Ortoepia Italiana - Einstein e Ortoepia

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Ortoepia Italiana - Einstein e Ortoepia
PERCHE’ ORTOEPIA
A tutti capita, prima o poi, di essere colpiti dalla bellezza della
voce e dal modo di parlare di alcuni. Ascoltando gli attori a teatro e al
cinema, qualche cronista, i doppiatori e, perché no, anche persone della
vita di tutti i giorni, è facile accorgersi che essi si esprimono in maniera
diversa, migliore della nostra.
Lʼammirazione è seguita, a volte, da osservazioni del tipo: “che
bella dizione…”, “come parla bene…”, “ha una voce meravigliosa…”,
“possiede una pronunzia perfetta…” eccetera. Con queste frasi si
vuole mettere in evidenza la chiarezza dellʼesposizione, la bellezza
e lʼimpostazione della voce, la correttezza degli accenti nelle parole.
Ma accade, qualche volta, che usando o ascoltando la frase “che bella
dizione” non sia ben chiaro se ci si riferisce ad una qualità piuttosto
che ad unʼaltra. Questo perché la parola “dizione”, che deriva dal
latino “dictio-dictionis”, ha una gamma di significati molto ampia:
detto, parola, discorso, parte di un discorso, orazione, eccetera. Anche
lʼespressione “come parla bene” è ambigua poiché può essere rivolta
sia a chi esprime concetti validi in una forma letteraria povera, sia a chi
fa discorsi privi di contenuti importanti ma sa parlare in modo originale
e corretto. Le frasi “che bella voce”, “che pronunzia perfetta” non
suscitano invece alcun dubbio. La bellezza della voce è semplicemente
un dono della natura e, a volte, il risultato dellʼimpegno e dello studio.
La correttezza della pronunzia, in modo analogo, può essere raggiunta
con lʼesercizio e lʼapplicazione od ottenuta con “la fortuna di essere
fiorentini”.
Ed eccoci arrivati al punto. Lʼortoepia, che dal greco significa
letteralmente “dritta parola”, cioè parola corretta, è il termine
appropriato per indicare ciò che concerne la qualità della pronunzia.
I vocabolari della lingua italiana si avvalgono dei cosiddetti “segni
ortoepici” per indicare come devono essere pronunziate le parole. Tali
segni, che poi vedremo, sono gli accenti sulle vocali, uguali per tutti
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i vocabolari ed un segno, che può variare da dizionario a dizionario,
riguardante le consonanti “s” e “z”.
Dicevamo della “fortuna” di essere fiorentini. A Firenze nasce
infatti la lingua italiana e lʼAccademia della Crusca, fondata nel 1583
da Leonardo Salviati, aveva lo scopo, separando il buono dal mediocre,
di redigere un vocabolario seguendo il canone illustre del fiorentino del
Trecento. Il “Vocabolario degli Accademici della Crusca” aveva la sua
prima edizione a Venezia nel 1612 ed è da considerarsi il più antico
“vocabolario moderno” delle letterature europee.
Eʼ comprensibile allora come a Firenze, in Toscana e in gran
parte dellʼItalia centrale, dallʼUmbria al Lazio e alle Marche, si parli un
italiano ortoepicamente migliore.
In questi ultimi 50 anni ci sono stati grandi mutamenti sociali. La
televisione e il trasferimento in massa dalle campagne alle città e da
regione a regione hanno causato un sempre più ridotto uso dei dialetti.
Siamo tutti dʼaccordo che si deve evitare la perdita di un patrimonio
culturale così importante, ma se deve essere mantenuta e difesa la
tradizione dialettale a maggior ragione è necessario tutelare la nostra
lingua nazionale, lʼitaliano, che è il “primo” dei dialetti e il più nobile.
I nostri antenati sono i Liguri, i Sardi, i Sicani, i Veneti, gli Umbri,
i Sanniti, i Piceni, i Bruzii, i Lucani, gli Apuli, i Siculi, gli Iapigi, i
Latini, i Sabini, gli Equi, i Volsci ed anche i Fenici, i Cartaginesi ed i
Greci.
LʼItalia è proprio al centro di quel Mediterraneo che ha visto
sorgere e svilupparsi lo splendore del mondo greco e romano. Nessun
altro popolo è stato a contatto, come noi, con le civiltà più elevate.
Non a caso, forse, a partire dal tredicesimo secolo, parallelamente alla
nascita della lingua e della letteratura italiana, cʼè stato un fiorire delle
opere dʼarte che è culminato nellʼincredibile produzione del nostro
Rinascimento.
A noi piace credere che nella nostra lingua ci sia tutto questo
e che la struttura del periodo, la rigorosità, lʼestrema logica e tutta la
bellezza del pensiero greco e latino siano felicemente tradotte e rese in
italiano.
Nelle più famose università degli Stati Uniti si dà molta importanza, in questo periodo, allo studio del greco e del latino perché
queste lingue avrebbero, secondo gli esperti americani, un grande
potere formativo. Eʼ divertente sapere che vi sono studiosi stranieri che
sostengono, ora, quello che anche noi abbiamo sempre pensato. Eʼ un
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poʼ meno divertente constatare che purtroppo ci sia, se non a parole
certamente di fatto, una tendenza di pensiero contraria proprio in Italia
e che poco alla volta ci accingiamo ad abbandonare lo studio di quelle
meravigliose lingue.
Unʼaltra stranezza, e questa è strettamente ortoepica, ci pare la
seguente. Nello studio delle lingue straniere diamo molta importanza
alla pronunzia. Facciamo un esempio. In francese la parola “padre” è
“père” e si legge con la “e larga” come indica lʼaccento ortoepico grave
(\) od ottuso. Qualsiasi insegnante considera giustamente un grave
errore il dire “pére” con la “e stretta”. In italiano invece, che è la nostra
lingua, non si dà importanza ad errori del genere. E questo accade
non soltanto a scuola. Sui manifesti della pubblicità, nei giornali, alla
TV capita sempre più spesso di osservare errori del tipo: “é bello”,
“perchè”, “cʼé”, eccetera. Ora, se lungo la strada o presso un negozio
leggiamo “Natale é bello”, possiamo non accorgercene o dare al fatto
lʼimportanza che merita. Ma se, durante trasmissioni di natura politicoculturale, tra le più seguite ed interessanti, si notano frasi del tipo:
“Ma questa é…” o “PERCHÈ” (a caratteri cubitali ed in rosso), si può
rimanere veramente perplessi!
Poiché tutto quello che è in movimento attira maggiormente
lʼattenzione di ciò che è fermo, ci siamo accorti, allʼennesima
ricomparsa della scritta, di quanto avveniva. I personaggi presenti,
giornalisti, intellettuali ed esponenti del mondo della cultura e della
politica, fra i più cari al pubblico, discutevano sullʼargomento con
eleganza, intelligenza e, perché non dirlo, anche con un bellʼitaliano ed
una piacevole ortoepia. E dietro di loro quel piccolo, insignificante ma
fastidiosissimo errore… Eʼ sempre accaduto che nella lingua parlata
si prendessero licenze “ortoepiche” del genere; è del tutto naturale e
comprensibile, ma nel passato era molto raro “leggere” errori così.
Anche le altre lingue nazionali hanno, nelle varie zone, inflessioni
e cadenze diverse e, proprio come in Italia, si parla in maniera più o
meno ortoepicamente corretta.
Noi sappiamo capire facilmente se una persona è veneta o siciliana,
se unʼaltra è ligure o pugliese dallʼinflessione che, nel loro italiano,
deriva dal corrispondente dialetto. Se queste stesse persone potessero
esprimersi senza quelle cadenze rivelatrici, ci sarebbe molto difficile
individuarne la provenienza perché le differenze che le caratterizzano
si ridurrebbero solo a quelle ortoepiche. A parte qualche caso noto a
tutti come certe “e aperte” (barchètta…) dei milanesi o certe “o chiuse”
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(uóvo…) dei napoletani che possono rivelarcene lʼorigine, per riuscire
nellʼintento è necessario non solo conoscere lʼortoepia ma anche le
caratteristiche ortoepiche buone e meno buone delle varie regioni.
Unʼultima osservazione. Teniamo a ribadire che noi consideriamo
estremamente importanti i dialetti, sia dal punto di vista culturale
che espressivo, e riteniamo che la tradizione dialettale non debba
morire; lʼinflessione e la cadenza di una parlata però (non il dialetto!),
per quanto “simpatiche” possano essere, non sono certamente una
caratteristica positiva in relazione alla lingua italiana. E questo vale
anche per il fiorentino. Quando diciamo che a Firenze è nata la nostra
lingua e che vi si parla il miglior italiano ci riferiamo unicamente alla
esattezza degli accenti ortoepici che, sulle sponde dellʼArno, sono
esattamente quelli indicati dal vocabolario. Si potrebbe, in sintesi, dire
che la lingua italiana è il fiorentino privo di ogni cadenza e della sua
più caratteristica inflessione: la nota aspirazione della “c” che la rende
praticamente muta.
Questo libro non vuole essere un manuale con lo scopo di
insegnare a parlare un italiano ortoepicamente corretto, ma nasce con
lʼintento, molto meno ambizioso, di far parlare un italiano migliore. Non
daremo pertanto consigli metafisici su come esercitarsi per ottenere le
“e” e le “o” aperte o chiuse; né inviteremo alcuno a mettere una matita,
ad esempio, fra i denti per ottenere suoni stretti o più acuti. Siamo sicuri
che “giocando” con le labbra, aprendole e socchiudendole di più o di
meno, si possa riuscire con un poco dʼesercizio e pazienza ad ottenere
soddisfacenti risultati.
Alcune delle regole che riporteremo si possono trovare sparse
qua e là in quasi tutti i testi di italiano e nei vocabolari; noi le abbiamo
raccolte, ampliate e corredate delle relative eccezioni. Le altre, la
maggior parte, sono il risultato del nostro lavoro di ricerca, analisi e
comparazione.
Sarà necessario applicarsi un poco per memorizzarle il più possibile
ma, anche non facendolo, si può passare direttamente alla lettura delle
“poesie e dei brani ortoepici”.
Nella seconda parte del libro sono riportate alcune poesie e brani,
fra i più noti della nostra letteratura, e alcune fra le più famose romanze
liriche, con lʼindicazione degli accenti ortoepici (che di norma non
vengono messi) in modo da poterli leggere o … cantare, senza la fatica
di cercare le varie parole sul vocabolario, proprio con i suoni corretti,
secondo le regole dellʼitaliano.
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Presentiamo anche la poesia e la romanza nella sua forma
originale, in modo che ci si possa rendere conto di come le leggeremmo
senza lʼaiuto di cui sopra. Questo può anche servire da esercizio per
scoprire se commettiamo errori, in quale misura, e se facciamo dei
progressi. Noi abbiamo provato, leggendo non come avremmo fatto
solitamente, ma secondo lʼindicazione degli accenti ortoepici, la
sensazione di trovarci di fronte ad una poesia, ad un brano più belli. E
la lingua stessa appare migliore.
Indubbiamente le poesie lette dai grandi attori hanno un fascino
del tutto particolare. La bellezza naturale della loro voce, lʼimpostazione
della stessa ottenuta con lo studio e lʼesercizio, unite alla correttezza
dellʼortoepia, sono per la poesia quello che per la musica sono
unʼorchestra, un direttore e dei solisti eccezionali.
Ma è altrettanto vero che oltre al piacere di ascoltare le poesie
cʼè anche quello di leggerle e tutto ciò che facciamo per rendere la
nostra lettura migliore, e rispettosa di quanto la poesia stessa richiede,
è bello.
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PARTE PRIMA
ORTOEPIA
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GLI ACCENTI E I SEGNI ORTOEPICI
ACCENTO FONICO
Le vocali del nostro alfabeto sono cinque per quanto riguarda
la scrittura (grafemi vocalici) e sette in relazione al suono (fonemi
vocalici). Mentre “a”, “i” ed “u” si pronunziano in un sol modo e non
vi è regione o zona dʼItalia ove questo non accada, le vocali “e” ed
“o” possono essere dette in due maniere diverse e ce ne accorgiamo
facilmente ascoltando parlare delle persone provenienti dalle varie parti
del nostro Paese.
La “e” e la “o” chiuse (strette), come in “tela ed in onda”
rispettivamente, sono caratterizzate da un accento posto sopra di esse,
detto “acuto” e ascendente da sinistra a destra ( / ).
La “e” e la “o” aperte (larghe), come in “tema” ed in
“pioggia”, si indicano con lʼaccento “grave” e discendente da sinistra
a destra ( \ ).
Eʼ opportuno dire che questi accenti, come quelli tonici non
obbligatori dei quali parleremo più avanti, non devono essere scritti
ma, consultando il dizionario, li troviamo messi sulle vocali per
indicarci lʼesatta pronunzia. Ad esempio scriviamo “tema” e “tela” e
sul vocabolario troviamo scritto: “tema-tèma” e “tela-téla”.
A semplice titolo di curiosità, ma anche allo scopo di memorizzare
i due tipi di accenti, possiamo dire che quello acuto corrisponde ad una
inclinazione inferiore ai 90° e lʼaltro, che pertanto potremmo chiamare
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“ottuso”, ad una superiore agli stessi. Ma le definizioni “acuto e grave”
hanno la loro spiegazione nella Fisica e precisamente in quella sua
parte che studia il suono: lʼAcustica. Se vogliamo pronunziare una “e”
od una “o” chiuse (strette) dobbiamo stringere leggermente le labbra e
questo produce automaticamente un aumento della frequenza del suono
emesso, e quindi della sua altezza (suono più acuto). Allargando invece
la bocca otterremo dei suoni di minor frequenza, più bassi e, per quanto
ci interessa, delle “e” e delle “o” più aperte (suono più grave).
Restando nella Fisica possiamo ricorrere ad unʼanalogia, nel campo dei
fluidi, che può essere interessante. Quando si innaffia un orto o si lava
una macchina il getto è più o meno stretto (acuto-chiuso) o più o meno
largo (grave-aperto) a secondo che stringiamo o allarghiamo lʼorifizio
della lancia. Lʼacqua è la voce proprio come lʼorifizio del tubo è la
bocca.
Ogni zona, che corrisponde molto approssimativamente alla
regione di appartenenza, si differenzia dalle altre anche per come
vengono pronunziate le “e” e le “o”. Ed è necessario dire che, fatta
eccezione per la Toscana e parte delle zone ad essa più prossime, i
pregi ed i difetti si compensano su tutto il territorio nazionale. Così ad
esempio in certi luoghi si usa dire “tempo” con la “e chiusa” (errato) e
“merito” con la “e aperta”(corretto), in altri si pronunzia esattamente la
prima parola e si commette lʼerrore nella seconda.
In alcuni posti si dice giustamente “buon giorno” con la prima “o”
aperta, la seconda chiusa e la terza ancora chiusa. Ma se si potesse
fare unʼindagine su come gli italiani si scambiano a vicenda il classico
augurio mattutino si vedrebbe come, a parte lʼordine degli errori, ci si
sbaglia quasi ovunque, da Milano a Napoli, da Venezia a Palermo, con
una percentuale intorno al 50%.
La spiegazione di questo fatto, che cioè lʼitaliano parlato sia così
pesantemente soggetto ad errori fonetici, è che le regole della
grammatica italiana non impongono, se non in casi particolari (come
vedremo a proposito dellʼaccento tonico), lʼuso obbligatorio degli
accenti grafici (fonici e tonici) nella lingua scritta.
E allora, se leggendo un libro volessimo sapere la pronunzia di
alcune parole, come ad esempio quelle che abbiamo appena incontrato
(tempo, credito…), noi dovremmo consultare il vocabolario. La
nostra curiosità verrebbe subito appagata perché troveremmo scritto
“tempo (pron. tèmpo)”, “credito (pron. crédito)” e saremmo in grado
di pronunziarle correttamente. Ma quanta fatica e soprattutto quanto
tempo impiegheremmo per leggere un libro!
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Sarebbe una gran bella cosa - e di grande utilità - se fosse consuetudine, per i canali di informazione e di cultura, indicare gli accenti
fonici, o perlomeno quelli tonici. Ci rendiamo conto dellʼimpossibilità
di realizzare unʼidea del genere, ma non passerebbero due generazioni
che tutti, per quanto concerne lʼortoepia, sarebbero in grado di parlare
un soddisfacente italiano. Si potrebbe ottenere questo senza compiere
il minimo sforzo mentre oggi, come da sempre, le varie grammatiche
della scuola media dedicano poche pagine allo studio dellʼortoepia che
solitamente, forse anche per mancanza di tempo, vengono ignorate.
È difficile incontrare insegnanti che trattino questo argomento, che
dicano agli allievi: “Ragazzi, si pronunzia tèma e non téma. Non dite
parlamènto, ma parlaménto. Non stória, ma stòria.”. I programmi sono
lunghi, impegnativi e il tempo sempre più limitato. Ci sono cose che
vengono prima delle sfumature, dei particolari della nostra lingua…
In fin dei conti lʼortoepia può interessare soltanto gli attori. Si può
essere dʼaccordo. Ma cʼè una domanda alla quale noi non troviamo
una risposta: “A cosa serve la perfetta dizione a teatro se noi spettatori
non siamo in grado di apprezzarla?”. Sono molti anni che seguiamo
le rappresentazioni teatrali e soltanto da quando abbiamo iniziato ad
occuparci di ortoepia gli spettacoli ci appaiono diversi, con qualcosa
in più.
Prima, quando lʼopera proposta era di qualità scadente, se non
addirittura un “fiasco”, ciò che a noi rimaneva non poteva che essere un
ricordo di assoluta negatività. Ora è diverso. Può essere un fallimento
la regia, la stessa recitazione, ma cʼè sempre almeno un attore che,
ascoltandolo, riesce a rendere, in qualche modo, vivo e interessante lo
spettacolo.
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ACCENTO TONICO
Il suono che noi emettiamo nel pronunziare una qualsiasi parola
non è mai distribuito uniformemente sulla stessa, ma risulta più intenso,
più lungo su una delle sue sillabe, detta tonica, ed in particolare la voce
appoggia su una vocale della sillaba tonica, chiamata “vocale tonica”.
Lʼaccento tonico viene messo sulla vocale omonima ed è
graficamente uguale a quello fonico; acuto o grave per le “e” e le “o”,
sempre grave(convenzionalmente) per le altre tre vocali in quanto esse
non hanno suono doppio.
Anche per lʼaccento tonico vale quanto detto per quello fonico: le
regole della grammatica cʼimpongono di scrivere ad esempio “uomo”,
ma sul vocabolario troviamo scritto “uomo-uòmo”. In questo caso il
dizionario ci insegna che la parola in questione si scrive senza accento,
che il suono insiste sulla prima “o” (vocale tonica con sopra lʼaccento
tonico) e che essa è aperta (accento grave fonico).
Nella maggior parte delle parole non è obbligatorio indicare
lʼaccento tonico (anzi, in alcuni casi si commette errore nel metterlo),
e dʼaltra parte non troviamo alcuna difficoltà nel leggerle e nel
pronunziarle. Se leggiamo la parola “amore” facciamo pesare il suono
sulla “o” con estrema naturalezza, come leggendo “rugiada” la voce
insiste sulla “a” della seconda sillaba senza che alcun accento su queste
parole ci dia delle indicazioni.
Vi sono però delle situazioni nelle quali viene meno la nostra
sicurezza. Chi non si trova in difficoltà di fronte a parole come “rubrica,
zaffiro…”? Dobbiamo appoggiare la voce sulla “u” o la “i” nella
prima, e sulla “a” o la “i” nella seconda? Eʼ il momento di consultare
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il vocabolario. Se questo è di modesta qualità riporta semplicemente
la parola con il suo accento. Nel nostro caso troviamo “rubrica” e
“zaffìro” con lʼaccento grave sulla “i”. Un vocabolario più importante,
completo, fornisce anche lʼetimo, lʼorigine della parola e, ad esempio,
per la parola “rubrica” ci dice che questa deriva dal latino e che significa
letteralmente “terra rossa”. I titoli, le regole, gli elenchi che si trovano
in alcuni codici antichi e nelle leggi erano scritti in rosso. Ci viene data
così la spiegazione del significato della parola “rubrica”.
Le pochissime parole sulle quali vediamo messo lʼaccento tonico
(che nel caso di “e” ed “o” è anche fonico), o per le quali consultiamo
il vocabolario allo scopo di sapere se dobbiamo indicare lʼaccento
oppure no, sono quelle che, secondo le regole della grammatica,
devono essere scritte con lʼaccento.
Lʼuso dellʼaccento è obbligatorio nei seguenti casi:
1)
Nelle parole tronche (hanno lʼaccento sullʼultima sillaba).
