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Bianca Paganini Mi chiamo Bianca Paganini, sono nata a La Spezia il primo febbraio 1922. Appartengo ad una famiglia molto religiosa, perciò babbo e mamma avevano aderito al movimento del Partito Popolare prima dell'ascesa al potere di Mussolini. Erano persone molto generose, molto buone, ed erano persone che amavano tanto la loro libertà. Eravamo cinque fratelli, tre maschi e due femmine, ed eravamo vissuti in una famiglia veramente felice. Babbo e mamma assecondavano, quando era possibile, i nostri desideri, anche però con una certa rigidezza. Ci avevano insegnato poco per volta che si poteva vivere felici anche senza la dittatura fascista. A casa mia non vedemmo mai una divisa fascista, né i miei fratelli ebbero mai la divise da balilla o da figli della lupa, né io e mia sorella avemmo mai una vera divisa da giovani italiane. Papà aveva posto il veto a mia madre, "se devono andare vestite in divisa che si accontentino di quello che la casa può offrire". Eravamo studenti nelle scuole spezzine, io frequenta vo il liceo, mia sorella frequentava l'istituto tecnico, i miei fratelli invece erano stati messi da mio padre in collegi salesiani, affinché non assorbissero la teoria fascista. Noi assorbivamo però nella scuola tutta la teoria fascista, determinati giorni dovevamo frequentare le adunate, e con un certo quale distacco la famiglia ci permetteva di farlo. Mio padre morì nel 1938 e noi restammo soli con la mamma, la quale seguì in tutto e per tutto il modo di educarci del papà. Scoppiò la guerra e noi dovemmo, a causa dei continui bombardamenti e della salute malferma di mamma, trasferirci in una piccola casetta ai margini della città, a San Benedetto, che si trova al di là della foce, dove avevamo già preparato una casa per i momenti del pericolo. Giunse l'8 settembre. Mio fratello, il più grande, era ufficiale degli alpini e si trovava nella zona del Vipiteno e di Fortezza. Abbandonò il suo posto e si diresse verso casa. Ci raggiunse ai primi di ottobre e insieme ad altri cominciò immediatamente a organizzare i primi movimenti, i primi raduni dei partigiani. Mamma non si oppose a questo intendimento dei suoi figlioli, anzi li appoggiò, anche se evidentemente l'aiuto che essa poteva dare a loro era veramente poco. Poteva soltanto accettarli in casa quando venivano dalla montagna, accettare soprattutto di ospitare gli amici che trovavano nella nostra casa l'appoggio per poi salire la montagna. Ben presto a mio fratello Alberto si associò anche il secondo, Alfredo, che faceva il quinto anno di medicina e che organizzò, con le sue conoscenze di medicina, un piccolo ospedale su in montagna per accogliere i partigiani che durante i rastrellamenti venivano feriti. Noi restammo in casa, mia madre, mia sorella, io e mio fratello più piccolo che aveva soltanto 16 anni. Quando cominciarono le prime avvisaglie, mamma cercò di avvertire i fratelli su in montagna di essere più prudenti. La mattina del primo di luglio mio fratello Alfredo scese in città insieme alla moglie di Vero del Carpio, che era allora il capo della formazione partigiana. Erano venuti in città per prendere delle medicine in una delle farmacie spezzine che avevano accettato di dare aiuti farmaceutici alla zona partigiana. Molto probabilmente avevano anche intenzione di prendere una piccola radio trasmittente che sarebbe servita per le formazioni su in montagna. Quando arrivarono in piazza Garibaldi, vennero accerchiati da ufficiali della SS e dai fascisti, arrestati e portati nelle carceri di Villa Andreini. Abbiamo saputo subito quello che stava succedendo e la mamma cominciò subito con grande coraggio a cercare tutto quello che poteva esserci di pericoloso in casa. Ma in casa c'era poco o niente. Allontanò il più piccolo affinché potesse essere sottratto a qualsiasi rivendicazione da parte dei fascisti. Eravamo sicuri che nulla sarebbe successo ad una donna di sessantatré anni e a due ragazze, una di ventuno e l'altra soltanto di diciotto anni. Aspettammo. Durante tutta la notte e durante tutto il giorno arrivavano notizie incomplete, non si sapeva nulla di quello che stava succedendo in città. Poco per volta però venimmo a sapere che altri erano stati arrestati fino a che giunse la sera. Verso mezzanotte sentimmo sotto casa parecchie persone. Ci affacciammo e vedemmo la casa circondata da soldati fascisti che dal boschetto cercavano di impedire a chiunque di entrare e di uscire. Bussarono alla porta, mamma con molto coraggio andò alla porta dicendo a noi ragazze di restare a letto perché così avremmo dato l’impressione di non sapere nulla. Si affacciarono alla porta Gallo e altri due fascisti. Dietro di loro c'erano due ufficiali della SS e quattro o cinque soldati tedeschi. Entrarono in malo modo. Ci fecero alzare e per cinque ore rovistarono per casa, una casa ben misera, perché era un rifugio dai bombardamenti e tutte le cose erano state messe in salvo in altre case dove c'era maggiore sicurezza. Frugarono e non trovarono null’altro che libri. Uno, ricordo come fosse adesso, era intitolato Disobbedisco ed era stato dedicato a mio padre dallo stesso autore. La cosa suscitò un profondo interesse e sdegno nei fascisti, così come suscitarono sdegno le figure della Divina Commedia del Dorè che erano nella nostra biblioteca. Durante la perquisizione venne trovata dai fascisti una lettera di un amico svizzero in cui ringraziava mio padre – da notare, morto nel 38 - per del vino spezzino che gli aveva inviato affinché potesse brindare durante il suo matrimonio. Era una lettera molto cara, molto gentile da parte di questo amico. Non so per quale motivo questa lettera venne presa e messa agli atti come se fosse la prova di spionaggio da parte di persone svizzere. Alle cinque del mattino ci fecero vestire, ci fecero prendere i gioielli che mamma teneva in casa e ci portarono in città. Ci schedarono nelle carceri di Villa Andreini. I gioielli per fortuna che erano in mano di mamma vennero consegnati direttamente al direttore delle