Fascicoloanoressiasavignano16 - Comitato Genitori Scuole

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Fascicoloanoressiasavignano16 - Comitato Genitori Scuole
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
15
LiberaParola è un centro multidisciplinare di psicoanalisi e psicoterapia che opera a Modena e
provincia ormai da diversi anni. In particolare, riunisce professionalità diverse: psicoanalisti,
psicologi, dietisti, medici e psichiatri collabora con le città della provincia per incontri divulgativi
aperti alla popolazione.
Fa parte del Progetto Ministeriale (Min. della Salute e Min. della Gioventù) Le Buone Pratiche di
cura nei Disturbi del Comportamento Alimentare. Questo progetto si propone di verificare lo stato
dell’arte dell’assistenza in materia di DCA, di promuovere azioni di sorveglianza finalizzate alla
conoscenza della reale entità del fenomeno e alla concreta traduzione delle indicazioni della
Commissione nei diversi territori, con lo scopo ultimo di elaborare un documento di buone pratiche
che possa costituire un punto di partenza per la costruzione di una riposta adeguata al bisogno di
cura dei pazienti affetti da DCA.
LiberaParola da anni si occupa di formazione e prevenzione sul territorio, organizzando seminari,
convegni ed eventi sulle nuove forme del disagio contemporaneo. Di seguito alcuni dei contributi
clinici realizzati dai membri della nostra equipe e da alcuni dei Relatori che sono stati nostri ospiti
negli anni, sul tema dei disturbi alimentari.
I documenti contenuti in questo fascicolo sono scaricabili gratuitamente in formato pdf sul nostro
sito.
03 Maggio 2016
Savignano sul Panaro
Materiale di approfondimento
Per info
www.liberaparola.eu
[email protected]
Tel. 059793901 Cell. 3474415461
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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Come tu mi vuoi
Un caso di bulimia psicotica.
Caso presentato alle assise del XIII Congresso della Scuola Lacaniana
di Psicoanalisi. 30 Maggio 2015. Ravenna
Scritto da Maurizio Montanari
Sara ha 24 anni. Si rivolge a me perché travolta dall’ennesima, inspiegabile, crisi di abbuffate e
vomito. Mangiare e rimettere, un biglietto di presentazione che lascia ben presto il posto ad un’
urgenza piu’ incalzante: c’è del nuovo nella sua vita affettiva. Dopo poche sedute accantona il
cibo, mettendo al centro del suo dire il suo ultimo incontro amoroso, una novità che la spiazza e la
interroga. Sino ad oggi ha avuto diverse relazioni con uomini, tutte accomunate da una
ripetizione: l’uso del sesso e del corpo come regolatore principale del rapporto. Dall’adolescenza
sino ad oggi, incontrare un uomo e non averci una ‘storia di sesso’ è sempre stato impensabile.
Questo non senza far precedere all’atto sessuale una trasformazione del corpo che poteva
richiedere diverso tempo. Prima di concedersi fisicamente, doveva diventare ‘bella per lui’. Senza
mai averne amato nessuno, ha nel tempo modellato il suo corpo per soddisfare le fantasie e le
pretese dei partner incontrati. La prima relazione significativa la ebbe a 17 anni con un istruttore di
fitness. A lui piacevano le ‘palestrate’, lei assecondò i suoi desiderata ingrossando il suo fisico con
pesante esercizio fisico e uso di steroidi. Per lo stilista diventa magrissima e ed emaciata, perdendo
circa 15 chili con una dieta drastica. Il problema alimentare, motivo di ingresso in seduta, trova la
sua collocazione : dai 17 anni in poi tutti i periodi di solitudine tra una relazione e l’altra sono stati
caratterizzati dall’insorgenza di vomito e abbuffate, che si affievolivano sino a scomparire allo
stabilizzarsi del rapporto. Riempirsi e svuotarsi segnavano il tempo della solitudine, durante il quale
il corpo si modificava senza un padrone. La penultima relazione è quella che la segna di più. Trova
lavoro presso un tatuatore, per piacere al quale degrada il suo aspetto fisico riempiendosi di
piercing e tatuaggi su tutto il corpo, viso compreso. Costui mostra aspetti sadici pretendendo
giochi erotici estremi e dolorosi, usando anche l’arma del licenziamento per ottenere il suo scopo.
E’ così che la incontro: tumefatta in varie parti del corpo con cicatrici da taglio, segni di infezione
di alcuni piercing. Il padre è una figura opaca. Ricorda il turbamento preadolescenziale di quando
la portava al campo nudisti mostrandosi fiero delle sue forme. Tutto il riconoscimento avuto da lui
passava per il corpo: ‘Cresci bene, guarda che bel sedere’ soleva dirle. Ancora: ‘ Fai vedere che
bel seno ti è sbocciato’, frase pronunciata davanti ad altri. Un rapporto ambivalente, erotizzato,
carnale, dai confini incerti. Un posto nell’altro da ottenere esclusivamente attraverso le misure. Dal
ricordo di una sua frase deduco che lei ne fu consapevole e cercò di porre un limite: ‘Papà, non
puoi dirmi queste cose!’. Una labile barriera che però non l’ha protetta da un sovrainvestimento
del suo fisico. Da quel tempo in poi lei diverrà puro corpo per il godimento dell’Altro. La madre non
si dimostrò capace di opporsi a quelle attenzioni, forse agite a sua insaputa, forse tollerate, questo
oggi Sara non lo sa. Ma si pone la questione. Fu tuttavia della madre il tentativo di instradarla agli
studi universitari, abbandonati al secondo anno. Ne parla come di una passione che nel tempo è
sfumata ( architettura). Ella sente il bisogno di essere, e lo dice con fermezza, ‘l’oggetto bello da
possedere’, frase che riassume la sola posizione conosciuta incarnando la quale trova il suo posto
in un rapporto a due, aderendo in maniera plastica all’immagine corporea che l’altro ha della
donna. Cosa è dunque oggi quel nuovo che la porta in seduta? Non certo le abbuffate,
compagne di una vita. Ha incontrato un uomo che la corteggia senza farle alcuna proposta
sessuale, né ha pretese padronali di cambiamento del corpo. Si frequentano per alcuni mesi, nel
corso dei quali si licenzia e lascia il tatuatore. Le chiede di sposarla, e di seguirla all’estero nella sua
attività lavorativa. Per alcune sedute porta il tormento di questa scelta, che poi fa, dicendo si ad
entrambe le proposte. Accettando compie un salto con poca rettifica, un passaggio all’atto *che
segna una discontinuità solo modale rispetto al cliché dell’oggetto di carne piacevole, ma
tradisce ancora la ricerca di un uomo al volere del quale assoggettarsi, stavolta senza modificare il
corpo. Un nuovo che le fa enigma: ‘ per la prima volta le crisi bulimiche ci sono anche mentre sto
con un uomo’( per questo le definì inspiegabili ‘ ad inizio colloqui). Un resto che non comprende,
abituata a vederle sparire una volta stabilizzata la relazione. Senza il corpo da modificare e offrire,
vestendo gli abiti del bell’oggetto, non si sente forse del tutto legata all’uomo. Non è tuttavia la
sorpresa per il perdurare del sintomo che la fa vacillare, ma l’inconscio. Sogna la vecchia
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cagnetta tanto amata tra le mani della madre, dalla quale lei si allontana in direzione opposta
tenendo per mano un levriero che la trascina, cane che lei detesta ( ‘finto, non mi piace, non mi
appartiene’). Si spaventa. Inizia a saltare le sedute, colpita da questa sorpresa con la quale non
vuole più avere nulla a che fare. Ma chiede di restare in contatto con me. L’inconscio rimanda dal
profondo dubbi e perplessità in merito alla scelta di vita che si appresta a fare. Lei non ne vuole
sapere, e chiude questo canale mentre prepara documenti per il matrimonio. Vince la sua ritrosia
a tornare in studio, da quel momento diventato il luogo ove l’inconscio ha parlato, per chiedermi
di esserci. Come farlo senza che si senta minacciata? Come tranquillizzarla sul fatto che nessuno
riaprirà ciò che lei non vuole aprire? Le dico che, comunque vadano il viaggio ed il matrimonio, lei
potrà sempre contare su di me, nella forma che vorrà: venendo in studio, telefonandomi,
scrivendomi. Questa plasticità di movimento, questo adattarsi alle situazioni privo di rettifica e
consapevolezza individuale, lascia pensare ad un caso di psicosi ‘bianca’, vale a dire , usando
una terminologia lacaniana, segno di un soggetto mancante di capacità di elaborazione, per il
quale l’immagine, la posizione, sono l’elemento che tiene unita ed ‘incollata’ la personalità. La
quale,
perso
questo
elemento
di
stabilizzazione,
è
a
rischio
scompenso.
Fisso la mia presenza di segretario stabile e non invasivo, custode del sigillo da lei apposto al vaso
di pandora, e mi smarco dalla sequenza di padroni incontrati. Questo la tranquillizza. Viene in
seguito a salutarmi pacificata, non in studio, nel quale non tornerà più, ma in una serata dedicata
ai dca, nel corso della quale mi ringrazia per il lavoro fatto e per averle dato la possibilità di tornare
a modo suo. Mi ha mandato dall’estero le foto del matrimonio. Corpo, parola e inconscio. Questi i
tre elementi che il soggetto porta in un’analisi. Grazie a Lacan so che la posizione di segretario può
essere funzionale e stabilizzatrice, permettendo al soggetto di portare solo i primi due.
* Il passaggio all'atto è antitetico all'acting out. Nel primo caso si sottolinea la estranetià, o
comunque la scarsa consapevolezza del soggetto rispetto ad azioni che tende a non riconoscere
come proprie. Nell'acting out invece abbiamo a che fare con azioni di ordine transferale, che
interpellano direttamente l'analista, e si prestano ad interpretazione. Lacan lo definisce un 'transfert
selvaggio', ' qualcosa della condotta del soggetto che si mostra all’Altro, un ‘ che, se ‘ha preso
quel posto, tanto peggio per lui.'
- i dati anagrafici, geografici e lavorativi del soggetto in questione, sono stati modificati in maniera
da renderlo irriconoscibile, in ottemperanza alla legge sulla privacy.
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Avere un corpo che parla.
Due note sul congresso della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi
Scritto da Maurizio Montanari
Corpi.
Di questo si parlerà il 30 ed il 31 Maggio al XIII Congresso nazionale della Scuola Lacaniana di
Psicoanalisi, a Ravenna. Corpi silenti, corpi smagriti e ingrossati. Tatuati, tagliati. Anestetizzati. In
cerca di padrone. Corpi frammentati. Diverse sale ospiteranno psicoanalisti e altre figure del
mondo della cultura, provenienti da tutta Italia , per discutere di questo tema: Avere un corpo
che parla. Domenico Cosenza, presidente della SLP, scrive che : ‘ E' la prima volta che il corpo è
assunto come focus tematico centrale in un Convegno della nostra Scuola. Anche se è vero che,
in fondo, nella psicoanalisi non si parla di altro che di lui, e che in ogni nostro convegno non
facciamo altro che tentare di dire quanto avviene nel nostro rapporto con lui. Rapporto misterioso,
indica Lacan, che non ha mai smesso di interrogare i pensatori, sia prima che dopo la fondazione
della scienza moderna, che con Cartesio ha introdotto la demarcazione tra la sostanza pensante
(res cogitans) e la sostanza estesa (res extensa), la problematica del loro rapporto, e con essa tutte
le aporie che la caratterizzano e che giungono fino a noi in forma riaggiornata al linguaggio dei
nostri tempi. (…) Al contempo, dedicheremo la nostra attenzione a trattare gli eventi di corpo che
l'esperienza analitica ci presenta nella nostra clinica, e che costituiscono un terreno di sfida nella
soglia somato-psichica in cui la parola introduce effetti nel reale del corpo. Interrogheremo il corpo
dell'isterica nella clinica contemporanea, da un lato per smentire la sua presunta scomparsa
dichiarata dai fautori del DSM già da tempo; dall'altro per provare a interrogarci sulle forme che
l'isteria sta assumendo oggi, e sulle metamorfosi del corpo e sintomi corporei che la riguardano. Al
contempo c'interrogheremo, in un dialogo con la medicina, sul corpo come luogo in cui alberga
un sintomo problematico nella sua decifrazione per l'l'eziologia medico-biologica, e che
incontriamo in analisi sia nella forma metaforica della somatizzazione che, non di rado, nella forma
‘letterale' e olofrastica del fenomeno psicosomatico. Daremo spazio anche al rapporto tra
psicoanalisi ed arte, cercando di mettere al lavoro la funzione del corpo come luogo d'invenzione,
attraverso la voce, il movimento, la messa in scena che il teatro rende possibile. Ci sarà da stimolo
per pensare al nostro tema del corpo parlante a partire dall'esperienza del teatro in cui il corpo
dell'attore si offre come luogo di enunciazione (……)Il primo asse è: Eventi di corpo nel transfert.
