Una scheda su Antonio Maria da Villafora

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Una scheda su Antonio Maria da Villafora
Una scheda su Antonio Maria da Villafora
di Elisabetta Baesso
Nel crescente interesse per le arti minori e per la storia del quotidiano, la miniatura ha finalmente
varcato le soglie degli studi specialistici e si è aperta alla conoscenza dei non addetti ai lavori. In
quest’ottica molte delle mostre organizzate recentemente hanno posto l’accento sulla doppia
opportunità di stimolare gli studi e di far conoscere da vicino i preziosi tesori conservati nelle
biblioteche. Per quanto riguarda la cultura illustrativa emiliana e veneta, lo scorso marzo si è
inaugurata a Ferrara una mostra sulla miniatura estense nel Quattrocento mentre è prevista per il
prossimo anno un’esposizione di miniature padovane nella città del Santo, a Praglia e a Rovigo.
L’insieme delle due mostre offrirà tra l’altro la possibilità di approfondire la conoscenza di un
miniatore palesano noto col nome di Antonio Maria da Villafora.
Anche se allo stato attuale degli studi egli non risulta mai attivo in Polesine, Antonio Maria è per
certi versi un prodotto di questa terra, espressione di un raccordo fra la cultura veneta e quella
ferrarese che continuamente si intrecciano.
Una premessa è d’obbligo sul suo cognome. Partendo dalla considerazione che il figlio del
miniatore era citato nei documenti col nome di Bartolomeo Sforza, si ritiene naturale attribuire il
medesimo cognome anche al padre. In seguito si scoprì che Antonio Maria aveva adottato il figlio e
che Sforza era il cognome della famiglia di origine di Bartolomeo. Si cominciò allora a chiamare il
miniatore semplicemente Antonio Maria da Villafora.
Poche comunque sono le notizie relative alla vita di Antonio Maria. Figlio di Bartolomeo “de Villa
Fuora territorii Policinis”, egli risulta già a Padova nel 1467. Qui lo ritroviamo miniatore e sposo di
Margherita nel 1469 e dipendente dell’Università dei giuristi nel 1482. Notizie più precise sulla sua
attività si desumono dai Registri della mensa del vescovo di Padova Pietro Barozzi (1487-1507) nei
quali sono annotati i pagamenti percepiti dal miniatore fra il 1489 e il 1501. Tali note attestano una
consuetudine maturata nell’arco di almeno dodici anni tra Antonio Maria e il vescovo Barozzi,
fervido umanista che si era dedicato con passione alla costituzione di una ricca biblioteca fornita di
testi liturgici, giuridici e filosofici oggi in gran parte conservati presso la Biblioteca Capitolare di
Padova. In molti casi le note di saldo sono generiche, ma talvolta specificano il lavoro per cui
Antonio Maria è stato pagato: il 7 luglio 1494, ad esempio, il miniatore riceve il compenso per un
Missale (unanimemente riconosciuto dagli studiosi come l’incunabolo 260 della Capitolare
padovana) e per un Vincenzo, opera da riferirsi probabilmente all’edizione in tre volumi di
Vincenzo de Beauvais stampati a Norimberga tra il 1485 e il 1486 da Antonio Koberger (Speculum
doctrinale; Speculum morale; Speculum naturale. Padova, Biblioteca Capitolare, inc. 421, 422,
423). Un altro incunabolo sicuramente illustrato da Antonio Maria è l’Explorationes in duodecim
prophetas di S. Girolamo (Padova, Biblioteca Capitolare, inc. 202) il cui saldo viene annotato il 10
settembre 1500. Dopo il 1501 Antonio Maria è ancora citato nei registri vescovili, ma i pagamenti
fanno riferimento ad introiti, decime o altro, diversi da quelli della sua attività di miniatore.
Concluso il periodo di collaborazione col vescovado patavino, Antonio Maria attende alla
decorazione dei numerosi manoscritti liturgici che si andavano rinnovando o realizzando ex novo in
molti monasteri veneti. Intenso fu il rapporto con il convento di S. Giustina di Padova, nel cui
cimitero Antonio Maria venne sepolto dopo dopo l’8 settembre 1510. Nell’Obituario di S. Giustina
a fianco della segnalazione della morte del miniatore si annota che Antonio Maria da Villafora
aveva realizzato per il convento stesso il Missale e tutti i Salteri nuovi. Il primo può essere
riconosciuto in quello oggi conservato alla British Library di Londra (Add. 15813) mentre tre dei
Salteri citati si trovano ora divisi in due biblioteche patavine (Biblioteca di S. Giustina, Corale 1;
Biblioteca Capitolare, ms. C.M. 811 e 812).
