La morte come vita
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La morte come vita
IL CONCRETO DELLO SPIRITO Lilia Sebastiani vrei voluto dare a questa riflessione il titolo La morte familiare, echeggiando il titolo di un libro di Marie de Hennezel La mort intime, che anni fa mi colpì straordinariamente e di cui ho consigliato la lettura a molte persone che conoscevo. In italiano è stato tradotto La morte amica. Non vorrei che questa fosse l’ennesima riflessione sull’eutanasia, anche se da fatti e richieste connessi prende le mosse: per esempio, è stata diffusa di recente dalle cronache di tutto il mondo la notizia dell’eutanasia richiesta e ottenuta in Belgio da un ragazzo di diciassette anni (quindi minorenne) malato terminale con il consenso dei suoi genitori, e questo ha intensificato e acceso il dibattito. Molti interventi al riguardo ho udito e letto, e anche i più aperti e coinvolti, anche quando sono ottimi per qualità e per intenzione, danno l’impressione di restare un po’ al di qua del problema, forse perché dinanzi alla sofferenza e alla morte ognuno è solo. Un discorso diverso si impone ovviamente per l’intervento che ha carattere di testimonianza. Questa invece è solo una semplice riflessione sulla vita, molto parziale certo, a partire dall’ultima fase del suo versante terreno. una morte buona, che cos’è? Sappiamo tutti che eutanasia significa buona morte. Ma il significato di questa parola e di questa idea ha conosciuto tali mutamenti attraverso tempi e culture che il semplice chiarimento iniziale dei concetti diventa problematico e acquista subito risonanze emotive o ideologiche. Intanto, come è stato sottolineato tante volte, il concetto di buona morte, anche al di fuori di qualsiasi intervento intenzionale per accelerarla, è molto mutato anche solo rispetto a un secolo fa: inizialmente significava morte serena e consapevole, morte attesa a cui è possibile prepararsi (anche in senso religioso, ma non solo); oggi si tende a considerare ‘buona morte’ quella che, prevedibile o no, giunge inavvertita, magari nel sonno, e non fa quindi sperimentare né dolore fisico né paura. La parola eutanasia nel mondo classico significava morte serena e non dolorosa, a prescindere dalle modalità. La parola in sé non implicava l’idea che qualcuno potesse darsi o farsi dare la morte per non soffrire, ma tale l’idea era comunque presente e accettata: alcune correnti filosofiche, in particolare l’epicureismo e lo stoicismo, consideravano positivamente anche l’idea del suicidio per sottrarsi a una vita che, per qualsiasi ragione, fosse divenuta insopportabile. Fu Francis Bacon il primo a introdurre il termine ‘eutanasia’ nelle lingue moderne, nel 1605, nel saggio Progresso della conoscenza, ma solo come invito (rivolto ai medici) a non abbandonare i malati inguaribili, a fare il possibile per aiutarli a soffrire meno. Solo a partire dall’Ottocento il termine cominciò a indicare un intervento deliberato, compiuto da un medico o da altri, volto a porre fine alle sofferenze di una persona malata senza speranza. Comincia a delinearsi il concetto di uccisione per pietà e quindi non condannabile in certe circostanze, anche se sul piano giuridico continuava a configurarsi come «omicidio del consenziente». All’inizio degli anni Sessanta, quando la riflessione moderna sull’eutanasia era ancora agli inizi, suscitarono molto interesse nel mondo cattolico le osservazioni dell’inglese dott.ssa Cicely Saunders, figura di particolare autorevolezza nella cura dei malati in fase terminale: a suo parere, un malato che richiede l’eutanasia in realtà sta avanzando una richiesta di altro tipo, quella di non essere abbandonato, di ricevere più cure e più attenzione. Oggi più o meno tutti concordano sul fatto che uno degli aspetti più penosi del morire, più ancora della sofferenza fisica che le moderne terapie del dolore possono ridurre in misura notevole, è l’umiliazione psicofisica, l’abbandono, la morte sociale e re47 ROCCA 15 OTTOBRE 2016 la morte come vita A IL CONCRETO DELLO SPIRITO lazionale che precede la morte fisiologica. Questa idea contiene certo una profonda verità, ma non esaurisce il problema e non vale in tutti i casi. Ci sono dei casi, e la cronaca degli ultimi anni li ha fatti conoscere all’opinione pubblica, in cui il malato riceve tutto l’aiuto e l’affetto possibili, e tuttavia resta ferma la sua volontà di non continuare a vivere. Si può essere d’accordo o no, ma è certo che ostinarsi a considerare la volontà di morire, in un caso del genere, come una semplice richiesta di