Cosa accade quando il corpo entra in gioco in modo massiccio nella cura, dal lato
dell'analizzante ma a volte anche dal lato dell'analista, attraverso la produzione di sintomi e
fenomeni che interferiscono, cortocircuitano, ma a volte costituiscono l'occasione di un passaggio
decisivo nell'esperienza del trattamento? Come leggerne lo statuto? Si tratta di sintomi che
funzionano metaforicamente, oppure di fenomeni che prendono più la forma di risposte del reale
fuori-senso? E' questo lo scenario che vorremmo fosse interrogato all'interno di questo asse
tematico grazie ai contributi che giungeranno.Il secondo asse è: Usi pornografici del corpo. Quali
funzioni esercita la pornografia nell'economia libidica contemporanea, alla luce di quanto emerge
dal discorso degli analizzanti che vi ricorrono? Cosa caratterizza i godimenti legati alla fruizione
compulsiva di materiale pornografico, che sono tra le vie al godimento più diffuse e di più facile
accesso, come ha messo in rilievo Jacques-Alain Miller di recente, nel mondo contemporaneo
grazie alla rete di internet? Il terzo asse infine è:Il corpo nell'immaginario e nel reale. Che rapporto
esiste tra l'immagine del proprio corpo e il godimento che lo abita? Cosa accade quando il
secondo entra in rotta di collisione con la prima o viceversa, per esempio nella clinica del
passaggio puberale in adolescenza? Come trattare in analisi l'emergenza di tale discordia tra il
registro narcisistico ed il reale della pulsione? ‘Io sarò li, non senza la mia esperienza personale. Fu
infatti un’ emergenza di corpo a condurmi in un luogo di analisi. Vale a dire un posto dove
inconscio e parole potevano liberamente circolare ed associare, il primo manifestandosi negli
intoppi e nei lapsus delle seconde. Reduce da un esperienza nella quale tutto era ridotto a puro
corpo, dove alla parola non era permesso toccare ciò che voleva. Fu il cuore ad allontanarmi da
li. Si rese necessario un terzo, quel terzo che in analisi non è contemplato, a meno che non sia il
corpo stesso che lo pretenda. Un medico del cuore. Quando il corpo successivamente trovò un
lettino , l’angoscia defluì. Il cuore cessò di fare male. La parola libera liquidò in poco tempo
l’esperienza passata e le costruzioni diagnostiche che la sostenevano. Fu un insegnamento valido
e doloroso, quello che ne trassi: non c'era alla base alcuna conversione, nè tantomeno parole
indicibili. Il corpo parlava, doleva perché le parole non potevano uscire, preda di un angoscia
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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'sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al nostro corpo’. Vincente Palomera scrive che
‘Se l'angoscia è sempre singolare, cioè quella di un soggetto preso nella sua parola singolare, il
modo migliore per affrontarla è pensare che ci sia una causa, dato che l'enigma di fondo
dell'angoscia è sempre il desiderio dell'Altro. (……) Se il soggetto non ha più questa bussola si vede
ridotto a essere solo un individuo-corpo, senza poter collocare il proprio essere, il proprio desiderio
e il proprio godimento in un legame con l'altro. Sorge allora il segnale dell'angoscia come segnale
di allarme che avverte di un pericolo incombente’. Un segnale che non ascoltai. Un fenomeno di
corpo dunque come segno di una censura della parola in atto, frutto di un equivoco: aver
scambiato per un luogo di analisi una dimensione nella quale erano piuttosto valide le parole di
Céline : ‘Credevo al suo corpo, non credevo al suo spirito’. Paradossale percorso, quello di iniziare
un'analisi con un sintomo analitico (sintomo più linguaggio), e ritrovarsi senza poter usare le parole,
sino al dolore fisico eletto ad unico attore della scena analitica. Tracce, ricordi del deragliamento
del dispositivo analitico che restano da mettere a frutto nella quotidianità della clinica.
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La bellezza autentica delle donne.
Corpi costruiti e parole non dette degli uomini
Il corpo delle donne, le parole degli uomini
Scritto da Maurizio Montanari
'Mia madre così conciata fa schifo!‘ 'La mia fidanzata si è fatta delle labbra orribili'.
Parole confessate in seduta, pudiche e vergognose di chi anela ad una donna senza gomma.
Queste donne tutte uguali, con seni abnormi impianti in corpi vecchi, con labbra mummificate,
Provocano riso e disgusto. L'uomo, il ragazzo, che non lo può confessare pubblicamente perchè
andrebbe contro il moto di omologazione corrente, ne ha ribrezzo. 'La mia ragazza sembra un
canotto. La professoressa rifatta è grottesca’. Con queste frasi gli uomini sottovoce, quasi con
senso di colpa e di 'inaudito e inconfessabile', mostrano in seduta la resistenza del soggetto
all'omologazione, e sentono una pesante vergogna della loro morigeratezza di costumi. Come si
può, in tempi di uomo debole, andare contro il canone comune di bellezza? Sono canoni
autocefali, autoreferenti. Un meccanismo bizzarro si è innescato nel tempo, forse dagli anni
ottanta, cominciando la produzione in serie di 'donne al silicone'. Non dice una bugia il chirurgo
estetico, sul quotidiano, quando afferma ' vengono nel mio studio con la foto di una soubrette di
20 anni, e vogliono seno e viso come il suo. E io che devo fare? Le accontento'. Le accontenta,
ponendosi come soggetto perverso ( chino alla volontàdell'Altro che ha stabilito il canone). Ma in
seduta, o forse davanti ad una birra con un collega, confessa il proprio orrore per certi mostri che
escono da suo studio. Il canone, il Singificante primario che oggi vige, non è , per ora, discutibile.
Lo vogliono i media, lo vogliono le mamme per le figlie. Lo vuole ‘l’azienda’. Cercare di scalare la
vetta di un industria, di una banca , senza il ritocco è 'impensabile, dottore'. L'altro vuole la donna
gommata. Ma, e qua sta la crepa nell'edificio, siamo su un piano puramente immaginario. L'Altro
vuole ed impone la bellezza gommosa, Ma l'altro, piccolo, l'uomo della città, lo schifa. Se lo cerca,
e qua si va in altra direzione inerente la sessualità, lo cerca in un transessuale, non nella propria
moglie. Lo cerca in qualcuno che lui reputa essere 'costruito' a priori, gommato dalla nascita,
ignorando completamente la drammatica e spesso dolorosa realtà interiore del transessuale.
Ecco che in questo cortocircuito, la bellezza autentica, si perde.
La donna non rifatta, libera dall'Altro, carina e senza trucco, attrae.
Ma non entra nel legame sociale. Non buca.
Anni fa il un famoso festival canoro venne 'condotto' da una donna molto bella.
Non ne ricordo il nome, ma ricordo che era priva di seno.
La prima cosa che disse in una pubblica intervista fu ' appena finito, mi faccio l'operazione'. Come
se il suo corpo, bello ed aggraziato, mancasse di qualcosa. Non reclamato dalla donna, ma dal
canone di bellezza del quale ella doveva bardarsi per fare carriera.
L'effetto paradosso è quello delle 'spalline'. Nel fulgore degli anni ottanta non era possibile entrare
in un negozio e non vedersi proporre un abito o un tailleur con le spalline rigonfie. A vederle oggi,
negli armadi, ci si chiede “ma come abbiamo potuto?”
Parlare oggi di 'bellezza autentica' è come discutere di ciclismo senza doping, o di pop corn senza
mais geneticamente modificato. E' un atto eversivo, rivoluzionario, contro corrente. L'uno per uno,
la soggettività distillata è, alla fine della fiera (termine azzeccato, perchè fiera del bene di
consumo che comprende oggetti quali bellezza, giovinezza e longevità) la via più intima e saggia.
Ma è discorrere di un fuori tempo. La morigeratezza dei costumi è anti moderna, anacronistica, ma
c'è. C'è nella sua evidenza a volte sintomatica, irriducibile. Ma omologarsi è più semplice, fa vivere
a tutti gli effetti in maniera più lineare, e consente di non accedere mai alla nostra cifra soggettiva.
Dr. Maurizio Montanari
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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Il corpo svelato
Scritto da Paola Bianchini
Il corpo svelato è ancora "il" soggetto dell'arte contemporanea. Da sempre il nudo invade il
nostro immaginario: la moda, come la pubblicità, il cinema, la letteratura e anche il design,
sfruttano le possibilità di comunicazione del corpo come linguaggio autoreferenziale. Da
questa identificazione, il corpo inizia ad essere indagato dando l’avvio ad una mutazione che
lo graffia e lo lacera, nel tentativo di ridurlo a domanda. Attraverso l’esperienza artistica si è
tentato dirispondere a questa domanda. Il loro lavoro oltre a mostrare l’evoluzione del corpo
mutato, offre nuove possibilità di creazione e di ideazione in cui le tecnologie sono veicolo e
strumento. L’artista dispone di una gamma allargata di possibilità, e può così ampliare il suo
campo di riflessione, usufruendo di numerose modalità di comunicazione della propria opera.
Il risultato è una comunicazione più complessa, o più completa, e dunque una diversa
fruizione, nuovi e diversificati stimoli, un nuovo punto di vista, una visione altra offerta al
pubblico. L’opera d’arte è dunque anch’essa sottoposta a mutazione, si trasforma in un
fenomeno ibrido costruito da una compenetrazione di linguaggi disomogenei.
Ogni forma d’arte è il tentativo di rispondere ad un'unica domanda: l’arte come forma di
duplicazione del reale è realmente il proprio doppio? L’arte è la concretezza, è il reale, è lì
davanti ai nostri occhi. Non c'è più niente da dire c'è solo da godere dell'abbaglio di questa
figura. Non è un richiamo alla non interpretabilità dell'opera quello che Catalani ci propone
ma, al contrario, proprio una via d'accesso alla sua comprensione. Lo slancio artistico non
consiste nel convertire l’immaginario nella dimensione del mondo, ma di convertire il mondo
nella dimensione dell’immaginario. Come ricorda Nietzsche: non deve essere l’arte ad imitare
la vita ma la vita l’arte e se non ci riesce tanto peggio per la vita.
Entrare nell’immaginario è operare una conversione nel mondo, nella dimensione di un altrove
che esclude ogni possibilità di essere qui. Sartre: la realtà non è mai bella, la bellezza è un
valore che si può riferire solo all’immaginario e che implica l’annichilazione del mondo nella
sua struttura essenziale. Non è quindi il corpo a diventare quadro, piuttosto il quadro è un
corpo, il corpo che nasce dall'atto della pittura, dal segno della creazione. La pittura è
generazione più che non sia costruzione, o forse meglio è generazione in quanto sa essere
costruzione, in quanto cioè sa attraversare i territori insidiosi della forma senza farsene catturare.
Il corpo della pittura è il risultato dell'avventura in questi territori estremi, ai luoghi di confine tra
ciò che è dipinto (la forma) e ciò che eccede ogni pittura (la vita). L'arte è frequentazione del
confine del nulla, del perimetro del vuoto: "la pittura comincia là dove l’artista non dipinge"
Questo confine, però, non si risolve in un appello alla smaterializzazione, in uno sconfinamento
nello spirituale, nel rinserrarsi tutto e solo nella dimensione mentale della creazione. Ai confini
del vuoto la pittura si manifesta, anzitutto (e in fondo sostanzialmente), come corpo.
La pittura, dunque, come corpo. Perché, anzitutto, la pittura nasce dal corpo, è gesto, atto
fisico. La forma dipinta è diretta espressione di una azione, risultato visibile di una sorta di
percorso del pittore attorno e dentro la superficie. La quale, dunque, prima ancora di essere
vista viene toccata. Letto in quest'ottica, il procedimento creativo è il risultato di un
investimento fisico ma, il gesto non si risolve in un fatto espressivo meramente istintuale quanto
in un fattore costruttivo, compositivo. Il corpo è, dunque, "pensante": è un corpo-mente. Ma il
corpo non appartiene alla pittura solo in quanto è il gesto a dirigerne la forma: è essa stessa a
darsi in quanto corpo, in quanto, cioè, pura presenza in sé risolta, forma vivente. E' un corpo,
quello della pittura , estremo, un corpo instabile che prende forma ai confini della sua
dissoluzione, è vuoto che si fa pieno, concretezza che nasce dalla energia della creazione. La
sua corporeità è affacciata oltre i limiti di sé, supera la soggettività individuale, nega il limite
(che del corpo è, quasi ontologicamente, sostanza) e si apre al mondo. Lo spazio del quadro
è estensione del segno, è tensione. Come se in questa nuova forma tutte le direzioni si
annullassero, non esiste più né alto né basso, né destra né sinistra, né avanti né dietro. Corpo
instabile, corpo-spazio che forza i limiti della gravità e della individualità, corpo come pura
presenza. E' un corpo in transito, sospeso tra il mondo delle immagini, delle figure, e quello della
loro cancellazione. Un corpo, immerso nel divenire. Il corpo, come ci ricordava Foucault, è
oggi il luogo dove il potere si esprime e dove esercita la maggiore repressione, quella più
insidiosa, trasversale, nella normalità della vita e in ogni luogo del pianeta. L’esercizio di questo
potere assume dei toni molto violenti, come nella patologia alimentare: il corpo reale e il
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corpo ideale divengono il teatro di questo scontro. Ma non abbiamo a che fare con il corpo in
senso stretto, né con il cibo. Il rapporto, è piuttosto, tra il corpo pensato e il cibo pensato. La
dimensione ideale è ciò che giustifica l’esperienza reale. Il procedimento è di tipo platonico in
una sorta di scarnificazione della realtà, del corpo per tentarne un recupero nel piano ideale.