Ad es: perché, caffè, carità, inciampò, divertì, ecc.
2)
Nei monosillabi che terminano con due vocali.
Ad es: più, già, scià, ecc.
3)
In alcuni monosillabi per distinguerli dagli stessi con altro
significato. Ad esempio:
da giovane.
ti dà il pane.
la luna.
andiamo là.
di giorno.
il dì di festa.
io li conosco.
sei lì?
si dice che…
dimmi di sì!
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Consideriamo ora il seguente esempio:
egli pensa a sé.
imparo se (sé) studio.
Nel primo caso lʼaccento acuto sul sé-pronome ci insegna a
pronunziarlo chiuso. Nel caso del se-congiunzione, non essendoci
alcuna indicazione grafica, siamo in difficoltà se ci poniamo il
problema della pronunzia corretta. Il vocabolario indica “se (sé)” e
risolve lʼeventuale dubbio.
Altri esempi analoghi sono:
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domani è domenica.
lavoro e (é) studio.
né oggi né mai.
non ne (né) posso più.
mi piace il tè.
ci andrò con te (té).
OMONIMI OMOFONI ED OMONIMI OMOGRAFI
Le parole dellʼitaliano, come in genere accade in tutte le lingue,
hanno molti significati che rientrano tuttavia in una gamma di affinità.
Così se diciamo “casa” non vi è alcun dubbio, a prescindere dal
contesto del discorso, su che cosa intendiamo. Può essere un edificio,
lʼabitazione, anche la famiglia, unʼazienda… ma non certamente un
elefante.
Esistono però delle parole, come ad esempio “fiera” e “colto”, che
hanno due significati del tutto diversi e dobbiamo capire, dal discorso,
quale va loro attribuito.
Gli esempi portati sono due, come i gruppi di parole che presentano
la caratteristica del doppio significato e che formano lʼinsieme
degli omonimi (stesso nome). Distinguiamo questi in omofoni ed in
omografi.
Omonimi-omofoni (stesso nome-stesso suono).
Sono le parole che, identiche nella scrittura e nel suono,
posseggono due (o più) significati diversi. Per maggior precisione e
completezza andrebbero chiamati omonimi-omofoni-omografi. Per
semplicità li chiamiamo omofoni.
Omofoni come ad esempio “lira” (moneta, strumento musicale)
non hanno alcun interesse per quanto riguarda lʼortoepia. Riportiamo
alcuni omofoni con lʼindicazione della corretta dizione anche se,
rispettando le regole grammaticali, non dobbiamo mettere lʼaccento su
queste parole.
cera (céra)
la céra delle api
hai una brutta céra
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chiese (chièse)
visitare delle chièse
lui le chièse di…
fiera (fièra)
andare alla fièra
tu sei fièra di me
la tigre è una fièra
conti (cónti)
tu cónti male
i cónti tornano
sono arrivati i duchi, i cónti…
fondo (fóndo)
toccare il fóndo
fóndo un partito
io fóndo il metallo
letto (lètto)
andare a lètto
ho lètto un libro
verso (vèrso)
vado vèrso la piazza
il vèrso del passero
io vèrso del vino
Omonimi-omografi (stesso nome-stessa grafia).
Sono le parole che, uguali nella scrittura ma non nel suono,
posseggono due (o più) significati. Gli omografi, a differenza degli
omofoni, si differenziano per la pronunzia delle “e” o delle “o”, oppure
per la diversa posizione dellʼaccento tonico. La grammatica consiglia,
poiché vi è la possibilità di distinguere le due parole omografe, lʼuso
dellʼaccento che le caratterizza.
Presentiamo una parte degli omografi di uso più frequente (con e).
omografo
é chiusa
è aperta
accetta
lʼaccétta (lʼascia)
egli accètta
affetto
io affétto (io taglio)
lʼaffètto (sentimento)
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collega
ti colléga a Roma
è un mio collèga
corresse
se lui corrésse
(da correre)
lui corrèsse
(da correggere)
dei
lʼaria dei (déi) boschi
gli dei (dèi)
esca
lʼésca (del pescatore)
lei èsca!
legge
la légge
lei lègge
mento
si è rotto il ménto
io mènto
messe
le rose sono mésse
sono andato a due mésse
è stata una buona mèsse (raccolto)
messi
i méssi (uscieri, commessi)
mèssi abbondanti
pesca
la pésca (il pescare)
la pèsca (il frutto)
peste
seguire le péste (impronte) cʼè la pèste
tema
“niun mi téma…”
è un bel tèma
venti
vénti uomini
i vènti del Nord
Eʼ opportuno osservare che gli omografi (identica scrittura) sono tali,
in realtà, se non hanno lʼaccento che li esplicita.
Ad esempio “tema” è un omografo. Il “tèma” non è più omografo poiché
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è stato eliminato il dubbio sul suo significato e soprattutto perché non è
graficamente uguale a “tema”. Le regole della grammatica consigliano
(!) lʼuso dellʼaccento negli omografi; ma che cosa accade se chi scrive
non sa di trovarsi di fronte ad uno di questi? Semplicemente che il
significato si dedurrà dal contesto, che lʼautore ha scritto un omografo
e che la parola sarà pronunziata correttamente o no in modo del tutto
casuale.
Vediamo ora un elenco di omografi con la vocale “o”.
omografo
ó chiusa
ò aperta
botte
la bótte piena
ha preso delle bòtte
colta (o)
una persona cólta
la frutta còlta
corso
io ho córso
Napoleone era còrso
foro
fóro (buco)
fòro (piazza-principe del fòro)
fosse
se lei fósse…
ho scavato delle fòsse
importi
vorrei impórti di..
non è che mi impòrti
indotto
ti ha indótto a…
indòtto (non dotto-idiota)
mozzo
1) il mózzo delle navi
2) un dito mózzo
il mòzzo della ruota
porci
vuoi pórci il pane?
i pòrci nel cortile
porsi
pórsi allʼopera
io ti pòrsi il pane
pose
póse le fondamenta
assumere delle pòse
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posta
pósta in salvo
cʼè pòsta per te
rocca
la rócca per filare
una ròcca medioevale
rosa
rósa di rabbia
ti dono una ròsa
scopo
io scópo il pavimento
avere uno scòpo
scorsi
scórsi ( feci scorrere)
le pagine
io scòrsi il mare
sorta
è sórta la luna
una sòrta (specie) di…
torta
la tórta è buona
con la bocca tòrta
volgo
si rivolse al vólgo
io vòlgo lo sguardo al…
volto
ha un bel vólto
con lo sguardo vòlto a…
Omografi con diversa posizione dellʼaccento tonico.
Ne esistono molti del tipo:
àmbito-ambìto / càpitano-capitàno / circùito-circuìto
rùbino-rubìno / sùbito-subìto
Questi omografi non hanno lʼaccento sulle vocali “e” ed “o” e pertanto
lʼinteresse per quanto riguarda la fonetica è minore dei seguenti:
altero
io àltero i dati
tu sei altèro
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ancora
dimmelo ancóra
gettare lʼàncora
benefici
ho tratto benefìci
siate benèfici
compito
è cómpito tuo
è molto compìto
desideri
tu desìderi…
i tuoi desidèri
leggere
imparo a lèggere
nuvole leggère
malefici
i malefìci del reo
i rei sono malèfici
predico
io predìco la fine
io prèdico al vento
regia
la regìa del film
la potenza règia
retina
uso una retìna
la rètina dellʼocchio
seguito
io sono seguìto
tu sei al séguito
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ORTOEPIA DI “E”
Ogni parola della nostra lingua ha il suo etimo, la sua storia e,
pertanto, le regole dellʼortoepia non hanno pretese di rigorosità, non
sono dei teoremi di matematica né delle leggi fisiche; alcune non
presentano eccezioni, altre ne hanno poche ed altre ancora molte.
La parola “eccezione”, in questo lavoro come nelle grammatiche e nei
dizionari che riportano regole ortoepiche, deve essere interpretata con
una certa elasticità.
Trovare affinità nelle parole allo scopo di dare loro un certo ordine e di
classificarle, in relazione al suono, non è stato facile.
Più ci si addentra in questa materia, più si costruiscono regole e si amplia
la classificazione, maggiore diventa la probabilità che le “eccezioni” ad
una regola siano “non eccezioni” per unʼaltra.
Ricordiamo inoltre che abbiamo deciso di presentare le parole
proprio come avviene nei vocabolari: “prima la parola come deve essere
scritta, poi la scrittura ortoepica”. Molte volte ci siamo chiesti se non
fosse un lavoro inutile, ma la scelta è stata determinata dai vantaggi che
si possono ottenere con questo metodo anche se è un poco pesante.
Se noi leggiamo “amóre” capiamo che dobbiamo pronunziare la “o”
chiusa; ma ci potrebbe venire il dubbio sulla obbligatorietà o meno di
scrivere lʼaccento.
Se invece leggiamo: amore (amóre) oppure “amore-amóre”,
la nostra mente è indubbiamente più libera nellʼapprendere e nel
memorizzare.
“e” chiuso
Il grafema “e” si pronunzia chiuso in tutte le parole nelle quali
lʼaccento tonico non cade sulla sua sillaba, cioè quando non è vocale
tonica.
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Ad esempio: in “sempre” la prima “e” è tonica ed il vocabolario insegna
che è aperta; la seconda non è tonica e pertanto deve avere suono
chiuso.
La pronunzia è: “sèmpré”.
In “verde” è ancora tonica la prima ma ora il dizionario dice che è
chiusa; la seconda è chiusa perché non tonica.
La pronunzia è “vérdé”.
Ricordiamo che il suono delle vocali non toniche è meno intenso,
la voce vi scorre sopra più velocemente, e lʼeventuale errore ed
imperfezione di pronunzia risulta meno evidente.
Casi nei quali il grafema “e” si pronunzia chiuso
1) quando rappresenta semplicemente la vocale e (é)
2) quando è congiunzione:
oggi e (é) domani…
tu ed ( éd ) io
3) in “eh” interiezione: con suono chiuso e di breve durata per
esprimere esortazione o rimprovero:
“eh (éh ) dai, un pò di impegno!” …
“eh (éh ), che stai facendo?”
4) in “ehi” interiezione per esprimere stupore e per richiamare
lʼattenzione:
“ehi (éhi ), che errore”…
22
“ehi (éhi ), cʼè qualcuno?”
5) in “ei” termine poetico in luogo di “egli, essi”:
ei (éi ) disse…
ei (éi) andarono
6) in tutti i pronomi personali : egli, ella, esso, essa, essi, esse:
egli (égli ) disse…
esse (ésse ) vennero, ecc.
7) nel pronome “ce”:
ce (cé) lo disse…
ce (cé) ne vuole…..
8) in “ne” pronome, preposizione, avverbio ed in “né” congiunzione:
ne (né) voglio ancora…
è riportato ne (né) “ La Divina Comedia”
me ne (né) allontanai…
né a Roma né a Milano….
9) in “se” congiunzione e pronome:
se (sé) tu mi aiuti…se (sé) li vide davanti… lo fece per sé
23
Vocabolarietto
Presentiamo un elenco di pronomi, preposizioni, congiunzioni,
avverbi, numeri, nomi propri di persona, nomi di città e termini
matematici e scientifici per una pronta consultazione.
Ovviamente ritroveremo le parole di questo elenco laddove dovranno
essere inserite per le loro caratteristiche ortoepiche.
Ad esempio, troveremo la parola “segmento” fra quelle che terminano
in “mento” e che richiedono la “e” chiusa.
Pronomi, preposizioni, congiunzioni e avverbi
codesto-a-i-e (codésto-a-i-e )
questo-a-i-e (quésto-a-i-e )
quello-a-i-e ( quéllo-a-i-e )
quegli (quégli)
del (dél)
dello-a-gli-e ( déllo, délla, dégli, délle )
dentro (déntro )
spesso (spésso)
dei (déi )
entro (éntro)
per (pér)
seguito (séguito)
Numeri
tre (tré)
tredici (trédici)
venti (vénti)
ventitre (ventitré)
24
sedici (sédici)
Nomi propri
Antonietta (Antoniétta)
Benedetto (Benedétto)
Elisabetta (Elisabétta)
Francesco (Francésco)
Simonetta (Simonétta)
Stella (Stélla)
Vera (Véra) e pochi altri.
La maggior parte dei nomi ha, come vedremo, la “e” aperta.
Nomi di città
Albenga (Albénga)
Arezzo (Arézzo)
Barletta (Barlétta)
Brescia (Bréscia)
Caltanissetta (Caltanissétta)
Empoli (Émpoli)
Gaeta (Gaéta)
Grosseto (Grosséto)
Pesaro (Pésaro)
Ravenna (Ravénna)
Spoleto (Spoléto)
Varese (Varése)
Termini matematici e scientifici
altezza (altézza)
ampiezza (ampiézza)
argomento (argoménto)
cerchio (cérchio)
coseno (coséno)
larghezza (larghézza)
lunghezza (lunghézza)
meno (méno)
25
segmento (segménto)
segno (ségno)
seno (séno)
antenna (anténna)
assorbimento (assorbiménto)
battimenti (battiménti)
candela (candéla)
catena (caténa)
credito (crédito)
decadimento (decadiménto)
debito (débito)
elemento (eleménto)
esperimento (esperiménto)
grandezza (grandézza)
innesco (innésco)
irraggiamento (irraggiaménto)
legge (légge)
movimento (moviménto)
orientamento (orientaménto)
peso (péso)
pianeta (pianéta)
potere (potére)
rocchetto (rocchétto)
rotolamento (rotolaménto)
spostamento (spostaménto)
strumento (struménto)
stella (stélla)
vetro (vétro)
Terminazioni verbali notevoli
1) “é-ei” del passato remoto.
egli credé, perdé, pendé…
Eʼ eccezione “ pendei-pendèi”.
26
io perdei (perdéi), credei (credéi)
2) “emo” del futuro.
noi correremo (correrémo ), giocheremo (giocherémo ), ecc.
3) “emmo-erono” del passato remoto.
noi perdemmo ( perdémmo), loro crederono (credérono)…
4) “enni-enne-ennero”, “evvi-evve-evvero”, “eci-ece-ecero” del
passato remoto.
io ritenni (riténni )…
avvenné (avvénne) che…
loro ténnero (ténnero) …
io tenni (ténni)...
egli venne (vénne)…
essi sostennero (sosténnero)…
io bevvi ( bévvi )…
egli bevve (bévve)…
essi bevvero (bévvero)…
io feci (féci)… egli fece (féce )…
essi fecero (fécero)…
5) “erci-ergli-erlo-erla-erli-erle-erne-ervi” dopo lʼinfinito.
goderci (godérci)… avergli (avérgli)…
averlo (avérlo)…
poterla (potérla)… saperli (sapérli )…
volerle (volérle)…
doverne (dovérne)…
piacervi (piacérvi)…
27
6) “ere” dellʼinfinito.
appartenere (appartenére), sapere (sapére), volere (volére)…
7) “esa- eso-esi-ese” del participio passato.
lei (lui) è stata contesa (contésa-contéso)…
essi (esse) furono presi (prési-prése), ecc.
8)
“esi-ese-esero” del passato remoto.
io resi (rési)…
lui tese (tése)…
essi presero (présero), ecc.
Esiste qualche eccezione come “io chiesi” (chièsi) poiché, lo vedremo,
la “e” preceduta dalla “i” si pronunzia aperta.
9)
“essi-esse-essimo-essero” del congiuntivo imperfetto.
se io (tu) dicessi (dicéssi )… se lei leggesse (leggésse)…
se noi corressimo (corréssimo)… se loro dicessero (dicéssero)…
10) “esti-este” del passato remoto e del condizionale presente.
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tu avesti (avésti )…
voi prendéste…
tu saresti (sarésti )…
voi avreste (avréste)…
11) “ete” del presente indicativo, dellʼimperativo e del futuro.
voi conoscete (conoscéte)…
correte (corréte)…
leggete! (leggéte)…
spingete! (spingéte)…
voi direte (diréte)…
studierete (studieréte)…
Eʼ eccezione “siete (siète)”, come tutti i casi simili, poiché (lo vedremo)
la “ e preceduta dalla i ha pronunzia aperta”.
12) “evo-evi-eva-evano ” dellʼimperfetto indicativo.
io avevo (avévo)…
egli vinceva (vincéva)…
tu perdevi (perdévi)…
essi correvano (corrévano)…
Terminazioni di parola e relativi, eventuali, femminili e plurali
“ebbia-ebbio-ebbi-ebbe-ebbero”
nebbia (nébbia)
trebbia (trébbia)
io trebbio (trébbio)
il trebbio (trébbio)
rebbio (rébbio)
N.B.
io crebbi (crébbi), egli crebbe (crébbe), essi crébbero.
Ma si dice: io ebbi (èbbi), egli ebbe (èbbe), essi ebbero (èbbero).
29
“ebbra-ebbro”
lebbra (lébbra), ebbro (ébbro).
Ebbro ammette anche la forma aperta “èbbro”.
“eccio-eccia-ecci”
leccio (léccio)
libeccio (libéccio)
mangereccio (mangeréccio)
breccia (bréccia)
freccia (fréccia)
leccia (léccia)
io cicaleccio (cicaléccio), tu cicalecci (cicalécci), ecc.
io intreccio (intréccio) , tu intrecci (intrécci), ecc.
Sono “eccezioni”: feccio (fèccio-tipo di botte) e feccia (fèccia).
“ecco-ecca-ecchi”
becco (bécco), io becco (bécco),
secco (sécco),
stambecco (stambécco), lui becca (bécca), bistecca (bistécca),
cilecca (cilécca), lei stecca (stécca),
tu lecchi (lécchi), ecc.
Un omonimo-omofono è “zecca-zécca” che significa “aracnideparassita” ed anche “luogo, officina di conio”.
Rare le “eccezioni”: ecco (ècco) e Mecca (Mècca).
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“efice”
artefice (artéfice), pontefice (pontéfice), ecc.
“eggio”
albeggio (albéggio)
alpeggio (alpéggio)
armeggio (arméggio)
brandeggio (brandéggio)
carteggio (cartéggio)
conteggio (contéggio)
corteggio (cortéggio)
parcheggio (parchéggio)
posteggio (postéggio)
punteggio (puntéggio)
solfeggio (solféggio)
sorteggio (sortéggio)…
Rare le“eccezioni”: peggio (pèggio) e seggio (sèggio).
Per “seggio” è ammessa anche la forma “séggio”.
“eglio-eglia”
risveglio (risvéglio), la sveglia (svéglia), sei sveglio (svéglio)…
Ma, ricordiamolo, si dice “meglio-mèglio”.
“egna-egno”
contegno (contégno) degna (dégna)
impegno (impégno)
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ingegno (ingégno)
legno (légno)
pegno (pégno)
regno (régno)
sostegno (sostégno)
lei insegna (inségna)
segna (ségna) il limite, ecc.
“elva”
belva (bélva), selva (sélva), ecc.
“embo”
grembo (grémbo), sghembo (sghémbo), ecc.
Ma si dice “zembo-zèmbo”.
Omografo:
lembo (lémbo) per indicare “orlo-zona”.
lembo (lèmbo) è una nave leggera.
“emmia-emmio-emmi”
bestemmia (bestémmia)
vendemmia (vendémmia)
io bestemmio (bestémmio)
tu vendemmi (vendémmi)
“enno”
cenno (cénno), senno (sénno), io accenno (accénno), ecc.
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“eno-ena”
alleno (alléno)
ceno (céno)
freno (fréno)
meno (méno)
seno (séno)
sereno (seréno)
terreno (terréno)
veleno (veléno)
appena (appéna)
balena (baléna)
lena (léna)
pena (péna)…
cena (céna)
“Eccezioni”: ameno (amèno), novena (novèna), osceno (oscèno),
scena (scèna), sirena (sirèna), treno (trèno).
Omografi:
arena (aréna) se rappresenta la sabbia.
arena (arèna) per rappresentare un luogo di spettacoli come un
anfiteatro, uno stadio, ecc.
“eppo-eppa”
ceppo (céppo), zeppo (zéppo), teppa (téppa), ecc.
“ermo-erma”
fermo (férmo), schermo (schérmo), scherma (schérma)…
È eccezione “ermo-èrmo”.
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“esco-esca”
io cresco (crésco)
io innesco (innésco)
io tresco (trésco)
lʼinnesco (innésco)
fantesca (fantésca)
tresca (trésca)
Francesco (Francésco), ecc.
E poi tutti gli aggettivi:
fresco (frésco)
grottesco (grottésco)
pazzesco (pazzésco)
studentesco (studentésco), ecc.
