Il comunicato stampa
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Il comunicato stampa
Brescia, 8 aprile 2016 Allegato al comunicato stampa del 22.04.2016 Mario Botta: “Il genius loci è l’unico anticorpo contro la globalizzazione forzata” Gentile, pacato, asciutto, diretto: così Mario Botta si concede all’intervista di Old Cinema, senza alcuna prosopopea da archistar. Eppure l’architetto svizzero, classe 1943, nato a Mendrisio nel Canton Ticino, è universalmente riconosciuto come uno dei massimi esponenti dell’architettura mondiale, autore del Mart di Rovereto e del MOMA-Museo d’arte moderna di San Francisco, oltre a innumerevoli edifici di ogni tipologia: scuole, banche, strutture amministrative, biblioteche, musei ed edifici religiosi. Dopo una laurea allo IUAV veneziano, con relatori Carlo Scarpa e Giuseppe Mazzariol, Botta ha lavorato per Le Corbusier e Louis I. Kahn. Nel 1970 ha aperto un proprio studio a Lugano e da allora ha svolto un'importante attività didattica, tenendo conferenze, seminari e corsi presso scuole d'architettura di tutto il mondo. Ha fondato la nuova Accademia di architettura di Mendrisio, dove insegna. Ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali tra i quali il Merit Award for Excellence in Design by the AIA per il MOMA di San Francisco. Prendendo le mosse dal Movimento Moderno, Mario Botta imprime un’idea umanistica dell’architettura: il recupero, attraverso la cultura e la memoria storica, dell’identità degli edifici e del loro significato profondo nel tessuto urbano, in contrapposizione al fenomeno della globalizzazione massiva. In questa prospettiva, oltre i manifesti teorici, i suoi progetti e le ricerche dell’Accademia avanzano risposte concrete per città reali della nostra epoca. Dal punto di vista architetturale, la cifra di Botta sono la ricerca «quasi ossessiva» delle geometrie e della luce, in armonia con la natura, la cultura e il carattere umano specifici del territorio e, tra i materiali, un uso privilegiato del laterizio, «il più simile alla creta». Tra le altre opere di Botta si ricordano anche il teatro e casa per la cultura a Chambéry (Francia), la cattedrale della resurrezione a Evry (Francia), il museo Jean Tinguely a Basilea (Svizzera), il centro Dürrenmatt a Neuchâtel (Svizzera), la torre Kyobo e il museo Leeum a Seoul (Corea del Sud), la chiesa Papa Giovanni XXIII a Seriate (Italia), la ristrutturazione del Teatro alla Scala di Milano (Italia), la chiesa del Santo Volto, Torino (Italia). Suo anche il progetto del campus universitario Academy of Fine Arts di Shenyang, e il Teatro dell’Architettura all’interno dell’Accademia di Mendrisio che vedrà la luce nel corso del 2016. Per l'imprenditore bresciano Vittorio Moretti, patron anche di Bellavista Franciacorta, Botta ha realizzato la cantina di Petra, a Suvereto, paragonata a un' "astronave di rame". Il 7 maggio, per la collana di monografie sull’architettura del “Corriere della Sera” (che inizia con Renzo Piano), uscirà il quinto numero, dedicato a Mario Botta. Intervista integrale di Old Cinema a Mario Botta Architetto Botta, lei è incredibilmente prolifico. Quante sono le opere da lei realizzate? «Ho all’attivo 800 progetti. Quelli significativi sono circa 250, di cui 100-150 opere costruite». Tra questi c’è il Teatro dell’Architettura, nella sua Accademia a Mendrisio. Di che struttura si tratta? Ha previsto al suo interno uno spazio video-multimediale o addirittura cinematografico? Brescia, 8 aprile 2016 «Il Teatro è uno spazio multiplo e multifunzionale, che nasce principalmente per dare visibilità alle ricerche di architettura dell’Accademia. Nulla vieta che sulle sue grandi pareti possano avvenire in futuro anche proiezioni. Dal punto di vista progettuale, ho voluto che questo fosse un teatro “anatomico”: la struttura è circolare e concentrica, con una vasta pianta centrale di 27 metri ma anche una serie di gallerie dalle quali gli studenti e gli spettatori possano avere una visione diversa dell’evento che si svolge al centro. Le gallerie poi si prestano in particolare a diventare altrettanti spazi espositivi». Come si presenta l’Academy of Fine Arts di Shenyang in Cina? «È un campus universitario, una cittadella del sapere. Qui sì che la multimedialità è di casa. Accanto agli spazi espositivi figurano aule speciali e auditorium dove gli studenti potranno fruire di contenuti multimediali». Lei denuncia «la parcellizzazione e la disarticolazione delle città contemporanee», l’assenza di una continuità degli edifici rispetto al tessuto urbano. E il problema di un’architettura che ormai è «fatta contro la città». All’opposto, lei promuove un Umanesimo dell’architettura. Si può parlare ancora di genius loci, oggi, in Europa? «No. Purtroppo non c’è più. Il genius loci è il territorio della memoria, il nostro patrimonio. Ed è l’unico anticorpo che abbiamo rispetto alla cultura del globale, dell’internazionalizzazione forzata. Ma l’abbiamo perso, e se non lo recuperiamo assomiglieremo sempre più agli Stati Uniti e alla Cina. Eppure, la storia è il nostro valore più profondo, tipico della cultura europea e cristiano-occidentale. E il valore di una città è la sua testimonianza». Nella sua carriera si è occupato di grandi teatri, i luoghi di un rito collettivo che più si avvicinano, preconizzandoli, ai cinema… «In realtà il teatro è un mondo profondamente diverso, anche dal punto di vista architettonico e funzionale. Presuppone il dialogo diretto con il fruitore, e, fin dall’antica Grecia, è la condizione perché l’immaginario collettivo possa rappresentarsi. Il cinema invece è una forma più tecnologica e avanzata di illusione. Mentre il palcoscenico vuole la luce, il cinema presuppone il buio: si spengono le luci per sognare, per uscire dalla quotidianità. Il rapporto dello spettatore con lo schermo mi sembra più vicino a quello del lettore con il libro». In Italia ci sono esempi di meravigliose sale da cinema progettate da grandi architetti, come l'ex Cinema Airone di Roma, creato da Adalberto Libera. L’ha mai incuriosita il tema? «Non mi è mai capitato di progettare un cinema, ma non perché non lo volessi. Spesso non è l’architetto a scegliere cosa fare: è la collettività che gli richiede di realizzare un’opera o l’altra. Però non lo escludo. Progetterei anche un multisala, perché no? Ma solo se il luogo che racchiude quelle due ore di spettacolo - lo spazio per l’entrata e l’uscita del pubblico - diventasse un’agorà. Allora sarebbe interessante». Lei parla di una grande infatuazione, oltre che per i grandi maestri dell’arte e dell’architettura, anche per Pasolini. Poeta, narratore, saggista, e regista: quale parte dell'opera pasoliniana l’ha più toccata? «Ero un adolescente, quando Pier Paolo Pasolini mi colpì per la sua capacità unica di entrare nelle pieghe del sociale, di esprimere le contraddizioni del nostro vivere, contro la cultura di massa e il conformismo. Ho visto tutti i suoi film. La sua rilettura del Vangelo è unica: lui, un intellettuale laico, ne ha dato un’interpretazione artistica straordinaria, forse la migliore di ogni tempo». La nostra domanda di rito. Un suo ricordo di cinema. Una sala, un film che le sono rimasti nell’anima. «Proprio Pasolini. Uccellacci e uccellini. Lo vidi in una sala di Como. Ma il nome non lo ricordo più». Chissà se esiste ancora.