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RIME ESTRAVAGANTI
68bis
Tacer non posso, Amore,
quel che gran tempo io tacqui,
temendo nol mio dir ti fosse grave;
or morto è quel timore,
perch’io tacendo giacqui
nel carcer del qual tien Clizia la chiave,
e l’alma più non pave,
né teme aver ardire
in far più manifesto,
bench’a lei sia molesto
l’occolto et ineffabil mio martire,
che ’l duol troppo aspro et duro
or fatto m’ha sicuro.
Mentre l’ardor fu lieve
per lieve il tacer tenni,
or che più cresce, il più tacer m’è noia,
perché, com’al sol neve,
manco, e mai non sostenni
quel c’or pur soffro; fuor d’ogni mia gioia
già disconvien ch’io moia
celando ognior mia morte,
et se non vuoi che ’l dica
ov’è l’empia nemica
di mia tranquilla pace e di tua corte,
almen omai consenti,
ch’io sol qui mi lamenti.
Se sol quanto lo strazio
cresce tu lieto sei,
e d’un in altro modo il cor m’impiaghi,
e giamai non sei sazio,
dei crudi incendi miei,
or ti giovi che gli occhi infermi e vaghi
talor piangendo appaghi,
e che ’l cor mandi e versi
indi ’l secreto affanno,
che ’l morir fia men danno,
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pur che lecito sia mostrarlo in versi,
a tigri e sassi e dumi,
fra selve, boschi e fiumi.
Apriche e verdi piagge,
dolci aure e lieti fiori,
dilette umide arene et onde salse,
nimfe leggiadre e sagge,
che de’ miei gravi ardori,
lasso, non poco vi rincrebbe e calse
dal dì ch’a me non valse
fuggir né far difesa,
voi sol udite in terra
la mi’ angosciosa guerra,
poi ch’a la voce pur sì poco intesa
fu già salda colonna
Amor e la mia donna.
Lasso, non vi soviene
che ’n un cortese giro
de la mia cara libertà fui privo,
qualor l’alme e serene
luci per cui sospiro
mi fer d’ogn’altra vista in terra schivo?
Né morto poi, né vivo
dir mi potei membrando
l’atto celeste e nuovo,
per cui dì e notte pruovo
qual si sia questa mal nata vita amando,
dove, fuor d’ogni scampo,
tra ghiaccio e fuoco avampo.
Da indi in qua non vissi
se non d’empio tormento,
e soggetto d’angoscia e d’ogni doglia
fu quanto al mondo scrissi,
e tant’era contento
quanto d’un cibo tal nudria la voglia.
Or, benché men che soglia
non arda il fuoco antico,
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pur sento in me conforto,
così pallido e smorto,
mentre che ’l mio dolor qui narro e dico,
dov’altro non risponde
che ’l mormorar de l’onde.
Qui voglio c’or sia nota,
fuor de l’umana gente,
la pena, che ’l membrar radoppiar suole,
né vo’ che più percuota
l’orecchie né la mente
di quella, ogn’or più sorda a mie parole,
che poi che non le duole
del morto viver mio,
a che i sospiri tanti?
A che più prieghi e pianti?
Altro or per mio rifugio i’ non desio
ch’esser al chiaro e al fosco
abitator di bosco.
Canzon, viva pietà per me spenta
qui fa lagnarmi invano,
fuor del consorzio umano.
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Per il metro cfr. 68.
73bis
Quando arà fine, Amore,
quel di cui sol mi pasco empio desio?
E quando mai fia scemo ’l grave ardore
ch’altrui m’ha fatto sì c’or non son mio?
Quando arà triegua il core,
ch’avinto vive di continua guerra?
Lasso, nol so, ma se ’l ver i’ discerno,
alor vedrommi un dì star cheto in terra,
che l’anime fien liete tra l’inferno;
qualor sarà anco ’l cielo
di notte al più seren privo di stelle
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e di maravigliose altr’opre belle;
quando fia ghiaccio ’l fuoco, et fiamma il gielo.
Madrigale: aBABaCDCDeFFE.
196bis
Con gl’occhi più che mai di pianger vaghi
talor mi riconduco in luoco oscuro
sfogando i sensi ch’alcun tempo furo
di qualche ben partecipi e presaghi;
né posso far che sian contenti e paghi
di questo viver mio sì acerbo e duro,
mentr’io mi lagno e di gioir non curo
che d’altr’amor non vuol che l’alma appaghi.
Ciò non è noto a chi saver nol vuole,
ben Clizia il sa, ma lo contrario infinge,
per far le pene mie qui rare e sole.
Pur se qualche pietà di me la stringe,
in lei traluce come ’n vetro il sole,
e di pura vergogna il viso tinge.
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Per il metro cfr. 196.