Ricordiamo gli omografi “pesca” e “esca”:
pesca (pésca) è lʼazione, il risultato, del pescare.
pesca (pèsca) è il frutto.
esca (ésca) è tutto ciò che serve ad adescare.
esca (èsca) è congiuntivo e imperativo dal verbo uscire.
Eʼ “eccezione”: io esco (èsco).
“eso-esa-esi-ese” degli aggettivi (e, come abbiamo visto, dei participi
passati):
illeso (illéso), sospesa (sospésa), stesi (stési), tese (tése)…
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ed anche nei sostantivi:
attesa (attésa)…
contesa (contésa)…
intesa (intésa)…
ripresa (riprésa)…
resa (résa)…
spesa (spésa)…
mese (mése)…
paese (paése), ecc.
Ma si dice Teresa (Terèsa).
“espo-espa”
cespo (céspo), crespo (créspo), la crespa (créspa-piega, ruga).
“ete”
abete (abéte), parete (paréte), rete (réte), sete (séte), ecc.
Sono eccezioni “magnete-magnète” e “prete-prète”.
“etto-etta-ette-etti” in tutti i diminutivi
poveretto (poverétto), amichetta (amichétta), casette (casétte),
animaletti (animalétti), ecc.
“evole-ebole”
gradevole (gradévole)
piacevole (piacévole)
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debole ( débole ), ecc.
“ezza”
bellezza (bellézza)
brezza (brézza)
carezza (carézza)
delicatezza (delicatézza)
destrezza (destrézza)
finezza (finézza)
giovinezza (giovinézza)
prelibatezza (prelibatézza)…
Eʼ eccezione “pezza-pèzza”.
“ezzo”
lezzo (lézzo)
malvezzo (malvézzo)
vezzo (vézzo)
grezzo (grézzo)
olezzo (olézzo)
io accarezzo (accarézzo)…
Eʼ “eccezione” (pezzo-pèzzo).
Un omografo è “mezzo”:
mezzo (mézzo) significa “bagnato, fradicio”.
mezzo (mèzzo) vuol dire “metà, medio” ed anche “espediente”.
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“mente-o-a”
in tutti gli avverbi:
facilmente (facilménte)…
ingiustamente (ingiustaménte)…
realmente (realménte)…
spiritualmente (spiritualménte)…
e nelle parole:
mente (ménte)
argomento (argoménto)
monumento (monuménto)
parlamento (parlaménto)
segmento (segménto)
menta (ménta)…
Ricordiamo lʼomografo “mento”:
Il “mento-ménto”.
Io “mento-mènto”.
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“e” aperto
Casi nei quali il grafema “e” ha suono aperto
“è”, voce del verbo essere, ha pronunzia aperta, come indica lo stesso,
obbligatorio, accento tonico-fonico.
è buono, è piccolo, ecc.
“eh” (èh) interiezione. Ha pronunzia aperta e prolungata per esprimere
dolore, ansia, stupore ed in forma interrogativa:
eh (èh), che disgrazia!
eh (èh) che spettacolo!
eh (èh), cosa dici?
“deh” (dèh) interiezione, per esprimere esortazione, desiderio:
deh (dèh), non fare così! ecc.
“ex” (èx) preposizione latina.
ex (èx) allievo, ex (èx) giocatore, ecc.
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Preposizioni ed avverbi
adesso (adèsso)
dietro (diètro)
eccetto (eccètto)
eccetera (eccètera)
ecco (ècco)
meglio (mèglio)
sempre (sèmpre)
senza (sènza)
sovente (sovènte)
Numeri
sei (sèi)
sette (sètte)
ventisei (ventisèi)
dieci (dièci)
ventisette (ventisètte)
diciassette (diciassètte)
cento (cènto)
Trenta ammette le due forme (trénta e trènta).
Nomi di mesi
settembre (settèmbre)
novembre (novèmbre)
dicembre (dicèmbre).
Nomi propri di persona
Adelio (Adèlio)
Adele (Adèle)
Alberto (Albèrto)
Alessio (Alèssio)
Amelia (Amèlia)
Amedeo (Amedèo)
Amerio (Amèrio)
Andrea (Andrèa)
Angelica (Angèlica)
Antenore (Antènore)
Aurelio (Aurèlio)
Azeglio (Azèglio)
Berta (Bèrta)
Elena (Èlena)
Emanuele (Emanuèle)
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Emma (Èmma)
Ennio (Ènnio)
Ercole (Èrcole)
Ezio (Èzio)
Gabriele (Gabrièle)
Giuseppe (Giusèppe)
Lorenzo (Lorènzo)
Lucrezia (Lucrèzia)
Manuela (Manuèla)
Michele (Michèle)
Piero (Pièro)
Pietro (Piètro)
Remo (Rèmo)
Renzo (Rènzo)
Roberto (Robèrto)
Teresa (Terèsa)…
Nomi mitologici
Acheo (Achèo) Agamennone (Agamènnone) Agenore (Agènore)
Alceo (Alcèo)
Alfeo (Alfèo)
Antenore (Antènore)
Anteo (Antèo)
Artemide (Artèmide)
Astreo (Astrèo)
Atena (Atèna)
Cassiopea (Cassiopèa)
Cefalo (Cèfalo)
Ceice (Cèice)
Cerbero (Cèrbero)
Cerere (Cèrere)
Citerea (Citerèa) Clitennestra (Clitennèstra)
Dedalo (Dèdalo)
Demetra (Dèmetra) Diomede (Diomède)
Ecuba (Ècuba)
Egida (Ègida)
Egeo (Egèo)
Elena (Èlena)
Elettra (Elèttra)
Ellade (Èllade)
Elio (Èlio)
Enea (Enèa)
Eolo (Èolo)
Eracle (Èracle)
Erato (Èrato)
Ercole (Èrcole)
Ermes (Èrmes)
Eros (Èros)
Eteocle (Etèocle)
Etere (Ètere)
Ettore (Èttore)
Euterpe (Eutèrpe)
Febo (Fèbo)
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Fedra (Fèdra)
Ganimede (Ganimède) Gea (Gèa)
Ismene (Ismène)
Leda (Lèda)
Medea (Medèa)
Megera (Megèra)
Mentore (Mèntore)
Minerva (Minèrva)
Morfeo (Morfèo)
Nemesi (Nèmesi)
Nereo (Nerèo)
Nestore (Nèstore)
Oceano (Ocèano)
Odissea (Odissèa)
Oreste (Orèste)
Orfeo (Orfèo)
Panacea (Panacèa)
Pegaso (Pègaso)
Peleo (Pelèo)
Penelope (Penèlope)
Persefone (Persèfone) Pleiadi (Plèiadi)
Polifemo (Polifèmo)
Prometeo (Promèteo)
Proserpina (Prosèrpina)
Rea (Rèa)
Remo (Rèmo)
Selene (Selène)
Sirene ( Sirène)
Stentore (Stèntore)
Tea (Tèa)
Telefo (Tèlefo)
Telegono (Telègono) Telesforo (Telèsforo) Telemaco (Telèmaco)
Tellure (Tèllure)
Temi (Tèmi)
Teseo (Tèseo o Tesèo)
Teti (Tèti)
Tevere (Tèvere)
Tiresia (Tirèsia)
Tirreno (Tirrèno)
Venere (Vènere)
Vesta (Vèsta)
Zefiro (Zèfiro)
Zeus (Zèus)
Nomi di città
Agrigento (Agrigènto) Benevento (Benevènto) Bergamo (Bèrgamo)
Cosenza (Cosènza)
Enna (Ènna)
Firenze (Firènze)
Genova (Gènova)
Iglesias (Iglèsias)
Imperia (Impèria)
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Isernia (Isèrnia)
Ivrea (Ivrèa)
La Spezia (La Spèzia)
Matera (Matèra)
Orvieto (Orvièto)
Palermo (Palèrmo)
Piacenza (Piacènza)
Potenza (Potènza)
Salerno (Salèrno)
Siena (Sièna)
Teramo (Tèramo)
Venezia (Venèzia)
Vicenza (Vicènza)
Voghera (Voghèra)
Termini matematici e scientifici
algebrico (algèbrico)
anello (anèllo)
apotema (apotèma)
aritmetica (aritmètica) baricentro (baricèntro)
cateto (catèto)
centro (cèntro)
circocentro (circocèntro)
circonferenza (circonferènza)
coefficiente (coefficiènte)
convergenza (convergènza)
convesso (convèsso)
corrispondenza (corrispondènza)
divergenza (divergènza)
ennesimo (ennèsimo)
equivalenza (equivalènza)
esponente (esponènte)
incentro (incèntro)
insieme (insième)
intero (intèro)
inverso (invèrso)
iperbole (ipèrbole)
lemma (lèmma)
media (mèdia)
metodo (mètodo)
metrica (mètrica)
poliedro (polièdro)
quoziente (quoziènte)
parametro (paramètro)
potenza (potènza)
problema (problèma)
prostaferesi (prostafèresi)
42
resto (rèsto)
scaleno (scalèno)
sfera (sfèra)
sistema (sistèma)
teorema (teorèma)
tesi (tèsi)
trapezio (trapèzio)
afelio (afèlio)
apogeo (apogèo)
cella (cèlla)
cibernetica (cibernètica)
corrente (corrènte)
atmosfera (atmosfèra)
cinetica (cinètica)
dielettrico (dielèttrico)
eco (èco)
effetto (effètto)
elettromagnetico (elettromagnètico)
energetico (energètico)
etere (ètere)
evento (evènto)
isotermo (isotèrmo)
lente (lènte)
leva (lèva)
materia (matèria)
mezzo (mèzzo)
molecola (molècola)
particella (particèlla)
pendolo (pèndolo)
perielio (perièlio)
perigeo (perigèo)
tempo (tèmpo)
Terra (Tèrra)
Venere (Vènere)
treno (trèno)
universo (univèrso)
valenza (valènza)
“e” preceduta dalla i, nel dittongo “ie”
dieci (dièci), ieri (ièri), fiera (fièra), chiedere (chièdere), ecc.
Piero (Pièro), Pietro (Piètro), ecc.
Sono eccezioni “chierico” (che ammette le due pronunzie: chièrico e
chiérico), “ampiezza-ampiézza” e “gaiezza-gaiézza”.
43
Unʼaltra eccezione un poco particolare è biglietto: non è un diminutivo
ma una parola di origine francese (billet-con la e chiusa): biglietto
(bigliétto).
È interessante osservare che la regola sulle “e chiuse” dei diminutivi è
più vincolante di quella sul dittongo “ie”.
Pertanto avremo:
arietta (ariétta), vizietto (viziétto), Orietta (Oriétta), ecc.
“e” seguita da una vocale
apnea (apnèa)
assemblea (assemblèa)
epopea (epopèa)
idea (idèa)
livrea (livrèa)
marea (marèa)
meteora (metèora)
piorrea (piorrèa)
rea (rèa)
colei (colèi)
gli dei (dèi)
corteo (cortèo)
giubileo (giubilèo)
ipogeo (ipogèo)
museo (musèo)
neo (nèo)
oceano (ocèano)
perigeo (perigèo)
trofeo (trofèo)
euro (èuro)
Sono “eccezione” o seguono la regola contraria, come abbiamo visto,
i passati remoti: credei (credéi), perdei (perdéi), ecc.
ed anche la preposizione “dei”: dei (déi) miei pensieri.
44
“e” seguita da una consonante (ad eccezione della g gutturale) e poi
da due vocali
“edio-edia”
medio (mèdio)
rimedio (rimèdio)
commedia (commèdia)
inedia (inèdia)
tragedia (tragèdia)...
“egio-egia” “eguo-egua”
collegio (collègio)
fregio (frègio)
sortilegio (sortilègio)
lui si pregia (prègia) di…
Come detto, fa eccezione la “g-gutturale”: io inseguo (inséguo), tregua
(trégua), ecc.
“elio-elia”
afelio (afèlio),
cimelio (cimèlio),
perielio (perièlio),
camelia (camèlia), celia (cèlia), ecc.
Adelio (Adèlio), Amelia (Amèlia), Aurelio (Aurèlio), ecc.
“emio-emia”
premio (prèmio), astemio (astèmio), egli premia (prèmia), ecc.
45
“erio-eria-erie”
desiderio (desidèrio)
deuterio (deutèrio)
serio (sèrio)
materia (matèria)
miseria (misèria)
imperio (impèrio)
ferie (fèrie)
serie (sèrie)
Amerio (Amèrio)
Tiberio (Tibèrio)…
“ezio-ezia”
screzio (scrèzio)
trapezio (trapèzio)
Ezio (Èzio)
Lucrezia (Lucrèzia)…
La Spezia (Spèzia)
Altre parole che rientrano nello schema sono:
aereo (aèreo)
ardesia (ardèsia)
ceduo (cèduo)
etereo (etèreo)
meteo (mèteo)
ossequio (ossèquio)
perpetuo (perpètuo)
spezie (spèzie)…
Terminazioni verbali notevoli
“ei-ebbe-ebbero” del condizionale presente
amerei (amerèi)…
46
giocherebbe (giocherèbbe)…
studierebbero (studierèbbero)…
“endo” del gerundio
essendo (essèndo), avendo (avèndo), leggendo (leggèndo), ecc.
“ente” del participio presente
avente (avènte), discente (discènte), fremente (fremènte), ecc.
È interessante osservare che questa regola è più vincolante di quella
relativa alle “e chiuse” delle finali in “mente”.
“essi-esse-essero” del passato remoto
io lessi (lèssi), egli diresse (dirèsse), essi corressero (corrèssero), ecc.
N.B.
“corressero” è un omografo: “corressero” (corrèssero) è passato
remoto da “correggere”, mentre “corressero” (corréssero) è congiuntivo
imperfetto dal verbo “correre”.
“etti-ette-ettero” del passato remoto
io (credètti), lui stette (stètte), essi bevettero (bevèttero), ecc.
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Terminazioni di parola ed eventuali femminili e plurali
“eca-eco”
bacheca (bachèca) biblioteca (bibliotèca)
cineteca (cinetèca)
discoteca (discotèca) enoteca (enotèca)
eco (èco)
spreco (sprèco)
io acceco (accèco)
arreco (arrèco)
impreco (imprèco)
spreco (sprèco)
egli acceca (accèca)
arreca (arrèca)
impreca (imprèca)
spreca (sprèca)…
“edine-enide”
redine (rèdine)
salsedine (salsèdine)
eumenide (eumènide)
teredine (terèdine)
sirenide (sirènide)…
“effa-effo”
beffa (bèffa), ceffo (cèffo), ecc.
“egnere-enero-enere”
spegnere (spègnere) genero (gènero)
tenero (tènero)
genere (gènere)
io rigenero (rigènero)
48
degenere (degènere)
io venero (vènero)
Venere (Vènere)…
Eʼ eccezione “cenere-cénere”.
“ele”
stele (stèle)
Babele (Babèle)
Michele (Michèle)
Gabriele (Gabrièle)
Raffaele (Raffaèle)…
Gabriele (dallʼebraico Gabriel) ammette anche la forma (Gabriéle).
“ella-ello-elle”
caramella (caramèlla)
cella (cèlla)
anello (anèllo)
cappello (cappèllo)
imbelle (imbèlle)
pelle (pèlle)…
particella (particèlla)
lavello (lavèllo)
La regola non è seguita da capello (capéllo), stella (stélla) e, come
visto, dai pronomi e dalle preposizioni: quello (quéllo), dello (déllo).
Non vi sono eccezioni per i diminutivi:
stupidello (stupidèllo), vinello (vinèllo), ecc.
“ema-eme-emo”
apotema (apotèma)
fonema (fonèma)
grafema (grafèma)
49
poema (poèma)
problema (problèma)
tema (tèma)
teorema (teorèma)…
lui preme (prème)… io tremo (trèmo)…
Remo (Rèmo)
remo (rèmo)…
Sanremo (Sanrèmo)…
Fanno “eccezione”:
1)
io temo (témo), egli teme (téme), ecc.
Il “ tema (timore)” dantesco:
“sì che la tema (téma) si volge in desio” (Dante-Inferno-3-126).
2)
il dolore scema (scéma-diminuisce), ecc.
“La sesta compagnia in due si scema (scéma)” (Dante-Inferno-4148).
“monte scemo (scémo)”, un monte con una cavità.
“arco scemo (scémo)”, un arco la cui corrispondente corda è minore
del diametro, cioè un arco minore della semicirconferenza.
“cervello scemo (scémo)”, un cervello non completo, dimezzato,
ed è questa lʼorigine dellʼaggettivo “scemo” come sinonimo di
“sciocco, imbecille”, ecc.
3)
50
seme (séme).
“embra-embre-embro”
membra (mèmbra), settembre (settèmbre), novembre (novèmbre),
dicembre (dicèmbre), grembo (grèmbo), membro (mèmbro),
smembro (smèmbro), ecc.
Eʼ eccezione “sembro-sémbro”.
“emma”
dilemma (dilèmma)
gemma (gèmma)
stemma (stèmma)
Emma (Èmma)
lemma (lèmma)
Da notare che è “maremma-marémma”.
“emore”
femore (fèmore)
memore (mèmore)
remore (rèmore)
“empero-emplo-empo”
contempero (contèmpero)
tempero-a (tèmpero-a)
contemplo (contèmplo)
tempo (tèmpo)
51
“enda”
agenda (agènda)
leggenda (leggènda)
merenda (merènda)
tenda (tènda)
“endio”
vilipendio (vilipèndio)
incendio (incèndio)
“endo”
apprendo (apprèndo)
attendo (attèndo)
comprendo (comprèndo)
intendo (intèndo)…
Sono “eccezioni”: scendo (scéndo) e vendo (véndo).
“ene”
il benzene (benzène)
il gene (gène)
il pene (pène)
il rene (rène)
Invece, ricordiamolo, si dice: le cene (céne), le pene (péne), le vene
(véne), ecc.
“engo”
convengo (convèngo)
52
spengo (spèngo)
ritengo (ritèngo)
vengo (vèngo)...
“enna”
Enna (Ènna)
renna (rènna)
strenna (strènna)
Ma si dice “antenna-anténna”, “penna-pénna” e “Ravenna-Ravénna”.
“enne”
Tutti gli aggettivi in “enne”:
ventenne (ventènne), perenne (perènne), solenne (solènne), ecc.
“ennio”
Ennio (Ènnio)
biennio (biènnio)
triennio (triènnio)…
“ense-enso-ensa”
amanuense (amanuènse) censo (cènso)
denso (dènso)
immenso (immènso)
incenso (incènso)
intenso (intènso)
melenso (melènso)
propenso (propènso) senso (sènso)
mensa (mènsa)
egli pensa (pènsa)…
53
“ente”
ente (ènte), gente (gènte), incidente (incidènte), lente (lènte),
niente (niènte), ecc.
Nella terminazione “ente”, è utile rivederlo, si hanno tre regole che,
dalla meno alla più vincolante, sono:
1) le parole in “ente” vogliono la “e-aperta”.
2) quelle in “mente” richiedono la “e-chiusa”.
3) i participi presenti hanno la “e-aperta”.
Possiamo unificarle in una sola regola: le terminazioni in “ente”
vogliono la “e - aperta” ad eccezione di quelle che hanno la“mdavanti alla e” con esclusione dei participi presenti.
Pertanto si dice:
il dente (dènte), la mente (ménte), sono fremente (fremènte),
amorevolmente (amorevolménte), ecc.
“ento-enta”
accento (accènto)
argento (argènto)
cento (cènto)
attento (attènto)
intento (intènto)
portento (portènto)
lenta (lènta)
polenta (polènta)
io sento (sènto)
54
Trento (Trènto)…
Nelle finali in “ento-enta”, ricordiamolo, abbiamo due regole:
1. le parole in “ento-enta” hanno la “e-aperta”.
2. quelle in “mento-menta” richiedono la “e-chiusa” ed è più
vincolante.
Si potrebbe sintetizzarle in unʼunica regola: le finali in “ento-enta”
vogliono la “e-aperta”, ad eccezione di quelle che hanno la “mdavanti alla e”.
Pertanto diremo:
il vento (vènto)
sei contenta (contènta)
il mento (ménto)
la giumenta (giuménta)…
“enza-enzo”
eminenza (eminènza)
emittenza (emittènza)
essenza (essènza)
esperienza (esperiènza)
frequenza (frequènza)
pazienza (paziènza)
Renzo (Rènzo)…
“erbero-enzero”
berbero (bèrbero)
cerbero (cèrbero)
zenzero (zènzero)
55
“erbo-erba”
acerbo (acèrbo)
io serbo (sèrbo)
serbo (sèrbo)
riserbo (risèrbo)
superbo (supèrbo)
verbo (vèrbo)
egli serba (sèrba)
erba (èrba)...