aiuto e di tenerezza potrebbe costituire una vera mancanza di rispetto alla persona. L’obbligo di fondo nei confronti dei malati senza speranza o terminali è di ricordare sempre che si è di fronte a un essere umano, con una coscienza autonoma e con il diritto di essere preso sul serio; mentre è assai diffuso nella nostra cultura, soprattutto in ospedale ma non solo, l’uso di trattare qualsiasi persona gravemente malata come se fosse un bambino, come se la sua storia precedente non avesse più valore. Anzi questo è uno degli aspetti più dolorosi del suo stato. Nei nostri tempi la riflessione si intensifica e sono soprattutto le posizioni e le esperienze ‘non allineate’ a provocarci. Anche quando non ci si senta di aderire in toto all’una o all’altra tesi, la riflessione e talvolta la crisi che suscitano in noi sono importanti per approfondire il senso della vita, del coraggio e della debolezza, della sofferenza e della libertà. Küng: siamo responsabili della nostra vita e della nostra morte ROCCA 15 OTTOBRE 2016 Hans Küng, l’autorevole e discusso teologo le cui posizioni sono state spesso riprovate dalla Chiesa ufficiale (ma che sempre ha continuato a dirsi e considerarsi cristiano e cattolico), è tornato più volte negli ultimi decenni sul tema del fine vita, soprattutto a partire dagli anni Novanta con La dignità della morte - 20 tesi sull’eutanasia e, nel 1995, con il libro scritto insieme a Walter Jens Della dignità di morire: la difesa della libera scelta. Sulla questione è tornato anche nell’ultimo libro delle sue memorie (2014). Ormai avanzato in età e malato di una malattia degenerativa, ha scritto l’ultimo libro, Morire felici? (pubblicato in Italia nel 2015 da Rizzoli) che è molto interessante come testimonianza e anche dal punto di vista teologico e antropologico: crediamo che chiunque affronterà in futuro le tematiche del fine-vita, pro o contro l’eutana48 sia, non potrà prescinderne. Tuttavia non si presenta come un’argomentazione sistematica, ed è presentato dall’autore come un insieme di materiali per riflettere e per rispondere all’obiezione che spesso gli veniva mossa non solo da oppositori, ma anche da amici ed estimatori: che cioè, sostenendo strenuamente la responsabilità personale nella morte, egli «metterebbe in pericolo tutta la grande opera della sua vita». Hans Küng chiarisce subito le proprie intenzioni: che non sono di chiarire una volta per tutte la complessa questione dell’eutanasia, ma «di contribuire al costante processo di discussione e dare voce a un teologo cristiano che, sul piano esistenziale, è interessato in prima persona da questa problematica». Oltre a sperimentare personalmente la malattia, infatti, l’autore è stato profondamente coinvolto dalla morte del fratello Georg, avvenuta molti anni fa per un tumore al cervello, e dalla demenza progressiva dell’amico e collega W. Jens. L’idea di fondo emergente dalle varie parti del libro. È significativo che Küng eviti di usare il termine Euthanasie (che in tedesco è presente ma evoca risonanze sinistre più che in altre lingue, a causa del nazismo e del programma cosiddetto eugenetico Aktion 14, che fu anche chiamato «programma eutanasia»): preferisce usare Sterbehilfe, ‘aiuto alla morte’, sempre però nella prospettiva di un aiuto alla vita. «... L’intenzione di non protrarre a tempo indeterminato la mia esistenza terrena è un caposaldo della mia arte del vivere e parte integrante della mia fede nella vita eterna. Quando arriva il momento, ho il diritto, qualora ne sia ancora in grado, di scegliere con la mia responsabilità quando e come morire. Se mi venisse concesso, vorrei spegnermi in modo consapevole e dire addio ai miei cari con dignità. Per me, morire felici non significa morire senza malinconia né dolore, bensì andarsene consensualmente, accompagnati da una profonda soddisfazione e dalla pace interiore… Del resto, è questo il significato della parola greca eu-thanasia (…): ‘morte felice’, ‘buona’, ‘giusta’, ‘lieve’, ‘bella’. Un autentico Requiescat in pace». In un’intervista televisiva andata in onda il 20 novembre 2013 e riportata nel libro, l’autore spiega di non sentire le sue idee e il suo personale desiderio in contrasto con la sua fede cristiana: «Sono del parere che la vita terrena non sia tutto… Sono persuaso che non svanirò nel nulla, bensì entrerò in una realtà ultima. Per così dire, andrò verso l’interno, nella realtà più profonda in ter- Marie de Hennezel: lezioni di vita da chi sta per morire Dicevo che nella mia vita una pietra miliare per quanto si riferisce non