278bis
Lavor malvagio, che ’l sereno aspetto
contendi agli occhi miei sì spesse volte
e tiemmi quelle oneste luci ocolte
ch’Amor pur manda dentro l’intelletto;
o del mio bel desir molesto oggietto,
per cui l’alte speranze mi son tolte,
cagion ch’io più, qual soglio, non ascolte
il ragionar che impiaga et sana il petto;
ahi! miser me, che non ti muovi e pieghi
al mesto suon? Ma dove non è senso
che puon giovare umani e giusti prieghi?
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Ma segui contra me pur l’odio immenso,
che forse un dì che lei m’ascondi e nieghi
forse sarai da’ miei sospir accenso.
Per il metro cfr. 278.
379bis
Nel primo giorno che Natura volse
formar voi, donna, e senza par alcuna,
per adornar di vostre luci il mondo,
in un soggetto ogni saver accolse;
poi richiamò repente ad una ad una
del Ciel nel più bel loco e più giocondo,
con modo alto e profondo,
le stelle tutte elette e fortunate,
e disse: «or mi soccorra il vostro ingegno,
perché fatt’ho disegno
di far un corpo di tanta beltate
che ’l par non sia mai visto in altra etate.
Punto non val più la potenza nostra
se splendor novo non mostriamo in terra;
io già fatto l’avrei, m’a me non lice
far novell’opra senz’aita vostra.
Ragion è ben c’omai goda la terra
d’una nostra sembianz’alma e felice,
come d’una fenice;
ciascun’a suo poter dunque assottiglie
e formisi un lavor sì bello e raro
c’or faccia noto e chiaro
il valor nostro e l’alte meraviglie
e che a forme passate non somiglie.»
Udito ciò, peroché non convene
negarsi quel c’onor et util porta,
ratto, mosse dal bel desir de l’opra,
furon già pronte e larghe a tanto bene,
e con la mente lor saggia et accorta
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v’infuser quant’è di valor là sopra,
perché s’affisi e scopra
in voi, non altra, ogni potenza loro.
Così, per far voi sol del Cielo erede,
ciascuna allor vi diede
quant’ebbe forza e così in tal lavoro
del ciel s’inchiuse ’l più gentil tesoro.
Poiché inviar vi volsero tra noi
furon conformi e tutte d’un volere
in farvi grata e lieta compagnia,
accioché imperio non prendesse in voi
già qualità de le seguenti spere,
turbando quel che v’avean dato pria.
Onde com’uom che sia
geloso d’alta merce e gran ricchezza,
venner con voi accolte infin là dove
suo cerchio gira e move
quella il cui raggio d’altera bellezza
in sogno porse altrui tanta dolcezza.
Indi scendendo poi veniste in guida
di ver’alma Onestà ch’in ogni assalto
difese voi dal fervido elemento
com’ovra ordita d’opra invitta e fida;
poi contra l’altro, men lieve e men alto,
di stabil cor v’armaro in un momento,
sì che lieto e contento
fu ’l venir vostro, e ’ncontro gli altri ancora
divin non mortal l’animo vi denno.
Così con sovran senno
avanzaste voi ciò che qui dimora
e con l’alma beltà che ’l Cielo onora.
Con ragion, dunque, dir potete in vero
che come gli altri corpi non è ’l vostro,
ch’ove ’l formò l’alma Natura scelse
il più pregiato albergo e ’l più sincero,
per partirvi qua giù dal corso nostro,
tal che d’esser mortale allor vi svelse,
e tra le sedie eccelse
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fu da voi sgombro ogni ghiaccio, ogn’ardore,
e diventaste fra le prime prima,
e d’ogni lode in cima
d’essa eterna maestra ’l più bel fiore
e del mondo e del Ciel gradit’onore.
Di tante rare grazie adorna e sacra,
fra tutte l’opre opra del ciel voi siete;
in riso, in guardi, in atti et in parole
contra bassi desir superba et acra;
da indegno Amor vinta esser non potete,
che ’n queste notti da voi spunta un sole,
con tai luci alte e sole,
che sgombran voi d’ogni rio ardente zelo,
e per difesa vostra con voi stanno,
e stando in voi vi fanno
possente sì che ’l bel corporeo velo
non sente ardor mortal, né freddo gelo.
Fra questi don, fra sì varia virtute
sembrate donna e siete fra noi dea,
con tai bei lumi e sì mirabil raggio
ch’a dirlo tutte lingue sarian mute.
Felice essempio in ciel, felice Idea,
da cui fu tolto il viso onesto e saggio,
ch’unqua non teme oltraggio
di fugace e mortal breve membranza.
Così siete in terrestre supern’alma,
così con chiara palma
tenete voi in questa umana stanza
di quant’è di ver ben vera sembianza.
Così s’infiamma ai vostri rai d’intorno
il ciel col cielo, il foco ancor col foco,
l’aere con l’aere e l’alto mar col mare,
e di voi fate dopo il mondo adorno
d’alme faville e di speme e di gioco
con singolari doti, nonché rare.
Che dunque più narrare
si può del bel vigor che’n voi s’indonna,
se non che sete un sole, un’altra lampa
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del ciel che ’l sole avampa,
e coverta fra noi di frale gonna
voi dea vincete in dea, voi donna in donna?