“ergo-erge-erga”
albergo (albèrgo)
io ergo (èrgo)
ergo (èrgo-deduco che…)
gergo (gèrgo)
tergo (tèrgo)
si immerge (immèrge)
stamberga (stambèrga)…
Ma si dice: la verga (vérga), il Verga (Vérga).
“erlo-erla”
merlo (mèrlo)
perla (pèrla )
sberla (sbèrla)
Invece, lo ricordiamo: averlo (avérlo), poterlo (potérlo), ecc.
“erme”
inerme (inèrme)
terme (tèrme)
verme (vèrme)
“erno-erna”
eterno (etèrno)
56
governo (govèrno)
interno (intèrno)
inverno (invèrno)
lanterna (lantèrna)
perno (pèrno)
terno (tèrno)
moderno (modèrno)
Ma si dice “scherno-schérno”.
“ero-era-eri-ere”
altero (altèro)
bufera (bufèra)
chimera (chimèra)
cimitero (cimitèro) colera (colèra)
cratere (cratère)
era (èra)
galera (galèra)
io ero (èro)
tu eri (èri)
lui cʼera (cʼèra)
impero (impèro)
leggero (leggèro)
menzognero (menzognèro)
mero (mèro)
messaggero (messaggèro)
ministero (ministèro)
severo (sevèro)
sincero (sincèro)
io spero (spèro)
sfera (sfèra)
zero (zèro)…
Esistono poche eccezioni:
la cera (céra)
nero (néro)
parere (parére)
sedere (sedére)
sera (séra)
vero (véro)
57
Ma nei verbi, lo ricordiamo, la terminazione in “ere” è chiusa:
avere (avére)
bere (bére)
godere (godére)
sapere (sapére)
sedere (sedére)
vedere (vedére)...
Omografo:
pera (péra-il frutto)
pera (pèra-tipo di borsa, tasca)
“erro-erra”
erro (èrro)
ferro (fèrro)
io ferro (fèrro)
serro (sèrro)
guerra (guèrra)
serra (sèrra)
terra (tèrra)
“erto-erta”
concerto (concèrto)
inserto (insèrto)
Alberto (Albèrto)
Roberto (Robèrto)
Berta (Bèrta)
incerto (incèrto)
esperto (espèrto)
io accerto (accèrto)…
Da notare che:
allʼerta ed erto ammettono sia la forma “aperta” che quella “chiusa”.
Lʼaggettivo “certo” ha la “e-aperta” quando significa “sicuro” come
in“stai certo (cèrto)”.
58
Se “certo” ha significato di “indefinito-approssimativo” si pronuncia
con la “e- chiusa” come in:
“un certo (cérto) ingegno - una certa (cérta) età”.
“ervo-erva-erve”
cervo (cèrvo)
nervo (nèrvo)
protervo (protèrvo)
servo (sèrvo)
conserva (consèrva)
riserva (risèrva)
io conservo (consèrvo)
osservo (ossèrvo)
egli conserva (consèrva) osserva (ossèrva)
servo (sèrvo)
serve (sèrve)…
“erza-erzo”
ferza (fèrza), sferza (sfèrza), sterzo (stèrzo), terzo (tèrzo), ecc.
Invece si dice “scherzo-schérzo”.
“estia”
modestia (modèstia)
molestia (molèstia)...
Bestia ammette entrambe le forme bèstia e béstia.
“esto-esta-este”
il contesto (contèsto) io contesto (contèsto)
gesto (gèsto)
59
io infesto (infèsto)
incesto (incèsto)
lʼ innesto (innèsto)
io innesto (innèsto)
lesto (lèsto)
mesto (mèsto)
molesto (molèsto)
onesto (onèsto)
il resto (rèsto)
io resto (rèsto)
io vesto (vèsto)
festa (fèsta)
foresta (forèsta)
gesta (gèsta)
protesta (protèsta)
siesta (sièsta)
egli resta (rèsta)
la peste (pèste)
lei veste (vèste)
tempesta (tempèsta)
celeste (celèste)
la veste (vèste)…
Vi sono alcune eccezioni:
cesto (césto), desto (désto), io pesto (pésto), il pesto (pésto),
è buio pesto (pésto), questo (quésto), cesta (césta), cresta (crésta).
“estro-estra”
canestro (canèstro)
capestro (capèstro)
destro (dèstro)
estro (èstro)
finestra (finèstra)
ginestra (ginèstra)
maestro (maèstro)
minestra (minèstra)…
60
La parola “maestro” ammette anche la pronunzia “maéstro”.
“etra-etro”
cetra (cètra)
pietra (piètra)
arretro (arrètro)
metro (mètro)
Pietro (Piètro)
retro (rètro)…
Ma si dice “vetro-vétro”.
Omografo:
metro (mètro) è unità di misura dello spazio lineare.
metro (métro-dal francese métro che vuole la “e”chiusa) per indicare la
metropolitana.
“ettro”
scettro (scèttro), spettro (spèttro), ecc.
“eva-evo-eve”
Eva (Èva)
leva (lèva)
evo (èvo)
allevo (allèvo)
coevo (coèvo)
devo (dèvo)
levo (lèvo)
breve (brève)
deve (dève)
Sono eccezioni: “bevo-bévo” , “beve-béve” e “neve-néve”.
61
Ricordiamo che la prima persona dellʼimperfetto ha sempre la “echiusa”:
avevo (avévo), dicevo (dicévo), ecc.
“e-consonanti-ico-ica”
è una sequenza che, negli aggettivi, presenta la “e-aperta”:
accademico (accadèmico)
allergico (allèrgico)
benefico (benèfico)
cinetico (cinètico)
concentrico (concèntrico)
diuretico (diurètico)
egocentrico (egocèntrico)
eliocentrico (eliocèntrico)
endemico (endèmico)
ermetico (ermètico)
etico (ètico)
famelico (famèlico)
identico (idèntico)
maledico (malèdico)
metrico (mètrico)
periferico (perifèrico)
tecnico (tècnico)…
Fra i sostantivi abbiamo:
lessico (lèssico), dedica (dèdica).
solletico (sollètico) ammette anche la forma (sollético).
62
Nei verbi si ha solitamente la “e-chiusa”:
dimentico (diméntico)
mendico (méndico)
nevica (névica)
vendico (véndico)…
È “eccezione”: dedico (dèdico).
“e-consonanti-ito-ita”
anelito (anèlito)
gemito (gèmito)
medito (mèdito)
merito (mèrito)
recito (rècito)
reddito (rèddito)
tremito (trèmito)
cernita (cèrnita)
recita (rècita)…
Sono eccezioni: “crescita-créscita”, “debito-débito”, “creditocrédito”, illecito (illécito) e lecito (lécito).
“e-consonante-ora”
pecora (pècora), remora (rèmora), ecc.
63
Terminazioni che presentano difficoltà di classificazione
Ogni parola con queste finali è un caso a sé e soltanto lʼesercizio,
la memoria e, perché no, lʼorecchio ci possono aiutare.
Il “grafema e” si trova, nei seguenti elenchi, distribuito con una
frequenza non molto disuguale sia nella forma “aperta” sia in quella
“chiusa”.
“ecchio”
orecchio (orécchio)
specchio (spècchio)
parecchio (parécchio)
vecchio (vècchio)
secchio (sécchio)
“eda-ede-edo”
Leda (Léda)
preda (prèda) - scheda (schèda)
fede (féde)
cede (cède) - erede (erède)
vede (véde)
lede (lède) - sede (sède)
credo (crédo)
accedo (accèdo) - arredo (arrèdo)
auledo (aulèdo) - corredo (corrèdo)
N.B.
È accettabile anche la forma “credo-crèdo”.
64
“ega-ego”
bottega (bottéga) - lega (léga)
bega (bèga)
sega (séga) - strega (stréga)
collega (collèga)
lego (légo) - frego (frégo)
nego (nègo)
sego (ségo) - strego (strégo)
prego (prègo)
Sono accettabili anche “bega-béga” e “nego-négo”
“egola - egolo”
fregola (frégola)
regola (règola)
tegola (tégola)
regolo (règolo)
“ela-elo”
candela (candéla)
cautela (cautèla)
mela (méla)
parentela (parentèla)
tela (téla)
sequela (sequèla)
vela (véla)
tutela (tutèla)
melo (mélo)
gelo (gèlo)
pelo (pélo)
stelo (stèlo)
65
velo (vélo)
zelo (zèlo)
io pelo (pélo)
io anelo (anèlo)
io velo (vélo)
io belo (bèlo)-io celo (cèlo)
parallelo (parallèlo)
“empio”
empio (émpio)
esempio (esèmpio)
scempio (scémpio)
tempio (tèmpio)
le tempia (témpia)
“entro”
dentro (déntro)
il centro (cèntro)
io entro (éntro)
io centro (cèntro-faccio cèntro)
non cʼentro (cʼéntro)
“e-consonanti-imo-ima”
battesimo (battésimo)
tutti i numeri ordinali come:
cattolicesimo (cattolicésimo)
decimo ( dècimo)…
cristianesimo (cristianésimo)
sedicesimo (sedicèsimo)…
66
protestantesimo (protestantésimo)
estimo (èstimo)
quaresima (quarésima)
etimo (ètimo)
cresima (crèsima)
celeberrimo (celebèrrimo)
pessimo (pèssimo)
“e-due consonanti-ola”
bettola (béttola)
mensola (mènsola)
pentola (péntola)
sventola (svèntola)
“essa”
commessa (comméssa)
compressa (comprèssa)
contessa (contéssa)
pressa (prèssa)
duchessa (duchéssa)
ressa (rèssa)
messa (méssa) - rimessa (riméssa) - scommessa (scomméssa)
“esso”
commesso (commésso)
esso (ésso)
accesso (accèsso)
cesso (cèsso) - consesso (consèsso)
67
fesso (fésso)
flesso (flèsso) - gesso (gèsso)
lesso (lésso)
possesso (possèsso) - processo (procèsso)
stesso (stésso)
nesso (nèsso) - sesso (sèsso)
Eʼ accettabile anche la forma “gesso-gésso”.
Omografo:
fesso (fésso) significa “spaccato, sciocco, ecc”.
fesso (fèsso) per indicare, è una forma arcaica, “stanco-lasso”.
“eto-eta”
discreto (discréto)
completo (complèto) - consueto (consuèto)
segreto (segréto)
desueto (desuèto) - mansueto (mansuèto)
obsoleto (obsolèto)
amuleto (amuléto)
alfabeto (alfabèto) - cateto (catèto)
uliveto (ulivéto)
decreto (decrèto)
vigneto (vignéto)
feto (fèto) - veto (vèto)
cometa (cométa)
analfabeta (analfabèta)
pianeta (pianéta)
beta (bèta)
68
pineta (pinéta)
meta (mèta)
seta (séta)
poeta (poèta)
N.B.
È accettabile anche la forma “cometa-comèta”.
“Omonimo-omofono”
io vieto (vièto)
è vieto (vièto-antico,vecchio)
Terminazioni in “etta-etto”
A causa dellʼabbondanza delle parole con tali desinenze e della
complessità delle possibili regole, abbiamo ritenuto opportuno inserirle
in questa parte.
“etta”
accetta (accétta)
retta (rètta)
fetta (fétta)
setta (sètta)
fretta (frétta)
ricetta (ricètta)
racchetta (racchétta) - saetta (saétta) - tetta (tétta)
vendetta (vendétta) - vetta (vétta)
69
Ricordiamo lʼomografo:
accetta (accétta) è un tipo di scure.
accetta (accètta) è voce del verbo accettare.
Sono con la “e-chiusa” tutte le terminazioni dei diminutivi:
casetta (casétta), pievetta (pievétta), Rosetta (Rosétta), ecc.
“etto”
architetto (architétto)
affetto (affètto)
berretto (berrétto)
aspetto (aspètto)
biglietto (bigliétto)
concetto (concètto)
detto (détto)
merletto (merlétto)
confetto (confètto)
netto (nétto)
etto (ètto)
scudetto (scudétto)
getto (gètto)
stretto (strétto)
letto (lètto) - oggetto (oggètto)
petto (pètto) - perfetto (perfètto)
prefetto (prèfetto) - rigetto (rigètto)
70
rispetto (rispètto) - sospetto (sospètto)
Tutti i diminutivi hanno la “e-chiusa”:
carretto (carrétto), goccetto (goccétto), ecc.
“etto” negli aggettivi e nelle voci verbali
benedetto (benedétto)
abbietto (abbiètto)
detto (détto)
accetto (accètto)
maledetto (maledétto)
annetto (annètto)
corretto (corrètto) - eccetto (eccètto)
getto (gètto) - inetto (inètto)
infetto (infètto) - letto (lètto)
perfetto (perfètto) - proietto (proiètto)
retto (rètto)
reietto (reiètto) - rifletto (riflètto)
Tutti i diminutivi si pronunciano con la “e-chiusa”:
furbetto (furbétto), moretto (morétto), ecc.
71
Terminazioni con frequenza piccola
allegro (allégro)
accelero (accèlero)
becero (bécero)
aneddoto (anèddoto)
cece (céce)
berbero (bèrbero)
cembalo ( cémbalo)
celebre (cèlebre)-celere (cèlere)
cencio (céncio)
cellula (cèllula)
cerchio (cérchio)
celibe (cèlibe)
elmo (élmo)
cespite (cèspite)
felpa (félpa)
crepa (crèpa)
feltro (féltro)
decade (dècade)
parere (parére)
dedalo (dèdalo)
parete (paréte)
delta (dèlta)
peltro (péltro)
deroga (dèroga)
pepe (pépe)
despota (dèspota)
prezzemolo (prezzémolo)
ebete (èbete)
scevro (scévro)
epoca (època)
selce (sélce)
egro (ègro)
semplice (sémplice)
ergere (èrgere)
semola (sémola)
inerzia (inèrzia)
separi (sépari)
leggere (lèggere)
72
seppia (séppia)
merce (mèrce)
trespolo (tréspolo)
pendolo (pèndolo)
vedovo (védovo)
petalo (pètalo)
vergine (vérgine)
vescovo (véscovo)
pettine (pèttine)-questua (quèstua)-record (rècord)
reduce (rèduce)-retore (rètore)-scheletro (schèletro)
sebo (sèbo)-secolo (sècolo)-sedano (sèdano)
sempre (sèmpre)-svelto (svèlto)-telefono (telèfono)
tesi (tèsi)-tremulo (trèmulo)-trepido (trèpido)
veneto (vèneto)-vertice (vèrtice)-vespro (vèspro)
zebra (zèbra)-zenit (zènit)
73
ORTOEPIA DI “O”
“o” chiuso
Il grafema “o” si pronunzia chiuso in tutte le parole nelle quali
lʼaccento tonico non cade sulla sua sillaba, cioè quando non è vocale
tonica.
Ad esempio nella parola “uomo” la prima “o” è tonica ed il dizionario
ci indica che è aperta ( uòmo). La seconda “o” è atona e pertanto la sua
pronunzia sarà chiusa con il seguente risultato finale : “uòmó”.
Nel caso della parola “colpo” il vocabolario ci dice che la prima “o”
(tonica) è chiusa (cólpo); la seconda è atona e la pronunzia risulta essere
“cólpó”.
Ricordiamo ancora che il suono, nelle vocali atone, è meno intenso,
meno prolungato e pertanto lʼeventuale errore di pronunzia viene
percepito più difficilmente.
74
Casi nei quali il grafema “o” ha suono chiuso
o (ó) con valore disgiuntivo, esplicativo ed enfatico
Esempi:
-
Essere o (ó) non essere.
-
La cinematica, o (ó) scienza del moto a prescindere dalle cause
dello stesso, ha in Galilei uno dei fondatori più insigni.
-
O (Ó) Dio, che paura!
Avverbi, preposizioni e pronomi
allora (allóra)
altrove (altróve)
ancora (ancóra)
cogli (cógli)
coi (cói)
colle (cólle)
come (cóme)
con (cón)
contro (cóntro)
dopo (dópo)
dove (dóve)
eccome (eccóme)
molto (mólto)
noi (nói)
oltre (óltre)
ogni (ógni)
non (nón)
onde (ónde)
or (ór)
ora (óra)
ove (óve)
sopra (sópra)
sotto (sótto)
voi (vói)
N.B.
La negazione “non” ha suono chiuso.
Esempio: non (nón) esco.
La negazione “no” si pronunzia aperta.
Esempio: no (nò), non (nón) voglio.
75
Omografo:
colle (cólle- con le) ha suono chiuso.
il colle (còlle) vuole la “o” aperta.
Numeri
dodici (dódici)
quattordici (quattórdici)
centododici (centodódici)…
Nomi di mesi
Agosto (Agósto)
Ottobre (Ottóbre)
Nomi propri di persona
Sono rari i nomi con la “o” chiusa. Ricordiamone alcuni:
Giorgio (Giórgio)
Ottone (Ottóne)
Salvatore (Salvatóre)
Nomi mitologici
Acheronte (Acherónte)
Adone (Adóne)
Anfione (Anfióne)
Anfitrione (Anfitrióne)
Chirone (Chiróne)
Creonte (Creónte)
Didone (Didóne)
Dione (Dióne)
Emone (Emóne)
Ermione (Ermióne)
Fetonte (Fetónte)
Flegetonte (Flegetónte)
76
Giasone (Giasóne)
Giunone (Giunóne)
Iperione (Iperióne)
Laocoonte (Laocoónte)
Latona (Latóna)
Orione (Orióne)
Partenone (Partenóne)
Pigmalione (Pigmalióne)
Plutone (Plutóne)
Posidone (Posidóne)
Tifone (Tifóne)
Titone (Titóne)
Tritone (Tritóne)
Nomi di città
Ancona (Ancóna)
Bologna (Bológna)
Cremona (Cremóna)
Crotone (Crotóne)
Frosinone (Frosinóne)
Livorno (Livórno)
Pordenone (Pordenóne)
Roma (Róma)
Savona (Savóna)
Sondrio (Sóndrio)
Verona (Veróna)
Termini matematici e scientifici
addizione (addizióne)
bisezione (bisezióne)
circuitazione (circuitazióne)
conto (cónto)
contorno (contórno)
definizione (definizióne)
dimensione (dimensióne)
divisione (divisióne)
77
duplicazione (duplicazióne)
equazione (equazióne)
errore (erróre)
espressione (espressióne)
funzione (funzióne)
interpolazione (interpolazióne)
intorno (intórno)
moltiplicazione (moltiplicazióne)
prodotto (prodótto)
rombo (rómbo)
somma (sómma)
sottrazione (sottrazióne)
tensore (tensóre)
versore (versóre)
vettore (vettóre)
aberrazione (aberrazióne)
abrasione (abrasióne)
accelerazione (accelerazióne)
adesione (adesióne)
adrone (adróne)
aeriforme (aerifórme)
alternatore (alternatóre)
anione (anióne)
azione (azióne)
barione (barióne)
bomba (bómba)
bosone (bosóne)
calore (calóre)
coesione (coesióne)
colore (colóre)
composizione (composizióne)
compressione (compressióne)
concentrazione (concentrazióne)
condensatore (condensatóre)
condensazione (condensazióne)
conduttore (conduttóre)
conduzione (conduzióne)
conservazione (conservazióne)
contrazione (contrazióne)
78
convezione (convezióne)
declinazione (declinazióne)
deutone (deutóne)
deviazione (deviazióne)
diffrazione (diffrazióne)
dilatazione (dilatazióne)
disordine (disórdine)
dispersione (dispersióne)
ebollizione (ebollizióne)
elettrizzazione (elettrizzazióne)
elettrone (elettróne)
equipartizione (equipartizióne)
espansione (espansióne)
esplosione (esplosióne)
evaporazione (evaporazióne)
fermione (fermióne)
fissione (fissióne)
fusione (fusióne)
generatore (generatóre)
giunzione (giunzióne)
gravitazione (gravitazióne)
gravitone (gravitóne)
implosione (implosióne)
inclinazione (inclinazióne)
induzione (induzióne)
infrarosso (infrarósso)
ionizzazione (ionizzazióne)
lavoro (lavóro)
leptone (leptóne)
liquefazione (liquefazióne)
mesone (mesóne)
motore (motóre)
neutrone (neutróne)
nucleone (nucleóne)
onda (ónda)
ordine (órdine)
oscillazione (oscillazióne)
ossidazione (ossidazióne)
polarizzazione (polarizzazióne)
precessione (precessióne)
79
pressione (pressióne)
protone (protóne)
radiazione (radiazióne)
reazione (reazióne)
riflessione (riflessióne)
rifrazione (rifrazióne)
rotazione (rotazióne)
rotore (rotóre)
scissione (scissióne)
statore (statóre)
sublimazione (sublimazióne)
torsione (torsióne)
trasformazione (trasformazióne)
Voci del verbo essere (èssere)
io (essi) sono (sóno)
tu fosti (fósti)
che io fossi (fóssi)
che tu fossi (fóssi) che egli fosse (fósse)
che noi fossimo (fóssimo)
voi foste (fóste)
che voi foste (fóste)
che essi fossero (fóssero)
Terminazioni di parola e relativi, eventuali, femminili e plurali
“oce”
croce (cróce), foce (fóce), noce (nóce), veloce (velóce), ecc.