Ma, per operare la trasformazione del reale in ideale, questi ragazzi eliminano quei tratti che
fanno della vita la vita, sacrificando in nome di una più elevata rappresentazione, quelle
impurità sensibili che costituiscono la ricchezza dell’esistenza. Il loro congedarsi dalla vita, il
ritirarsi in una stanza può contenere un potenziale critico e rappresentare l’ingresso in una
dimensione utopica, in cui il mondo potrebbe essere diverso da come è. La distillazione di
essenze, (come diventa il loro corpo) di forme apparentemente astratte da un mondo che si
vuole fuggire, può essere visto come il tentativo di andare al di là di una condizione divenuta
intollerabile. La segregazione è volontà di potenza, un volere-al-di-là-di-sé, che fagocita
continuamente vita, andandole bramosamente incontro, per poi allontanarsene. L’affollata
moltitudine di riti a cui questi pazienti si sottopongono, è il risultato del loro avvicinarsi alle cose,
agli affetti, al mondo, per poi prenderne congedo. Tuttavia il congedo ottenuto, non ha l’
effetto sperato: la sintesi superiore non ha ricostruito l’intero sperato, ma al contrario, ha
rimandato potenziandola una mancanza di sé e del mondo. Una nostalgia della vita che nel
suo allontanamento non ha lasciato spazio per operare un distanziamento: avere un mondo è
qualcosa di più del semplice essere al mondo. Tutte le cose sono al mondo, ma il corpo è al
mondo come colui che ha un mondo, come colui per il quale il mondo non è solo il luogo che
lo ospita, ma anche e soprattutto il termine in cui si proietta. Al limite possiamo dire di essere al
mondo solo perché siamo impegnati in un mondo. L’esule, ha smarrito la dimensione abitativa
del mondo, della patria come destinazione e come progetto; l’io diviene il luogo di una lotta
incessante, verso un esodo dall’identità senza ritorno. Sono “Corpi in cerca d’autore”. A chi
corrisponde un corpo, quale è l’immagine interna che se ne ha, la percezione esterna, chi
incontriamo, chi escludiamo attraverso di lui? Certo è che il corpo può divenire un nemico, di
contro, un alleato potente per difendersi dal mondo, un rifugio o un carcere. Comunque si
mettano le cose, rimane un concetto problematico, nel senso di rimandare ad un rapporto
altro da quello che semplicemente si mostra nella sua definizione. Il corpo non è
semplicemente un corpo, come ricorda Galimberti: il mondo è tutto riflesso nel sguardo del mio
corpo e lo sguardo del mio corpo è tutto fuori di sé, ospitato dal mondo. In tal senso, è ancora
l’arte a lanciarci una sfida, è ancora l’arte ad indicarci una nuova visione del suo rapporto con
il mondo, il limite , il confine insuperabile tra il visibile e l’invisibile che la pittura i , con i suoi corpi
sospesi e tracciati, mirabilmente delinea.
Dr. ssa Paola Bianchini, Associazione mi fido di te. Centro Disturbi del Comportamento
Alimentare Palazzo Francisci, Ausl 2 Umbria
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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I sintomi? A volte nascondono qualcosa di peggio
intervista del Dr. Maurizio Montanari
Si pubblica l'intervista del Dr. Montanari apparsa il 31-03-2011 sul giornale ModenaQui.
«I sintomi? A volte nascondono qualcosa di peggio» Presto un convegno sui disturbi alimentari
al maschile. «L’emergenza della domanda di un soggetto che soffre di disturbi del
comportamento alimentare, implica una mobilitazione di risorse e di competenze che devono
sapersi
costituire
in
rete
in
maniera
stabile
e
continuativa
nel
tempo».
E’ la multidisciplinarietà dell’intervento, è il punto oggi imprescindibile secondo il dottor Maurizio
Montanari referente area psicoterapia del Centro di Psicoanalisi Applicata LiberaParola che ha
deciso di intervenire a proposito dell’importante problema: «La soluzione passa per una
disponibilità all’ascolto preceduta da una rigorosa divisione delle competenze tra medici spiega Montanari - nella maggioranza dei casi, infatti, la prima richiesta d’aiuto, che non
necessariamente contiene una domanda di cura, viene portata al medico di famiglia, il quale
deve possedere strumenti ben tarati ed affinati per valutare l’effettiva presenza e l’entità del
disturbo dell’alimentazione».
«In questa prospettiva parere e la presenza del nutrizionista è d’obbligo in quanto è a questa
figura che si chiede e si demanda una valutazione dei parametri corporei del soggetto che
chiede aiuto - continua Montanari -. Oggi infatti i parametri per definire i Dca sono oggetto di
costante discussione: la diagnosi dell’anoressia nervosa è definita in modo scientifico: si calcola
però che dal 40 al 60% i pazienti con disturbi del comportamento alimentare non soddisfino i
criteri diagnostici e questa indeterminazione appare potersi tradurre in una prognosi più
problematica». «Secondo i più recenti studi esistono almeno due ‘anoressie’: quella nevrotica (
ad es isterica) e quella psicotica. Nel primo caso infatti , lavorando sul muro eretto dalla
paziente anoressica e rivolto all’Altro, è possibile creare una breccia che porti l’individuo a
pacificarsi con le sue questioni interiori, e dunque tornare ad un peso accettabile, togliendo al
cibo valenze accessorie. Nelle psicosi, invece, specie quelle compensate, il corpo magro
funge in molti casi da elemento di ‘tenuta’, reperito e rinforzato per evitare scompensi più
profondi e gravi, dovuti per l’appunto a strutture psicotiche non deflagrate».
I disturbi del comportamento alimentare che interessano il mondo maschile sono invece un
fenomeno più recente, ancora poco studiato. Ed è proprio per questo che il Centro
LiberaParola, associazione modenese selezionata ed inserita nel progetto del Ministero della
Salute ‘ Le buone pratiche nella cura dei dca’ ha preparato una serie di incontri a Modena
(‘La psicoanalisi senza lettino’ )per sviscerare tali tematiche. Incontri patrocinati anche
dall’Ordine dei Medici e dal Comune di Modena. Il primo appuntamento è per il prossimo 24
maggio: in quella data sarà presente la dottoressa Laura Dalla Ragione, referente scentifica di
tale progetto per il Ministero , che parlerà del suo libro ‘Giganti d’argilla.
I disturbi alimentari maschili’.
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
15
Omologazioni. Il tempo delle differenze sfumate
Interrogando la bellezza
Scritto da Francesca Brencio
Parlando di bellezza, una delle prime cose a cui questa è associata è il corpo. Si parla di un bel
corpo, di un bel viso, di una bella voce. Poi, magari, e solo alla fine, anche di una
bella testa, una bella anima, una bella persona. Così facendo si ha l’impressione che non solo i
fattori concreti, materiali, siano quelli che maggiormente impressionano chi ci circonda – e la
cui opinione nel bene e nel male va a toccare il nostro essere profondo, la sostanza più intima
che ci costituisce – ma anche che “la bella testa, la bella anima e la bella persona” giungano
solo alla fine, cioè dopo innumerevoli altri apprezzamenti, quasi a mo’ di sommatoria. Appare
così evidente che bellezza e corpo procedano in modo inscindibile, siano uniti, interconnessi,
perché la bellezza per essere detta (predicata, cioè) necessita sempre di qualcosa a cui
ancorarsi, aggrapparsi, manifestarsi. Eppure oggi viviamo in un’epoca in cui c’è una
confusione disarmante non solo sulle categorie estetiche ma anche su quelle che dovrebbero
aiutarci attraverso l’estetico ad avere un buon rapporto con la nostra identità e con la
conseguente relazione con l’altro. Spesso la bellezza si confonde con la voluttà, con l’appetito
desiderante, con il desiderio sessuale, con ciò che può far vivere la nostra relazione con l’altro
in termini di appropriazione ed espropriazione di sé. Mi sembra che in questo procedere che
grossolanamente pervade ogni campo della vita sociale – sia nella dimensione pubblica sia in
quella privata – ci stia facendo perdere di vista (e di senso) il significato delle categorie con cui
dovremmo avere dimestichezza. Non solo: tale confusione vorrebbe essere sanata a partire da
un’omologazione diffusa di ciò che la bellezza e la corporeità – laddove la prima si debba
riferire all’altra – dovrebbero significare. Da qui canoni di bellezza e di corpi, di desideri e di
relazioni che si propongono come maschere ben costruite e ben organizzate per far sentire l’io
al sicuro nel mondo, per incasellarlo in cornici prestabilite e per offrirgli la possibilità di essere
sempre all’interno del bello e non sulla soglia della bellezza. I filosofi, si sa, sono gente scomoda
perché non si accontentano delle risposte predefinite e perché hanno la “santa” velleità di
pungolare con una giusta dose di critica tutto il mondo, a partire da se stessi. Proprio per
questa tentazione del domandare – che incalza anche la scrivente – mi viene da osservare
che l’uomo, proprio perché è un essere finito e un essere delle lontananze, non può né potrà
mai abitare a pieno titolo il regno del bello, ma solo rimanere sulla soglia, avanzando e
retrocedendo da essa a più riprese, ma mai abitarvi in modo compiuto. In termini
estremamente pragmatici ciò significa, a mio avviso, che ogni canone di bellezza perfetta, di
corpo perfetto, di desiderio perfetto è in sé fallace, errato, arbitrario e per questo debba essere
osservato come un paradigma di esistenza inautentica, appunto perché addita all’uomo un
mondo, un cliché, un ideale che non solo non è perseguibile fino in fondo, ma soprattutto
perché induce l’uomo a smarrirsi in un mondo non sua attraverso il continuo additare un telos
da raggiungere; così l’uomo perde di vista se stesso, in un’insana dialettica fra fine e stato, tra
tensione e permanenza, fra voler essere ed essere. L’omologazione offerta, come risposta ad
una domanda più o meno esplicitata – “sono bella? Chi mi desidera?” – si configura quindi
come la risposta più comoda, veloce ed a portata di mano, abbastanza persuasiva e
applicabile a larga scala. Per dare fondatezza a questo nostro pensare insieme vorrei riflettere
brevemente sulla nozione di corpo e cercare di significarla in un orizzonte di autenticità, di
senso – nella consapevolezza della relatività che il senso assume a partire dalla propria
esperienza di vita (come insegna Nietzsche, i fatti non contano, è il significato che diamo ad
essi che conta). spirituale per eccellenza, affermazione questa che alla luce della diffusione
della fenomenologia francese trova la propria ragion d’essere nell’implicito passaggio fra il
corpo e ciò che esso significa per me, per la coscienza, per l’io che si interroga su quale
significato il corpo ha in chi lo percepisce e se ne interroga. Nell’interrogarsi sul corpo,
l’interrogante si pone la domanda su di sé, poiché la distanza fra il mio corpo e me è assente. Il
corpo come sostanza spirituale significa semplicemente la mia totale presenza in questo
mondo, il mio esserci, il mio essere questo mio corpo con tutto ciò che esso può veicolare
all’esterno. Il corpo non è un di più che si aggiunge a me, sono io: io sono questo mio corpo
che respira, che parla, che si muove, che gioisce e che soffre. Sono questo mio corpo nella sua
singolarità splendida e nella sua meravigliosa manifestazione. Io sono il mio corpo, non un
corpo che non mi appartiene, io sono la presenza di questo corpo nel mondo nella sua totalità
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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e nella sua manifestazione. Io sono non solo il mio corpo organico (Körper), ma il mio corpomondo-vita (Leib) ciò che pulsa e si manifesta attraverso me e per me. Io sono il corpo che uso
nel mio fare, nel mio agire, nel mio operare, nel mio stare. Ecco perché giustamente il filosofo
tedesco Edmund Husserl dice che il corpo è la mia presenza, nel senso di ciò che la
fenomenologia indica: è apertura originaria, che precede ogni distinzione fra soggetto ed
oggetto. Il corpo non è solo segno (cfr. filosofia antica, Platone e Aristotele) ma è presenza che
non solo si trova nel mondo ma dischiude un mondo, il mio mondo, poiché esso ed attraverso
esso si pone in essere l’identità fra corpo ed esistenza. Proprio alla luce di questa individualità
che il mio corpo possiede e di cui io stessa sono investita, ogni tentativo di omologarlo ad altri
corpi, significa omologarlo ad altre identità, spogliare la mia specificità, la mia esistenza per
renderla conforme a canoni di fisicità e di corporeità preesistenti, che non mi appartengono,
che non sono la mia storia, il mio mondo, la mia persona. Sì, perché ogni corpo possiede la
propria storia e come tale è ciò che più è “mio”, che mi riguarda da molto vicino. Quando
scelgo di dare al mio corpo una forma, un significato che non mi appartiene, che non sono io,
tradisco me stessa, vengo meno ad una delle fedeltà più radicali di tutta la mia storia. Non
solo; una riflessione ulteriore è questa: quando mi soffermo sulla possibilità di assumere come
corpo quello di qualcuna che non sono io (e quindi rinunciare alla forma, al colore della pelle,
alle dimensioni delle forme, ecc.) perché lo faccio? Perché non mi piaccio abbastanza?
