Garantita la continuità, ma ora al lavoro
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Garantita la continuità, ma ora al lavoro
Garantita la continuità, ora si torna a lavorare Silvio Berlusconi ha vinto. Per l’ennesima volta. E questo garantisce la continuità e la stabilità dell’azione di governo. E’ tutto molto semplice, evidente: non c’è arrampicata sugli specchi che tenga, non c’è ritornello consolatorio tipo “vittoria di Pirro”. Piaccia o non piaccia, il premier ed il governo di conseguenza si rafforzano. Le elezioni restano un’ipotesi secondaria, sullo sfondo, e anch’essa nelle mani di Berlusconi e di questo centrodestra, cioè decide Berlusconi se e quando andare a votare, decide solo lui e nessun’altro, dopo l’esito del voto sulla fiducia. Ma oggi, per ora, e prevedibilmente a lungo, si va avanti con l’obiettivo e le possibilità intatte di completare la legislatura e mantenere tutti gli impegni con gli elettori. Garantire la continuità non significa affatto aver vinto la partita di un giorno, aver strappato un risultato per tre voti, come dicono gli altri, masticando amaro. Quei tre voti, ottenuti da una situazione di partenza numericamente sfavorevole, contro tutto e tutti a Montecitorio, indicano che questa coalizione e questo premier hanno una marcia in più, un valore aggiunto che manca agli altri: la capacità di riferimento e di attrazione. Lasciamo perdere il calciomercato, argomento risibile. Chi al momento del dunque si è schierato con Berlusconi lo ha fatto per il motivo esposto in partenza: garantire appunto la continuità. I mercati che seguivano con il fiato sospeso la giornata di ieri se lo auguravano, la speculazione invece si augurava il contrario. Se lo augurava – è trapelato più che ufficiosamente – anche il Quirinale. E se lo auguravano le forze sociali e imprenditoriali. Insomma, se lo augurava il Paese. C’è bisogno di governo, come in ogni paese e particolarmente in questo momento. E Berlusconi ha dimostrato di nuovo di costituire l’unica leadership possibile per l’Italia. Questa è la nuda e cruda realtà. Il governo va avanti, e la continuità è garantita, perché occorre difendere l’interesse nazionale all’interno dell’euro ed è necessario presidiare i conti pubblici: questo è il primo motivo. Va avanti perché è necessario dare il via libero definitivo entro fine anno ad alcune leggi e riforme, dall’Università al decreto mille proroghe. Perché ci sono i decreti sul federalismo e c’è il piano per il Sud. Tutto ciò nell’immediato. Quanto al futuro, si riparte e ci si dovrebbe rilanciare da qui. Ma senza continuità, senza stabilità, senza una leadership confermata, nulla sarebbe stato possibile: né ripartenza, né rilancio né riforme, né mantenimento degli impegni e del patto elettorale. Né, soprattutto, l’interesse del Paese: che non era certo quello di restare senza governo o di affrontare una crisi al buio, ma di avere una guida stabile, chiara, una maggioranza riconoscibile e compatta, che guidi l’Italia. Gianfranco Fini ha perso. E questo, assieme alla vittoria di Silvio Berlusconi, è l’altro fatto evidente, chiaro, semplice. Neppure qui c’è bizantinismo che tenga. L’obiettivo del presidente della Camera – ruolo sul quale si potrebbe aprire una lunga parentesi – era di far fuori Berlusconi. Non eravamo in fondo di fronte alla sinistra che bene o male fa il proprio lavoro. Né di fronte ai moderati dell’Udc, anch’essi all’opposizione, e quindi con un ruolo chiaro. A che cosa eravamo di fronte? Si deve concludere che il rischio era solo un’avventura, un salto nel buio. Una mera ripicca ed un livore personale che non si spiegano in alcuna maniera. Infatti Fini ed i suoi avevano detto di volere “un nuovo centrodestra”: ma non hanno spiegato quale. Di volere un nuovo programma, anzi “una nuova agenda di governo”. Ma non hanno spiegato né di quale programma né di quale agenda parlassero. Hanno vagheggiato un nuovo leader e una nuova classe politica: ma non hanno indicato né il primo né la seconda. Nel frattempo hanno cavalcato le manifestazioni di piazza come un qualunque Di Pietro, ogni richiesta di spesa pubblica in perfetto stile da anni Ottanta. Ancora. Si sono autodefiniti “espulsi dal Pdl”, dopo aver costituito all’interno del Popolo della Libertà prima, della maggioranza dopo, un movimento che lo stesso Fini, non più tardi di domenica scorsa, ha chiaramente indicato come partito che dal 15 dicembre, cioè da oggi, si sarebbe collocato all’opposizione. Quindi di quale espulsione parlano? Ma soprattutto: se la sfiducia finiana avesse prevalso, a quali sbocchi avrebbe portato il Paese? Evidente: ad un salto nel buio. Come è infatti pensabile annunciare il passaggio all’opposizione di una componente eletta nel Pdl, con i voti del Pdl, con il programma del Pdl, con il leader del Pdl – cioè Berlusconi - e per di più senza indicare una soluzione di governo, di programma, di alleanze, di guida del Paese? Puro avventurismo. Ancora più censurabile e incomprensibile visto che viene