sì e no cinquecento metri da fare. Le promesse erano sempre state fatte ma
mai mantenute. Perciò quando io sentii questa donna che mi venne a toccare quasi con
un senso di condoglianza o di affetto, mi ribellai. Mi ribellai anche in malo modo perché mi
venne da sputare. Lei era già pronta a reagire in modo grave se non si fosse interposto il
direttore della fabbrica, a capo della hall nella quale noi lavoravamo, il quale parlò, non
capii quello che le diceva però lei se ne andò e lui indifferente se ne ritornò al suo posto.
Da quel giorno io dovetti lottare anche per mia sorella. Un giorno una dottoressa polacca
la rimandò in campo a lavorare, non stava ancora bene e ogni tanto mi diceva "ho sognato
la mamma". A lla fine glielo dovetti dire, quando la vidi un po' più sulle gambe glielo dissi e
lo affrontammo insieme. Fu un dolore grande, ma che però non percepimmo subito,
perché la morte lassù era una cosa normale, come posso dire, ci alzavamo la mattina e
non sapevamo se saremmo tornate a dormire la sera. Tutto potevamo aspettarci per noi
stesse. Ormai era diventata un'abitudine prendere le morte per i piedi e per le mani e
metterle sotto la vasca del gabinetto. Scavalcare un cadavere per noi era diventata una
cosa normale. E poi forse pensai anche che non soffrivo più per lei, era morta e non mi
dovevo più preoccupare per lei. Dopo, quando tornammo a casa, allora capimmo che cosa
volesse dire essere senza mamma.
Una cosa terribile erano le selezioni. La prima selezione la subimmo prima di partire dalla
Siemens. Al momento del rientro dalla fabbrica, in baracca ci trovammo davanti alcuni
infermieri o dottori, avevano una specie di camion bianco. Ci fecero passare ad una ad
una e cominciammo a vedere che alcune erano mandate a destra, altre a sinistra. Mi vide
una francese dal campo. Era un periodo in cui avevo una scarpa col tacco alto e l'altra col
tacco basso, una piccola e l'altra grande, perciò camminavo zoppa. La francese mi disse:
“Bianca, attention! Sélection!” e io capii che per me si metteva male se mi fossi presentata
nelle condizioni in cui ero. Mi tolsi le scarpe, mi tirai su i vestiti, in maniera che potessero
vedere che camminavo bene, e mi avviai col cuore stretto, perché davanti a me c'era mia
sorella. Ero evidentemente in ansia fintanto che lei non passò dalla parte giusta. Poi arrivai
io con le mie scarpe in mano, mi guardarono, mi diedero una bella sberla sulla testa e mi
avviarono verso mia sorella. La seconda selezione la avemmo dopo che dalla Siemens
fummo portate nel campo grande. Io e mia sorella eravamo a lavorare nella fabbrica di
sartoria, attaccata alla Siemens, e lì subimmo la seconda selezione. Anche quella andò
bene. Ci scoprirono tutte, eravamo coperte di piaghe, ma per fortuna a questo non
badarono, guardarono soltanto se eravamo ancora capaci di camminare. E ci misero nella
parte giusta. Le selezioni sono una cosa che distruggono la personalità dell'uomo. Ti
fanno avere delle reazioni terribili anche dopo.
Una mattina ci presero, ci misero una per una e ci fecero passare davanti a un grande
tavolo dietro al quale erano seduti il direttore e altri funzionari della fabbrica. Io mi ricordo
questo fatto perfettamente, anche se non tutte se lo ricordano, e la cosa mi sembra strana.