L’attività matura del miniatore è dunque solidamente documentata e ricostruibile su base stilistica a
partire dai testi indubitabilmente autografi, cioè dai tre incunaboli realizzati per il Barozzi e dai
quattro manoscritti del convento di S. Giustina. Più complessa è invece la questione della sua
formazione poiché non esistono elementi precisi cui fare riferimento. Alcune considerazioni
possono tuttavia essere formulate a partire dalle poche informazioni in nostro possesso e dall’analisi
stilistica della fase più matura di Antonio Maria.
Innanzi tutto vale la pena di considerare il luogo di origine del miniatore. Oggi Villafora è un
piccolo borgo rurale nei pressi dell’argine dell’Adige, non lontano da Badia e Lendinara. Nel ’400 il
paese, che fu uno dei più antichi centri religiosi della giurisdizione vangadicense, subiva ancora
l’influenza dell’abbazia badiese, ma trovava certamente in Ferrara un solido riferimento culturale.
Basti pensare, al di là della nota connotazione emiliana del territorio, che la chiesa parrocchiale di
Villafora è ancora oggi dedicata a S. Giorgio il cui culto è diffuso soprattutto a Ferrara.
Dunque è ragionevole ipotizzare per Antonio Maria una formazione ferrarese a contatto con i
miniatori estensi largamente attivi e ricercati sia dalla committenza di corte che da quella
ecclesiastica. L’ipotesi è confermata dall’analisi delle opere sicuramente documentate di Antonio
Maria che tradiscono un linguaggio estroso ed espressivo di sicura matrice ferrarese.
Soffermiamoci dunque ad osservare una delle opere fondamentali per la conoscenza dello stile del
miniatore, vale a dire il Missale della Capitolare di Padova pagato ad Antonio Maria nel 1494.
Secondo quanto indicato in una nota posta in calce al testo, il vescovo Barozzi fece stampare
l’incunabolo pergamenaceo espressamente per i sacerdoti del Capitolo: qui il Missale fu a lungo
utilizzato, essendo ancora presente nella sagrestia della Cattedrale nel 1925-26.
Testo liturgico fondamentale, il Missale racchiude in sé le parti variabili e invariabili della messa e
contiene, come immagine principale e spesso unica, la raffigurazione della Crocifissione che
commenta il Canone della messa ed esalta la gloria di Dio in cielo e di quella di Cristo sulla terra.
Il Missale decorato da Antonio Maria non si discosta da questo modello esibendo un’unica
miniatura a piena pagina raffigurante, appunto, la Crocifissione (c. 58v). Il testo è poi corredato da
altre iniziali fogliacee e figurate fra le quali spiccano il David in preghiera (c. 12r) e la Discesa
dello Spirito Santo (c. 125v).
Giustamente famosa e ampiamente pubblicata è la miniatura di c. 58v, dove il dramma della
crocifissione viene portato in primo piano fino a spingere la figura della Maddalena quasi al limite
del riquadro in finto rilievo tracciato a pennello da Antonio Maria. Di spalle e inginocchiata ai piedi
della croce, la Maddalena volge lo sguardo a Cristo stagliando il profilo dal luminoso incarnato
sulle asperità del legno della croce. Le braccia aperte e levate al cielo in un gesto di costernata
disperazione creano una traiettoria divergente che conduce alle figure della Madonna e di S.
Giovanni Evangelista il cui dolore, più interiore e raccolto, sembra concretarsi nella compatta e
chiusa massa delle vesti. Il movimento della gamba flessa in un atteggiamento di instabilità,
intuibile dalle pieghe degli abiti, contraddice i gesti solo apparentemente composti della Madonna
che porta al petto le mani giunte e di S. Giovanni che piega il capo sulla mano destra.
In alto, contro il cielo, il Cristo crocifisso. La componente fortemente espressiva già presente nella
gestualità della Maddalena prende corpo nelle gambe inarcate in modo innaturale, nel ventre
contratto a segnare le costole, nella testa incassata fra le esili spalle. Ai lati due angeli raccolgono in
calici dorati il sangue che sgorga dalle ferite di Cristo.
Il cielo, limpido in prossimità dell’orizzonte, sembra incupirsi improvvisamente nell’area
sovrastante la croce dove il sole e la luna sono separati al centro dal monogramma cristologico IHS
posto nel cartiglio issato sulla croce. Il paesaggio sullo sfondo è roccioso, chiuso ai lati da due
colline che fungono da quinte e che conducono lo sguardo ad una valle cosparsa di radi alberelli, al
fondo della quale si intravede una città gugliata.