Perché non piaccio abbastanza? Perché non mi sento abbastanza desiderabile e quindi non
accettata dalla porzione di mondo che vivo? – per esprimermi con Rilke. Queste domande
aiutano a mettere a fuoco che dietro alla percezione del proprio corpo (e della sua bellezza –
su cui rifletteremo a breve) si staglia in filigrana una domanda ancora più profonda e più
radicale: quella sul desiderio e sull’altro, sia nella loro dimensione singola sia in quella
relazionale. Il desiderio: credo sia una delle dimensioni più interessanti dell’uomo, una delle
categorie (almeno a livello filosofico) che caratterizza l’uomo a livello ontologico – cioè,
indirizza l’uomo a diventare ciò che egli vuole. Il desiderio non è il desiderare un oggetto:
spesso vi è confusione fra desideri e desiderata (gli oggetti del desiderio); il desiderio è in sé
tensione, pulsione, spinta, impeto, slancio, più o meno consapevole e reso tale dalla dinamica
psicologica del soggetto. Tutti noi desideriamo e ogni nostro desiderio tende ad un oggetto,
ad un orizzonte. Nel nostro desiderare poniamo in essere uno slancio verso la vita, diveniamo
soggetti in grado di sfruttare molte delle nostre potenzialità. Il desiderio non solo ci slancia verso
il desiderato, ma ci mette anche nella condizione di nutrire speranza e di farci percepire come
il colore ultimo del nostro essere sia la speranza – come dice Edmond Jabès, l’uomo è l’essere
della speranza!
Cosa accade quando ciò che desidero non è raggiungibile? Cosa accade se più che
desiderare non mi sento desiderata? Come entro io – con questo mio corpo nell’immaginario
dell’altro (chiunque esso sia: sia come singolo sia come società)?
Il filosofo francese J. P. Sartre ne L’essere e il nulla afferma che il corpo è la sostanza. La
questione si fa complessa e merita di essere dipanata con chiarezza. Se ciò che desidero non è
raggiungibile, ciò crea in me frustrazione, rabbia, malinconia, tristezza.
Posso convertite questi stati d’animo produttivamente interrogandomi sull’oggetto del mio
desiderio e verificare se esso sia davvero ciò che mi inclina autenticamente ad esistere nel
mondo, oppure se mi allontana da un orizzonte di autenticità per andare verso un altrove di
cui io stessa non conosco la forma, il senso, il costo. Nella misura in cui il mio interrogarmi viene
reso cieco dalla brama di raggiungere il mio desiderato, sono disposta a tutto, persino a
distruggere piuttosto che a costruire – penso ai DCA e alle forme di depressione più o meno
severe che spesso si annidano dietro di essi. Non solo: il mancato raggiungimento di un oggetto
desiderato mi può far credere che io non sia desiderabile e quindi non desti attenzione ed
amore nell’altro. Sì, perché ogni nostra richiesta è sempre in direzione della sfera emotiva, di
una richiesta di amore, di presenza, di cura. Ogni mia richiesta di attenzione diverrà allora tutta
tesa a soddisfare le pretese dell’altro, le aspettative, le sue volizioni. E sarò persino disposta a
fare in modo che questo corpo diventi il corpo dell’altro: uso proprio il genitivo in funzione
soggettiva, cioè come l’altro vuole che esso sia. Non solo affidiamo ad un altro (che non sono
io) la funzione, il ruolo, la prerogativa di farmi essere come lui mi voglia, ma siamo persino
disposte snaturare l’armoniosità del nostro essere per gratificare le volizioni altrui in vista di
ottenere la risposta alla nostra affettività. Dal mio punto di vista ciò è fatale, a più livelli. Mi
preme sottolinearne almeno due: da un lato, affidare all’altro (fidanzato, compagno, marito,
amante, società, immagini di copertina, donne famose, ecc.) la possibilità di modellarmi a sua
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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immagine e volizione, espropriando me stessa del mio essere soggetto critico, dotato di giudizio
e capacità di riflessione, divenendo argilla modellabile a seconda del mio vasaio e per questo
espropriata della mia identità e della mia personalità; dall’altro, credere che seguire un
modello plastificato e preconfezionato come se ne vedono in giro possa gratificare gli appetiti
erotici e volitivi di chi ho accanto, pensando ancora erroneamente che l’oggetto del desiderio
che attrae il sig. A, sia valido per tutto il resto del mondo. Nella misura in cui una donna cede a
questi pensieri trasformandoli in criteri da seguire, in obiettivi da raggiungere, in interventi
chirurgici da dover/voler affrontare, questa donna cessa di essere nel mondo per diventare
una copia di un’idea, di un suo ideale, di una sua fragilità che viene esorcizzata nell’assumere
l’aspetto di un’altra. Io smetto di essere me stessa per diventare l’altra che vedo e che vedo
essere apprezzata, stimata, desiderata, voluta. C’è una cessione della propria identità – se è
vero ciò che abbiamo detto prima, cioè che io sono il mio corpo – che avviene attraverso la
modificazione del proprio corpo. Forse la strada più corretta credo sia quella di non
demandare all’altro (sia come singolo maschile e femminile, sia come collettività) il potere di
dire chi io debba divenire, ma scegliere io stessa il mio proprio desiderio e seguirlo e perseguirlo
alla luce di una profonda ed autentica realizzazione di me stessa. Forse così facendo, ogni
donna potrebbe riprendersi il proprio corpo senza scendere a patti con le ossessioni più o meno
taciute che abitano nella propria anima, osservare le proprie fragilità e trasformarle in punti di
forza piuttosto che soccombere ad essi come ombre che risucchiano il proprio essere.
Ultima questione che vorrei pensare insieme è proprio quella della bellezza, che è il vero tema
che si nasconde dietro la ricerca di una fisicità e di un corpo che vogliono dirsi bello.
La bellezza: cos’è? Credo che intendersi su ciò sia il passo essenziale per ogni discorso intorno
ad essa. Mi sembra evidente che oggi la bellezza sia confonda con la voluttà, con
l’appetizione erotica, con il desiderio sessuale. Forse questo concetto di bellezza è figlio dei
tempi che viviamo dove il corpo, uno dei primi segni che la dovrebbe comunicare, è sempre
segno di un’appetizione erotico-sessuale. Eppure la storia del pensiero insegna che la bellezza
è stata sinonimo di grazia, di redenzione, di pienezza. Ha assunto la sembianza dell’armonia
per poi passare addirittura al suo opposto. Già a partire dall’antichità greca il bello era
accostato al vero e la buono, andando a creare una vera e propria trilogia di attributi. Il bello
è ciò che riscatta, ciò che redime, ciò che restituisce il senso al frammentario, al caduco, al
negativo. Il bello è ciò che dovrebbe innalzare l’uomo: non è un caso che fino al primo
romanticismo vi era una vera e propria educazione al bello e molti trattati di estetica
vertevano intorno al concetto di bello. La bellezza allora passava attraverso il sensibile
(attraverso il sensoriale) ma per elevarsi al trascendente e allo spirituale. Oggi sembra smarrito il
senso di cosa il bello possa rappresentare. Spesso ho sentito citare la famosa frase che
Dostoevskij mette in bocca al principe Myskin nell’Idiota estrapolandola completamente dal
suo contesto per veicolarla ed “appiccicarla” come un adesivo un po’ a tutto quello che ci
circonda ed allora “funziona” dire che la bellezza salverà il mondo, ma poi cosa significhi ciò
concretamente il più delle volte non si capisce e meno che mai si dice che in quel contesto
Dostoevskij pensava a Cristo. A mio avviso la bellezza è la traccia di un’assenza più che il segno
di una presenza; è un rimando, un accento, un movimento che – come in musica – rende
armonico un accordo. Non credo che la bellezza possa essere definita via adfirmationis,
quanto via negationis: mi sento più a mio agio nel dire come non debba essere, quali forme
non debba assumere, quali toni non debba vestire. Spesso quando sono in difficoltà con i
concetti ricorro a chi mi riporta con i piedi in terra e mi aiuta a capire: mio figlio. Può sembrare
assurdo andare a scuola da un bambino, invece credo che dai bambini vi sia molto da
apprendere. Fu proprio lui, qualche tempo fa a darmi la definizione più calzante di bellezza,
riferita alla sua fidanzatina, quando disse: “è bella perché è piena di luce”. Bella perché piena
di luce: radiosa, luminosa. Il bello nel suo immaginario è connesso al luminoso. Credo che un
po’ di verità ci sia nelle sue parole: il bello in qualche modo illumina, apre, squarcia il velo di
buio e pesantezza che siamo soliti vedere intorno. Se non vi fosse la luce, non conosceremmo
che la notte e tutto sarebbe un continuo vivere in essa. La bellezza, in tal senso, credo che
possa davvero aiutare a vedere, illuminando può fornire nuovi paradigmi di comprensione del
reale. Mi preme tuttavia sottolineare una questione: la bellezza non è mai immune da un
residuo di negativo, di buio – per rimanere ancora nella dialettica luce/buio. La bellezza deve
saper attraversare il negativo della vita e ritornare in essa dopo aver attraversato la
disperazione stessa. Rimbaud afferma nell’incipit di Una stagione in Inferno: “Una sera ho
incontrato la bellezza, l’ho fatta sedere sulle mie ginocchia e l’ho trovata amara e l’ho
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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insultata”: cosa significa? Credo che voglia dire proprio questo: non vi può essere autentica
bellezza se non nel segno della finitezza, del nostro essere finiti, di un negativo che deve essere
sempre oltrepassato e su cui siamo chiamati ad interrogarci, di un’inquietudine che diviene
bella proprio perché superata e superabile nel nostro vivere. Lo scacco della bellezza, che ci
mette sempre sulla soglia del suo regno, è proprio in questa nostra costituzione originaria: non
possiamo presumere o ambire ad accedere ad essa in modo pieno, perché non siamo esseri
destinati a saperne portare il peso. L’uomo è il segno di un’assenza per questo egli desidera la
bellezza, per questo la va ricercando con smodata mania ovunque. L’unica bellezza che
possiamo sopportare è quella che si traduce nella nostra vita, che prende forma in essa. Forse il
concetto greco di eudaimonia ci aiuta a comprendere quel che intendo: esso non indica
felicità, ma è ben-essere, stare bene con il proprio demone, scrive Epicuro al suo amico
Meneceo. Stare bene con se stessi, diremmo noi oggi. Stare bene con il proprio corpo, stare
bene con la propria anima (Epicuro lo chiamava demone), stare bene con il proprio tempo da
vivere in modo consapevole e non schiumoso. Eudaimonia come pharmakon contro
l’omologazione, contro la ripetitività, contro un in-sano rapporto con l’altro. Forse davvero dal
monto antico riceviamo le risposte agli interrogativi dei tempi odierni: in fin dei conti, per loro la
filosofia non era una disciplina da accademia o da congresso, ma pratica filosofica, pratica di
vita, esercizio quotidiano del corpo e della psiche. Vorrei chiudere questo nostro incontrarci
con un passo di un testo a me estremamente caro, che dice così: “La più nobile specie di
bellezza è quella che non trascina a un tratto, che non scatena assalti tempestosi e inebrianti
(una tale bellezza suscita facilmente nausea), ma che si insinua lentamente, che quasi
inavvertitamente si porta via con sé e che un giorno ci si ritrova davanti in sogno, ma che alla
fine, dopo aver a lungo con modestia giaciuto nel nostro cuore, si impossessa completamente
di noi e ci riempie gli occhi di lacrime e il cuore di nostalgia” (F. Nietzsche, Umano troppo
umano).
Phd Dr. Francesca Brencio
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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L’ALTRO CHE CI AMMALA E CI GUARISCE
Scritto da Maurizio Montanari
PIU’ SANI, PIU’ BELLI. PIU’ PAZZI
Due anziani signori salutano dal cartellone pubblicitario mentre si godono l’assolato panorama
di una spiaggia sudamericana nella quale sono arrivati grazie ad un premio della loro formula
assicurativa. Non meno vivaci della coppia di pensionati che fiera mostra una dentatura
indistinguibile da quella dei loro nipoti. La pubblicità che accompagna le nostre giornate, il
linguaggio del capitalismo contemporaneo ( un Altro più conservatore per alcuni aspetti del
neo liberismo anni ottanta), testimonia di quanto il concetto di salute fisica si sia modificato e
dilatato nel corso di poche generazioni. Dai manifesti che ci accompagnano al lavoro e lungo
la via delle vacanze, sono scomparsi gli acciacchi, gli anziani stanchi, a riposo. Un vigore fisico
innaturale sembra essersi impossessato di quella che era chiamata ‘terza età’. Una
generazione fa le medesime insegne spronavano a consumare in maniera indiscriminata beni
che oggi sono pressoché banditi, visibili a mala pena nelle pubblicità serali da fascia protetta.