carceri. Questo non successe con la mamma di un altro detenuto, l'avvocato Vironi, la quale ingenuamente aveva affidato i gioielli agli ufficiali fascisti. Quando giunse in carcere, questa signora invitò il fascista a dare i gioielli al direttore delle carceri, ma il fascista negò di averli mai avuti. Questo per dire il clima che vigeva allora tra le file dei fascisti spezzini. Ci misero in isolamento, tre celle per tre persone. In carcere trovammo due persone che poi ci furono molto care, la signora Stanzione con la figlia, arrestate insieme al figlio e a Italo Geloni, che poi troveremo anche durante i nostri viaggi a Mauthausen, anche loro arrestati da fascisti e Tedeschi. Trovammo anche Dora Carpanese, arrestata con mio fratello, e pochi giorni dopo ci raggiunse anche un'altra mamma di un partigiano amico dei miei fratelli. Era stata arrestata insieme al marito perché non avevano trovato il figlio. Il marito morirà poi a Dachau. Lei tornerà a casa soltanto alla fine della guerra, dopo essere stata per tutto il tempo internata nel campo di Bolzano. Il giorno dopo cominciarono l'interrogatorio, ma non da parte dei fascisti, che invece interrogarono mio fratello. Noi fummo messe immediatamente sotto il controllo della SS, che cominciò a interrogarci con l'interprete, uno spezzino che conosceva molto bene il tedesco. Il colonnello non alzò mai la mano, né contro di me o mia sorella, né contro mia madre. E' vero che la pistola era sempre nelle sue mani, che le parole talvolta erano accompagnate da movimenti piuttosto bruschi, e che anche la voce molto spesso si alzava durante l'interrogatorio, però non venne mai meno ai principi di sensibilità che qualsiasi uomo ha verso le donne, soprattutto verso una persona anziana. Mia madre era continuamente interrogata, perché da lei si voleva sapere chi erano e cosa facevano quei banditi, quei disgraziati, quei delinquenti dei suoi figlioli e quali erano gli amici che frequentavano la nostra casa. Malgrado i dinieghi e malgrado si ostinasse a dire che lei non sapeva nulla, neanche dov'erano i suoi figli, gli interrogatori erano sempre più pressanti e pesanti. Anche io e mia sorella venimmo sottoposte a questi interrogatori, anche se molto meno, fino al 20 di luglio, data dell'attentato a Hitler. Mia madre, che era una persona molto calma e equilibrata, con un cipiglio che non riconoscevo, obbligò Suor Teresina, la madre superiore che teneva le carceri femminili, a chiedere un'udienza immediata col comandante tedesco. Il comandante tedesco dapprima tergiversò, ma mia madre lo obbligò a sentirla, e quando fu davanti a lui gli disse "vorrei sapere come tu chiami la tua gente, quella che ha attentato al tuo capo. Ti do del tu perché tu dai del tu a me, ma anche perché appartieni ad un popolo in cui ci sono anche persone che come i miei figli amano la libertà. Non osare più chiedermi nulla perché non ti dirò mai nulla". Quest'uomo un po' interdetto guardò mia madre, si alzò, le fece il saluto militare e poi le disse "mille donne come te e io qua non ci sarei". Da quel giorno non fummo più interrogate. Però il soggiorno in carcere continuò, tra alti e bassi. Alcune sere aspettavamo i partigiani che ci avrebbero liberato, altre sere salutavamo qualcuno che forse poi non avremmo più rivisto. Nel frattempo ci fecero anche vedere mio fratello che, ridotto in condizioni pietose e sorretto da due amici che lo avevano accompagnato, era venuto a salutare mia madre. Penso che per mia madre questo fu l'inizio della sua morte. Finora ci aveva sempre protetto, ci aveva sempre salvato, ma da quel momento cominciò ad accorgersi che come madre nulla poteva più nulla, non poteva più aiutare i suoi figli. Il suo ruolo di madre era completamente finito. L'8 settembre sentimmo aprire la porta della cella e Suor Domitilla, una suora gentile e buona che aveva sempre cercato di aiutarci anche con le parole, venne piangendo e ci disse: "preparatevi perché dovete andar via". Era tardi, ci fecero uscire dalle carceri, ci imbarcarono ammanettati sul cassone di un camion e così partimmo. Eravamo circa una ventina, io mia madre e mia sorella eravamo insieme alle due Stanzione, un'altra donna di cui adesso mi sfugge il nome, che poi seguì con noi il trasporto in Germania. Fummo assaliti durante il cammino dai partigiani e noi sperammo in una prossima liberazione. In realtà i Tedeschi puntarono i fucili contro di noi e impedirono perciò la nostra liberazione. Questo avvenne in un rettilineo fra Ricò e Pian di Barca, nella zona di Caresano. Mamma aveva sessantatré anni ed era gravemente ammalata di cuore, soffriva di uno scompenso cardiaco che più di una volta ci aveva fatto temere per la sua vita. Arrivammo a Genova. Fummo perquisite - come se provenendo dalle carceri avessimo potuto nascondere qualcosa - e avviate al quarto raggio di Marassi. Fu un salto brutto perché a Spezia avevamo amici, avevamo le suore che ci proteggevano, avevamo i parenti, soprattutto una zia che ci portava da mangiare a mezzogiorno e ci faceva sentire ancora legati alla nostra terra e alla nostra casa. Arrivati invece a Marassi ci trovammo in una nuova dimensione della prigionia. Ci sbatterono in una cella, dove non c'erano neanche i letti, ma soltanto materassi, sporca, piena di animali che camminavano sui muri, e cominciarono a darci da mangiare in maniera sporca. Prima di mangiare dovevamo pulire il piatto da tutto quello che c'era sopra il cibo. Il cibo era poco. Quando mia madre chiese qualcosa da leggere le portarono Le ultime ore di un condannato a morte. Mia madre disse "capisco che sono utili anche queste pagine, però evidentemente non è il momento che io legga queste cose" e glielo restituì. Era una prigionia dura, pesante, anche durante la notte si viveva male, erano urla continue di gente sotto tortura, e noi le sentivamo, perciò la notte era piena di incubi. Verso il 20 settembre, durante la mattinata, fummo presi, imbarcati su due pullman. Il viaggio era lungo e ad un certo momento fummo costretti a fermarci e a fare i nostri bisogni davanti a