dalla terza carica istituzionale. Abbiamo detto che su questo punto potrà eventualmente giudicare la storia; ma forse storia è una parola grossa: per ora ha giudicato la cronaca. E la cronaca si è vista: il presidente della Camera, nei due giorni più cruciali di questa legislatura, contemporaneamente arbitro e giocatore in campo. Che abbandonava il suo scranno di Montecitorio per organizzare riunioni politiche, strategie di partito. Che alla fine, anziché tutelare e rispettare l’istituzione che rappresenta, ha censurato il voto ironizzando sulla “disinteressata folgorazione sulla via di Damasco”. Che ora, sempre dalla poltrona più alta della Camera, minaccia di rendere la vita impossibile al governo. Con questo personaggio si sarebbe dovuto costituire “il nuovo centrodestra”, a lui si sarebbe dovuta affidare una nuova leadership, assieme a lui doveva costituirsi il futuribile terzo polo? A lui poteva pensare l’Italia come alternativa? E ora, superate le forche caudine della sfiducia, il governo ha il dovere di andare avanti con le riforme necessarie, nella consapevolezza che il sentiero da percorrere è stretto, e che in poche settimane dovrà essere raggiunto l’obiettivo di allargare la maggioranza. Ma il punto fondamentale dell’azione di governo, ora come negli ultimi due anni, è l’inderogabile esigenza di tenere in ordine i conti pubblici per centrare il rapporto deficit-pil del 2,7 % nel 2012. La priorità assoluta resta insomma la stabilità di bilancio che sarebbe stata messa a repentaglio da un eventuale governo del ribaltone, mentre, al momento, l’Italia non è più considerata fra i Paesi a rischio nonostante l’alto rapporto debito-Pil ereditato. Federalismo fiscale - Il federalismo fiscale è stato votato nel suo percorso parlamentare anche da quasi tutte le forze di opposizione, e non prevede la benché minima ipotesi di divaricazione tra Nord e Sud d'Italia. La legge delega è stata approvata dal Parlamento il 29 aprile del 2009 e con i decreti attuativi si sta rivoluzionando il sistema dei trasferimenti delle risorse pubbliche tra lo Stato e gli enti locali. Il nuovo sistema non sarà più basato sulla spesa storica dei vari servizi, che obbliga lo Stato a rifinanziare tutte le spese, sprechi compresi, ma sui costi standard ritenuti necessari per fornire ai cittadini i servizi fondamentali, a partire dalla Sanità. Con il federalismo fiscale gli Italiani avranno servizi pubblici uguali in tutto il territorio nazionale, e i Comuni saranno coinvolti nell'accertamento dei redditi dei contribuenti per combattere l'evasione fiscale. Fisco - L'obiettivo è quello di disboscare la grande giungla del sistema fiscale. Il governo vuol arrivare entro la legislatura, senza creare ulteriore deficit, al varo di norme che consentano una graduale riduzione della pressione fiscale complessiva sulle famiglie e sulle imprese. Per le famiglie, soprattutto per quelle monoreddito delle fasce più deboli della popolazione, resta fondamentale l'obiettivo del quoziente familiare, che già si sta parzialmente realizzando in una rete di Comuni che va da Parma a Roma, con una revisione delle imposte locali e delle tariffe a favore dei redditi familiari. Per le imprese si è già cominciato a ridurre il carico dell'Irap, attraverso la manovra economica e le misure per lo sviluppo nelle Regioni del Sud. Sicurezza - Sono stati inferti tanti colpi alla mafia e a tutta la criminalità organizzata, e bisogna continuare speditamente il questo percorso di lotta senza tregua, destinando al Ministero dell'Interno, alla magistratura e alle forze dell'ordine le somme del Fondo unico di giustizia derivanti dal sequestro dei beni alle associazioni mafiose. Tali risorse dovrebbero essere quantificate in 2 miliardi e mezzo di euro entro la fine dell'anno. Mezzogiorno - Il consiglio dei ministri ha già approvato il piano per il Sud che si basa su una serie di interventi precisi quali: - la banca del Sud, in collaborazione con le Poste e con il sistema delle cooperative per il finanziamento delle piccole realtà imprenditoriali. - Fondi europei (Fas) concentrati su grandi iniziative strategiche. - Ponte sullo Stretto. - Completamento della Salerno-Reggio Calabria. - Zone franche urbane per le nuove imprese e per combattere la disoccupazione. Ora realizzare quanto previsto. Questi i punti programmatici, ma già prima di Natale verrà definitivamente approvata la riforma dell’Università firmata dal ministro Gelmini, che porterà i nostri atenei al livello degli standard europei e porrà fine allo strapotere delle baronie e della spesa facile e improduttiva dal punto di vista scientifico. Sullo sfondo, infine, resta il dossier sul nucleare. L’Italia ha un problema molto serio che riguarda l’energia, con un gap del 30-40% del costo per le imprese rispetto ai competitori. Se vogliamo ridurre il costo dell'energia, dipendere meno dall'estero e raggiungere gli obiettivi europei, dobbiamo procedere rapidamente con il nucleare, non abbiamo alternative. AURELIO GARRITANO