Alcolici e superalcolici, sigarette di ogni tipo: viatico necessario per una vita migliore, più
completa. Il godimento attraversava i media in maniera trasversale e garantiva uno status
sociale, un posto nell’Altro che ancora non si era scoperto cagionevole di salute e pertanto
salutista. Solo nelle fasce serali, di solito nelle emittenti locali, gli anziani riprendono il loro posto
di vecchi: vasche con apertura laterale, trabiccoli elettrici per deambulare a andare a fare la
spesa, case di riposo medicalizzate e, finalmente, prive di piscina o istruttori di fitness,
apparecchi per l’udito. Nelle sue basse frequenze la lingua dal capitalismo riprende i vecchi
codici per i vecchi consumatori, ma in modo quasi cifrato, seminascosto. Quel che prima era
ostentato, ora si irradia come i messaggi di Radio Londra: si dice a chi deve sapere, che sa
quando sintonizzarsi, senza che si faccia troppo rumore. La società del capitalismo avanzato
ha compreso che il consumatore, per restare tale ad libitum, deve rimanere il più possibile in
salute. Da qui la deaceffeinizzazione della pubblicità. Messaggi goderecci di aperitivi,
tabacchi nazionali senza filtro, salumi piccanti, dolciumi per bambini, sono stati attraversati da
un’opera di bonifica ed epurazione dalle forme più vistose del godimento. Le etichette della
birra ammoniscono a berla con moderazione o, in alternativa, ne decantano le virtù
analcoliche. La scatola di sigarette ha inciso il monito ‘memenot mori’, ricordando che il
godimento può uccidere. Il dolce, un tempo portatore di zuccheri, è ‘light’. La Cola, della
quale mai nessuno ha conosciuto gli esatti ingredienti, si è autodefinita ‘diet’, con implicita
ammissione di essere stata un tempo calorica. Il pane è privo di qualcosa, i succhi di frutta
mancano di quel tale additivo. Gli insaccati sono senza polIfosfati aggiunti’. Mancano cioè di
un quid che veniva aggiunto di default, sino a considerarlo nativo del salume. E oggi che lo si
vende al suo stato naturale, si evidenzia la mancanza di ciò che era aggiunto artificialmente. Il
latte manca di lattosio, senza che mai qualcuno si fosse premurato di annoverarlo tra i suoi
componenti principali. Interi reparti del supermercato sono zeppi di ingredienti che si
connotano in chiave di non : non hanno questo, sono privi di quell’altro. E il tutto, per garantire
una miglior salute, un’assicurata longevità, un po’ di godimento in meno. Questo per una
generazione che dovrà mantenersi il più possibile magra, depurata , vispa grazie agli omega
tre, rimpinzata di calcio che allontana sempre più la decalcificazione ossea relegandola al
momento della sepoltura. Leggera, con intestino libero e adesivo per la dentiera sempre in
tasca. Si tratta di un paradosso solo apparente : il neo capitalismo con le stive zeppe di oggetti
e beni, ha bisogno di uomini che vivano più a lungo e dunque possano consumare sino a 80
anni. Parafrasando uno slogan di un celebre gruppo musicale ormai non più in auge: produci,
consuma ( tanto), crepa ( il più tardi possibile). Magri, liftati, attivi e tonici con carta di credito:
questi figuri hanno scalzato i nonni dalle loro seggiole di legno, sostituendo bastone e pipe con
mazza da golf e sigaretta elettrica. Ma cosa ha preso il posto degli acciacchi fisici? Come il
capitalismo contemporaneo si sostiene, continuando in quell’opera di saturazione di quel
vuoto che deve saper mantenere tale, per poter vendere gli oggetti con l quale saturarlo?
Parallelamente a questa opera di bonifica del godimento culinario, tabagistico e lipidico che
ha prodotto una generazione di corpi magri e tonici, assistiamo oggi ad una bulimia psico –
farmacolgica. L’incremento esponenziale dell’uso di psicofarmaci , specie antidepressivi ed
ansiolitici, costituisce la diversificazione della modalità di penetrazione del capitalismo in un
mercato ormai saturo degli oggetti consueti. Le pillole per la mente sono il mezzo attraverso il
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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quale si dovrò curare l’ondata di nuove ‘malattie mentali’ che il DSM e Big Pharma stanno per
imporre a livello mondiale. Nel DSM V, ultima edizione del celebre ‘manuale statistico e
diagnostiche delle malattie mentali’, le patologie saranno triplicate rispetto alla prima edizione.
Dunque, più sani, più pazzi? Per meglio capire verso quale via mercantiliza ci stiamo avviando,
basti un esempio. Nei villaggi artigiani delle grandi città, si trovano magazzini particolari. Non
sono centri commerciali, e nemmeno discount. Sono luoghi di stoccaggio di merci per le
stagioni ancora da venire. Ai primi di Settembre, all’interno di uno di questi mastodontici
capannoni, ho visto tutto quello che ci sarebbe servito per il natale prossimo venturo.
Confezioni regalo, babbi natale che si arrampicano fabbricati in zone remote della Cina.
Fuochi di artificio provenienti dal Vietnam .Con le loro forme, le loro scansioni di esplosione già
previste e predeterminate da chi li ha progettati e confezionati. Lo stesso discorso vale per le
collezioni autunno inverno delle marche di abbigliamento, già pronte ed accatastate in grandi
magazzini una stagione prima. I colori, le stoffe e il taglio di cappotti per i quali ci saremmo
messi in fila perché ‘di nostro gusto’, già erano intagliati a nostra insaputa. Mi si dirà che in
questo campo, non ci può essere alternativa alla diffusione di modelli che devono essere
disegnati con largo anticipo e ai quali, al netto delle nostre preferenze, ci dobbiamo
giocoforza adeguare. A meno di non costruire ciascuno il proprio abito. La costruzione del
‘proprio abito’, del proprio punto nel mondo rispetto all’Altro, è esattamente ciò che la
psicoanalisi cerca di mettere in luce. E’ quel ‘soggettivo irriducibile’ che, in nuce, costituisce il
motore di ogni singolo individuo nel legame sociale. Un irriducibile che confligge, per sua stessa
natura, con la standardizzazione e l’omologazione. Quando Big Pharma progetta e mette in
cantiere un nuovo psicofarmaco, già ha in mente verso quale patologia esso è indirizzato. E se
questa patologia non esiste, tale da modificarla e frazionarla in mille altre micro malattie, la si
crea ex novo. Camminiamo dunque su questo doppio binario: da un lato L’Altro che vuole
preservare la nostra salute fisica ma al contempo ci ammala. La predeterminazione delle
modalità consentite di ‘ammalarsi’, non è certo un invenzione del nostro tempo, né del DSM.
Semplicemente oggi c’è chi sa trarre un buon guadagno da un meccanismo consolidato. Le
popolazioni cosiddette “primitive” hanno elaborato anch’esse diverse modalità di supporto del
singolo che si esprimono attraverso patologie definite sindromi ‘culture bound’, che fungono
da strumento di riscatto e di riabilitazione dell’individuo, permettendogli un reinserimento nel
legame sociale. Ruth Benedict: l’antropologia constatò . ‘ circostanze e caratteristiche che in
una data cultura venivano considerate come indici negativi di anormalità e devianza,
potevano assumere una valenza positiva, quando non diventare tratti distintivi e indici di
privilegio, in un’altra. Ciò significa che “la normalità è definita culturalmente” e che “ “la
maggior parte delle persone si adattano plasticamente alla forza modellatrice della società
nella quale sono nati.” L’incapacità del deviante “di adattarsi alla società è un riflesso del fatto
che tale adattamento implica in lui un conflitto che non viene suscitato nei cosiddetti normali”.
(R. Benedict. 1970).
La malattia è un significante il cui significato deve essere individuato. Significato che si colloca
sovente nell’ordine del simbolismo magico-religioso, e ruota attorno ad un asse referenziale
costituito dal sistema dei valori sui quali si regge la comunità. All’interno di queste società,
quindi, l’interesse supremo appare essere quello di preservare sé stesse, le tradizioni e l’identità
come valore assoluto, proteggendole da chi, con le sue azioni, infrange quegli usi e obblighi
comuni dai quali l’identità stessa trae origine. A differenza del mondo occidentale, dove le
cause della malattia sono ritenute endogene, nelle società tradizionali abbiamo una tendenza
a ricercarle al di fuori dell’organismo, sovente attribuendole ad una schiera di entità spiritiche
che popolano il mondo extraterreno delle società cosiddette “semplici”, mondo che
interagisce quotidianamente con l’universo dei vivi e lo influenza. Proprio per questo motivo
l’interpretare qualsiasi fenomeno anormale come risultato dell’influenza di questo universo
parallelo diventa, per queste popolazioni, la norma. La follia non si sottrae a questa
interpretazione. La conseguenza di questa impostazione è che un comportamento capace di
infrangere regole e codici prestabiliti implicala trascuratezza di certi valori, che vengono in
questa maniera messi in discussione. Contrariamente a ciò che avviene nel mondo
occidentale dove i sintomi del disturbo mentale appaiono sul DSM come un oggetto di studio
privo di un riferimento diretto a casi specifici, nelle culture tradizionali non è dato concepirli
come realtà autonome, sganciate dall’essere umano. I disturbi esistono solo nel momento in
cui esiste la persona che li vive e li manifesta. Tutti gli sforzi fatti per cercare di interpretare i
disordini mentali, prescindendo dal concetto di sé, sono destinati a fallire. Molti studi
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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concordano nell’affermare che, ciascuna di queste popolazioni, possiede dei tipi di “follia
prestrutturata”, ai quali chi si ammala deve per forza aderire. Non esiste la possibilità di creare
patologie alternative. T. Nathancfr (1990), analizzando questi “sintomi culturali” da un punto di
vista medico, ha ricercato corrispondenze con quelli accettati dalla moderna psichiatria. I
risultati mostrano che il delirio paranoico, con sintomi di avvelenamento e sensazioni di
divoramento del corpo, è alla base della stregoneria Zande; la grande crisi di isteria descritta
da Charcot ha molti punti in comune con i culti di possessione Zar; l’allucinazione, sintomo
basilare della psicosi, è uno stato ricercato in particolari rituali da alcune tribù di indiani del
nord America. Vediamo ora una descrizione sommaria delle In sintesi, immaginiamo queste
comunità costruite alla stregue di un puzzle. Dentro a questo puzzle, ogni singolo pezzo
contiene a sua volta elementi ancora più piccoli. Una delle preoccupazioni maggiori delle
società tradizionali è il mantenere tutto il puzzle unito, ben assemblato. Quando un singolo
danneggia o mette in crisi il segmento a cui appartiene, viene punito con la possessione.
Diventa cioè un deviante, un soggetto che non segue più i canoni tradizionali di
comportamento. La punizione appare un monito lanciato dalle entita’ spirituali all’intera
società, affinchè questa isoli, curi, recuperi, e alla fine reintegri la scheggia impazzita.
UN DISTURBO PER TUTTI
‘ I malati, caro Dottore, sono in primo lugo dei conservatori’. ‘ I miei clienti non ci tenevano che
facessi dei miracoli, contavano al contrario sulla loro tubercolosi per farsi passar e dallo stato di
miseria assoluta in cui deperivano da sempre allo stato di miseria relativa che conferiscono le
microscopiche pensioni del governo. La speranza della pensione li possedeva, anima e copro. I
miei clineti erano degli egoisti, dei poveri, materialisti, tutti immiseriti nei loro sporchi progetti di
pensione’. ‘ La guarigione veniva solo molto dopo la pensione nei loro sogni (….)
LFC. Viaggio al termine della notte.
Questa eclissi dell’Altro, in Italia, ha lasciato spazio a diverse istanze, le quali cercano di ergersi
ad entità capaci di regolare il legame sociale: il cattolicesimo nella cultura e il binomio DSM –
BIG PHARMA nel campo medico sono tra le più influenti. Ciò ha determinato un mutamento
dell’ordine simbolico gravido di molteplici effetti: creazione di nuove malattie, promozione di
nuovi canoni estetici, autorizzazione di alcune forme di sessualità. Questi saranno i temi
affrontati nel corso delle serate.
T. viene adottata a 7 anni in un orfanotrofio del Brasile. Vi fu affidata per sevizie familiari e li
aveva il compito di accudire i bambini. In Italia sviluppa forti tratti paranoici a causa dei quali
abbandona la scuola. Esprime la volontà di fare l’educatrice contro il volere dei genitori. A 16
anni insorgono le prime allucinazioni dopo il primo rapporto sessuale. Vede spiriti delle foreste
del Brasile. Trova da sola lavoro in un asilo come educatrice. Questo riduce i fenomeni
elementari, ma aumenta i contrasti con i genitori da sempre contrari a questo impiego che la
portano dallo psichiatra. La sua modalità di organizzare il suo sintomo 1 si scontra così con la
diagnosi di disturbo oppositivo dello psichiatra, che ordina un tso[1] e la priva del lavoro. In
ospedale le allucinazioni aumentano, si scompensa fino a tentare il suicidio. Il sapere della
psichiatria le ha negato il suo savoir y fare col sinthomo, appreso come strumento curativo già
nel luogo di origine, togliendo la supplenza trovata. Il codice simbolico del DSM non ha dato
spazio nemmeno alle sue visioni, originate da una cultura animista, parificate ai deliri di un
occidentale. ‘E’ molto diffusa la sindrome da dipendenza da internet?’. ‘Si guarisce dal
disturbo da dolore prolungato?’ . ‘ Come affrontare la nuova emergenza del bambino
iperattivo?’. E’ ormai usuale venire interpellati attraverso il filtro una diagnosi preconfezionata
nel merito della quale si chiedono lumi. Siamo in poco tempo passati dalla posizione della
domanda generica : mi sta succedendo questo, di cosa soffro?’ , al più attuale ‘ soffro di
questa patologia, mi può dare qualche consiglio per uscirne? Sono molteplici i media dai quali
poter reperire queste etichette, pari almeno ai rimedi farmacologici proposti per la loro cura.