tutti. La cosa ci colpì profondamente, specialmente noi donne, che certamente non avevamo l'abitudine di fare certe cose di fronte a tutti. A Milano ci fermarono in una piccola strada, vicino a Piazza Duomo. Mamma aveva sete, si affacciò e chiese alla gente per strada "ho sete, portatemi qualcosa da bere". Immediatamente i due pullman vennero circondati da molte persone, le quali portarono tutto quello che potevano: acqua minerale, pane, salame, di tutto. Però ad un certo momento, vista la ressa, forse per paura che potessimo venir liberati, le SS cominciarono a sparare. La gente scappò e noi restammo con la nostra sete e la nostra fame. Tutto quello che poteva soddisfare il nostro desiderio era rimasto sopra la strada, senza che nessuno potesse usufruirne. Di lì, dopo Milano, raggiungemmo Bolzano. Alla fine giungemmo a Bolzano. Qui cominciammo a capire quello che ci aspettava sotto la prigionia delle SS. Fummo spogliate di tutte le nostre cose, i nostri vestiti furono messi in un sacco e ci dettero una tuta. Quando entrammo nel campo io ebbi la ventura di trovare tra i deportati il mio professore di matematica nel primo e secondo anno di liceo, professor Vittorio Sturbese che era stato arrestato per motivi politici. Il professore mi venne incontro, mi abbracciò, pianse perché non si sapeva capacitare che delle ragazze potessero anche loro essere arrestate, internate e soprattutto avviate alla deportazione. Lì ricevemmo il numero, contrassegnato in una grande striscia bianca sulla tuta. Il numero di immatricolazione non me lo ricordo, mi pare fosse sul quattromila, ma potrei sbagliarmi, anche perché non veniva utilizzato come sistema per chiamarci. Per noi però Bolzano fu una specie di oasi, erano tre mesi che stavamo chiusi dentro una cella senza poter vedere la luce del giorno, chiuse in nove, dieci persone in una sala che poteva essere cinque per sei metri, dove non avevamo neanche il letto per dormire ed era molto sporco. Lì c'era l'aria frizzante della montagna che ci veniva incontro ogni volta che uscivamo dalla baracca. C'erano dei letti a castello, è vero, però ognuno aveva il proprio e avevamo la possibilità di conoscere altre donne con le quali ben presto abbiamo condiviso la prigionia. Non stavamo tutto il giorno nel campo. Alla mattina venivamo portate nella caserma dei carabinieri ad attaccare i bottoni nelle tende da campo. E anche lì trovammo persone amiche, chi lungo le scale ci facevano trovare un cioccolato, una caramella, una sigaretta. Addirittura una volta trovammo persino un piatto di pastasciutta, che per noi a vent’anni era una cosa veramente stupenda. Il capo del campo era Tito. Poi c'era un certo Hans che la mattina dell'8 ottobre, in cui fummo convocate per il trasporto, ci disse “non vi preoccupate, ben presto sarete all'inferno”. E ci mandarono veramente all'inferno. Lui evidentemente conosceva bene il campo dove saremmo dovute andare. Ci fecero uscire dalla baracca, ci incolonnarono e la maggior parte delle donne e degli uomini venne portata alla stazione. Riempirono due carri bestiame con centotredici donne. Altri quattro carri bestiame vennero occupati da altri prigionieri che da Bolzano venivano trasportati in Germania. Il viaggio fu terribile, anche perché nel vagone non c'erano i servizi igienici e con noi c'erano donne che erano incinte, che erano di una certa età. Ci preoccupammo immediatamente di fare un buco da qualche parte, per supplire alla mancanza di servizi, perché non sapevamo quanto dovevamo restare in viaggio. Nessuna di noi aveva cibo e neanche da bere, soltanto qualche biscotto che c'era stato dato dal CNN di Bolzano che ci era venuto in aiuto portandoci abiti, mi hanno detto anche soldi - anche se io non l’ho visto direttamente - qualcosa che avrebbe potuto servirci durante il viaggio. Ci fermammo a Dachau dove lasciammo gli uomini e noi proseguimmo. Eravamo chiuse, praticamente senza aria, senza neanche poterci sedere per terra, lasciando alle più anziane e alle più deboli il posto per sedersi, per cercare di riposarsi, e a turno cercavamo di respirare un po' d'aria da quei piccoli finestrini dei carri bestiame. Il quinto giorno ci fermarono a Lipsia, aprirono i vagoni e ci fecero scendere. Eravamo quasi al centro della stazione, i militari ci circondarono con il fucile spianato e ci obbligarono davanti a tutti a fare le nostre necessità. Poi ci diedero una piccola gamella, una scodella che ognuna di noi aveva come dotazione, di roba calda. La mattina del 13 ottobre arrivammo a Ravensbrück. Ravensbruck era il campo femminile, dove venivano raccolte le donne arrestate per motivi politici in tutta quanta l'Europa. Quando scendemmo dal vagone ci guardammo intorno, eravamo sfatte, sfinite, la discesa dai vagoni era stata fatta in maniera quasi bestiale, venimmo spinte, venimmo esortate a far presto anche con le parole. Gli ordini venivano dati in tedesco, che noi non capivamo, e la mancanza di conoscenza della lingua ci provocò subito botte e calci a non finire. Malgrado tutto questo ci misero per cinque e ci portarono verso una destinazione che ancora non conoscevamo. La strada che ci fecero seguire costeggiava un lago e dall'altra parte della strada c'erano ville ben tenute, piene di fiori. Parecchie di noi dissero "siamo state male fino adesso, chiuse in carcere, ma ora che ci hanno portato qua aiuteremo le donne tedesche nella direzione della casa, faremo le donne di servizio". Il nostro cuore si allargava, anche perché l'aria che si respirava lì vicino al lago era molto corroborante. Arrivammo davanti ad un cancello, sopra il quale c'era una scritta, Arbeit macht frei, che allora non sapevamo cosa volesse dire. Era tardi, ci fecero entrare e poi misero alcune di noi dentro una baracca, altre invece furono lasciate all'addiaccio. Durante la notte, sentivamo delle ombre intorno a noi che ci dicevano "se avete da mangiare datecelo, se avete oro datecelo" ma di cibo ne avevamo poco e oro evidentemente nulla. Qualcuna aveva ancora l'oro, ma mai si sarebbe fidata di darlo alla voce che