I moduli espressivi sono quelli tipici di Antonio Maria: volti sempre un po’ lunghi, naso dritto,
occhi gonfi e profondamente segnati, bocca piccola e semiaperta, fronte bassa con attaccatura dei
capelli a punta. I corpi sono spigolosi, gli arti allungati e sottili, le dita affusolate. Pesanti tessuti
rivestono le figure e descrivono panneggi spigolosi che si concludono in rigidi accartocciamenti.
Antonio Maria lavora minuziosamente sui particolari, sgranando i colori con sottilissime pennellate
successive, giocando sulla lumeggiatura delle vesti, descrivendo le chiome capello per capello fino
ad ottenere, nel caso della Maddalena, una cascata luminosa e vaporosa che si apre sulla rossa
macchia della veste. I colori, pur squillanti e luminosi, sono acidi, giocati sul rosso, il giallo, il
verde chiaro, il blu, il viola. Il paesaggio è prospetticamente descritto in uno sfumato atmosferico
che tende all’azzurro.
Nelle iniziali figurate che accompagnano il Missale, Antonio Maria ripropone questo stile
caratteristico giocando però con la struttura della lettera. Così nel David in preghiera (c. 12r)
contrappone alla compostezza del colloquio tra il re e il Signore, la fantasia costruttiva dell’iniziale
che esibisce un drago dallo sguardo feroce descritto con realismo e minuziosa attenzione. Il tema
del drago-delfino compare anche nella Discesa dello Spirito Santo (c. 125v) dove l’animale, verde e
lumeggiato a biacca, si trasforma in un viluppo fogliaceo. All’interno la bianca colomba dello
Spirito Santo discende sugli Apostoli e sulla Madonna che, in primo piano, sembra quasi affacciarsi
al corpo della lettera.
Ad una produzione di questo tipo, caratterizzata da una composizione equilibrata e da una
pennellata piena, Antonio Maria contrappone una tecnica ad acquerello più rapida ed una creazione
più libera. Nascono così le iniziali realizzate nei molti incunaboli giuridici del vescovo Barozzi
dove putti, draghi, satiri e delfini danno forma a lettere sempre nuove e inaspettate. Una fantasia che
in verità Antonio Maria cela a malapena nel Missale dove l’uso di schemi figurativi consueti e
consolidati sembra avere anche lo scopo di irreggimentare l’estro brioso del miniatore. Il ricorrere
di elementi quali i colori piuttosto acidi, il forte espressionismo, le pieghe delle vesti accartocciate,
lo spirito scherzoso, l’esasperazione delle forme, l’uso di delfini, draghi e foglie adagiate su fondo
oro evocano la matrice ferrarese della cultura di Antonio Maria e fanno riferimento a un gruppo di
miniatori, fra i quali vanno ricordati Guglielmo Girali e il nipote Alessandro Leoni, cresciuto
all’ombra della sontuosa Bibbia di Borso d’Este realizzata tra il 1455 e il 1461 (Modena, Biblioteca
Estense Universitaria, Lat. 422-423 = mss. V.G. 12-13) e maturati poi sulle esperienze pittoriche di
Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti.
Inoltre la cultura ferrarese e la produzione quasi esclusivamente padovana e veneta legano Antonio
Maria a quel filone stilistico che a partire dagli anni settanta del Quattrocento esprime a Padova un
linguaggio perlopiù estraneo al gusto antiquario tipicamente patavino e si rivolge a Ferrara e alle
miniature del Decretum Gratiani (Ferrara, Musei Civici di arte antica, OA 1350) che, stampato a
Venezia nel 1474, reca lo stemma di un membro della famiglia rodigina Roverella. L’ambito
monastico per il quale tale incunabolo giuridico fu realizzato potrebbe forse essere stato l’elemento
veicolante di un simile linguaggio. In tal caso sarebbe agevole ipotizzare che questa sorta di
emigrazione di miniatori di cultura estense in Veneto si sia verificata proprio per mezzo di ambienti
religiosi, ed in particolare monastici, che erano sempre in vicendevole contatto e che potevano
conoscere e desiderare opere realizzate in altre città. Una simile connessione potrebbe ben spiegare
la presenza a Padova di Antonio Maria che abbiamo visto impegnato nei primi anni ottanta del
Quattrocento nell’esecuzione di numerosi testi giuridico-ecclesiastici, assai prossimi ai colori acidi
e al linguaggio secco già utilizzato dai miniatori attivi nel Decretum Gratiani Roverella.
Sta in Beni culturali e ambientali in Polesine - n. 2 - dicembre 1997, da pag. 29 a pag. 33