esclusivamente al fine-vita, ma direi nella comprensione stessa della morte come parte della vita, e quindi della vita stessa come passaggio, è stata la lettura, molti anni fa, di un libro di Marie de Hennezel (pseud. di Marie Gaultier de la Ferrière) intitolato La mort intime, pubblicato in Italia da Rizzoli con il titolo La morte amica. Nella nostra lingua infatti «La morte intima» avrebbe risonanze diverse e non positive, facendo pensare a una persona che nell’intimo non vive più. Il sottotitolo è molto eloquente: Lezioni di vita da chi sta per morire. L’autrice, psicologa, psicoterapeuta e scrittrice, mette a frutto in questo primo libro – e in diversi altri venuti in seguito, fino all’ultimo – le esperienze compiute in anni di lavoro volto a migliorare le condizioni di vita materiale e spirituale dei malati incurabili. Stanno sorgendo un po’ ovunque, anche se ancora in misura insufficiente, quelle che, con terminologia certo poco felice, si sentono spesso chiamare «Unità di cure palliative», e altre volte semplicemente hospices: strutture destinate all’assistenza concepita olisticamente dei malati terminali, alle cure palliative appunto (quelle che non possono risolvere la malattia, ma possono migliorare la qualità della vita e ridurre o eliminare il dolore) e all’assistenza psicologica dei malati stessi e dei loro familiari, molto spesso impreparati a vivere situazioni del genere. I malati terminali sono talvolta rifiutati dagli ospedali (che comunque non costituiscono un ambiente adatto per loro) proprio perché, essendo ‘incurabili’ per definizione, sembrano costituire una testimonianza vivente, o sopravvivente, dei limiti della scienza medica. Le testimonianze offerte da Marie de Hennezel, e altre che fortunatamente si moltiplicano nei nostri tempi, attestano come in molti casi la fase ultima della vita terrena, che potrebbe sembrare la più penosa e più oscura, diventa un vero tempo di grazia, anzi il tempo che decide e svela il significato dell’esi- stenza intera: un tempo che talvolta viene vissuto dai malati non solo serenamente, ma attingendo una felicità (nel senso alto del termine) mai sperimentata nel tempo della pienezza delle forze. È significativo che negli hospices nessuno dei ricoverati avanzi la richiesta di eutanasia; anzi, anche qualora prima fosse stato orientato in quel senso, cambia prospettiva e disposizione interiore. In un altro libro, L’arte di morire, scritto a quattro mani con il prete ortodosso JeanYves Leloup, in cui attinge alle filosofie e alle grandi religioni d’Occidente e d’Oriente, Marie de Hennezel sviluppa le implicazioni teologico-spirituali già presenti ne La morte amica: lavorando sulla propria interiorità, diventa possibile raggiungere quella serenità di spirito, quel distacco necessario ad aiutare chi sta per congedarsi dalla vita e anche ad accettare senza paura il proprio destino. Così la morte, il passaggio, diventerà un’occasione preziosa di risveglio interiore, «il momento più sacro dell’esistenza». la regola inderogabile: un approccio personalistico Come la vita è un valore globale, che supera infinitamente il semplice ‘sopravvivere’ (di qui la sconvenienza e la disumanità di certe forme di accanimento terapeutico), anche la difesa della vita, se autentica, è un agire globale in chiave personalistica. Non basta certo sostenere a spada tratta l’illiceità dell’eutanasia, che può combattersi solo a patto di migliorare in ogni senso – fisico, esistenziale-relazionale, spirituale – la qualità della vita del malato. Di eutanasia, inevitabilmente, si continuerà a parlare sempre più, ed è necessario evitare al riguardo ogni accanimento ideologico, oltre che terapeutico ovviamente: non è una questione teorica, ma una realtà umana, diversa in ogni caso, legata alla situazione del malato e alla sua storia pregressa. E non riguarda solo i malati terminali, gli operatori sanitari e i legislatori: riguarda tutti. Almeno in quanto ci provoca personalmente a riconciliarci con la nostra mortalità (e con quella degli altri, cosa che può essere altrettanto difficile e forse più), di approfondirne il senso, la connessione profonda con tutto ciò che è ‘prima’ e, se si è credenti, anche il ‘dopo’ che non possediamo con il pensiero, ma intuiamo e in qualche modo già viviamo nella speranza. ROCCA 15 OTTOBRE 2016 mini relativi e assoluti, e lì troverò una nuova vita. È questa la mia convinzione di fede, che naturalmente mi permette di essere un tantino più disinvolto riguardo alla lunghezza di questa vita e alla sua sopportazione». Lilia Sebastiani 49