Quali sono le conseguenze di questa proliferazione di oggetti diagnostici alla portata di tutti?
Gli operatori che lavorano nel campo della salute mentale seguendo le linee del Campo,
devono saper non essere alla moda. Se da un lato è necessario confrontarsi con questo
attuale processo di diagnostica totale, bisogna saperne lambire i confini senza farsi
intrappolare. Bisogna essere demodé: cioè perseguire una pratica della singolarità e rinunciare
a categorie onnicomprensive che nascondono il soggetto e schiacciano l’inconscio e le sue
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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produzioni, senza immettersi in strade tracciate dal DSM. Strade lastricate da nuove patologie,
neo nominate, che da questa nominazione traggono legittimità e dunque un conseguente
percorso di cura. Che posto dare ai cosiddetti ‘nuovi sintomi?’ Si tratta di formazioni
dell’inconscio attualizzate al tempo della modernità, o piuttosto neo classificazioni con
capacità attrattiva per soggetti disinseriti, figli cioè di un tempo iper rifocillante che promuove il
disabbonamento dall’inconscio e favorisce quindi una ricerca di posizioni immaginarie? Non
sono forse zone di sosta con l’insegna luminosa ‘malattia’, poste sulla strada che va in direzione
contraria al percorso di rettifica soggettiva? Non siamo forse al menu che diventa cena?
Queste ‘patologie’ in Italia sono oggetto di studio intensivo, anche da parte di diversi
psicoanalisti. Lo IAD (Internet addiction Disorder) , una nuova malattia europea ( simile allo
hikikikimori giapponese) che interesserebbe il mondo giovanile. Legittimare questo ‘nuovo
sintomo’ apre una lunga e feconda strada di produzione diagnostica. Saranno ben presto
individuate nuove patologie, rinnovabili con i tempi che il mercato pretende. Dalla
'dipendenza da internet' si passerà alla malattia da dipendenza televisiva, passando per la
sindrome da I Phone, per arrivare a isolare e 'patologizzare' ogni forma di legame con i nuovi
media, quando si riterrà il tempo di connessione sufficientemente lungo da giustificarne un
ingresso nel campo della ‘anormalità’. E quante persone sono scivolate dentro al disturbo da
attacco di panico (dap) dopo essere state ripetutamente ricoverate di urgenza in pronto
soccorso, dopo che veniva loro detto : ' è solo un attacco di panico'? Sovente la persona
sofferente si rivolge al medico, al farmacista, all’ospedale, portando una richiesta spiazzante:
‘Aiutatemi, sono angosciato’. Il corpus medico risponde cristallizzando il momento d’angoscia
insostenibile che il soggetto patisce etichettandola come ‘attacco di panico’, chiudendo fuori
dalla porta la storia pregressa dell’individuo, pretendendo di curare il qui ed ora con una
strategia centrata sull’attualità, senza tenere in considerazione i precedenti che hanno
condotto alla richiesta di aiuto. Più che di una diffusione epidemiologica del dap e iad
possiamo quindi parlare di una massiccia distribuzione di etichette, che scoraggia la rettifica
soggettiva e lavora per la segregazione introducendo ad una logica che favorisce il
disabbonamento dalla propria interiorità. L’ultimo arrivato tra le nuove forme di sofferenza è il
bambino ammalato di adhd (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder ), la nuova frontiera del
controllo del comportamento del bambino dove la fanno da padrone le TCC e l’industria del
farmaco. La psicoanalisi deve dunque accodarsi a questa moda? Ethan Watters nel libro ‘Pazzi
come noi’ sostiene che la iperproliferazione diagnostica null'altro sia che un tentativo di
incasellare e normalizzare modalità di espressione che non sono assimilabili con il pensiero
occidentale dominante. E che, quindi, passano dalla porta della 'malattia' incontrando, loro
malgrado, la ‘cura’. In un tempo in cui Big Pharma lavora per installare un Altro distributore di
diagnosi e neo linguaggi, come in ‘1984’ di G. Orwell, la psicoanalisi deve dunque ribadire la
propria ignoranza e contribuire a porre le condizioni per edificare un Altro del non sapere, un
luogo neutro entro il quale cercare di allargare le maglie dell’inconscio. Nel 2013 sarà
pubblicata la nuova versione del DSM. Se le linee guida verranno rispettate, moltissimi
comportamenti scivoleranno nella zona di ‘anormalità’: ‘Disordine da ipersessualità’, ‘"sindrome
da dolore complicato o prolungato’ per dirne alcuni . L’angoscia degli adolescenti e l’eccesso
di cibo, saranno riclassificati come disturbi psichiatrici, e si ammaleranno di ‘ disturbo
provocatorio oppositivo’. Si prospettano parametri attraverso i quali milioni di ignari passanti
potranno, senza nulla sapere, cadere nella categoria dei ‘malati’ e saranno indotti a credere
che queste patologie esistano realmente. Le ‘nuove malattie’ che il DSM sforna vanno ad
alimentare quei non luoghi di appartenenza che appiattiscono il soggetto alla sua
sintomatologia fenomenologica, lo congelano nell’involucro delle nuove malattie, impedendo
di fatto la circolazione di parola e la riabilitazione all’uso dell’inconscio. Come dire no a tutto
questo? La strada tracciata a Pipol 42 non può prevedere eccezioni, deve potenziare le
istanze di controllo nei confronti degli operatori che lavorano nel campo della salute mentale,
la quale deve deve restare un entità ‘contrattabile’ e trattabile con il mondo medico e
psichiatrico, non una categoria nella quale la psicoanalisi applicata crea le proprie
sottodirectory. Secondo Watters: ' Nei periodi di insicurezza o conflitti sociali le culture
diventano particolarmente vulnerabili a nuove credenze sulla mente e la follia' (…) Quali che
siano i nuovi disturbi (..) è fuor di dubbio che la gente dimostrerà per essi un forte interesse. Gli
esperti interverranno ai talk show e offriranno ai giornalisti commenti. (..) A quel punto tutti gli
addetti ai lavori occidentali porteranno in giro lo show’. Lasciamo a Big Pharma questo show: lo
fa da tempo, lo fa meglio. E gli compete maggiormente . 'A cosa ci può portare una deriva
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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classificatoria estesa sino a comprendere ogni comportamento umano in una visione binaria
normale – anormale? La iperproduzione diagnostica appare simile a quell’Altro imminente di
cui parla Lcan nel Seminario X. Un Altro che provvede senza che vi sia richiesta, troppo vicino,
troppo premuroso, troppo intento a classificare ciò che facciamo. Troppo pieno tale da
perturbare il rapporto non contemplando la mancanza.
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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Chi è la più bella del reame?
Scritto da Annalisa Piergallini
Ho lavorato in provincia per un po’. E non c’era tanto da fare. I colleghi parlavano spesso di
donne. Le donne parlavano di cucina e vestiti. Ogni mattina un circoletto di femmine di tutte le
età si metteva a commentare e criticare come mi ero vestita. Chiamavano le altre a raccolta:
ehi venite a vedere come s’è vestita oggi Annalisa!! E io che non mi offendo facilmente, le
lasciavo dire, a volte mi divertivo anche. Mi piace vedere la gente sorridere e se un paio di
calze basta a farla sentire bene, chi se ne frega! Tanto per capirci sono anni che non ho tempo
né voglia di perdere tempo ad accostare la gonna col maglione. Così loro si affannavano per
normalizzarmi. Ma qui viene il bello, cos’è oggi la normalità? Ebbene un giorno arrivai con una
maglietta bianca scollata, gonna grigia da segretaria porno-soft con spacco inguinale, calze a
rete e scarpe nere altissime, almeno per me. E cosa è successo? Festa e fiera, complimenti a
pioggia: ecco sì, oggi sì che ti sei vestita bene! E via a chiamare le altre: guardate come si è
vestita bene oggi Annalisa! Ma allora mi volete come la tivvù, come una volta si vestivano solo
le prostitute, che si sa per lavorare qualche compromesso lo bisogna accettare. L’ho detto, ma
l’entusiasmo per il mio look non si è affievolito. Finalmente ti sei vestita bene! Allora che cos’è
l’omologazione? Non era un circoletto di maschi eccitati, erano tutte donne, e anche quasi
tutte più grandi di me. Dunque, tutte lesbiche? Sì d’accordo, nell’inconscio, come ci ha
insegnato Freud, siamo tutti omosessuali. Ma, più semplicemente, credo che la scenetta che vi
ho raccontato, sia piuttosto l’effetto del conformismo. Che ci mostra il grande schermo? Ma
anche le pagine dei giornali, i cartelloni 6 metri per 6 che giganteggiano nella città, molti siti,
molti giornali… Sono modelli di comportamento, sono dettami della contemporaneità, in cui,
paradossalmente, la donna sempre più scimmiotta i maschi, anzi, mostra il maschio che è
dentro di lei; ogni donna è anche un uomo. Questo, grazie a Lacan e alla psicoanalisi
illuminata, ci è molto chiaro. Il metro fallico, il godimento del potere e del successo, il sesso
senza amore, la macchinona, etc, sono tutt’altro che prerogativa degli uomini. Le donne, ci
dice Lacan, hanno pieno accesso al godimento fallico, quello che accumula, possono godere
di ciò che hanno: lavoro, soldi, perfino i figli fanno status e aumentano la brillanza fallica. Le
donne hanno amanti, e li sfoggiano come una volta era concesso solo agli uomini. Le donne
hanno un atteggiamento padronale, strafottente, perfino marziale. Ma contemporaneamente
si conciano come prostitute, come donne oggetto, come brutali richiami sessuali. Forse
pensano così di salvare capre e cavoli. Ma proporsi come donna oggetto, mostrare culi e
tette, finti o veri che siano, massacrarsi i piedi e la postura in scarpe alte come grattacieli…
tutto questo non ha nulla di femminile, non ha nulla a che vedere con la femminilità. Anzi, è
rispondere al solito fantasma perverso maschile che incombe da sempre, per cui le donne
sono oggetti di soddisfacimento del godimento dell’uomo. E non è nemmeno un male
dell’occidente. Continuano a mortificare le donne con le mutilazioni genitali, perché? Perché
all’uomo piace il sesso secco. Ma cosa c’entra con l’amore? Le donne con i clitoridi mozzati
hanno la loro sessualità massacrata, visto che anche l’orgasmo vaginale è connesso, come
sappiamo. Perché fa tanto paura il godimento femminile? Certo una donna può godere
all’infinito, un uomo no. La sessualità delle donne è invidiata, evirata. E le nostre vallette, le
nostre madri di famiglia costrette a stare sui trampoli pure mentre hanno lo straccio, le nostre
nonne col tanga, sfoggiano che cosa? Un piacere sessuale? No. Sono solo il segno che si sono
messe del tutto sotto l’ombrello fallico. Come ci sussurra Lacan, le donne hanno accesso a
tutto questo, ma hanno anche un’altra miracolosa possibilità, quella di arrivare in modo un po’
misterioso, d’accordo, a un godimento Altro, che è quello di farsi oggetto, che ha però poco a
che fare col feticcio delle perversioni tradizionalmente maschili. Perché accontentarsi? Perché
omologarsi? Perché esercitare un potere usando un corpo addobbato, rifatto, acconciato,
quando è molto più divertente correre il rischio d’innamorarsi davvero? Di fare l’amore, che se
l’incontro perfetto non esiste, il rapporto sessuale nemmeno, che tanto ognuno, in qualche
modo gode per conto suo, eppure si può fare l’amore, si può lottare per rendere possibile
l’impossibile.
Dr.ssa Annalisa Piergallini
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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Il corpo svelato
Scritto da Paola Bianchini
Il corpo svelato è ancora "il" soggetto dell'arte contemporanea. Da sempre il nudo invade il
nostro immaginario: la moda, come la pubblicità, il cinema, la letteratura e anche il design,
sfruttano le possibilità di comunicazione del corpo come linguaggio autoreferenziale. Da
questa identificazione, il corpo inizia ad essere indagato dando l’avvio ad una mutazione che
lo graffia e lo lacera, nel tentativo di ridurlo a domanda. Attraverso l’esperienza artistica si è
tentato dirispondere a questa domanda. Il loro lavoro oltre a mostrare l’evoluzione del corpo
mutato, offre nuove possibilità di creazione e di ideazione in cui le tecnologie sono veicolo e
strumento. L’artista dispone di una gamma allargata di possibilità, e può così ampliare il suo
campo di riflessione, usufruendo di numerose modalità di comunicazione della propria opera. Il
risultato è una comunicazione più complessa, o più completa, e dunque una diversa fruizione,
nuovi e diversificati stimoli, un nuovo punto di vista, una visione altra offerta al pubblico.