proveniva da un posto a noi ignoto. Venne giorno e fummo subito destate dal suono di una sirena. Vedemmo uscire dalle baracche delle donne, che non erano donne, ma figure magre, macilente, vestite a righe, che noi guardammo stupefatte. Non riuscivamo a capire. Tutte le donne avevano un triangolo e un numero. Non riuscivamo a capire cosa fosse né perché avessero questo numero. A un certo momento vedemmo arrivare davanti a noi un carro fiancheggiato da due donne con un forcone, che ogni tanto prendevano quello che cascava e lo rimettevano su. Una disse “sembrano stracci”, e un’altra “ma figurati! è legna, non vedi come sono legnosi? chissà dove la porteranno” Nel momento in cui questo carro ci passò davanti capimmo che erano cadaveri nudi e sul petto vedemmo i numeri. La paura ci prese, sapevamo che ormai eravamo in un posto dove la nostra vita era soltanto in balia degli altri. Ci portarono dentro a delle baracche e ci obbligarono a spogliarci nude. Questa nudità, per noi donne di allora, era dura. Non eravamo abituate alla mancanza del pudore, eravamo abituate al nostro privato, ma quello che maggiormente ci fece star male era il fatto che vecchie e giovani, soprattutto mamme e figlie, dovessero vedersi nella loro completa nudità. Capii che mia madre aveva vergogna, che anche altre donne avevano vergogna. Allora cominciammo a guardarci soltanto in volto. Ci fecero fare la doccia, ci portarono in un luogo dove fummo depilate di tutto. Molte di noi furono anche ispezionate in maniera tale da poter scoprire se qualcuna avesse nascosto oro o gioielli. Ci portarono via tutto l'oro, la catenina e il braccialetto e - devo dire la verità - tutto fu sistemato in una forma quanto mai precisa. Tirarono fuori per ognuna di noi una piccola busta, segnarono quello che avevano portato via, chiusero la busta e su ogni busta misero il nome. Ci portarono via le fotografie dei nostri cari e ci lasciarono soltanto, a chi ancora l'aveva, un po' di sapone e il dentifricio con lo spazzolino da denti. Dopo la doccia e la depilazione ci gettarono degli stracci. Non sapevamo che cosa farcene, ma alla fine capimmo che tra gli stracci dovevamo scegliere quelli che maggiormente potevamo avvicinarsi alla nostra taglia. Evidentemente non avevano misurato le taglie di nessuna, perciò chi aveva un cappotto che gli arrivava ai piedi, chi una gonnellina leggera che arrivava sì e no alle anche, chi non aveva niente. Ai piedi zoccoli, sennò scarpe spaiate, o che non corrispondevano al nostro numero. Le mutande erano di tutte le misure possibili e immaginabili ma certamente non adatte a noi. Poi ci diedero il nostro numero e ci dissero anche che dovevamo impararlo subito a memoria, in tedesco, perché semmai fossimo state chiamate non ci avrebbero chiamato col nostro nome, ma col numero. Il mio numero era 77.399. Siebenundsiebzigdreihundertneunundnuenzig. Come vedi lo ricordo ancora. Poi arrivò il triangolo rosso, simbolo della deportazione politica, che doveva essere messo sul petto del cappotto o della casacca e sul braccio affinché fosse ben chiaro e leggibile a chiunque ci avesse incontrato. Di lì, fummo portate nella baracca. La mia baracca era la 17. E qua cominciò un'odissea terribile. Noi Italiane ci avevano divise in due o tre baracche, conoscevamo soltanto l’italiano e molte di noi neanche quello perché parlavano soltanto un dialetto. C'era tra di noi l'Antonia che poverina parlava soltanto il bergamasco e già capiva poco di noi, figurarsi sentire parlare tedesco. Noi non capivamo niente, era una babele di lingue, perché nelle baracche le internate appartenevano a tutte le nazionalità, francesi, olandesi, polacche, russe. Tra l'altro avevamo capito subito che noi Italiane non eravamo tanto ben accette, perché avevamo contribuito alla disfatta della Germania, avevamo distrutto con gli aerei le case dei Polacchi, dei Russi, le case degli Olandesi, dei Belgi, perciò eravamo considerate nemiche sia dei Tedeschi sia de li altri. Fummo isolate, difficilmente i primi giorni fummo aiutate dalle nostre compagne. In tutto il periodo di deportazione, il ciclo mestruale non esisteva più. Appena entrate ci tolsero tutto quello che ci poteva essere necessario, perciò loro sapevano che non ci sarebbero stati più problemi in tal senso. E infatti finì. La capo baracca, capo stube, era una francese, Madame Shup, me la ricordo ancora, non era buona ma non era neanche cattiva, faceva quello che poteva, gridava tanto ma non picchiava mai. Questa era già una cosa molto positiva. Ad ogni modo entrati in baracca non sapevamo cosa fare, capimmo che dovevamo cercarci un letto, ma di letti non ce n'erano perché ormai la baracca era sovrappopolata. Alla fine una francese - io parlavo francese e cercavo perciò di contattare qualcuna che lo parlasse - capì la nostra situazione, si rivolse ad altre donne, si strinsero, e noi trovammo posto, due o tre letti dove ci accucciammo per la notte. Chi dormì quella notte? Nessuno, anche perché non sapendo che cosa ci aspettava avevamo paura del giorno dopo. Il giorno dopo per la prima volta cominciammo a conoscere anche gli appelli. La sirena suonò molto prima dell'alba. Fummo fatte scendere immediatamente e capimmo che bisognava lasciare il letto nel migliore dei modi. Poi bisognava andare di corsa al gabinetto, il Wascheraum. Era una grande baracca divisa in due camerate con al centro una decina di lavandini e una decina di gabinetti. Da notare che eravamo in mille donne, due baracche al completo, a gravare la mattina su questi dieci lavandini, che erano piccolissimi, e questi dieci gabinetti. Bisognava farlo. Si vedevano tutte queste donne che cercavano disperatamente di lavarsi perlomeno gli occhi. Poi ci misero in fila per dieci ferme sull'attenti, per ore, e l'attesa fu lunga. Cominciammo a capire la tragedia che ci aveva colpite. Perché se sei da solo soffri per te, ma se hai vicino tre persone, soffri per te e per la sorella che ti è vicina, che vedi più debole di te, e soffri tremendamente per quella donna che è tua madre, che vorresti aiutare ma non