Una eccezione è “precoce-precòce”.
80
N.B.
Se davanti alla “o” cʼè la “u” dobbiamo pronunciare aperta la “o”
poiché, come vedremo, la regola sul “dittongo-uo” è più vincolante.
E si ha, ad esempio, “cuoce-cuòce” e “nuoce-nuòce”, ecc.
“ogna-ogno”
Bologna (Bológna)
fogna (fógna)
gogna (gógna)
menzogna (menzógna)
rogna (rógna)
vergogna (vergógna)
agogno (agógno)
bisogno (bisógno)
sogno (sógno)
Omografo:
cogno (cógno) è una sorta di cuneo di legno.
cogno (cògno) un tipo di barile, ed anche antica misura del vino e del
volume in genere.
“ognolo”
giallognolo (giallógnolo)
verdognolo (verdógnolo)...
“oio”
accappatoio (accappatóio)
avvoltoio (avvoltóio)
81
corridoio (corridóio)
levatoio (levatóio)
rasoio (rasóio)
N.B.
Se davanti ad “oio” cʼè la “u” bisogna pronunciare la “o” aperta,
come vuole una regola più vincolante sul dittongo “uo”.
Esempi: cuoio (cuòio), muoio (muòio), ecc.
“olco-oldo-olfo-olmo-olpo-olpa-olso”
solco (sólco)
manigoldo (manigóldo)
golfo (gólfo)
zolfo (zólfo)
colmo (cólmo)
io colmo (cólmo)
olmo (ólmo)
colpo (cólpo)
polpo (pólpo)
colpa (cólpa)
bolso (bólso)
polso (pólso)
“omba-ombra-ombro-ombo-ombola”
bomba (bómba)
tomba (tómba)
tromba (trómba)
ombra (ómbra)
ingombro (ingómbro)
colombo (colómbo)
incombo (incómbo)
piombo (piómbo)
rimbombo (rimbómbo)
rombo (rómbo)
82
tombola (tómbola)
“omma-ommo”
gomma (gómma)
somma (sómma)
io sgommo (sgómmo)
io sommo (sómmo)
mommo (mómmo)
il sommo (sómmo)
Ma si dice “comma-còmma”.
“ona” negli accrescitivi
barcona (barcóna)
casona (casóna)
macchinona (macchinóna)
melona (melóna)
zuccona (zuccóna)
“onca-onco-oncia-oncio”
conca (cónca)
spelonca (spelónca)
bronco (brónco)
stronco (strónco)
tronco (trónco)
concia (cóncia)
concio (cóncio)
sconcio (scóncio)
83
“onda-ondo-ondio-ondolo-ondola”
fionda (fiónda)
sonda (sónda)
onda (ónda)
ronda (rónda)
abbondo (abbóndo)
biondo (bióndo)
immondo (immóndo)
mondo (móndo)
nascondo (nascóndo)
rotondo (rotóndo)
secondo (secóndo)
sfondo (sfóndo)
io sfondo (sfóndo)
tondo (tóndo)
don (dòn) Abbondio (Abbóndio)
ciondolo (cióndolo)
dondolo (dóndolo)
gondola (góndola)
“one-ome”
canzone (canzóne)
equazione (equazióne)
elettrone (elettróne)
fotone (fotóne)
furgone (furgóne)
fusione (fusióne)
leone (leóne)
passione (passióne)
polmone (polmóne)
poltrone (poltróne)
proporzione (proporzióne)
come (cóme)
nome (nóme)…
84
Tutti gli “accrescitivi” come ad esempio :
ditone (ditóne)
piedone (piedóne)
testone (testóne)...
Esistono rare eccezioni come “lacone-lacòne” e “gnome-gnòme”,
parole di origine greca, che significano rispettivamente “spartano” e
“motto, proverbio”.
“onfio-onfo”
gonfio (gónfio)
tronfio (trónfio)
tonfo (tónfo)
trionfo (triónfo)…
“onta-onte-onto”
conta (cónta)
impronta (imprónta)
monta (mónta)
onta (ónta)
rimonta (rimónta)
bisonte (bisónte)
conte (cónte)
fonte (fónte)
monte (mónte)
conto (cónto)
pronto (prónto)
sconto (scónto)
tonto (tónto)…
85
“ontro-ontra”
contro (cóntro)
incontro (incóntro)
scontro (scóntro)
lontra (lóntra)…
“onzo-onza”
abbronzo (abbrónzo) bonzo (bónzo)
bronzo (brónzo)
gonzo (gónzo)
lonza (lónza)…
ronzo (rónzo)
“onzolo”
lattonzolo (lattónzolo)
mediconzolo (medicónzolo)
pretonzolo (pretónzolo)…
“ordo-orda”
abbordo (abbórdo)
balordo (balórdo)
bordo (bórdo)
ingordo (ingórdo)
lordo (lórdo)
sordo (sórdo)
tordo (tórdo)
abborda (abbórda)
balorda (balórda)…
Hanno la “o”aperta: accòrdo (accordo), corda (còrda), orda (òrda), io
mordo (mòrdo).
86
“orgo”
borgo (bórgo)
gorgo (górgo)
ingorgo (ingórgo)...
Le voci del verbo “sorgere-sórgere”:
io sorgo (sórgo), tu sorgi (sórgi), ecc.
e del verbo “sgorgare”come:
lʼacqua sgorga (sgórga), le parole sgorgano (sgórgano), ecc.
N.B.
Le voci del verbo “porgere-pòrgere”, “scorgere-scòrgere” e
“accorgere-accòrgere” hanno la “o” aperta:
porgo (pòrgo)
porgi (pòrgi)
porge (pòrge)
scorgo (scòrgo)
mi accorgo (accòrgo)…
“ore”
amore (amóre)
ardore (ardóre)
candore ( candóre)
fiore (fióre)
furore ( furóre)
malore ( malóre)
tenore (tenóre)
sapore (sapóre)
timore ( timóre)…
87
Ma, attenzione, si dice “cuore-cuòre” poiché il dittongo “uo” richiede
la “o-aperta”.
“orma-e-o”
forma (fórma)
orma (órma)
conforme (confórme)
deforme (defórme)
formo (fórmo)
informo (infórmo)…
Hanno la “o-aperta”: dormo (dòrmo), norma (nòrma) e le parole che
ne derivano: tu dormi (dòrmi), abnorme (abnòrme), ecc.
“orno-ornio”
contorno (contórno)
forno (fórno)
giorno (giórno)
intorno (intórno)
ritorno (ritórno)
storno (stórno)
tornio (tórnio)…
Unʼeccezione è “corno-còrno”.
“orre”
comporre (compórre)
88
deporre (depórre)
disporre (dispórre)
porre (pórre)
lui corre (córre)
lui scorre (scórre)
torre (tórre) …
“orso-orsa-orse-orsi”
orso (órso)
sorso (sórso)
ho corso (córso)
borsa (bórsa)
corsa (córsa)
risorsa (risórsa)
lui sorse (sórse)
io corsi (córsi)…
Sono eccezioni “dorso-dòrso, morso-mòrso, morsa-mòrsa” e le voci del
verbo mordere ( mòrdere):
morsi (mòrsi), morse (mòrse), morso ( mòrso).
Ricordiamo, è un buon esercizio, gli omografi “scorsi”, “corso” e
“porsi”:
-
io scorsi (scórsi), dal verbo “scorrere-scórrere”.
-
io scorsi (scòrsi), dal verbo” scorgere-scòrgere”.
∗
io sono corso (córso), dal verbo “correre-córrere”.
∗ io sono corso (còrso), cioè abitante della Corsica.
89
o porsi (pórsi) in salvo, dal verbo “porre-pórre”.
o io porsi (pòrsi) la mano, dal verbo “porgere-pòrgere”.
“osco-osca”
fosco (fósco)
losco (lósco)
mosca (mósca)…
Ma si ha : “bosco-bòsco” e “cosca-còsca”.
Un omografo è “tosco”.
tosco (tósco) per indicare la persona toscana.
tosco (tòsco) significa il veleno, il velenoso.
“oso” negli aggettivi e participi passati
amoroso ( amoróso)
bellicoso (bellicóso)
corroso (corróso)
grandioso (grandióso)
lussuoso (lussuóso)
luttuoso (luttuóso)
permaloso (permalóso)…
Sono eccezioni “esploso-esplòso” ed “imploso-implòso”.
N.B.
Lussuoso (lussuóso) e luttuoso (luttuóso) sono eccezioni alla regola sul
dittongo “uo” che vuole la “o” aperta.
90
“ovo”
covo (cóvo)
rovo (róvo)…
N.B.
Se prima della “o” cʼè la “u” bisogna pronunciarla aperta poiché lo
esige la regola sul dittongo “uo”.
Pertanto si ha: “nuovo-nuòvo”, “uovo-uòvo”, ecc.
“o” aperto
Casi nei quali il grafema “o” ha suono aperto
1) quando rappresenta semplicemente la tredicesima lettera del nostro
alfabeto tradizionale: “o-ò”.
2) in “oh” ed in “ohi” per esprimere gioia, stupore, dolore come in:
oh (ò), che bello!
ohi (òi), che disgrazia!
Avverbi, preposizioni, pronomi
ciò (ciò)
fuori (fuòri)
nostro (nòstro)
vostro (vòstro)
oggi (òggi)
poi (pòi)
ovest (òvest)
volta (vòlta)
Numeri
otto (òtto )
nove (nòve)
diciotto (diciòtto)
diciannove (diciannòve)…
91
Nomi propri di persona
Adolfo (Adòlfo)
Alfonso (Alfònso)
Ambrogio (Ambrògio)
Antonio (Antònio)
Arnolfo (Arnòlfo)
Aroldo (Aròldo)
Ausonio (Ausònio)
Eleonora (Eleonòra)
Leopoldo (Leopòldo)
Vittorio (Vittòrio)…
Nomi mitologici
Acropoli (Acròpoli)
Ambrosia (Ambròsia)
Andromaca (Andròmaca)
Andromeda (Andròmeda)
Apollo (Apòllo)
Borea (Bòrea)
Ciclopi (Ciclòpi)
Coclite (Còclite)
Colchide (Còlchide)
Crono (Cròno)
Dioniso (Diòniso)
Dioscuri (Diòscuri)
Discordia (Discòrdia)
Enotrope (Enòtrope)
Gorgone (Gòrgone)
Minosse (Minòsse)
Moire (Mòire)
Noto (Nòto)
Pandora (Pandòra)
Polidoro (Polidòro)
Proteo (Pròteo)
Troia (Tròia)
Troilo (Tròilo)…
92
Nomi di città
Aosta (Aòsta)
Como (Còmo)
Domodossola (Domodòssola)
Foggia (Fòggia)
Modena (Mòdena)
Olbia (Òlbia)…
Termini matematici e scientifici
assioma (assiòma)
binomio (binòmio)
cicloide (ciclòide)
concoide (concòide)
conica (cònica)
cono (còno)
corda (còrda)
corpo (còrpo)
epicicloide (epiciclòide)
formula (fòrmula)
fuoco (fuòco)
polinomio (polinòmio)
rapporto (rappòrto)
amperometro (amperòmetro)
armonico (armònico)
atomico (atòmico)
barometro (baròmetro)
baroscopio (baroscòpio)
binocolo (binòcolo)
cosmo (còsmo)
cronometro (cronòmetro)
dinamometro (dinamòmetro)
equinozio (equinòzio)
forza (fòrza)
idrogeno (idrògeno)
isobara (isòbara)
isocora (isòcora)
isotropo (isòtropo)
manometro (manòmetro)
93
moto (mòto)
occhio (òcchio)
ondoscopio (ondoscòpio)
orbita (òrbita)
orologio (orològio)
osmosi (osmòsi)
ottica (òttica)
paradosso (paradòsso)
reostato (reòstato)
suono (suòno)
tempo (tèmpo)
tempo-proprio (tèmpo-pròprio)
traiettoria (traiettòria)…
Dittongo “uo”
aiuola (aiuòla)
buono (buòno)
cuocio (cuòcio)
cuoco (cuòco)
cuore (cuòre)
mariuolo (mariuòlo)
ruolo (ruòlo)
ruota (ruòta)
uomo (uòmo)
uopo (uòpo)
uovo (uòvo)…
N.B.
Ricordando che la terminazione in “ore” richiede la “o-chiusa”,
osserviamo, dalla parola “cuòre”, che la regola sul dittongo “uo” è più
vincolante.
Sono eccezioni “delittuóso, lussuóso e luttuóso”( uno di quei casi di
intreccio di regole nei quali lʼeccezione diventa norma) che seguono
la regola, anchʼessa molto forte, sulla terminazione in “oso” degli
aggettivi e participi passati.
94
“o” seguita da una consonante scempia ( semplice ) e da due vocali
odio (òdio)
podio (pòdio)
elogio (elògio)
orologio (orològio)
mogio (mògio)
olio (òlio)
binomio (binòmio)
ammonio (ammònio)
nonio (nònio)
copia (còpia)
caleidoscopio (caleidoscòpio)
giroscopio (giroscòpio)
accessorio (accesssòrio)
boria (bòria)
cicoria (cicòria )
illusorio (illusòrio)
memoria (memòria)
storia (stòria)
ambrosia (ambròsia)
sosia (sòsia)
negozio (negòzio)
ozio (òzio)
sacerdozio (sacerdòzio)…
Sono eccezioni “sfocio-sfócio” e “incrocio-incrócio”.
“o” seguita da due consonanti non uguali (eccetto “mp-nc-nd-nf”) e da
due vocali.
bolgia (bòlgia )
Borgia (Bòrgia)
discordia (discòrdia)
foglio (fòglio)
foglia (fòglia)
improprio (impròprio)
orgia (òrgia)
ostia (òstia)
scoglio (scòglio)
sfoglio (sfòglio)
smorfia (smòrfia )
sobrio (sòbrio)
95
spoglio (spòglio)
storpio (stòrpio)
voglia (vòglia )
io voglio (vòglio)…
torcia (tòrcia)
E diremo: compio (cómpio), broncio (bróncio), Abbondio (Abbóndio),
tronfio (trónfio), ecc.
Ricordiamo lʼomonimo-omofono “voglia”:
voglia (vòglia ) il cielo…. cong. pres. da “volere-volére”.
ho voglia (vòglia) di suonare.
N.B.
“Cordoglio-cordòglio” e “orgoglio-orgóglio”.
Sequenza “io-consonante- vocale”
ciotola (ciòtola)
figliola (figliòla)
fiocina (fiòcina)
fioco (fiòco)
gioco (giòco)
Giove (Giòve)
giovine (giòvine)
iodio (iòdio)
ionico (iònico)
iosa (iòsa)
paiolo (paiòlo)
piolo (piòlo)
viole (viòle)
yoga (yòga)
yogurt (yògurt)…
Alcune eccezioni sono: giogo (giógo), giovane (gióvane), io giovo
(gióvo), io sfioro (sfióro)...
96
N.B.
Le terminazioni “ore-one-oso” seguono, come abbiamo visto, delle
regole più vincolanti e pertanto si ha:
fióre (fiore)
rione (rióne)
gioioso (gioióso)…
Terminazioni di parola e relativi, eventuali, femminili e plurali
“iolo-iola”
paiolo (paiòlo)
piolo (piòlo)
figliola (figliòla)
viola (viòla)…
“occhio-occio-occia”
cocchio (còcchio)
crocchio (cròcchio)
finocchio (finòcchio)
ginocchio (ginòcchio)
occhio (òcchio)
approccio (appròccio)
bamboccio (bambòccio)
cartoccio (cartòccio)
coccio (còccio)
figlioccio (figliòccio)
scoccio (scòccio)
boccia (bòccia)
roccia (ròccia )
saccoccia (saccòccia)…
97
Sono eccezioni: “doccia-dóccia”, “goccia-góccia”.
“occiolo-occiola-occolo-ocolo-ossolo-ottolo-ottola”
bernoccolo (bernòccolo)
moccolo (mòccolo)
binocolo (binòcolo)
monocolo (monòcolo)
bossolo (bòssolo)
bottolo (bòttolo)
pianerottolo (pianeròttolo)
viottolo (viòttolo)
collottola (collòttola)
pallottola (pallòttola)…
Hanno la “o-chiusa”:
gocciolo (gócciolo), gocciola (gócciola) e boccolo (bóccolo).
N.B.
“Nocciolo”, parola sdrucciola, ammette entrambe le forme “nócciolo e
nòcciolo”.
“nocciola (nocciòla)”, il frutto del “nocciolo (nocciòlo)”, è stata inserita
nella terminazione “olo-ola-ole” di parole piane.
“odo-oda-ode”
brodo (bròdo)
frodo (fròdo)
io frodo (fròdo)
sodo (sòdo)
moda (mòda)
frode (fròde)
98
lode (lòde)
ode (òde)
Le voci dei verbi “udire”, “godere-godére” e “lodare”:
io odo (òdo)
tu odi (òdi)
egli ode (òde)….
io godo (gòdo)
tu godi (gòdi)
egli gode (gòde)…
io lodo (lòdo)…
che io loda (lòda)…
“nodo” ammette entrambe le forme : “nódo” e “nòdo”.
Hanno la “o” chiusa :
1. coda (códa).
2. le voci del verbo “accodarsi”: io mi accodo (accódo), tu ti
accodi (accódi), egli si accoda (accóda)…
3. le voci di “rodere-ródere”: io rodo (ródo), tu rodi (ródi), egli
rode (róde) …
“oggia-oggio”
foggia (fòggia)
Foggia (Fòggia)
pioggia (piòggia)
appoggio (appòggio)
poggio (pòggio)
sfoggio (sfòggio)
loggia (lòggia)
sloggio (slòggio)…
99
“oide”
discoide (discòide)
tiroide (tiròide)…
“olgo-olga”
io accolgo (accòlgo)…
io colgo (còlgo)…
io svolgo (svòlgo)…
io tòlgo (tòlgo)…
che io accolga (accòlga)…
che io svolga (svòlga)…
Un omografo è “volgo”:
il volgo (vólgo), dal latino “vulgus”, cioè “ popolino”.
io volgo (vòlgo), dal latino “volvo-volvere” che ha originato il
nostro “girare-volgere”.
“olo-ola”
dolo (dòlo)
mola (mòla)
nolo (nòlo)
polo (pòlo)…
molo (mòlo)
Anche le parole che presentano la “i” o la “u” davanti alla “o”, come
abbiamo visto, vogliono la “o” aperta:
piolo (piòlo), ruolo (ruòlo)…
100
Hanno la “o” chiusa:
gola (góla)
volo (vólo)
io volo (vólo)...
“ologo-ogico-ogolo”
apologo (apòlogo)
biologo (biòlogo)
ginecologo (ginecòlogo)
meteorologo (meteoròlogo)
prologo (pròlogo)
ginecologico (ginecològico)
logico (lògico)
merceologico (merceològico)
meteorologico (meteorològico)
trogolo (trògolo)…
“omo-oma”
cromo (cròmo)
domo (dòmo)
gnomo (gnòmo)
tomo (tòmo)
aroma (aròma)
boma (bòma)
coma (còma)
croma (cròma)
idioma (idiòma)
soma (sòma)…
N.B. Roma (Róma) e pomo (pómo) hanno la “o”chiusa.
“onaco-onaca”
intonaco (intònaco)
monaco (mònaco)
101
cronaca (crònaca)
tònaca (tonaca)…
“onimo-onomo-olico-omico-onico-opico-otico”
anonimo (anònimo)
omonimo (omònimo)
astronomo (astrònomo)
gastronomo (gastrònomo)
apostolico (apostòlico)
eolico (eòlico)
astronomico (astronòmico)
comico (còmico)
gastronomico (gastronòmico)
gnomonico (gnomònico)
ionico (iònico)
mnemonico (mnemònico)
platonico (platònico)
antropico (antròpico)
entropico (entròpico)
topico (tòpico)
gotico (gòtico)
zotico (zòtico)…
“onna-onno”
donna (dònna)
nonna (nònna)
nonno ( nònno)…
Gonna ammette sia la forma “gònna” che la forma “gónna”.