L’opera d’arte è dunque anch’essa sottoposta a mutazione, si trasforma in un fenomeno ibrido
costruito da una compenetrazione di linguaggi disomogenei. Ogni forma d’arte è il tentativo di
rispondere ad un'unica domanda: l’arte come forma di duplicazione del reale è realmente il
proprio doppio? L’arte è la concretezza, è il reale, è lì davanti ai nostri occhi. Non c'è più niente
da dire c'è solo da godere dell'abbaglio di questa figura. Non è un richiamo alla non
interpretabilità dell'opera quello che Catalani ci propone ma, al contrario, proprio una via
d'accesso alla sua comprensione. Lo slancio artistico non consiste nel convertire l’immaginario
nella dimensione del mondo, ma di convertire il mondo nella dimensione dell’immaginario.
Come ricorda Nietzsche: non deve essere l’arte ad imitare la vita ma la vita l’arte e se non ci
riesce tanto peggio per la vita. Entrare nell’immaginario è operare una conversione nel mondo,
nella dimensione di un altrove che esclude ogni possibilità di essere qui. Sartre: la realtà non è
mai bella, la bellezza è un valore che si può riferire solo all’immaginario e che implica
l’annichilazione del mondo nella sua struttura essenziale. Non è quindi il corpo a diventare
quadro, piuttosto il quadro è un corpo, il corpo che nasce dall'atto della pittura, dal segno
della creazione. La pittura è generazione più che non sia costruzione, o forse meglio è
generazione in quanto sa essere costruzione, in quanto cioè sa attraversare i territori insidiosi
della forma senza farsene catturare. Il corpo della pittura è il risultato dell'avventura in questi
territori estremi, ai luoghi di confine tra ciò che è dipinto (la forma) e ciò che eccede ogni
pittura (la vita). L'arte è frequentazione del confine del nulla, del perimetro del vuoto: "la pittura
comincia là dove l’artista non dipinge" Questo confine, però, non si risolve in un appello alla
smaterializzazione, in uno sconfinamento nello spirituale, nel rinserrarsi tutto e solo nella
dimensione mentale della creazione. Ai confini del vuoto la pittura si manifesta, anzitutto (e in
fondo sostanzialmente), come corpo. La pittura, dunque, come corpo. Perché, anzitutto, la
pittura nasce dal corpo, è gesto, atto fisico. La forma dipinta è diretta espressione di una
azione, risultato visibile di una sorta di percorso del pittore attorno e dentro la superficie. La
quale, dunque, prima ancora di essere vista viene toccata. Letto in quest'ottica, il
procedimento creativo è il risultato di un investimento fisico ma, il gesto non si risolve in un fatto
espressivo meramente istintuale quanto in un fattore costruttivo, compositivo. Il corpo è,
dunque, "pensante": è un corpo-mente. Ma il corpo non appartiene alla pittura solo in quanto
è il gesto a dirigerne la forma: è essa stessa a darsi in quanto corpo, in quanto, cioè, pura
presenza in sé risolta, forma vivente. E' un corpo, quello della pittura , estremo, un corpo
instabile che prende forma ai confini della sua dissoluzione, è vuoto che si fa pieno,
concretezza che nasce dalla energia della creazione. La sua corporeità è affacciata oltre i
limiti di sé, supera la soggettività individuale, nega il limite (che del corpo è, quasi
ontologicamente, sostanza) e si apre al mondo. Lo spazio del quadro è estensione del segno, è
tensione. Come se in questa nuova forma tutte le direzioni si annullassero, non esiste più né alto
né basso, né destra né sinistra, né avanti né dietro. Corpo instabile, corpo-spazio che forza i
limiti della gravità e della individualità, corpo come pura presenza. E' un corpo in transito,
sospeso tra il mondo delle immagini, delle figure, e quello della loro cancellazione. Un corpo,
immerso nel divenire. Il corpo, come ci ricordava Foucault, è oggi il luogo dove il potere si
esprime e dove esercita la maggiore repressione, quella più insidiosa, trasversale, nella
normalità della vita e in ogni luogodel pianeta. L’esercizio di questo potere assume dei toni
molto violenti, come nella patologia alimentare: il corpo reale e il corpo ideale divengono il
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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teatro di questo scontro. Ma non abbiamo a che fare con il corpo in senso stretto, né con il
cibo. Il rapporto, è piuttosto, tra il corpo pensato e il cibo pensato. La dimensione ideale è ciò
che giustifica l’esperienza reale. Il procedimento è di tipo platonico in una sorta di
scarnificazione della realtà, del corpo per tentarne un recupero nel piano ideale. Ma, per
operare la trasformazione del reale in ideale, questi ragazzi eliminano quei tratti che fanno
della vita la vita, sacrificando in nome di una più elevata rappresentazione, quelle impurità
sensibili che costituiscono la ricchezza dell’esistenza.Il loro congedarsi dalla vita, il ritirarsi in una
stanza può contenere un potenziale critico e rappresentare l’ingresso in una dimensione
utopica, in cui il mondo potrebbe essere diverso da come è. La distillazione di essenze, (come
diventa il loro corpo) di forme apparentemente astratte da un mondo che si vuole fuggire, può
essere visto come il tentativo di andare al di là di una condizione divenuta intollerabile. La
segregazione è volontà di potenza, un volere-al-di-là-di-sé, che fagocita continuamente vita,
andandole bramosamente incontro, per poi allontanarsene. L’affollata moltitudine di riti a cui
questi pazienti si sottopongono, è il risultato del loro avvicinarsi alle cose, agli affetti, al mondo,
per poi prenderne congedo. Tuttavia il congedo ottenuto, non ha l’ effetto sperato: la sintesi
superiore non ha ricostruito l’intero sperato, ma al contrario, ha rimandato potenziandola una
mancanza di sé e del mondo. Una nostalgia della vita che nel suo allontanamento non ha
lasciato spazio per operare un distanziamento: avere un mondo è qualcosa di più del semplice
essere al mondo. Tutte le cose sono al mondo, ma il corpo è al mondo come colui che ha un
mondo, come colui per il quale il mondo non è solo il luogo che lo ospita, ma anche e
soprattutto il termine in cui si proietta. Al limite possiamo dire di essere al mondo solo perché
siamo impegnati in un mondo. L’esule, ha smarrito la dimensione abitativa del mondo, della
patria come destinazione e come progetto; l’io diviene il luogo di una lotta incessante, verso
un esodo dall’identità senza ritorno. Sono “Corpi in cerca d’autore”.A chi corrisponde un
corpo, quale è l’immagine interna che se ne ha, la percezione esterna, chi incontriamo, chi
escludiamo attraverso di lui? Certo è che il corpo può divenire un nemico, di contro, un alleato
potente per difendersi dal mondo, un rifugio o un carcere. Comunque si mettano le cose,
rimane un concetto problematico, nel senso di rimandare ad un rapporto altro da quello che
semplicemente si mostra nella sua definizione. Il corpo non è semplicemente un corpo, come
ricorda Galimberti: il mondo è tutto riflesso nel sguardo del mio corpo e lo sguardo del mio
corpo è tutto fuori di sé, ospitato dal mondo. In tal senso, è ancora l’arte a lanciarci una sfida,
è ancora l’arte ad indicarci una nuova visione del suo rapporto con il mondo, il limite , il
confine insuperabile tra il visibile e l’invisibile che la pittura i , con i suoi corpi sospesi e tracciati,
mirabilmente delinea.
Paola Bianchini
Filosofa
Associazione mi fido di te. Centro Disturbi del Comportamento Alimentare Palazzo Francisci,
Ausl 2 Umbria
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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Sulla recente proposta di legge sui dca
Dalla rubrica Clinico contemporaneo di Liberaparola.eu
La recente proposta di legge che punisce chi istiga alle pratiche alimentari scorrette (anoressia
e bulimia) si presta ad una duplice lettura: da un lato il piano legislativo, sanzionatorio,
dall’altro quello clinico che dovrebbe sostenerla, che appare del tutto assente. Ci troviamo di
fronte ad una prova di buona volontà, dove la politica batte un colpo, dimostrandosi
consapevole di avere a che fare con un disturbo grave intrecciato al discorso sociale,
pertanto non confinabile al solo ambito medico – psicoterapeutico. La mancanza della parte
clinico-teorica rende improbabile che questa avrà realistici effetti sul contrasto alla diffusione
dei dca, presentandosi esculsivamente come ‘punitiva’ laddove recita: Chiunque, con
qualsiasi mezzo, anche per via telematica, determina o rafforza l’altrui proposito di ricorrere a
pratiche di restrizione alimentare prolungata è punito con la reclusione fino ad un anno’.
Come non li hanno avuto le leggi che proibivano l’uso delle droghe, o che hanno cercato di
limitare l’alcool, o il gioco d’azzardo. Chi si occupa di clinica, ha ben chiara una cosa:
nessuna patologia, quando è così legata alla contemporaneità, che si manifesti sottoforma di
dipendenza o di sofferenza nel corpo, può essere contrastata ex lege, andando alla ricerca di
chi ne ‘istiga’ lo sviluppo. Forte è la sensazione che si sia privilegiata l’anoressia perché malattia
di forte impatto mediatico. Il collega Luigi d’Elia, che come me fa parte della redazione di
http://www.psychiatryonline.it/ sostiene: ‘ l’anoressica, a differenza del depresso cronico o del
ludopatico, crei agli occhi dei legislatori un qualche maggiore scandalo sociale o morale o
emotivo di cui non sono chiari i contorni, ma tale da giustificare per la prima volta (che a me
consti) una proposta di legge con risvolti penali riguardante una psicopatologia’. Si tenga
inoltre presente un elemento dirimente: a differenza delle situazioni appena citate, nelle quali
gli oggetti per farsi male (droga, alcolici, slot machines, sigarette etc..) sono venduti da
qualcuno che è evidentemente interessato a trarre lucro da queste forme di dipendenza, nel
caso dei dca gli sproni a dimagrire, i consigli per usare i lassativi o per ingannare il dietista, che
sono le parole d’ordine per entrare e restare nei gruppi pro anoressia (contro i quali la legge
sembra aver dichiarato guerra) non hanno un retro pensiero economico. Non vogliono
guadagnare denaro, bensi’ diffondere il verbo di una religione per adepti puri e asceti, alla
quale si aderisce in forma volontaria. Mi si obbietterà: e allora, i siti di pedopornografia? Vanno
o no chiusi ex lege come ‘istigatori’ ad un comportamento deviante e criminale? Vero,
verissimo. Anche se mi risulta difficile pensare che si potrà adire a vie legali contro persone che,
in grande maggioranza dei casi, sono adolescenti che, con i moderni‘social network’, possono
in un pomeriggio raggiungere centinaia di amici e amiche creando in pochi minuti questi
gruppi chiusi. E le case di moda, allora? Possono essere considerate ‘istigatori’a
comportamenti alimentari scorretti, e pertanto punibili? Al netto della constatazione clinica,
ormai da tutti accettata, che l’assioma modella magra = epidemia di anoressia è una bufala
sempliciotta (il modo di evidenziarsi perdendo peso è il punto di partenza del disagio,
l’esprimerlo attraverso il canale codificato ed accettato della bellezza magra è un elemento
solo successivo), si sa che le grandi case di moda hanno continuato (non tutte) imperterrite a
far sfilare modelle emaciate e clamorosamente ammalate infischiandosene delle mille ed una
campagne contro i dca. Vogliamo parlare delle scuole di danza all’interno delle quali perdere
peso è un prerequisito di appartenenza? Anche queste dunque saranno annoverate nel
gruppo di chi incita all’anoressia? Temo che una legge siffatta, promulgata sicuramente con
buone intenzioni, ma con evidente carenza di una base clinico-teorica, da persone
certamente sensibili al tema, diventerà uno striscione dietro al quale marciare, da
sbandierare ogni qual volta la recrudescenza di questa patologia sbuchi dai notiziari, a causa
della morte di questa o quella persona famosa, riportando l’anoressia nel gran calderone delle
sigle e sottosigle, modalità contemporanea di valutare, assemblare e pertanto svuotare di
senso e valore la sofferenza individuale. Specchio fedele di una società appiattita sulle grida e
il sensazionalismo per nascondere la sua indolente incapacità a porsi all’ascolto del singolo.
Quella che invece sarebbe necessaria, è una dotazione degli strumenti e delle nozioni cliniche
ad operatori, insegnanti e famiglie, con scopo preventivo. Un obbiettivo che il legislatore pare
abbandonare in partenza quando afferma: ‘ Il presente disegno di legge non ha certamente
l’ambizione di risolvere da solo le molteplici problematiche di malattie legate alla complessità
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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dei disturbi alimentari’. Mostrare solo il volto repressivo non farà altro che dare a questi gruppi
clandestini un tocco di mistero ed elusione che li renderà ancora più appetibili.