puoi. La vedi cascare ma la devi lasciar per terra, la vedi soffrire e non puoi fare nulla per aiutarla. Perciò la sofferenza era moltiplicata per tre. Finito l'appello, fummo di nuovo riprese per altre visite e questo si ripeté per due o tre giorni. Visite assurde, sciocche, ti facevano visite alle mani, agli occhi, guardavano se eri forte. Visite che poi capivi non sarebbero servite a nulla, che non avevano senso. Alla mattina dopo l'appello, io e mia sorella - mamma no, perché non poteva muoversi - fummo prese e avviate al lavoro. Anche quello era un lavoro assurdo. Ti davano una pala per cinque, cantando, con a fianco i cani che ti avrebbero azzannato le gambe se ti fossi spostata dalla fila di due millimetri, ma forse anche due millimetri sarebbero stati troppi, e ci portavano su di un'altura. Con questa pala dovevamo “smucchiare” la sabbia da una parte e fare un altro mucchio dall’altra. Insomma, il lavoro non serviva a niente, serviva però a debilitarti, a fare sì che le tue mani si spaccassero per l'uso continuo di questa pala, e anche, in un certo qual senso, a metterti già subito alla prova con le tue compagne. Se avevi davanti a te una donna robusta che in due minuti spalava e tu invece non ce la facevi, il tuo lavoro era considerato lento ed erano necessarie delle botte per farlo accelerare. Questo lavoro durò per circa dieci giorni. Ogni volta che tornavamo in baracca, dopo dodici ore di lavoro, trovavamo mia mamma sempre più debole, col viso sempre più affilato, però sempre presente a se stessa, tanto presente che malgrado tutto riusciva ancora a spingerci a sperare e a pregare per chiedere la cessazione di questo terribile stato che vivevamo. Poi io e mia sorella fummo convocate per andare a lavorare alla Siemens e dovemmo lasciare mamma. L'abbiamo lasciata in condizioni pietose, capivamo che la salutavamo forse per l'ultima volta e anche lei lo aveva capito. Il campo distava cinquecento metri, non di più. Non c’erano scritte, però sapevamo che era la Siemens. Era il campo Siemens. Era su una piccola montagnola che era stata fatta tra l'altro dalle prigioniere, come abbiamo poi saputo in seguito. Su questa piccola piazzola era stata installata la fabbrica della Siemens, che aveva circa venti capannoni ed lì stato costruito un piccolo campo composto da sette baracche, dentro la quale poi noi prendemmo posto. La mia baracca era la numero 3 ed eravamo insieme alle Tedesche, quasi tutte triangolo verde. La capo baracca si chiamava Maria, era un triangolo verde e molto probabilmente aveva avuto qualche legame con l’Italia perché ogni tanto si ricordava di canzoni italiane. Con noi c'erano le due Stanzione, Ginet Portalupi di Milano, Maria Fasano di Torino, Albertina Radaelli di Ivrea, Carlotta Villa di Lecco e Maria Rossi di Melegnano, una ragazza dolcissima che tutte le mattine si svegliava dicendo di aver sognato Cristo. Avevamo la fortuna di avere mani piccole e occhi buoni, perciò fummo destinate all'équillibrage dei manometri e dei voltometri. Alla fine del lavoro le ossa facevano male, perché eri costretta a stare su un piccolo sgabello senza la spalliera e lavorare continuamente, il più delle volte con la lente d'ingrandimento per equilibrare questi apparecchi. Però non era un lavoro molto pesante e ci teneva ferme in baracca al caldo per dodici ore. Alla Siemens c'erano anche civili, i master, che ci aiutavano nello svolgimento del lavoro perché a volte quegli apparecchi erano difficili per noi che non avevamo una conoscenza operaia a questo livello. Erano un tedesco e un alsaziano, che qualche volta riusciva persino a darci qualche notizia. Non infierirono mai contro di noi, né mai alcuno ci denunciò per non aver fatto il compito che ci veniva assegnato. Questo va detto. Dopo le dodici ore rientravamo di nuovo con le SS e lì c'era la violenza, la fame e la cattiveria più inaudita. Si inventavano sempre qualche cosa e tu dovevi stare allo straf appell magari per tutto il giorno. Stare all'appello di punizione tutto il giorno era terribilmente duro perché si raggiungevano temperature di dieci o dodici gradi sotto zero. C'era la neve o c'era il vento e noi non eravamo vestite, avevamo sì e no un cappottino, delle volte senza calze, e nient'altro. La fame ti annientava e alla fine dell'appello eri talmente sfinita che non ce la facevi più. Non era difficile che al sabato sera fossi convocata per la domenica mattina a fare un lavoro extra, per esempio andare a togliere l'acqua con dei secchi mezzi bucati dai bunker delle SS, o andare a scavare per fare una nuova fognatura, o ripulire tutta la baracca. Era un lavoro continuo. Quando avevamo il turno di dodici ore la notte, arrivavi alla fine della settimana che non ragionavi più, perché dopo dodici ore dovevi rientrare in baracca a pulire e vuotare i secchi riempiti durante la notte. Ad una certa ora della giornata poi dovevi andare a prendere il mangiare, distribuire il pane, dopo il pranzo riportare tutta la roba in cucina e riandare a prendere tutto alle quattro del pomeriggio. Solo noi Italiane lavoravamo di notte. Perciò durante il giorno non si riusciva a dormire nella maniera più assoluta, anche perché di giorno la baracca era fredda e il più delle volte per arieggiare lasciavano le finestre aperte, sicché noi dormivamo con una sola copertina e i ghiaccioli venivano fuori dai tetti della baracca. Nel campo della Siemens il Wascheraum era una grande stanza con al centro una buca e intorno un muretto di cemento. La sera era il luogo di ritrovo di tutte, c'erano le russe che facevano le danze, le polacche che cantavano, le slave che si muovevano al suono di una canzone slava. Noi vi trascorrevamo un quarto d'ora, venti minuti. Vi era poi un gabinetto anche alla fabbrica, e lì io a volte vi gettavo gli apparecchi che non mi venivano, che erano troppo difficili e a causa dei quali sarei stata punita. Me li nascondevo nelle tasche del cappotto e poi li gettavo, sperando che non se ne sarebbero mai accorti. Il giorno di Natale 1944 fu un giorno molto particolare. Eravamo in