Ma si dice “sonno-sónno” e “tonno-tónno”.
102
“ono-ona”
abbono (abbòno)
cono (còno)
nono (nòno)
ozono (ozòno)
stono (stòno)
tono (tòno)
trono (tròno)
zona (zòna)…
e tutte le parole, lo ricordiamo, con il “dittongo-uo”:
buono (buòno)
suono (suòno)
tuono (tuòno)…
Hanno la “o” chiusa:
abbottono (abbottóno)
corona (coróna)
io corono (coróno)
dono (dóno)
io dono (dóno)
condono (condóno)
perdono (perdóno)
maratona (maratóna)
persona (persóna)
io sono (sóno)
Cremona (Cremóna)
Savona (Savóna)
Verona (Veróna)…
“oppio-oppia-oppo-oppa”
oppio (òppio)
coppia (còppia)
accoppo (accòppo)
103
galoppo (galòppo)
pioppo (piòppo)
sciroppo (sciròppo)
troppo (tròppo)
zoppo (zòppo)
coppa (còppa)…
Sono eccezioni: “doppio-dóppio” e “poppa-póppa”.
“orchio-orco-orca-orcia-orcio”
rimorchio (rimòrchio) torchio (tòrchio)
orco (òrco)
porco (pòrco)
torcia (tòrcia)…
sporco (spòrco)
Ma si dice: “inforco-infórco”, “forca-fórca”, “scorcio-scórcio” e
“sorcio-sórcio”.
“oro-ora”
boro (bòro)
coro (còro)
decoro (decòro)
ignoro (ignòro)
moro (mòro)
oro (òro)
poro (pòro)
toro (tòro)
aurora (auròra)
bora (bòra)
flora (flòra)
Il pronome “loro-lóro”, lo ricordiamo, vuole la “o” chiusa, come le
voci dei verbi “adorare , assaporare, infervorare”:
104
io adoro (adóro)…
tu adori (adóri)…
io assaporo (assapóro)…
mi infervoro (infervóro)…
Ed anche gli avverbi “ora (óra)”, “allora (allóra)”, “ancora (ancóra)”.
Ricordiamo lʼomografo “foro”:
foro (fóro) indica un buco, unʼapertura.
foro (fòro) è la piazza degli antichi romani ed il luogo sede del
tribunale.
Omonimo-omofono:
“toro (tòro)” rappresenta sia il maschio della vacca (e la
Costellazione), sia una figura geometrica (e il relativo dispositivo
fisico).
“orto-orta-orte”
aborto (abòrto)
conforto (confòrto)
morto (mòrto)
orto (òrto)
porto (pòrto)
rapporto (rappòrto)
ritorto (ritòrto)
torto (tòrto)
porta (pòrta)
scorta (scòrta)
sorta (sòrta)
storta (stòrta)
forte (fòrte)
morte (mòrte)
sorte (sòrte)…
105
Sono eccezioni: “corte (córte)”, “torta (tórta)”, il participio passato
“sorto (sórto)” (dal verbo sorgere-sórgere) e lʼaggettivo “corto
(córto)”.
Eʼ utile esercizio ricordare gli omografi “ sorta (sórta)” e “sorta (sòrta)”
già presentati e lʼomonimo-omofono “porto”:
Genova ha un porto (pòrto) importante.
Mario mi ha porto (pòrto, da porgere-pòrgere) il pane.
“orza-orzo”
forza (fòrza)
scamorza (scamòrza)
scorza (scòrza)
forzo (fòrzo)
orzo (òrzo)
rinforzo (rinfòrzo)
cosa (còsa)
posa (pòsa)
prosa (pròsa)
rosa (ròsa)
io poso (pòso)
riposo (ripòso)
sforzo (sfòrzo)
“osa-oso-ose”
dose (dòse)
Ma si dice “io toso-tóso”.
Ricordiamo che i participi passati e gli aggettivi hanno la “o” chiusa:
amoroso (amoróso), gioioso (gioióso), roso (róso), ecc.
106
“ossa-osso-osse”
fossa (fòssa)
mossa (mòssa)
ossa (òssa)
bosso (bòsso)
dosso (dòsso)
fosso (fòsso)
grosso (gròsso)
ingrosso (ingròsso)
osso (òsso)
ridosso (ridòsso)
la tosse (tòsse)
le fosse (fòsse)
Le voci del verbo “potere-potére”:
io posso (pòsso)…
che io possa (pòssa)…
I participi passati:
percosso (percòsso-percuòtere)
promosso (promòsso-promuòvere)
scosso (scòsso-scuòtere)
Ricordiamo lʼomografo “fossi”:
se io fossi (fóssi), con “fossi” congiuntivo di “essere”.
i fossi (fòssi), con “fossi” plurale di “fosso-fòsso”.
Analogo è il caso dellʼomografo “fosse”.
N.B.
Una eccezione è “rosso-rósso”.
107
“ostato-ostata”
reostato (reòstato)
termostato (termòstato)
apostata (apòstata)
prostata (pròstata)
“oto-ota-ote”
azoto (azòto)
moto (mòto)
noto (nòto)
gota (gòta)
pilota (pilòta)
trota (tròta)
dote (dòte)
litote (litòte)
sacerdote (sacerdòte)
Sono eccezioni : “ il voto-vóto” e “io voto-vóto” con le relative voci.
“otto-otta-otte”
botto (bòtto)
cotto (còtto)
dotto (dòtto)
fagotto (fagòtto)
fiotto (fiòtto)
lotto (lòtto)
motto (mòtto)
troppo (tròppo)
trotto (tròtto)
zoppo (zòppo)
botta (bòtta)
flotta (flòtta)
marmotta (marmòtta)
Hanno la “o-chiusa”:
108
notte (nòtte)
1) prodotto (prodótto), gotta (gótta), io sfotto (sfótto).
2) condotto (condótto), oleodotto (oleodótto) e ridotto (ridótto),
derivanti dal “duco-is-duxi-ductum-ducere” latino.
3) rotto (rótto), participio passato di rompere (rómpere) e avente
origine dal latino “rumpo-is-rupi-ruptum-rumpere”.
N.B:
I participi “ductum e ruptum” hanno generato la “o” chiusa di
“condótto e rótto”, come il participio “doctum” del latino “doceo-esdocui- doctum- docere” (insegnare) ha reso aperta la “o” dellʼitaliano
“dòtto”.
Eʼ utile ricordare gli omografi “botte” e “botti”:
le botte (bòtte), plurale di “botta-bòtta”.
la botte (botte-bótte), nome del recipiente.
i botti (bòtti), plurale di “botto-bòtto”.
le botti (bótti), plurale di “botte-bótte”.
109
Frequenze quasi uguali
Il grafema “o” si trova, nelle seguenti terminazioni, nella forma
“chiusa” ed in quella “aperta” con frequenze non molto diverse.
“occo-occa”
abbocco (abbócco)
balocco (balòcco) - blocco (blòcco)
ciocca (ciòcca) - cocca (còcca)
bocca (bócca)
cocco (còcco) - fiocco (fiòcco)
rimbocco (rimbócco)
nocca (nòcca) - scocca (scòcca)
io tocco (tócco)
Rocco (Ròcco)
scirocco (sciròcco) - scrocco (scròcco)
Ricordiamo gli omografi “tocco” e “rocca”:
Il tocco (tócco) è lʼatto del toccare.
Il tocco (tòcco) è il berretto dei giudici e degli avvocati.
La rocca (rócca) è lʼ attrezzo per filare.
La rocca (ròcca) è la rupe, la fortezza.
“oga-ogo-oge”
doga (dóga)-foga (fóga)
toga (tòga)
rogo (rógo)-sfogo (sfógo)
doge (dòge)
110
“oia”
feritoia (feritóia)
boia (bòia)-gioia (giòia)
ingoia (ingóia)
noia (nòia)
mangiatoia (mangiatóia)
soia (sòia)
Pistoia (Pistóia)
Troia (Tròia)
Ricordiamo, “repetita iuvant”, che il “dittongo-uo” richiede la “oaperta” e pertanto si ha:
cuoia (cuòia), muoia (muòia), ecc.
“oldo”
manigoldo (manigóldo)
soldo (sòldo)
Aroldo (Aròldo)
Leopoldo (Leopòldo)
“olo-ola-ole”
solo (sólo)
nocciolo (nocciòlo)
volo (vólo)
nocciola (nocciòla)
molo (mòlo)-nolo (nòlo)
io volo (vólo)
polo (pòlo)-fola (fòla)
111
gola (góla)
parola (paròla)-Pola (Pòla)
sole (sóle)
prole (pròle)
“ollo-olla”
pollo (póllo)
crollo (cròllo)-sfollo (sfòllo)
ampolla (ampólla)
colla (còlla)-collo (còllo)
bolla (bólla)
bricolla (bricòlla)
cipolla (cipólla)
corolla (coròlla)
midollo (midóllo)
molla (mòlla )
midolla (midólla)
zolla (zòlla)
“olto-olta”
colto (cólto), aggettivo :
uomo colto (cólto)
terreno colto (cólto)
colto (còlto), participio passato da “cogliere-cògliere”:
il frutto è stato colto (còlto)
folto (fólto): un bosco (bòsco) folto (fólto)
molto (mólto): molto (mólto) folto (fólto)
sepolto (sepólto), aggettivo e participio passato da “seppellire”
112
il volto (vólto): col (cól) volto (vólto) rivolto (rivòlto)
assolto (assòlto), participio passato da “assolvere-assòlvere”
risolto (risòlto), participio passato da “risolvere-risòlvere”
rivolto (rivòlto), participio passato da “rivolgere-rivòlgere”
tolto (tòlto), participio passato da “togliere-tògliere”
volto (vòlto), participio passato da “volgere-vòlgere”
la volta (vòlta), una volta (vòlta).
Ricordiamo che “colto e volto” sono “omografi”.
“opo-opa”
io scopo (scópo)
lo scopo (scòpo)
la scopa (scópa)
topo (tòpo)
“scopo” è un omografo.
“orro”
corro (córro)…
borro (bòrro)
scorro (scórro)
porro (pòrro)
113
“orvo”
torvo (tórvo)
corvo (còrvo)
“osto-osta-oste-ostro-ostra ”
mosto (mósto)
accosto (accòsto)
il posto (pósto)
arrosto (arròsto)
opposto (oppósto)
costo (còsto)
nascosto (nascósto)
la posta (pòsta)
voi foste (fóste)
oste (òste)
mostro (móstro)
costa (còsta)-crosta (cròsta)
io mostro (móstro)
nostro (nòstro)-rostro (ròstro)
Sono omografi “imposto” e “imposta”:
1) imposto (impósto) è part.pass. da “imporre-impórre”:
“mi è stato imposto (impósto) di studiare”.
Imposto (impòsto) è ind. pres. da “impostare”:
io imposto (impòsto) un calcolo.
2) imposta (impósta): unʼimposta, una tassa.
imposta (impòsta): la persiana.
114
“ozzo-ozza-ozze”
gozzo (gózzo)
abbozzo (abbòzzo)
ingozzo (ingózzo)
bozzo (bòzzo)-bozza (bòzza)
pozzo (pózzo)
cozzo (còzzo)-cozza (còzza)
rozzo (rózzo)
tinozza (tinòzza)-tozzo (tòzzo)
sozzo (sózzo)
nozze (nòzze)
Ricordiamo lʼomografo “mozzo”:
1) mozzo (mózzo) è lʼ aiutante-marinaio.
2) mozzo (mòzzo) per indicare lʼasse della ruota ed anche, come
aggettivo, un qualcosa di “tronco-tagliato”.
“ove”
altrove (altróve)
bove (bòve)
ove (óve)
nove (nòve)
ovest (òvest)
Ripassiamo:
1) Se cʼè il dittongo “uo” la “o” si pronuncia aperta:
buone (buòne) nuove (nuòve).
115
2) Se cʼè la sequenza “io-consonante-vocale” vale la stessa regola
con esclusione delle terminazioni in “ore-one-oso”:
Giove (Giòve), piolo (piòlo), piove (piòve), … ma fiore (fióre),
fusione (fusióne), ione (ióne), ionizzazione (ionizzazióne),
gioioso (gioióso), mafioso (mafióso), ecc.
Frequenze piccole
Presentiamo un elenco di parole che hanno caratteristiche
fonetiche e terminazioni con una frequenza piccola da poter essere
inserite in nuovi gruppi o in quelli già considerati.
agrodolce (agrodólce)
accomodo (accòmodo)
acropoli (acròpoli)
io assolsi (assòlsi)
io annovero (annòvero)
brontolo (bróntolo)
apostrofo (apòstrofo)
compero (cómpero)
briozoi (briozòi)
compiere (cómpiere)
codice (còdice)
compito (cómpito)
cogliere (cògliere)
correre (córrere)
congruo (còngruo)
disordine (disórdine)
console (cònsole)
dodici (dódici)
corpo (còrpo)-cross (cròss)
116
dolce (dólce)
dogma (dògma)
forbice (fórbice)
floscio (flòscio)
golpe (gólpe)
gobbo (gòbbo)
gomena (gómena)
goffo (gòffo)
gomito (gómito)
golgota (gòlgota)
gongolo (góngolo)
ippodromo (ippòdromo)
interrompo (interrómpo)
insonne (insònne)
insomma (insómma)
ipotesi (ipòtesi)
insorgere (insórgere)
isobara (isòbara)
Labrador (Labradór)
lobo (lòbo)
logoro (lógoro)
loculo (lòculo)
io logoro (lógoro)
manovra (manòvra)
io mormoro (mórmoro)
misogino (misògino)
egli mormora (mórmora)
la mormora (mòrmora)
noi (nói)
mobile (mòbile)
non (nón)
nomina (nòmina)
onde (ónde)
oasi (òasi)-onere (ònere)
ordine (órdine)
opera (òpera)
orlo (órlo)
organo (òrgano)
otre (ótre)
ospite (òspite)
ottobre (ottóbre)
polca (pòlca)
117
polvere (pólvere)
pollice (pòllice)-polline (pòlline)
pomice (pómice)
popolo (pòpolo)
porpora (pórpora)
porgere (pòrgere)
precorrere (precórrere)
povero (pòvero)
quattordici (quattórdici)
profugo (pròfugo)
rondine (róndine)
proposito (propòsito)
rodere (ródere)
rospo (ròspo)
rovere (róvere)
rorido (ròrido)-solido (sòlido)
sordido (sòrdido)
sepolcro (sepólcro)
togliere (tògliere)
soffio (sóffio)
vomere (vòmere)
vongola (vóngola)
vomito (vòmito)
118
ORTOEPIA DI “S”
Il grafema “s” presenta, come la “e” e la “o”, due differenti
pronunce.
I due diversi suoni vengono di solito chiamati “sonoro o dolce” e
“sordo o aspro”.
Nella frase “una rosa senza spine” si riconoscono facilmente queste
sonorità: la prima “s” è “sonora”, le altre due sono “sorde”.
A noi personalmente sembra che la “s” detta “sorda” sia come “soffiata”,
pronunziata con la bocca più aperta rispetto a quella “sonora” che, a sua
volta, ci appare come “vibrata”.
Abbiamo cioè la sensazione che la “s-sonora” sorga più nel profondo,
con un maggior coinvolgimento delle “corde vocali”( in realtà sono
come dei dischi che vibrano in un tubo); la “s-sorda” ci sembra, a sua
volta, formarsi più in alto, quasi nella bocca, con forte spinta dellʼaria
fra i denti che sarebbe la causa di quel certo “soffio”.
Queste considerazioni, che possono aiutarci nella ricerca di
una “dizione” corretta o per lo meno migliore, sono basate sulle
sensazioni del nostro orecchio che non è uno strumento fisico artificiale
e oggettivo, ma un organo naturale e soggettivo. Non a caso si dice:
“avere orecchio”!
Pertanto le osservazioni che noi abbiamo fatto, che altri fanno o faranno,
e le stesse definizioni riportate (sordo e sonoro), non hanno alcunché di
119
assoluto nel senso che ciascuno in realtà sente alla sua maniera.
Ad esempio Marisa ed io non “sentiamo” nello stesso modo: a me viene
da associare alla denominazione “sordo” lʼalternativa “dolce” ed alla
“sonoro” la “aspro”. Evidentemente sono io che ho un modo di sentire
“strano” se è vero che tutte le grammatiche dicono lʼinverso.
Anche i più o meno “daltonici dellʼudito” sono coscienti della loro
“stranezza” e, pur non sentendo il “sonoro” o il “sordo” come la
maggioranza degli altri, possono comunque trarre utilità dal sapere che
spingendo maggiormente lʼaria fra i denti si ottiene la “s-sorda”.
Ricordiamo che a proposito dellʼortoepia della “e” e della “o”
abbiamo parlato molto sulla obbligatorietà o meno di porre gli accenti
nella lingua scritta.
Per quanto riguarda la “s” (ed anche la “z”) le cose sono più semplici.
La “s-sorda” si scrive “s” ( anche nel vocabolario); la “s-sonora” viene
indicata dal dizionario con un piccolo segno postole sopra o sotto,
ma nella lingua scritta non vi è alcun obbligo di metterlo (lʼitaliano
diverrebbe ancora più difficile!).
Scrivendo pertanto una parola con la “s-sorda” non ricorreremo più alla
doppia scrittura ( come per la “e” e la “o”) riportando in parentesi quella
del dizionario, poiché le due coincidono.
“s” sordo
“s”allʼinizio di parola e seguito da vocale
sabato
salto
sapiente
sazio
sella
seme
senza
sette
sicuro
silenzio
simile
siluro
120
sodo
solo
sonda
sublimato
sublime
subordinare…
sotto
subito
“s” preceduto da una qualsiasi consonante
arso
borsa
corsa
immergersi
impulso
insaziabile
insulso
percorso
transalpino
transatlantico
transenna
transetto
transigere
transito
transoceanico
transumanza…
“s” doppio
assalto
assegno
asso
basso
bassofondo
bassorilievo
cassa
cassiere
cessare
cessione
dessert
dosso
dissesto
dissidente
essenza
essere
esso
essoterico
fessura
fissione
fisso
fosso
gassato
gassista
gassosa
gassoso
issare
lassismo
lasso
lassù
lossodromia
masseria
masso
messere
messo
nassa
nesso
nessuno
nossignore
ossatura
osservatorio
ossequio
ossigeno
pessimo
121
plesso
possesso
prossimo
ressa
rissa
rissoso
rosso
salasso
sasso
sessione
sesso
tassa
tassello
tasso
tessere
vassallo
vassoio
vessare
vessillo…
È interessante ricordare, al di là dellʼaspetto ortoepico, la differenza
fra “esoterico ed essoterico” (parole di origine greca):
“ešotèrico” significa “interno” e viene (veniva) usato per indicare un
insegnamento per pochi (i discepoli dei filosofi greci), una dottrina
con caratteristiche di segretezza e di mistero per coloro che non vi
partecipano.
“Essotèrico” è il contrario di “ešotèrico”; ha il significato di “esterno”
e si usa (si usava) nel caso di un insegnamento aperto a tutti (e non ai
soli allievi dei maestri), una dottrina semplice ed accessibile senza
limitazione alcuna.
“s” seguito da una delle consonanti (sorde) “c, f, p, q, t”
ascolto
asfalto
aspetto
astronomo
basco
basta
bisticcio
casco
cosca
cospetto
costo
disco
disfare
dispetto
distorto
esca
estrapolare
fresco
festa
guascone
122
guasto
ischemia
ispirazione
istanza
lisca
lustro
miscela
misfatto
mestolo
nascere
nastro
oscenità
ospite
osteria
pesca
pestare
raschiare
raspare
resto
scelta
sferzare
spettro
squame
stranezza
tasca
tasto
usciere
ustione
vasca
vastità…
Terminazioni in “eso-esa-esi-ese” dei participi passati e degli
aggettivi
appeso (esa, esi, ese)
conteso (esa, esi, ese)
difeso (esa, esi, ese)
inatteso (esa, esi, ese)
preso (esa, esi, ese)
sospeso (esa, esi, ese)
trasceso (esa, esi, ese)
vilipeso (esa, esi, ese)
Terminazioni in “oso-osa-osi-ose” dei participi passati e degli
aggettivi
amoroso (osa, osi, ose)
bellicoso (osa, osi, ose)
corroso (osa, osi,ose)
costoso (osa, osi, ose)
delizioso (osa, osi, ose)
esploso (osa, osi, ose)
estroso (osa, osi, ose)
goloso (osa, osi, ose)
123
imploso (osa, osi, ose)
maestoso (osa, osi, ose)
odioso (osa, osi, ose)
permaloso ( osa, osi, ose)
roso (osa, osi, ose)
vanitoso (osa, osi, ose)
Da osservare che “esploso” ed “imploso” ammettono anche la forma
“esplošo” ed “ implošo” con la “s” sonora e che, contrariamente a
tutti gli altri, hanno la “o” aperta (come si era già visto).