Canzon, tua voglia affrena
né cercar di volar senz’aver’ale;
riman di qua dal bel desir sì audace,
ch’a lei forse dispiace,
e con silenzio pensa il voler frale
che immortal pregio abbaglia onor mortale.
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Riprende il metro di 379, variandone lo schema del congedo: xYZzYY.
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Diletti boschi e rive,
lucidi e puri fonti,
c’avete a sdegno l’aspre mie fatiche;
silvestri nimfe e dive,
di questi e di quei monti,
valli, dei miei pensier più ch’altre amiche,
anzi compagne antiche,
e tu che ’l mio duol senti
e dopo da spelunche
d’erbe coverte e ’ngiunche
rispondi, come udiste i primi accenti
così a voi tutti insieme
or non sia grave udir le voci estreme.
Non è scemo lo stile
col mancar de l’etade,
e lei, c’or tant’è via più fiera e cruda
quant’è la più gentile,
non muove ancor pietade,
acioché ’l fin omai le luci chiuda,
et al suo albergo ignuda
ritorni l’afflitt’alma;
ma pria che ’n pianto i’ moia
e di ciò prenda gioia,
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notate dei martir la grave salma,
amici e fidi boschi,
e voi cavi antri, tenebrosi e foschi.
Lasso, quando fia ’l giorno
che di qua m’alzi a volo
al ciel, lassando questa frale gonna,
per vestirmi più adorno
manto, e più raro e solo,
per voi nol sappia quella altera donna,
ch’al pianger mio colonna
fu sempre intiera e salda,
ma pregho chiuso resti
fra quegl’orrori e questi;
e tu, dei miei sospir ardente falda,
per mia tranquilla sorte,
tieni in tuo grembo ascosa la mia morte.
Amati poggi e colli,
fra i quai perdei me stesso,
e voi, ridenti fiori e ben nate erbe,
che gli occhi umidi e molli
bagnati v’han sì spesso,
sperando mitigar le fiamme acerbe,
chi sarà mai che serbe
il mio fin notte e die,
sì ch’unqua non risuone
talor tra le persone,
ma ’l suon de le dolenti voci mie
sia da voi sì raccolto
ch’in eterno alle genti giaccia occolto?
Qualor ciò mi rimembra
ne l’apra guerra ho tregua,
ch’alor vedransi fuor dei lunghi affanni
le tormentose membra,
e converrà ch’io segua
scorta, che mi conduca a miglior’anni,
e ricche dei miei danni
si terran con le piagge
quest’onde, aure, antri e questi ispidi dumi,
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e que’ sì puri fiumi
e gli uccei, con le fere empie e selvagge,
che sol aran pur doglia
di questa fra le pietre ascosa spoglia.
Sendo sì desperata, ove ne andrai?
O sia men grave e mesta
o qui solinga e sconosciuta resta.
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Per il metro cfr. 433.
I
Errar non so se non per queste valli,
sì m’è venuto a sdegni et a fastidi
l’ardente brama dei pensier non fidi,
ch’ognior fan contra il ver più duri calli.
Di primavera fiori e persi e gialli
non nascon tanti fuor di questi lidi
quant’ho dentro ’l mio cor dogliosi nidi
di non più visti oggietti e d’empi falli,
i quai fan l’alma travïar sì forte
che la non cheta et angosciosa vita
travagliando non brama altro che morte.
O mia bella speranza, ov’or sei ita?
O rifrigerio usato, o lieta sorte,
ove n’andasti e come sei partita?
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Sonetto: ABBAABBACDCDCD.
II
Quand’io mi fo di me medesmo speglio
e quando è perso il tempo indarno andato,
del mio presente saldo e del passato
meco e col mondo a sospirar mi sveglio;
poi grido: «avezza gl’occhi a veder meglio,
né star più di te stesso in te ingannato:
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mire che più non sei quel che sei stato
e che cominci in tutto a farti veglio».
Mentre l’un temo e l’altro vo membrando,
e più che son e quel ch’era pur dianzi,
sento da fiamma il cor farsi di neve,
e ’n quant’io posso ogni or mi vo sforzando
di trar a miglior corso il viver breve,
veggendo e queste e que’ fuggirmi inanzi.
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Sonetto: ABBAABBACDECED.
III
[In morte della Morosina]
Quanta giamai bellezza et onestate
dieder Natura coi benigni dei
a mille donne pria, tutta in costei
versar con non più usata largitate;
or Morte, con sue frode empie e spietate,
contra i buon presta e tarda verso i rei,
invida del ben nostro, estinto ha lei
per sgombrar d’ogni pregio questa etate.
Onde a lor studi intenti e quella e questi
che la composer pria, disdegno e noia
prendon, non più sperando ordir par’opra.
Spenta lei, spenta è la romana gioia,
senza vaghezza il mondo e sguardi onesti,
ignudo Amore e non è chi ’l ricopra.
Sonetto: ABBAABBACDEDCE.
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