baracca, noi italiane avevamo fatto la notte e brontolavamo perché un gruppo di donne si era messo intorno alla stufa e stava chiacchierando. Alla fine ci siamo alzate e siamo andate a vedere cosa facevano. Facevano delle strane figure, come dei fiocchetti, in carta argentata. La cosa ci stupì perché non ricordavamo neanche più che era Natale. La sera un soldato portò un abete in baracca, le donne cominciarono subito a infiocchettarlo, di doni non ce n'era evidentemente, c'erano soltanto questi bei fiocchetti di carta stagnola. La capo baracca venne da noi Italiane a chiederci se potevamo cantare la canzone di Natale. Fra di noi c'era Maria Fasano di Torino che aveva una voce discreta e cominciò a cantare Tu scendi dalle stelle. Per la prima volta sentii quella bellissima canzone tedesca, Stillenacht, cioè notte silenziosa, cantata da queste donne. Fu una cosa molto particolare, la baracca di dilatò e noi ricordammo dei nostri Natali fatti nelle nostre case, dove non c'era l'odore dell'abete ma il profumo del pino, perché da noi il pino è simbolo del Natale. E poi il fuoco, i mandarini attaccati all'albero, altri profumi e altre cose che però avevano lo stesso profumo di amore. Era Natale anche per loro. Quel giorno avemmo un pranzo particolare, delle polpette o degli hamburger col contorno di rape rosse. Io da quel giorno le rape rosse non le posso più vedere e gli hamburger li mangio proprio mal volentieri. Ad ogni modo ci venne dato questo. Poi tutto ritornò come prima. La sera la capo baracca ci diede il solito caffè e cercò di fare la cresta sulla divisione del burro. Il giorno dopo ancora dovemmo far presto a ritirare la nostra ciotola perché lei non gettasse dentro il suo cucchiaio e non cercasse di tirare fuori dalla nostra zuppa quella piccolissima fettina, un filamento che chiamavano carne, ma che in realtà non so cosa fosse. Roba da darla al gatto. Quando si vedeva che lei armeggiava col cucchiaio, bisognava subito ritirare la nostra zuppa onde evitare il furto. Venne il primo di gennaio. Era nevicato la sera prima e la neve si era subito ghiacciata. Ci chiamano all'appello e ad un certo momento sento che viene chiamato il mio numero. Essere chiamati dal comandante del campo era una cosa terribile, ci si poteva aspettare solo male. Lì per lì quasi non capii, poi il capo baracca mi disse “guarda che ti chiamano”. Mi avviai verso il centro del campo dove c'era il comandante che mi aveva mandato a chiamare. Ricordo quel momento, nel campo si era venuto a creare un silenzio assoluto, perché ognuna di noi sapeva che essere chiamato significava botte, quando non addirittura camera a gas. Potevi essere accusata di sabotaggio, il che comportava la morte. Nel tragitto non sapevo che cosa pensare, spaventatissima mi chiedevo che cosa mai avessi potuto fare di male, con chi avevo parlato. Non riuscivo a capire. Mia sorella era in infermeria, non stava bene, perciò pensavo anche a lei. Quando sono davanti al comandante, questo mi guarda e mi dice “tua mamma è morta e stai zitta, perché tua sorella è grave in infermeria”. Non capii subito quello che mi disse, me lo disse in tedesco, me lo ripeté in una forma più lenta e allora io capii. Fui annientata, evidentemente, però capivo anche che dovevo star zitta, perché quell'altra era grave in infermeria. Poi cominciai a piangere, mi presero e mi riportarono a lavorare, perché evidentemente la morte della madre non era fonte di festa per un lavoratore. Mi ricordo che mi si avvicinò una soldatessa, alla quale più di una volta io mia sorella e un'altra ragazza francese, che aveva la mamma in campo come noi, avevamo chiesto di portarci a vedere la mamma. In fondo erano sì e no cinquecento metri da fare. Le promesse erano sempre state fatte ma mai mantenute. Perciò quando io sentii questa donna che mi venne a toccare quasi con un senso di condoglianza o di affetto, mi ribellai. Mi ribellai anche in malo modo perché mi venne da sputare. Lei era già pronta a reagire in modo grave se non si fosse interposto il direttore della fabbrica, a capo della hall nella quale noi lavoravamo, il quale parlò, non capii quello che le diceva però lei se ne andò e lui indifferente se ne ritornò al suo posto. Da quel giorno io dovetti lottare anche per mia sorella. Un giorno una dottoressa polacca la rimandò in campo a lavorare, non stava ancora bene e ogni tanto mi diceva "ho sognato la mamma". A lla fine glielo dovetti dire, quando la vidi un po' più sulle gambe glielo dissi e lo affrontammo insieme. Fu un dolore grande, ma che però non percepimmo subito, perché la morte lassù era una cosa normale, come posso dire, ci alzavamo la mattina e non sapevamo se saremmo tornate a dormire la sera. Tutto potevamo aspettarci per noi stesse. Ormai era diventata un'abitudine prendere le morte per i piedi e per le mani e metterle sotto la vasca del gabinetto. Scavalcare un cadavere per noi era diventata una cosa normale. E poi forse pensai anche che non soffrivo più per lei, era morta e non mi dovevo più preoccupare per lei. Dopo, quando tornammo a casa, allora capimmo che cosa volesse dire essere senza mamma. Una cosa terribile erano le selezioni. La prima selezione la subimmo prima di partire dalla Siemens. Al momento del rientro dalla fabbrica, in baracca ci trovammo davanti alcuni infermieri o dottori, avevano una specie di camion bianco. Ci fecero passare ad una ad una e cominciammo a vedere che alcune erano mandate a destra, altre a sinistra. Mi vide una francese dal campo. Era un periodo in cui avevo una scarpa col tacco alto e l'altra col tacco basso, una piccola e l'altra grande, perciò camminavo zoppa. La francese mi disse: “Bianca, attention! Sélection!” e io capii che per me si metteva male se mi fossi presentata nelle condizioni in cui ero. Mi tolsi le scarpe, mi tirai su i vestiti, in maniera che potessero vedere che camminavo bene, e mi avviai col cuore stretto, perché davanti a me c'era mia sorella. Ero evidentemente in ansia fintanto che lei non passò dalla parte giusta. Poi arrivai io con le mie scarpe in