Terminazioni in “esi-ese-esero” dei passati remoti
attesi (ese-esero)
compresi (ese-esero)
difesi (ese-esero)
estesi (ese-esero)
presi (ese-esero)
sospesi (ese-esero)
tesi (ese-esero)…
Terminazioni in “ese-esi” negli aggettivi
albanese (esi)
barese (esi)
borghese (esi)
danese (esi)
genovese (esi)
inglese (esi)
milanese (esi)
norvegese (esi)
scozzese (esi)…
Sono eccezioni “francese-franceše” e “cortese-corteše”.
N.B.
Eʼ utile, per memorizzare le numerose “regole” che stiamo incontrando,
ricordare che per i participi passati, gli aggettivi ed i passati remoti,
a parte alcune rarissime eccezioni, le “e” e le “o” sono chiuse ( come
visto a suo tempo) e le “s” sorde.
124
E diremo:
atteso (attéso-attésa-attési-attése)
vilipeso (vilipéso-vilipésa-vilipési-vilipése)
odoroso (odoróso-odorósa-odorósi-odoróse)
oneroso (oneróso-onerósa-onerósi-oneróse)
bolognese (bolognése-bolognési)
presi (prési-prése-présero)
scesi (scési-scése-scésero)
posi (pósi-póse-pósero)
nascosi (nascósi-nascóse-nascósero)
Parole che presentano la “s” fra due vocali
Vi sono moltissime parole che presentano la “s” sorda fra due
vocali ed altrettante, come vedremo, che hanno la “s” sonora.
Purtroppo queste parole non rientrano nei casi appena esaminati
(participi passati, aggettivi, passati remoti), non si possono assegnare
delle regole ed ogni parola ha, nellʼetimo, la ragione della sua
pronunzia.
Diamo ora un elenco delle prime e, scorrendolo, ognuno di noi troverà
senzʼaltro motivi di curiosità e di stupore:
asino
bisezione
bramosia
casa
casale
casalinga
casato
casella
casello
casino
125
casotto
chiusa
chiusura
cinese
cinepresa
cosa
così
cosiddetto
cosiffatto
difesa
disegno
disopra
disotto
fuso
gas
gassato
gassista
gazzosa
gelosia
generosità
manganese mese
naso
offesa
pesato
pesante
peso
posa
posata
presa
preside
presidente
pretesa
raso
rasoio
resa
resistenza
risacca
risaia
risalto
riserbo
riserva
riso
risolutezza risorsa
sorriso
susina
turchese...
Voci verbali con la “s” fra due vocali
Valgono le stesse considerazioni fatte poco sopra a proposito delle
parole con la “s” fra due vocali:
annusare (annuso, annusai, annusato)
desumere (desumo, desunsi, desunto)
incasellare (incasello, incasellai, incasellato)
chiudere (chiusi, chiuso)
pesare (peso, pesai, pesato)
posare (poso, posai, posato)
presupporre (presuppongo, presupposi, presupposto)
126
pretendere (pretesi, preteso)
radere ( rasi, raso)
rasare (raso, rasai, rasato)
resistere (resisto, resistei, resistito)
risalire ( risali, risalii, risalito)
risaltare (risalto, risaltai, risaltato)
risanare (risano, risanai, risanato)
risapere ( risò, riseppi, risaputo)
risarcire (risarcisco, risarcii, risarcito)
risentire (risento, risentii, risentito)
riservare (riservo, riservai, riservato)
ridere (risi, riso)
risolvere (risolvo, risolsi, risolto)
risorgere (risorgo, risorsi, risorto)
rosicare (rosico, rosicai, rosicato)
rosicchiare (rosicchio, rosicchiai, rosicchiato)
rodere (rosi, roso)
sorridere (sorrisi-sorriso)
trasecolare ( trasecolo, trasecolai, trasecolato)
trasudare (trasudai, trasudato)
127
“s” sonoro
“s” seguito da “b-d-g-l-m-n-r-v” (consonanti sonore)
sbalzo ( šbalzo)
sdegno (šdegno)
sguardo (šguardo)
sloggio (šloggio)
smercio (šmercio)
šnello (snello)
sragiono (šragiono)
sveglio (šveglio)
bisbiglio (bišbiglio)
disdegno (dišdegno)
disguido (dišguido)
dislivello (dišlivello)
legislatore (legišlatore)
risveglio (rišveglio)
altruismo (altruišmo)
dismisura (dišmišura)
egocentrismo (egocentrišmo)
egoismo (egoišmo)
razzismo (razzišmo)
sisma (sišma)
“s” fra due vocali e la parola termina in “sione”
abrasione (abrašione)
adesione (adešione)
corrosione (corrošione)
diffusione (diffušione)
erosione (erošione)
evasione (evašione)
fusione (fušione)
occasione (occašione)
“s”fra due vocali e la parola termina in “esimo-esima”
battesimo (battešimo)
cattolicesimo (cattolicešimo)
protestantesimo (protestantešimo) medesimo (medešimo)
128
ennesimo (ennešimo)
centesimo (centešimo)
millesimo (millešimo)
milionesima (milionešima)
cresima (crešima)…
“s” fra due vocali e la parola ( sostantivo al singolare e non aggettivo
o voce verbale) termina in “asi-esi-isi-osi”
stasi (staši)
estasi (estaši)
cosmesi (cošmeši)
dieresi (diereši)
diocesi (dioceši)
genesi (geneši)
ipotesi (ipoteši)
parentesi (parenteši)
protesi (proteši)
tesi (teši)
brindisi (brindiši)
crisi (criši)
ipofisi (ipofiši)
tisi (tiši)
artrosi (artroši)
ipnosi (ipnoši)
narcosi (narcoši)
nevrosi (nevroši)
psicosi (psicoši)
prognosi (prognoši)
scoliosi (scolioši)
trombosi (tromboši) tubercolosi (tubercološi)…
“s” fra due vocali e la parola inizia con “disa-disi-diso-disu”
disagio (dišagio)
disamina (dišamina)
disarmo (dišarmo)
disastro (dišastro)…
disidratazione (dišidratazione)
disimpegno (dišimpegno)
disobbedienza (dišobbedienza)
disoccupato (dišoccupato)
disordine (dišordine)…
129
disuguale (dišuguale)
disumano (dišumano)
disunione (dišunione)…
N.B.: uniche eccezioni sono: disopra (disopra) e disotto (disotto).
“s” fra due vocali e la parola inizia con “esa-ese-esi-eso-esu”
esame (ešame)
esatto (ešatto)
esempio (ešempio)
esercito (ešercito)
esilio (ešilio)
esistenza (ešistenza)
esordio (ešordio)
esoterico (ešoterico)
esule (ešule)…
“s” fra due vocali e la parola inizia con “fisi”
fisiatra (fišiatra)
fisica (fišica)
fisima (fišima)
fisiognomia (fišiognomia)
fisiologia (fišiologia)
fisionomia (fišionomia)
fisioterapia (fišioterapia)…
“s” fra due vocali e la parola inizia con “frase-fresa”
frase (fraše)
fraseggio (frašeggio)
fresa (freša)
fresatrice (frešatrice)…
130
fraseologia (frašeologia)
“s” fra due vocali e la parola inizia con “inesa-inesi-ineso”
inesattezza (inešattezza)
inesauribile (inešauribile)
inesigibile (inešigibile)
inesistente (inešistente)
inesorabile (inešorabile)
inesorabilmente (inešorabilmente)…
“s” fra due vocali e la parola inizia con “iso”
isobara (išobara)
isobata (išobata) isoclina (išoclina)
isocora (išocora)
isocronismo (išocronišmo)
isoipsa (išoipsa)
isola (išola)
isosismica (išosišmica)
isoscele (išoscele)
isoterma (išoterma)
isotopo (išotopo)…
“s” fra due vocali e la parola inizia con “misa-mise-miso-misu”
misantropia (mišantropia)
miseria (mišeria)
misericordia (mišericordia)
misoginia (mišoginia)
misoneismo (mišoneišmo)
misura (mišura)…
“s” fra due vocali e la parola inizia con “musa-muse-musi-muso”
musa (muša)
museo (mušeo)
musica (mušica)
muso (mušo)…
131
“s” fra due vocali e la parola inizia con “usa-use-usi-uso-usu”
usanza (ušanza)
usevole (uševole)
usignolo (ušignolo)
uso (ušo)
usucapione (ušucapione)
usura (ušura)…
“s”fra due vocali e la parola inizia con “visa-vise-visi-viso-visu”
visagista (višagista)
visita (višita)
visetto (višetto)
viso (višo)
visuale (višuale) …
Voci verbali con la“s” fra due vocali e che iniziano con “disa-disidiso-disu”
disabituare (dišabituare-dišabituo-dišabituai-dišabituato)
disaminare (dišaminare-dišamino-dišaminai-dišaminato)
disamorare (dišamorare-dišamoro-dišamorai-dišamorato)
disarmare (dišarmare-dišarmo-dišarmai-dišarmato)
disidratare (dišidratare-dišidrato-dišidratai-dišidratato)
disilludere (dišilludere-dišilludo-dišilluši-dišillušo)
disingannare (dišingannare-dišinganno-dišingannai-dišingannato)
disobbedire (dišobbedire-dišobbedisco-dišobbedii-dišobbedito)
disonorare (dišonorare-dišonoro-dišonorai-dišonorato)
disunire (dišunire-dišunisco-dišunii-dišunito)
132
Parole con la “s” fra due vocali
Come per la “s” sorda diamo un elenco delle numerose parole che
hanno la “s” fra due vocali ma che non possono venir raccolte in
gruppi mediante regole e analogie:
abrasivo (abrašivo)
alesaggio (alešaggio)
ambrosia (ambrošia)
amnesia (amnešia)
applauso (applaušo)
apposito (appošito)
ardesia (ardešia)
asilo (ašilo)
asola (ašola)
assise (assiše)
ausiliario (aušiliario)
avviso (avvišo)
basalto (bašalto)
basamento (bašamento)
base (baše)
basico (bašico)
basilare (bašilare)
basilica (bašilica)
basilico (bašilico)
basilisco (bašilisco)
basista (bašista)
basito (bašito)
bifase (bifaše)
bisaccia (bišaccia)
bisestile (bišestile)
bisettrice (bišettrice)
bisogno (bišogno)
bisonte (bišonte)
blasone (blašone)
blusa (bluša)
bradisismo (bradišišmo)
brusio (brušio)
133
casacca (cašacca)
casaccio (cašaccio)
caseificio (cašeificio)
caso (cašo)
causa (cauša)
certosa (certoša)
cesareo (cešareo)
cesello (cešello)
cesoia (cešoia)
cesura (cešura)
chiesa (chieša)
chiosa (chioša)
clausola (claušola)
clausura (claušura)
compositore (compošitore)
composito (compošito)
composizione (compošizione)
conclusivo (conclušivo)
contuso (contušo)
cornamusa (cornamuša)
cortese (corteše)
cortesia (cortešia)
cortisone (cortišone)
crisantemo (crišantemo)
deserto (dešerto)
desolato (dešolato)
diapason (diapašon)
diapositiva (diapošitiva)
diesis (diešis)
diseguale (dišeguale)
disertore (dišertore)
diserzione (dišerzione)
disposizione (dispošizione)
divisa (diviša)
divisore (divišore)
dose (doše)
ecclesiastico (ecclešiastico)
elemosina (elemošina)
elettrolisi (elettroliši)
elisir (elišir)
134
entusiasmo (entušiašmo)
episodio (epišodio)
eresia (erešia)
esposizione (espošizione)
eutanasia (eutanašia)
evasore (evašore)
fase (faše)
fasullo (fašullo)
fusoliera (fušoliera)
gasolio (gašolio)
gasista (gašista)
indeciso (indecišo)
inquisitore (inquišitore )
inquisizione (inquišizione)
intriso (intrišo)
intruso (intrušo)
ipocrisia (ipocrišia)
irrisorio (irrišorio)
lasagna (lašagna)
lesena (lešena)
lesione (lešione)
lesivo (lešivo)
losanga (lošanga)
lusinga ( lušinga)
marchese (marcheše)
mausoleo (maušoleo)
medusa (meduša)
nausea (naušea)
nosocomio (nošocomio)
osanna (ošanna)
ottuso (ottušo)
paese (paeše)
pausa (pauša)
penisola (penišola)
pisolino (pišolino)
plausibile (plaušibile)
positivo (pošitivo)
135
posologia (pošologia)
presagio (prešagio)
presepio (prešepio)
presule (prešule)
prosa (proša)
proselito (prošelito)
prosodia (prošodia)
prosopopea (prošopopea)
pusillanime (pušillanime)
quasi (quaši)
requisito (requišito)
resina (rešina)
revisore (revišore)
rinfusa (rinfuša)
risico (rišico)
rosa (roša)
rosario (rošario)
rosolia (rošolia )
rosolio (rošolio)
scusa (scuša)
sintesi (sinteši)
sosia (sošia)
sposo (spošo)
sproposito (spropošito)
suasivo (suašivo)
tesoro (tešoro)
vanesio (vanešio)
vaselina (vašelina)
vaso (vašo)
visiera (višiera)…
136
Voci verbali con la “s” fra due vocali
Anche le voci verbali che hanno la “s” fra due vocali e che non sono
riducibili in schemi e classificazioni sono numerose.
Eccone un elenco:
alesare (alešare-alešo-alešai-alešato)
basare (bašare-bašo-bašai-bašato)
biasimare (biašimare-biašimo-biašimai-biašimato)
concludere (concluši-conclušo)
confondere (confuši-confušo)
diffondere (diffuši-diffušo)
diseredare (dišeredare-dišeredo-dišeredai-dišeredato)
disertare (dišertare-dišerto-dišertai-dišertato)
disquisire (disquišisco- disquišii- disquišito)
elemosinare (elemošinare-elemošino-elemošinai-elemošinato)
eludere (eluši- elušo)
entusiasmare (entušiasmare-entušiašmo-entušiašmai-entušiašmato)
esaminare (ešaminare-ešamino-ešaminai-ešaminato)
esplodere (esploši- esplošo)
esultare (ešultare-ešulto-ešultai-ešultato)
137
evadere (evaši-evašo)
fondere (fuši-fušo)
improvvisare (improvvišare-improvvišo-improvvišai-improvvišato)
includere (incluši-inclušo)
infondere (infuši-infušo)
inquisire (inquišire-inquišisco-inquišii-inquišito)
invadere (invaši-invašo)
ledere (leši-lešo)
lusingare ( lušingare-lušingai-lušingato)
mettere (miši-miše-mišero)
occludere (occluši-occlušo)
osannare (ošannare-ošanno-ošannai-ošannato)
osare (ošare-ošo-ošai-ošato)
palesare (palešare-palešo-palešai-palešato)
perquisire (perquišire-perquišisco-perquišii-perquišito)
persuadere (persuaši-persuašo)
pervadere (pervaši-pervašo)
precisare (precišare-precišo- precišai-precišato)
presagire (prešagire-prešagisco-prešagii-prešagito)
presentare (prešentare-prešento-prešentai-prešentato)
presenziare (prešenziare- prešenzio-prešenziai-prešenziato)
138
presumere (prešumo-prešunsi-prešunto)
profondere (profuši-profušo)
rappresentare (rapprešentare-rapprešento-rapprešentai-rapprešentato)
ravvisare (ravvišare-ravvišo-ravvišai-ravvišato)
recidere (reciši-recišo)
recludere (recluši-reclušo)
ricusare (ricušare-ricušo-ricušai-ricušato)
rimanere (rimaši)
rosolare (rošolare-rošolo-rošolai-rošolato)
scommettere (scommiši)
scusare (scušare-scušo-scušai-scušato)
sfasare (sfašare-sfašo-sfašai-sfašato)
sottomettere (sottomiši)
spasimare (spašimare-spašimo-spašimai-spašimato)
sposare (spošare-spošo-spošai-spošato)
tosare (tošare-tošo-tošai-tošato)
travasare (travašare-travašo-travašai-travašato)
travisare (travišare-travišo-travišai-travišato)
uccidere (ucciši-uccišo)
visitare (višitare-višito-višitai-višitato)
139
ORTOEPIA DI “Z”
Per il grafema “z” valgono le stesse considerazioni fatte per
il grafema “s”.
I due suoni si chiamano ancora “sordo o aspro” e “sonoro o dolce” e si
ottengono nello stesso modo indicato per la “s”.
Le differenze viste fra la “s” sorda e quella sonora, di “senza-spine” e
di “rosa” rispettivamente, sono come quelle che possiamo trovare fra la
“z” sorda di “zucchero” e quella sonora di “zanzara”.
La “z” sorda (come la “s”sorda) si scrive semplicemente “z”.
Ricorreremo pertanto alla scrittura “ortoepica” soltanto per la “z”
sonora. Il simbolo che abbiamo scelto è la “z” greca ( ζ ) che si
pronunzia esattamente come la “z” di “zanzara” e di “brezza”.
“z” sordo
“z” seguito da “ia-ie-io”
furbizia
liquirizia
zia
balbuzie
calvizie
consenziente
convocazione
equazione
funzione
servizio
spazio
zio…
140
Eʼ eccezione “ azienda-aζienda”.
“z” nelle parole che terminano in “anza-enza”
abbondanza
baldanza
costanza
distanza
quietanza
risonanza
sostanza
essenza
frequenza
impedenza
incompetenza
lenza
potenza
resistenza
sonnolenza
supplenza
tendenza
turbolenza
veemenza…
“z”nelle parole che terminano in “ezzo-ezza”
disprezzo
pezzo
bellezza
carezza
dolcezza
ebbrezza
finezza
morbidezza
pezza
scaltrezza…
Sono eccezioni lʼomografo“mezzo” (incontrato nellʼortoepia di “e”):
“mezzo-mézzo” significa “bagnato, fradicio”
“mezzo-mèζζo” per indicare “ metà, modo, veicolo”
“brezza-bréζζa” e “olezzo-oléζζo”
“z” nelle parole che terminano in “ozzo-ozza”
mozzo
pozzo
sozzo
tozzo
carrozza
tinozza…
141
Ricordiamo lʼomonimo-omofono “gozzo” (già visto nellʼortoepia di “o” ):
“gozzo-gózzo” (parte dellʼesofago)
“gozzo-gózzo” (piccola imbarcazione)
Esistono alcune “eccezioni”:
1) lʼomografo “mozzo” (ortoepia di “o”)
mozzo (mózzo) significa “garzone, aiutante” ed anche
“tagliato”
mozzo (mòζζo) è il centro della ruota
2) “rozzo-róζζo”
“z” preceduta da “l-n-r”
Tutte le parole prima viste come “…arroganza, scienza..”
(terminazioni“anza-enza”) e come “…funzione,…” (“z” seguito da
“ia-ie-io-ii”), e inoltre:
anzi
balza
balzano
calza
calzone
canzone
lattonzolo
marzo
mediconzolo
pretonzolo
rincalzo
scalzo
scorza
sterzo
striminzito
terzo….
142
Tutte le voci verbali di:
alzare
balzare
calzare
danzare
infilzare
innalzare
inzuppare
rimpinzare
rincalzare
scalzare
scherzare
sferzare
sterzare
“z” nelle terminazioni “azzo-azza”
arazzo
intrallazzo
mazzo
palazzo
mazza
piazza
stazza
tazza…
ragazzo
Sono eccezioni: “lazzo-laζζo”, “razzo-raζζo”e “gazza-gaζζa”.
Ricordiamo lʼomografo “razza”:
1. “razza” è la specie, la qualità.
2. “razza-raζζa” è un pesce.