Io mi trovavo tra le prime, perché ero tra le prime a lavorare lì nella baracca. Mi diedero
dei marchi, ma non erano proprio marchi, erano cartoncini con qualche cosa scritta in
tedesco, figurati se sapevo que llo che voleva dire. Però capii che erano tipo dei buoni,
chiesi a che cosa servivano, e mi risposero che io con quei marchi potevo andare nello
spaccio e comprare rossetto e borotalco. A parte il fatto che lo spaccio io non l'avevo mai
visto in quei mesi, non esisteva proprio, non avevo neanche il sapone e l’asciugamano, e
avevo – scusate – le stesse mutande da ottobre. Come avrei potuto mettere il rossetto? Li
rifiutai, perché la presi proprio per una presa in giro. Rifiutai e dietro di me tutti gli altri
rifiutarono. Era una cosa assurda, dare questi marchi per comprare che cosa? il rossetto e
il borotalco.
Nel marzo noi eravamo ancora alla Siemens, continuavamo a lavorare però in condizioni
precarie, notte e giorno i bombardamenti erano continui. Nei tur ni di notte bisognava stare
con le luci spente, perciò il lavoro era nullo o perlomeno molto lento. Gli ultimi giorni
vennero fuori dei manometri completamente diversi, molto grossi e difficili da equilibrare,
con una sensibilità diversa, che non riuscivamo a mettere a punto. Ci diedero delle
pinzette particolari per sistemare la lancetta e delle macchine per misurarne la forza.
Erano apparecchi non fatti nella baracca, e anche i due master che seguivano il nostro
lavoro cercavano di capire quello che stava succedendo. Dopo due o tre giorni tutto
scomparve. Alla fine di marzo primi di aprile in baracca non c'era neanche più da
mangiare, il lavoro stava finendo, man mano alcuni grandi capannoni venivano smantellati,
le macchine imballate e portate via.
Talvolta noi dovevamo andare a prendere i carri bestiame alla ferrovia e portarli al campo
per vuotarli, a spinta perché la ferrovia non arrivava più, era rotta, forse interrotta dai
grandi bombardamenti che giorno e notte si susseguivano. Ad un certo momento
vedemmo scomparire anche i master, il primo di aprile la Croce Rossa Svedese non entrò
direttamente in campo ma si mise ai margini del campo. Non le fu permesso di entrare,
però ci mandò un sacco divisibile in dieci, poca cosa ma che ci dava una spinta, perché
capivamo che qualche cosa si stava muovendo intorno a noi, che non eravamo lasciati
completamente soli e che quello che ventilavano i Tedeschi - cioè di farci fuori tutti prima
della fine - forse non sarebbe successo.
Per pasqua con le Francesi riuscimmo a riunirci e a dire ancora una preghiera, perché
l'uomo spera sempre di poter con un miracolo cambiare la propria vita, di indirizzarla con
l'aiuto di Dio verso qualche cosa di più giusto, di migliore. Chiedemmo l'aiuto di Dio per
migliorare questa situa zione, anche perché la fede che ci aveva sempre portato non si era
mai affievolita e riuscimmo a fare una piccola cerimonia, nascosta evidentemente perché
altrimenti sarebbe stata oggetto di una terribile punizione. Non si poteva nella maniera più
assoluta, però ce l'abbiamo fatta.
Ai primi di aprile ci ripresero dalla Siemens e ci riportarono in campo, perché ormai la
fabbrica si stava chiudendo. Al campo grande ritrovammo il caos. Era sovrappopolato,
erano arrivate donne da tutte le parti man mano che i campi dell'est erano stati evacuati,
non arrivava più nulla da mangiare perché la ferrovia era stata distrutta e molto
probabilmente non c'era più niente da mangiare neanche nella Germania stessa. Le
donne si accalcavano l'una contro l'altra, bisognava la vorare senza mangiare, ormai erano
tutte debilitate da mesi di fame, di paura, di malattia, morivano in gran numero. Ricordo
tanti cadaveri davanti al forno crematorio, ma ricordo anche che nonostante la debolezza
queste donne si trascinavano per continuare a lavorare, per cercare di sopravvivere,
anche perché sentivamo già i rumori del fronte che si stava avvicinando e capivamo che
ormai potevamo essere liberate da un giorno all'altro, che la fine di questa tortura sarebbe
venuta a pochi giorni, e volevamo assolutamente continuare a vivere. Però la vita era
diventata impossibile, nella maniera più assoluta, eravamo ridotte al lumicino, tutte,
nessuno riusciva più a sorreggersi. Io e mia sorella in queste condizioni fummo prese e
mandate ancora a lavorare in fabbrica, ma ci stemmo un giorno solo, poi fummo chiuse
nella per circa una settimana. Quando ne uscimmo non sapevamo neanche più
camminare, non potevamo più reggerci in piedi, come ci mettevano all'appello le gambe si
gonfiavano e cascavamo.