mano, mi guardarono, mi diedero una bella sberla sulla testa e mi avviarono verso mia sorella. La seconda selezione la avemmo dopo che dalla Siemens fummo portate nel campo grande. Io e mia sorella eravamo a lavorare nella fabbrica di sartoria, attaccata alla Siemens, e lì subimmo la seconda selezione. Anche quella andò bene. Ci scoprirono tutte, eravamo coperte di piaghe, ma per fortuna a questo non badarono, guardarono soltanto se eravamo ancora capaci di camminare. E ci misero nella parte giusta. Le selezioni sono una cosa che distruggono la personalità dell'uomo. Ti fanno avere delle reazioni terribili anche dopo. Una mattina ci presero, ci misero una per una e ci fecero passare davanti a un grande tavolo dietro al quale erano seduti il direttore e altri funzionari della fabbrica. Io mi ricordo questo fatto perfettamente, anche se non tutte se lo ricordano, e la cosa mi sembra strana. Io mi trovavo tra le prime, perché ero tra le prime a lavorare lì nella baracca. Mi diedero dei marchi, ma non erano proprio marchi, erano cartoncini con qualche cosa scritta in tedesco, figurati se sapevo que llo che voleva dire. Però capii che erano tipo dei buoni, chiesi a che cosa servivano, e mi risposero che io con quei marchi potevo andare nello spaccio e comprare rossetto e borotalco. A parte il fatto che lo spaccio io non l'avevo mai visto in quei mesi, non esisteva proprio, non avevo neanche il sapone e l’asciugamano, e avevo – scusate – le stesse mutande da ottobre. Come avrei potuto mettere il rossetto? Li rifiutai, perché la presi proprio per una presa in giro. Rifiutai e dietro di me tutti gli altri rifiutarono. Era una cosa assurda, dare questi marchi per comprare che cosa? il rossetto e il borotalco. Nel marzo noi eravamo ancora alla Siemens, continuavamo a lavorare però in condizioni precarie, notte e giorno i bombardamenti erano continui. Nei tur ni di notte bisognava stare con le luci spente, perciò il lavoro era nullo o perlomeno molto lento. Gli ultimi giorni vennero fuori dei manometri completamente diversi, molto grossi e difficili da equilibrare, con una sensibilità diversa, che non riuscivamo a mettere a punto. Ci diedero delle pinzette particolari per sistemare la lancetta e delle macchine per misurarne la forza. Erano apparecchi non fatti nella baracca, e anche i due master che seguivano il nostro lavoro cercavano di capire quello che stava succedendo. Dopo due o tre giorni tutto scomparve. Alla fine di marzo primi di aprile in baracca non c'era neanche più da mangiare, il lavoro stava finendo, man mano alcuni grandi capannoni venivano smantellati, le macchine imballate e portate via. Talvolta noi dovevamo andare a prendere i carri bestiame alla ferrovia e portarli al campo per vuotarli, a spinta perché la ferrovia non arrivava più, era rotta, forse interrotta dai grandi bombardamenti che giorno e notte si susseguivano. Ad un certo momento vedemmo scomparire anche i master, il primo di aprile la Croce Rossa Svedese non entrò direttamente in campo ma si mise ai margini del campo. Non le fu permesso di entrare, però ci mandò un sacco divisibile in dieci, poca cosa ma che ci dava una spinta, perché capivamo che qualche cosa si stava muovendo intorno a noi, che non eravamo lasciati completamente soli e che quello che ventilavano i Tedeschi - cioè di farci fuori tutti prima della fine - forse non sarebbe successo. Per pasqua con le Francesi riuscimmo a riunirci e a dire ancora una preghiera, perché l'uomo spera sempre di poter con un miracolo cambiare la propria vita, di indirizzarla con l'aiuto di Dio verso qualche cosa di più giusto, di migliore. Chiedemmo l'aiuto di Dio per migliorare questa situa zione, anche perché la fede che ci aveva sempre portato non si era mai affievolita e riuscimmo a fare una piccola cerimonia, nascosta evidentemente perché altrimenti sarebbe stata oggetto di una terribile punizione. Non si poteva nella maniera più assoluta, però ce l'abbiamo fatta. Ai primi di aprile ci ripresero dalla Siemens e ci riportarono in campo, perché ormai la fabbrica si stava chiudendo. Al campo grande ritrovammo il caos. Era sovrappopolato, erano arrivate donne da tutte le parti man mano che i campi dell'est erano stati evacuati, non arrivava più nulla da mangiare perché la ferrovia era stata distrutta e molto probabilmente non c'era più niente da mangiare neanche nella Germania stessa. Le donne si accalcavano l'una contro l'altra, bisognava la vorare senza mangiare, ormai erano tutte debilitate da mesi di fame, di paura, di malattia, morivano in gran numero. Ricordo tanti cadaveri davanti al forno crematorio, ma ricordo anche che nonostante la debolezza queste donne si trascinavano per continuare a lavorare, per cercare di sopravvivere, anche perché sentivamo già i rumori del fronte che si stava avvicinando e capivamo che ormai potevamo essere liberate da un giorno all'altro, che la fine di questa tortura sarebbe venuta a pochi giorni, e volevamo assolutamente continuare a vivere. Però la vita era diventata impossibile, nella maniera più assoluta, eravamo ridotte al lumicino, tutte, nessuno riusciva più a sorreggersi. Io e mia sorella in queste condizioni fummo prese e mandate ancora a lavorare in fabbrica, ma ci stemmo un giorno solo, poi fummo chiuse nella per circa una settimana. Quando ne uscimmo non sapevamo neanche più camminare, non potevamo più reggerci in piedi, come ci mettevano all'appello le gambe si gonfiavano e cascavamo. Tra la sera del 26 e 27 aprile, quando ormai si sentivano i cannoni russi che si avvicinavano, ci hanno messe nella piazza. Capimmo subito che gli ordini erano contraddittori, c’era chi urlava da una parte e chi dall'altra. La maggior parte delle donne SS non c’era più. Mentre eravamo lì cominciammo a vedere del fumo che saliva dalla parte alta del campo, avemmo paura, perché pensavamo che coi lanciafiamme avrebbero messo in atto quello che loro avevano sempre detto di fare, cioè la completa uccisione di tutte. Avemmo una paura enorme, poi alla fine lasciammo nel campo quelle che non potevano