Il Dr. Maurizio Montanari ha lavorato all’ABA.
Il centro LiberaParola, da lui diretto, fa parte del progetto del Ministero della salute ‘Le buone
pratiche di cura nei DCA’. Un progetto che ha selezionato diverse associazioni sul territorio
nazionale
per
la
prevenzione
dei
dca.
Questo
il
sito
www.disturbialimentarionline.it
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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Brani dal libro
Il posto del panico, il tempo d ell'angoscia
Scritto da Maurizio Montanari
Soggetti alla porta. Storie di panico, angoscia, anoressia, dipendenza e folli a
2.3. Fedra
Vedo Fedra da circa tre anni. Chiese un aiuto perché attraversava un periodo
caratterizzato dall'insorgenza di violenti attacchi di panico, come lei stessa li definì.
Le sensazioni riferite sono quelle di «dolore dell'anima», difficoltà nel respiro, blocco del
pensiero e delle azioni.
Il momento più critico, a seguito del quale si è rivolta a me, si verifica quando, uscita
di casa dopo una violenta lite familiare, viene sopraffatta da uno di questi «attacchi»,
perde il controllo dell'automobile e finisce in una scarpata. Al nostro primo incontro mi
riferisce di soffrire da molto tempo di un dolore non definibile, un malessere che l'ha
sempre accompagnata, e che solo nell'ultimo periodo è sfociato in queste violente ed
invalidanti crisi che le impediscono di «andare avanti».
Fedra ha 26 anni, un fidanzato, lavora in un negozio di scarpe e vive con i genitori.
All'età di 16 anni restò incinta a seguito di un rapporto occasionale con un animatore
turistico nel corso di una vacanza in un paese tropicale. Tornata in Italia, non sentendosi
pronta ad affrontare la maternità, prese la decisione di abortire. Per questo si recò in clinica
accompagnata soltanto dalla zia. Rovescia in seduta la rabbia verso la madre che,
interpellata, non se la sentì di accompagnarla perché era «sconveniente» mostrarsi con
una figlia che stava per abortire senza nemmeno essere sposata. La madre viene
tratteggiata nel corso degli incontri come una figura bigotta ed anafettiva, col pensiero
fisso di darle da mangiare, incapace di aiutarla in quel delicato momento.
Per contro c'è un padre assente, allora come oggi annullato e relegato nello spazio
perimetrale della televisione, privato di un qualsivoglia potere decisionale.
Uscita dalla cli nica la sensazione provata e mai più dimenticata fu quella di essere
«sola, senza nessun punto di appoggio o di riferimento». Il momento dell'aborto è un
punto buio, pesante ingombro del passato col quale non è mai riuscita a fare i conti. È
proprio da quel momento che sono comparsi episodi di vomito autoindotto ed ha fatto
la sua comparsa la sensazione di morte dell'anima. Apprendo in questo modo che da
circa dieci anni soffre di una forma di anoressia restrittiva, priva di abbuffate, che le sta
segnando non poco il corpo. A tal proposito non ha mai chiesto nessuna forma di aiuto.
Le mura del mio studio si tramutano di colpo in un palco dal quale ella si produce in
una ininterrotta serie di rivendicazioni nei confronti della madre, che originano dal
momento in cui quella donna «doveva esserci e non è venuta». La famiglia di Fedra
riassume molte delle caratteristiche della situazione edipica tipica dell’anoressica così
com'è abituato a vederle chi si occupa di clinica.
Nel corso dei suoi racconti la madre viene descritta come invasiva, non rispettosa
del limitare degli spazi della figlia, intenta a rimpinzarla di cibo e a ricercare per lei un
posto riconosciuto in società, avendo già «deciso» dai tempi delle scuole medie per
Fedra un futuro da avvocatessa, da dare in sposa a qualche avvocato della zona. A
tale figura fa da contrappunto un padre inerme, rammollito, incollato al divano,
incapace di porsi come punto di interdizione tra lei e la voracità materna, dando in più
occasioni prova di non accorgersi della figlia per tutto il periodo della adolescenza. Il
dialogo familiare non è mai realmente esistito.
Questo insieme di cose ha sedimentato in lei una rabbia giunta praticamente intatta
sino ad oggi. Quando parla del padre esprime rancore, rimpianto per la sua assenza.
Della madre, invece, lamenta l'incombenza e l'insistenza nel preparare per lei diversi tipi
di diete e di rimedi al suo stato di disagio, nessuno dei quali è mai stato preso in
considerazione dalla ragazza.
Spesso volano piatti e parolacce.
Fedra vomita solo tra le mura di casa, quasi sempre alla sera, quando la madre
l'aspetta per cenare assieme. Nonostante allunghi sempre più gli orari di ritorno dal lavoro
l'incontro è inevitabile, e le liti si intensificano in frequenza ed acredine.
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
15
Nel tempo l'angoscia diviene una costante della sua giornata, e quelli che lei definisce
«attacchi» si intensificano comparendo non solo sulla soglia dell'abitazione, ma anche
durante il tragitto che dal lavoro la riporta a casa. L'idea di dover tornare in quel luogo
blocca di fatto Fedra.
Più di una volta scoppia a piangere sulle scale di casa prima di riuscire a suonare il
campanello. Nel corso delle sedute arriva sempre più a soggettivare l'impossibilità di fare
ritorno a casa, e svela che l'unico motivo valido per il quale non se ne è mai andata è un
piccolo coniglio che vive con lei nella sua camera, dove lo accudisce e gli prepara da
mangiare. Il coniglio per Fedra è un elemento simbolico fondamentale, oggetto
privilegiato e antico, sedimento che fa da zavorra nei confronti del desiderio della
madre, mattone posto tra lei e l'Altro minaccioso ed invadente.
Infatti, non appena rincasa, corre immediatamente dall'animale e sta in camera con
lui, al riparo dalla tavola imbandita col cibo materno.
Dopo molte sedute, ritorna sulla sera dell'in cidente in automobile.
Cosa era accaduto di più grave rispetto alle altre giornate?
La madre era entrata nella sua stanza e aveva dato da mangiare al coniglio. Questo
mandò Fedra su t utte le furie, ne nacque una lite furiosa a seguito della quale si precipitò
fuori di casa accusando un senso di costrizione cardiaca, mancanza di respiro e paralisi
delle braccia. Salita in auto si verificò l'incidente.
Compare un abbozzo di lavorazione della domanda, poiché, dopo tanta sofferenza,
Fedra avverte ormai impellente la necessità di dover «andare via da lì per poter
sopravvivere». Sono i primi movimenti di separazione.
Chiede aiuto al fidanzato, che non si dimostra pronto e chiede ancora un anno di
tempo per poter fare il grande passo. Nel pieno dell'estate è al culmine della sua
prostrazione fisica, all'apice della sua magrezza e ormai resa invalida dagli stati di
panico che la affliggono anche nel corso della notte. Morde il freno e impone al
fidanzato una scelta affermando: «O lui viene, o io vado sola! Ormai ho deciso. Tanto ho
il mio coniglio». Fedra prende in mano le redini del proprio destino togliendo la delega che
aveva affidato alla refrattarietà del fidanzato, che si adegua al suo desiderio e accetta di
seguirla.
Oggi vivono assieme nella nuova casa con l'inseparabile coniglio. Le crisi di panico
sono scomparse. L'angosc i a, un tempo compagna costante della sua vita, è ormai
localizzata soltanto nei cosiddetti «giorni di festa», quando si reca dai genitori per le visite di
cortesia.
Le crisi di vomito si sono attenuate ma non sono scomparse. […]
Il limite incerto tra angoscia e pani co nei casi descritti
Intendo ora riprendere i casi descritti per una disamina più approfondita, cercando di
inquadrarli da un punto di vista teorico. Mettendoli in tensione tra loro è possibile vedere
come il motivo di ingresso, da tutti definito un attacco di panico, si sovrapponga spesso
all'affetto di angoscia.
Una distinzione, questa, che permette di differenziare, a posteriori, scorie che
parevano identiche nella loro evidenza sintomatica.
4.1 Fedra. La difficile separazione
L'angoscia, affetto sempre presente nella vita di Fedra, sfocia nel cosiddetto panico
quando la madre irrompe nel suo ultimo spazio fisico, la stanza, violando quel limite che
le aveva garantito un minimo di separazione. L'elisione di questa barriera immaginaria
sfocia nell'ingestibile contatto con la donna, generando in lei uno stato di blocco.
La costruzione anoressica di Fedra, che sino a quel momento si era dimostrata un
ottimo regolatore del rapporto con l ’ A l t r o , ha perso nel tempo quei requisiti utili a
garantirle una protezione rispetto alla sua invadenza. Il crollo della muraglia difensiva
costituita dal sintomo coincide con il momento di insorgenza del panico, che compare
quando l'irruzione della madre sortisce l'effetto devastante di una bulimia, una
frantumazione del tempo ideale dell'anoressia. Ma perché una crisi paralizzante proprio
Capitolo I. Il tempo di entrata. L'atelier inconsapevole
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in quel momento?
L'angoscia, affetto legato all'avvicinarsi del desiderio dell'Altro, raggiunge il culmine
quando la ragazza si trova nella impossibilità di dare una risposta alla domanda: «Che
cosa vuole l'Altro da me?». O per meglio dire, l'unica risposta possibile è nefasta.
Nel Seminario L'Angoscia1, possiamo reperire la triplice prospettiva con la quale Lacan
tratteggia l'approssimarsi dell'Altro: l'Altro desiderante, l'Altro enigmatico, l'Altro
gaudente2.
Fedra non è mai riuscita a definire il suo posto nell'Altro, e ha patito nel tempo il
carattere angosciante di questa non chiara posizione, conseguenza di una domanda
d'amore sempre frustrata. Il movimento finale materno, ben lungi dal dare alla figlia il
posto d'amore cercato, sposta la questione in una dimensione non più in terrogativa,
ma in un terreno di certezza. Le intenzioni dell'Altro appaiono chiare, la questione di
quale maschera essa indossi agli occhi della mantide religiosa, il non sapere cioè quale
oggetto ella sia per il desiderio dell'Altro che incombe3, culmina con una plausibile
certezza: può essere lei l'oggetto di questo desiderio, nella sua interezza. Fedra cade in
una posizione di «oggetto preso», afflitta dalla sensazione di essere ridotta al proprio
corpo4.
È questa consapevolezza che conduce al blocco fisico che lei chiama DAP.
Questo caso ci mostra come l’angoscia introduca
e moduli il tempo di analisi. Fedra
.
chiede aiuto in un momento di crisi culminato con l'incidente stradale. Terminata
l'emergen za ha avuto inizio il tempo del soggetto al lavoro, che ha dato il via ad una
decisa opera di rettifica sino a quel momento mai veramente abbozzata5.
Col progredire delle sedute l'angoscia si è attenuata. Grazie alla parola Fedra ha
operato un'azione di smarcamento, passando dalla posizione di oggetto in balia
dell'Altro a quella di soggetto che si interroga e orienta il proprio cammino nella vita. Il
progressivo rarefarsi dell'angoscia è stato direttamente proporzionale allo spazio di parola
che Fedra è andata conquistando. Spazio che è stato poi occupato dicendo
finalmente del suo desiderio: andarsene, avere una casa propria. Hanno così inizio le
«grandi manovre» per la separazione.
Grazie al coniglio, oggetto separatore ancora integro, lei si distacca con un movimento
nel reale dalla casa della madre per andare a occuparne una sua.
Quindi ciò con cui questa ragazza è entrata nel mio studio è un culmine finale di
angoscia, uno stato assolutamente paralizzante. Ma testimonia un movimento soggettivo
precedente lungo la via dell'interrogazione. Dopo tale stato acuto, accompagnato da
un blocco nel reale, il movimento soggettivo subisce un'accelerazione. Un movimento che è
prima simbolico, e solo come conseguenza conduce al trasloco fisico.
1
2
J. Lacan, Le Seminaire. Livre X. L'angoisse, cit.
Per un'esauriente analisi di questo argomento cfr. B. Boudard, L’angoscia in Lacan, La Psicoanalisi, n. 8, 1990.
3
Fedra non ha un posto d'amore, e la sua incertezza rimanda a: «Que me veut-il?», con l'ambiguità che il francese permette circa il me in quanto
complemento diretto o indiretto: non solo «Que me veut-il a moi?», (“Cosa vuole da me?”), ma qualcosa di sospeso che concerne direttamente
1'io, che non è «Comment me veut il?» («Come mi vuole?»), ma è «Que veut il concernant cette place du moi?» («Cosa vuole rispetto a questo
posto dell'io?»). (J. Lacan, Le Seminaire. Livre X. L'angoisse, Lezione I del 14-11-1962, traduzione personale).
4
5
Cfr. J. Lacan, Le Seminaire. Livre X. L'angoisse, Lezione I del 14·1l-1962, traduzione personale.
«L'angoscia è appunto qualcosa che si situa altrove, nel nostro corpo, è il sentimento che sorge dal sospetto di esser ridotti al nostro
corpo» ( J. Lacan, La terza, La Psicoanalisi, n. 12, 1993, p. 33).