Tra la sera del 26 e 27 aprile, quando ormai si sentivano i cannoni russi che si
avvicinavano, ci hanno messe nella piazza. Capimmo subito che gli ordini erano
contraddittori, c’era chi urlava da una parte e chi dall'altra. La maggior parte delle donne
SS non c’era più. Mentre eravamo lì cominciammo a vedere del fumo che saliva dalla
parte alta del campo, avemmo paura, perché pensavamo che coi lanciafiamme avrebbero
messo in atto quello che loro avevano sempre detto di fare, cioè la completa uccisione di
tutte. Avemmo una paura enorme, poi alla fine lasciammo nel campo quelle che non
potevano più camminare. Noi ci misero per strada, in fila per cinque, scortate dai soldati
della SS e dai cani. Chiunque si fermava - ce l'avevano già detto - sarebbe stata uccisa
con un colpo alla nuca. Camminammo in queste condizioni praticamente tutto il giorno. La
sera cominciò a sparare la contraerea prima di tutto, dietro avevamo i cannoni russi che
sparavano a misura d'uomo. I Tedeschi ci danno il si salvi chi può. Io, mia sorella e altre
donne, tra cui tre slave e una ungherese ci teniamo insieme e camminando raggiungiamo
un posto per noi sicuro in mezzo ad una foresta. Ci mettiamo sfinite ai piedi di un albero e
con una coperta sotto e una sopra cerchiamo di dormire. La mattina io sento un colpo alla
spalla: è un Russo che mi offre una gamella di caffè. Io felice e contenta grido "sono
arrivati i Russi", e lui mi fa "no, sono prigioniero anch'io, i Tedeschi mi hanno detto di
portarvi questo", e ha dato a tutte un po' di caffè caldo. Durante la notte eravamo state
circondate letteralmente dai carri armati e non ce ne eravamo accorte. Ci sembrava di
aver camminato delle ore, in realtà invece ci eravamo allontanate dalla strada solo di
qualche centinaia di metri, non di più. La mattina dopo i cani e i posten ci ripresero, ci
misero di nuovo in marcia e camminammo per sette giorni. Alla fine ci fecero riposare su
una piccola altura, posten e cani con noi. Ad un certo momento vediamo passare lungo la
strada una macchina che non avevamo mai visto, contrassegnata anche da un disegno
che non avevamo mai visto. Lì per lì non riuscivamo a capire, qualcuna di noi sapeva
l'inglese, mia sorella per esempio lo sapeva, ma eravamo talmente stanche, talmente
sfinite che non riuscivamo neanche a cogliere veramente quello che ci stava succedendo.
Mia sorella disse “sono Americani!”. Li guardammo bene, ma in effetti la divisa e l'elmetto
erano diversi. Ci precipitammo tutte giù sperando di trovare qualcosa da mangiare, perché
erano sette giorni che non si mangiava e si beveva l'acqua che trovavamo per la strada.