più camminare. Noi ci misero per strada, in fila per cinque, scortate dai soldati della SS e dai cani. Chiunque si fermava - ce l'avevano già detto - sarebbe stata uccisa con un colpo alla nuca. Camminammo in queste condizioni praticamente tutto il giorno. La sera cominciò a sparare la contraerea prima di tutto, dietro avevamo i cannoni russi che sparavano a misura d'uomo. I Tedeschi ci danno il si salvi chi può. Io, mia sorella e altre donne, tra cui tre slave e una ungherese ci teniamo insieme e camminando raggiungiamo un posto per noi sicuro in mezzo ad una foresta. Ci mettiamo sfinite ai piedi di un albero e con una coperta sotto e una sopra cerchiamo di dormire. La mattina io sento un colpo alla spalla: è un Russo che mi offre una gamella di caffè. Io felice e contenta grido "sono arrivati i Russi", e lui mi fa "no, sono prigioniero anch'io, i Tedeschi mi hanno detto di portarvi questo", e ha dato a tutte un po' di caffè caldo. Durante la notte eravamo state circondate letteralmente dai carri armati e non ce ne eravamo accorte. Ci sembrava di aver camminato delle ore, in realtà invece ci eravamo allontanate dalla strada solo di qualche centinaia di metri, non di più. La mattina dopo i cani e i posten ci ripresero, ci misero di nuovo in marcia e camminammo per sette giorni. Alla fine ci fecero riposare su una piccola altura, posten e cani con noi. Ad un certo momento vediamo passare lungo la strada una macchina che non avevamo mai visto, contrassegnata anche da un disegno che non avevamo mai visto. Lì per lì non riuscivamo a capire, qualcuna di noi sapeva l'inglese, mia sorella per esempio lo sapeva, ma eravamo talmente stanche, talmente sfinite che non riuscivamo neanche a cogliere veramente quello che ci stava succedendo. Mia sorella disse “sono Americani!”. Li guardammo bene, ma in effetti la divisa e l'elmetto erano diversi. Ci precipitammo tutte giù sperando di trovare qualcosa da mangiare, perché erano sette giorni che non si mangiava e si beveva l'acqua che trovavamo per la strada. Chi ci vide era un ufficiale, ci guardò esterrefatto e ci chiese che cosa volevamo. Di pane da mangiare non poteva darcene, era ancora in formazione per l'occupazione del territorio e per ricongiungersi ai Russi che stavano a poche centinaia di metri. Ci diede delle sigarette. Ci siamo accontentate di quelle e abbiamo aspettato gli eventi. Ad un certo momento vediamo gli Americani retrocedere e avanzare invece una colonna di Russi. Ci siamo trovati proprio nel punto di contatto tra Americani e Russi. Eravamo talmente stanche che, strano a dirsi, abbiamo visto un fienile, siamo entrate tutte lì dentro e abbiamo dormito. Non so che cosa sia la liberazione, nel senso che per me è finito l'incubo della stanchezza, della paura di tutto, della fame e la libertà è cominciata con un gran sonno liberatore, dentro un fienile insieme a tanti. Poi abbiamo scoperto che dentro quel fienile eravamo più di un centinaio, tutti addormentati, tutti a riposarci delle fatiche che avevamo dovuto subire. Io e mia sorella quando ci risvegliammo ci rimettemmo di nuovo per la strada, con una fame tremenda. Mia sorella non stava bene. Vidi passare un camion di Francesi che radunavano tutti i Francesi per portarli in zona americana. Mi sono fatta passare per francese, je suis française, ho fatto salire mia sorella, sono salita anch'io e siamo arrivati in zona americana. Dopo mi sono affidata ai compagni di prigionia italiani e con loro, poco per volta, siamo ritornati a casa. Una volta in Italia è cominciato un muro di silenzio. Abbiamo capito che c'era qualche cosa che non quadrava. Ricevetti una strana telefonata che mi diceva "sono tizio e ti sposo". Lì per lì non capii, la presi per una telefonata sciocca, di una persona che non conoscevo. Poi capii. Quando sei giovane e sei fuori, se ritorni qualche cosa devi aver fatto per ritornare. Nulla di queste chiacchiere era vero, ovviamente, addirittura si pensava che io e mia sorella fossimo incinte. E allora si alzò proprio un muro tra noi e gli altri. Gli altri giudicavano, "si sono salvate così", senza cercare di sapere quello che avevamo sofferto. Io e mia sorella abbiamo chiuso ed è stato poi difficile ritornare a vivere e a parlare. Però ce l'abbiamo fatta, anche perché c'era tanto da lavorare, eravamo rimasti quattro ragazzi soli, in una casa completamente svaligiata dai fascisti e completamente distrutta dalle bombe americane. Non avevamo neanche gli abiti per cambiarci perché tutto era stato portato via, perciò bisognava ricostruire, secondo quello che ci avevano insegnato mio padre e mia madre, con onestà, con serietà e con dignità soprattutto. Era la vita che loro ci avevano insegnato a condurre. Il compito iniziale è stato mio e di mia sorella, perché i due ragazzi che avevamo lasciato avevano subito degli shock tali per cui non avevano ancora trovato dentro di loro la forza di ricominciare. Poi anche loro ci riuscirono evidentemente. Poco per volta ci ricostruimmo la casa, finimmo i nostri studi e ritornammo a vivere. Ma ci sono voluti anni. Devo dire grazie a una mia carissima amica, Lidia, che mi ha imposto di ricominciare a parlare, altrimenti io non lo avrei mai fatto. Perché se tu parli trovi chi ti vuole ascoltare, se non lo fai lo lasci con le orecchie tese verso altre cose. Della telefonata anonima che ricevetti , poi seppi che l’aveva fatta un ragazzo slavo che era scappato in montagna dopo essere stato soldato tedesco. Era stato compagno dei miei fratelli e noi lo abbiamo sempre considerato come un fratello. Del mio fratello arrestato non ne abbiamo saputo più nulla. In seguito l'abbiamo atteso tanto, ma nessuno voleva darci notizie. Alla fine Italo Geloni, che aveva condiviso con lui tutti i giorni della prigionia e con lui era stato deportato a Flossenbürg, venne e mi disse “è inutile che lo aspetti, mi è morto tra le braccia”. E sapemmo che era stato ucciso a suon di botte da un soldato tedesco al quale aveva inavvertitamente pestato un piede. Mi chiamo Vittore Bocchetta, sono nato nel novembre del 1918.