Chi ci vide era un ufficiale, ci guardò esterrefatto e ci chiese che cosa volevamo. Di pane
da mangiare non poteva darcene, era ancora in formazione per l'occupazione del territorio
e per ricongiungersi ai Russi che stavano a poche centinaia di metri. Ci diede delle
sigarette. Ci siamo accontentate di quelle e abbiamo aspettato gli eventi. Ad un certo
momento vediamo gli Americani retrocedere e avanzare invece una colonna di Russi. Ci
siamo trovati proprio nel punto di contatto tra Americani e Russi. Eravamo talmente
stanche che, strano a dirsi, abbiamo visto un fienile, siamo entrate tutte lì dentro e
abbiamo dormito. Non so che cosa sia la liberazione, nel senso che per me è finito l'incubo
della stanchezza, della paura di tutto, della fame e la libertà è cominciata con un gran
sonno liberatore, dentro un fienile insieme a tanti. Poi abbiamo scoperto che dentro quel
fienile eravamo più di un centinaio, tutti addormentati, tutti a riposarci delle fatiche che
avevamo dovuto subire. Io e mia sorella quando ci risvegliammo ci rimettemmo di nuovo
per la strada, con una fame tremenda. Mia sorella non stava bene. Vidi passare un camion
di Francesi che radunavano tutti i Francesi per portarli in zona americana. Mi sono fatta
passare per francese, je suis française, ho fatto salire mia sorella, sono salita anch'io e
siamo arrivati in zona americana.
Dopo mi sono affidata ai compagni di prigionia italiani e con loro, poco per volta, siamo
ritornati a casa. Una volta in Italia è cominciato un muro di silenzio. Abbiamo capito che
c'era qualche cosa che non quadrava. Ricevetti una strana telefonata che mi diceva "sono
tizio e ti sposo". Lì per lì non capii, la presi per una telefonata sciocca, di una persona che
non conoscevo. Poi capii. Quando sei giovane e sei fuori, se ritorni qualche cosa devi aver
fatto per ritornare. Nulla di queste chiacchiere era vero, ovviamente, addirittura si pensava
che io e mia sorella fossimo incinte. E allora si alzò proprio un muro tra noi e gli altri. Gli
altri giudicavano, "si sono salvate così", senza cercare di sapere quello che avevamo
sofferto. Io e mia sorella abbiamo chiuso ed è stato poi difficile ritornare a vivere e a
parlare. Però ce l'abbiamo fatta, anche perché c'era tanto da lavorare, eravamo rimasti
quattro ragazzi soli, in una casa completamente svaligiata dai fascisti e completamente
distrutta dalle bombe americane. Non avevamo neanche gli abiti per cambiarci perché
tutto era stato portato via, perciò bisognava ricostruire, secondo quello che ci avevano
insegnato mio padre e mia madre, con onestà, con serietà e con dignità soprattutto. Era la
vita che loro ci avevano insegnato a condurre. Il compito iniziale è stato mio e di mia
sorella, perché i due ragazzi che avevamo lasciato avevano subito degli shock tali per cui
non avevano ancora trovato dentro di loro la forza di ricominciare. Poi anche loro ci
riuscirono evidentemente. Poco per volta ci ricostruimmo la casa, finimmo i nostri studi e
ritornammo a vivere. Ma ci sono voluti anni. Devo dire grazie a una mia carissima amica,
Lidia, che mi ha imposto di ricominciare a parlare, altrimenti io non lo avrei mai fatto.
Perché se tu parli trovi chi ti vuole ascoltare, se non lo fai lo lasci con le orecchie tese
verso altre cose. Della telefonata anonima che ricevetti , poi seppi che l’aveva fatta un
ragazzo slavo che era scappato in montagna dopo essere stato soldato tedesco. Era stato
compagno dei miei fratelli e noi lo abbiamo sempre considerato come un fratello.
Del mio fratello arrestato non ne abbiamo saputo più nulla. In seguito l'abbiamo atteso
tanto, ma nessuno voleva darci notizie. Alla fine Italo Geloni, che aveva condiviso con lui
tutti i giorni della prigionia e con lui era stato deportato a Flossenbürg, venne e mi disse “è
inutile che lo aspetti, mi è morto tra le braccia”. E sapemmo che era stato ucciso a suon di
botte da un soldato tedesco al quale aveva inavvertitamente pestato un piede.
Mi chiamo Vittore Bocchetta, sono nato nel novembre del 1918.