“z” a inizio di parola, con la seconda sillaba che inizia con “c-f-p-t”
nelle parole:
zappa
zattera
zecca
zeppa
zeppo
zitella
zitto
zoccolo
zoppo
zucca
zucchero
zuffa
zufolo
zuppa
zuppo
143
e nelle voci verbali di:
zappare (zappo, zappai, zappato)
zufolare (zufolo, zufolai, zufolato)
zittire (zittisco, zittii, zittito)
Esistono alcune “eccezioni”:
zafferano (ζafferano)
zaffiro (ζaffiro)
zeta (ζeta)
zotico (ζotico)
zeffiro (ζeffiro)
“z”nelle voci dei verbi il cui infinito termina in “azzare”
ammazzare
intrallazzare
rimpiazzare
spazzare
starnazzare
stazzare
stramazzare
strapazzare
“z”nelle voci di alcuni verbi il cui infinito termina in “izzare”
aizzare drizzare
indirizzare raddrizzare rizzare
strizzare
Voci verbali con la “z” sorda
abbozzare
aguzzare
azzeccare
azzittire
azzoppare
azzuffare
bazzicare
razzolare
ruzzolare stuzzicare
Parole con la “z” sorda
altezzoso
144
azzeccagarbugli
bizzarro
brizzolato
capezzale
lazo
lizza
mazzata
mazzetto
mazziere
merluzzo
mozzicone
nozze
pagliuzza
piccozza
pizzico
pizzo
polizza
pupazzo
puzza
razzismo
scavezzacollo
spazzaneve
spazzola
stizza
struzzo
zampa
zampillo
zampogna
zampone
zanna
zappa
zar
zazzera
zigano
zimbello
zinco
zingaro
zolfo
145
“z” sonoro
“z” allʼinizio della parola e la seconda sillaba inizia con “b-d-g-l-m-nr-v-z” (consonanti sonore)
zabaione (ζabaione) zagara (ζagara)
zampirone(ζampirone)
zanzara (ζanζara)
zavorra (ζavorra)
zebra (ζebra)
zelo (ζelo)
zenit (ζenit)
zenzero (ζenζero)
zero (ζero)
zibaldone (ζibaldone) zibellino (ζibellino)
zibibbo (ζibibbo)
zigomo (ζigomo)
zigrinare (ζigrinare)
zigrìno (ζigrìno)
zizzania (ζiζζania)
zodiaco (ζodiaco)
zolla ( ζolla)
zona (ζona)
zonzo (ζonζo)
Sono “eccezioni”:
zanna, zazzera, zimbello, zigano, zingaro.
“z”allʼinizio di parola e seguita da due vocali che non siano”ia-ie-io-ii”
zaino (ζaino), zoo(ζoo).
“z” scempia (semplice-non doppia) e posta fra due vocali
azalea (aζalea)
azimut (aζimut)
azoto (aζoto)
ozono (oζono)
146
azotemia (aζotemia)
Eʼ eccezione “nazismo-nazišmo”.
Se la seconda vocale è lʼorigine della coppia “ia-ie-io” è più vincolante
la regola vista per la “z-sorda” e si ha:
arguzia
calvizie
azione
con lʼeccezione di “azienda-aζienda”.
“z” nelle voci verbali dei verbi il cui infinito termina in “izzare”
acutizzare (acutiζζare-acutiζζo-acutiζζai-acutiζζato)
agonizzare (agoniζζare-agoniζζo-agoniζζai-agoniζζato)
armonizzare (armoniζζare-armoniζζo-armoniζζai-armoniζζato)
aromatizzare (aromatiζζare-aromatiζζo-aromatiζζai-aromatiζζato)
coalizzare (coaliζζare-coaliζζo-coaliζζai-coalizzato)
drammatizzare (drammatiζζare-drammatiζζo-drammatiζζaidrammatiζζato)
evangelizzare (evangiliζζare-evangeliζζo-evangeliζζai-evangeliζζato)
fertilizzare (fertiliζζare-fertiliζζo-fertiliζζai-fertiliζζato)
frizzare (friζζare-friζζo-friζζai-friζζato)
focalizzare (focaliζζare-focaliζζo-focaliζζai-focaliζζato)
immunizzare (immuniζζare-immuniζζo-immuniζζai-immuniζζato)
indennizzare (indenniζζare-indenniζζo-indenniζζai-indenniζζato)
ipotizzare (ipotiζζare-ipotiζζo-ipotiζζai-ipotiζζato)
147
nazionalizzare (nazionaliζζare-nazionaliζζo-nazionaliζζainazionaliζζato)
localizzare (localiζζare-localiζζo-localiζζai-localiζζato)
narcotizzare (narcotiζζare-narcotiζζo-narcotiζζai-narcotiζζato)
omogeneizzare (omogeneiζζare-omogeneiζζo-omogeiζζaiomogeneiζζato)
organizzare (organiζζare-organiζζo-organiζζai-organiζζato)
pastorizzare (pastoriζζare-pastoriζζo-pastoriζζai-pastoriζζato)
razionalizzare (razionaliζζare-razionaliζζo-razionaliζζairazionaliζζato)
realizzare (realiζζare-realiζζo-realiζζai-realiζζato)
Esistono alcune eccezioni:
aizzare
drizzare
indirizzare
raddrizzare
rizzare
“z-doppia” nella terminazione “izzazione”
Nei sostantivi relativi ai verbi del punto precedente , come:
evangelizzazione (evangeliζζazione)
nazionalizzazione (nazionaliζζazione)
organizzazione (organiζζazione)
realizzazione (realiζζazione)…
N.B.
Si osserva facilmente che non esistono le parole corrispondenti alle
eccezioni del punto precedente.
148
“z” preceduta da “l-n-r”
a) nelle seguenti parole:
arzillo (arζillo)
barzelletta (barζelletta)
benzina (benζina)
bonzo (bonζo)
bronzo (bronζo)
donzella (donζella)
elzeviro (elζeviro)
enzima (enζima)
garza (garζa)
garzone (garζone)
gonzo (gonζo)
manzo (manζo)
melanzana (melanζana)
orzo (orζo)
penzoloni (penζοloni) pranzo (pranζo)
romanza (romanζa)
romanzo (romanζo)
ronzino (ronζino)
zanzara (ζanζara)
zenzero (ζenζero)
zonzo (ζonζo)
b) Nelle voci verbali di:
abbronzare (abbronζare-abbronζo-abbronζai-abbronζato)
gironzolare ( gironζolare-gironζolo-gironζolai-gironζolato)
penzolare (penζolare-penζolo-penζolai-penζolato)
pranzare (pranζare-pranζo-pranζai-pranζato)
ronzare (ronζare-ronζo-ronζai-ronζato)
“z” nelle parole che iniziano con “mezza-mezze-mezzo”
mezzadria (meζζadria)
mezzala (meζζala)
mezzeria (meζζeria)
mezzogiorno (meζζogiorno)
mezzosoprano (meζζosoprano)…
149
Parole con la “z” sonora
aguzzino (aguζζino)
azzardo (aζζardo)
azzurro (aζζurro)
bazzecola (baζζecola)
bazar (baζar)
bizza (biζζa)
bizzoso (biζζoso)
dozzina (doζζina)
gazzella (gaζζella)
gazzosa (gaζζosa)
lazzarone (laζζarone)
magazzino (magaζζino) rozzezza (roζζezza)
Può essere interessante osservare che lʼaggettivo aguzzo e il verbo
aguzzare e le sue voci hanno la “z-sorda”:
aguzzare (aguzzo-aguzzai-aguzzato), mentre è aguzzino (aguζζino).
150
PARTE SECONDA
POEŠIE É BRANI ORTOÈPICI
151
Tanto gentile e…
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quandʼ ella altrui saluta,
chʼ ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no lʼ ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente dʼumiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà pér li occhi una dolcezza al core
cheʼ ntender no la può chi no la prova;
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien dʼ amore,
che va dicendo a lʼ anima: Sospira.
da la “Vita nuova” di Dante Alighieri
Vede perfettamente onne salute
Vede perfettamente onne salute
chi la mia donna tra le donne vede;
quelle che vanno con lei son tenute
di bella grazia a Dio render merzede.
E sua bieltate è di tanta vertute,
che nulla invidia a lʼaltre ne procede,
anzi le face andar seco vestute
di gentilezza, dʼamore e di fede.
La vista sua fa onne cosa umile;
e non fa sola sé parer piacente,
ma ciascuna per lei riceve onore.
Ed è ne li atti suoi tanto gentile,
che nessun la si può recare a mente
che non sospiri in dolcezza dʼamore.
da la “Vita nuova” di Dante Alighieri
152
Tanto gentile é…
Tanto gentile é tanto onèsta pare
la dònna mia quandʼ élla altrui saluta,
chʼ ógne lingua devèn tremando muta,
é li òcchi nò lʼ ardiscon di guardare.
Élla si va, sentèndosi laudare,
benignaménte dʼumiltà vestuta;
é par ché sia una còsa venuta
da cièlo in tèrra a miracol mostrare.
Móstrasi sì piacènte a chi la mira,
ché dà pér li òcchi una dolcézza al còre
chéʼ ntènder nò la può chi nò la pròva;
é par ché dé la sua labbia si mòva
un spirito soave pièn dʼ amóre,
ché va dicèndo a lʼ anima: Sospira.
da la “Vita nuòva” di Dante Alighièri
Véde perfettaménte ónne salute
Véde perfettaménte ónne salute
chi la mia dònna tra lé dònne véde;
quélle ché vanno có lèi són tenute
di bèlla grazia a Dio rènder merzéde.
É sua bieltate è di tanta vertute,
ché nulla invidia a lʼaltre né procède,
anzi lé face andar séco vestute
di gentilézza, dʼamóre é di féde.
La vista sua fa ónne còsa umile;
è nón fa sóla sé parér piacènte,
ma ciascuna pér lèi ricéve onóre.
Éd è né li atti suòi tanto gentile,
ché nessun la si può recare a ménte
ché nón sospiri in dolcézza dʼamóre.
da la “Vita nuòva” di Dante Alighièri
153
Guido, iʼ vorrei che tu e Lapo ed io…
Guido, iʼ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel chʼad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ʻl disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella chʼè sul numer delle trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi ragionar sempre dʼamore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come iʼ credo che saremmo noi.
da le “Rime” di Dante Alighieri
Deh peregrini che pensosi andate
Deh peregrini che pensosi andate,
forse di cosa che non vʼè presente,
venite voi da sì lontana gente,
comʼ a la vista voi ne dimostrate,
che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone che neente
par che ʻntendesser sua gravitate?
Se voi restaste per volerlo audire,
certo lo cor deʼ sospiri mi dice
che lagrimando nʼuscireste pui.
Ellʼha perduta la sua beatrice;
e le parole chʼom di lei può dire
hanno vertù di far piangere altrui.
da la “Vita nuova” di Dante Alighieri
154
Guido, iʼ vorrèi ché tu é Lapo éd io…
Guido, iʼ vorrèi ché tu é Lapo éd io
fóssimo prési pér incantaménto
é méssi in un vasèl chʼad ógni vènto
pér mare andasse al volér vòstro é mio,
sì ché fortuna ód altro tèmpo rio
nón ci potésse dare impediménto,
anzi, vivèndo sèmpre in un talènto,
di stare insième crescésse ʻl dišio.
É mònna Vanna é mònna Lagia pòi
cón quélla chʼè sul numer délle trènta
cón nói ponésse il buòno incantatóre:
é quivi ragionar sèmpre dʼamóre,
é ciascuna di lór fósse contènta,
sì cóme iʼ crédo ché sarémmo nói.
da lé “Rime” di Dante Alighièri
Dèh peregrini ché pensósi andate
Dèh peregrini ché pensósi andate,
fórse di còsa ché nón vʼè prešènte,
venite vói da sì lontana gènte,
cómʼ a la vista vói né dimostrate,
ché nón piangéte quando vói passate
pér ló suo mèζζo la città dolènte,
cóme quélle persóne ché neènte
par ché ʻntendésser sua gravitate?
Sé vói restaste pér volérlo audire,
cèrto ló còr déʼ sospiri mi dice
ché lagrimando nʼusciréste pui.
Éllʼha perduta la sua beatrice;
é lé paròle chʼòm di lèi può dire
hanno vertù di far piangere altrui.
da la “Vita nuòva” di Dante Alighièri
155
Nel mezzo del cammin…
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
che la diritta via era smarrita.
Ah quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tantʼ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben chʼio vi trovai,
dirò dellʼaltre cose chʼiʼ vʼho scorte.
Io non so ben ridir comʼ io vʼentrai,
tantʼ era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi chʼiʼ fui al piè dʼun colle giunto,
là dove terminava quella valle
che mʼavea di paura il cor compunto,
guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già deʼ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor mʼera durata
la notte chʼiʼ passai con tanta pièta.
Divina Commedia: Inferno. Canto I, v. 1-21.
156
Nél mèζζo dél cammin…
Nél mèζζo dél cammin di nòstra vita
mi ritrovai pér una sélva oscura,
ché la diritta via èra smarrita.
Ah quanto a dir qual èra è còsa dura
ésta sélva selvaggia é aspra é fòrte
ché nél pensièr rinòva la paura!
Tantʼ è amara ché pòco è più mòrte;
ma pér trattar dél bèn chʼio vi trovai,
dirò dellʼaltre còse chʼiʼ vʼhò scòrte.
Io nón sò bèn ridir cómʼ io vʼentrai,
tantʼ èra pièn di sónno a quél punto
ché la verace via abbandonai.
Ma pòi chʼiʼ fui al piè dʼun còlle giunto,
là dóve terminava quélla valle
ché mʼavéa di paura il còr compunto,
guardai in alto, é vidi lé sue spalle
vestite già déʼ raggi dél pianéta
ché ména dritto altrui pér ógne calle.
Allór fu la paura un pòco quèta
ché nél lago dél còr mʼèra durata
la nòtte chʼiʼ passai cón tanta pièta.
Divina Commèdia: Infèrno. Canto I, v. 1-21.
157
Quali colombe, dal disio chiamate…
Quali colombe, dal disio chiamate,
con lʼ ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per lʼaere dal voler portate;
cotali uscir della schiera ovʼ è Dido,
a noi venendo per lʼaere maligno,
sì forte fu lʼaffettuoso grido.
«O animaI grazioso e benigno
che visitando vai per lʼaere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de lʼuniverso,
noi pregheremmo lui della tua pace,
poi cʼhai pietà dél nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ʻl vento, come fa, si tace.
Siede la terra dove nata fui
sulla marina dove ʻl Po discende
per aver pace coʼ seguaci sui.
Amor, chʼal cor gentil ratto sʼapprende
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e ʻl modo ancor mʼoffende.
Amor, chʼ a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non mʼabbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fur porte.
Quandʼ io intesi quellʼ anime offense,
chinaʼ il viso e tanto il tenni basso,
fin che il poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Òh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo! ».
Inferno. Canto V, v. 82-114.
158
Quali colómbe, dal dišio chiamate…
Quali colómbe, dal dišio chiamate,
cón lʼ ali alzate é férme al dólce nido
vègnon pér lʼaere dal volér portate;
cotali uscir délla schièra ovʼ è Dido,
a nói venèndo pér lʼaere maligno,
sì fòrte fu lʼaffettuóso grido.
«Ó animal grazióso é benigno
ché višitando vai pér lʼaere pèrso
nói ché tignémmo il móndo di sanguigno,
sé fósse amico il ré dé lʼunivèrso,
nói pregherémmo lui délla tua pace,
pòi cʼhai pietà dél nòstro mal pervèrso.
Di qué1 ché udire é ché parlar vi piace,
nói udirémo é parlerémo a vói,
méntre ché ʻl vènto, cóme fa, si tace.
Siède la tèrra dóve nata fui
sulla marina dóve ʻl Pò discénde
pér avér pace cóʼ seguaci sui.
Amór, chʼal còr gentil ratto sʼapprènde
prése costui délla bèlla persóna
ché mi fu tòlta; é ʻl mòdo ancór mʼoffènde.
Amór, chʼ a nullo amato amar perdóna,
mi prése dél costui piacér sì fòrte,
ché, cóme védi, ancór nón mʼabbandóna.
Amór condusse nói ad una mòrte:
Caina attènde chi a vita ci spènse».
Quéste paròle da lór ci fur pòrte.
Quandʼ io intési quéllʼ anime offènse,
chinaʼ il višo é tanto il ténni basso,
fin ché ʻl poèta mi disse: «Ché pènse?».
Quando rispuòsi, cominciai: «Òh lasso,
quanti dólci pensièr, quanto dišio
menò costóro al doloróso passo! ».
Infèrno. Canto V, v. 82-114.
159
La preghiera delle anime
Era già lʼora che volge il disio
ai navicanti e ʻntenerisce il core
lo dì cʼhan detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin dʼamore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quandʼio incominciai a render vano
lʼudire e a mirare una de lʼalme
surta, che lʼascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso lʼoriente,
come dicesse a Dio: «Dʼaltro non calme».
“Te lucis ante” sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
e lʼaltre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto lʼinno intero,
avendo li occhi a le superne rote.
Divina Commedia: Purgatorio. CantoVIII, 1-18
160
La preghièra délle anime
Èra già lʼóra ché vòlge il dišio
ai navicanti é ʻntenerisce il còre
ló dì cʼhan détto ai dólci amici addio;
é ché ló nòvo peregrin dʼamóre
punge, sé òde squilla di lontano
ché paia il giórno pianger ché si mòre;
quandʼio incominciai a rènder vano
lʼudire é a mirare una dé lʼalme
surta, ché lʼascoltar chiedéa cón mano.
Élla giunse é levò ambo lé palme,
ficcando li òcchi vèrso lʼoriènte,
cóme dicésse a Dio: «Dʼaltro nón calme».
“Té lucis ante” sì devotaménte
lé uscìo di bócca è cón sì dólci nòte,
ché féce mé a mé uscir di ménte;
é lʼaltre pòi dolceménte é devòte
seguitar lèi pér tutto lʼinno intèro,
avèndo li òcchi a lé supèrne ròte.
Divina Commèdia: Purgatòrio. Canto VIII, 1-18
161
Vergine madre
“Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso dʼetterno consiglio,
tu seʼ colei che lʼumana natura
nobilitasti sì, che ʼl suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese lʼamore
per lo cui caldo nellʼetterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui seʼ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra i mortali,
seʼ di speranza fontana vivace.
Donna, seʼ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia ed a te non ricorre,
sua disianza vuol volar sanzʼali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te sʼaduna
quantunque in creatura è di bontate…”
Divina Commedia: Paradiso. Canto XXXIII, vv.1-21
162
Vérgine madre
“Vérgine madre, figlia dél tuo figlio,
umile é alta più ché creatura,
tèrmine fisso dʼettèrno consiglio,
tu sèʼ colèi ché lʼumana natura
nobilitasti sì, ché ʼl suo fattóre
nón disdegnò di farsi sua fattura.
Nél vèntre tuo si raccése lʼamóre
per ló cui caldo néllʼettèrna pace
così è germinato quésto fióre.
Qui sèʼ a nói meridiana face
di caritate, é giuso, intra i mortali,
sèʼ di speranza fontana vivace.
Dònna, sèʼ tanto grande é tanto vali,
ché qual vuòl grazia éd a té nón ricórre,
sua dišianza vuòl volar sanzʼali.
La tua benignità nón pur soccórre
a chi domanda, ma mólte fiate
liberaménte al dimandar precórre.
In té mišericòrdia, in té pietate,
in té magnificènza, in té sʼaduna
quantunque in creatura è di bontate…”
Divina Commèdia: Paradišo. Canto XXXIII, vv.1-21
163
Solo e pensoso i più deserti campi
Solo e pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman lʼarena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché ne gli atti dʼalegrezza spenti
di fuor si legge comʼio dentro avampi.
Sì chʼio mi credo ormai che monti e piagge,
e fiumi e selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch ʼè celata altrui.
Ma pur sì aspre vie, né sì selvagge
cercar non so, chʼAmor non venga sempre
ragionando con meco; et io co llui.
da Rime sparse (Rime in vita di Madonna Laura ) di Francesco Petrarca
Erano i capei dʼoro a Laura sparsi
Erano i capei dʼoro a Laura sparsi,
che ʼn mille dolci nodi gli avvolgea,
e ʼl vago lume oltre misura ardea
ei quei begli occhi, chʼor ne son sì scarsi,
e ʼl viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
iʼ che lʼésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subito arsi?
Non era lʼandar suo cosa mortale,
ma dʼangelica forma, e le parole
sonavan altro che pur voce umana:
uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel chʼiʼ vidi; e se non fosse or tale,
piaga per allentar dʼarco non sana.
da Rime sparse (Rime in vita di Madonna Laura) di Francesco Petrarca
164
Sólo é pensóso i più dešèrti campi
Sólo é pensóso i più dešèrti campi
vò mesurando a passi tardi é lènti,
é gli òcchi pòrto pér fuggire intènti
óve vestigio uman lʼaréna stampi.
Altro schérmo nón tròvo ché mi scampi
dal manifèsto accòrger dé lé gènti,
perché né gli atti dʼalegrézza spènti
di fuòr si lègge cómʼio déntro avampi.
Sì chʼio mi crédo ormai ché mónti é piagge,
é fiumi é sélve sappian di ché tèmpre
sia la mia vita, ch ʼè celata altrui.
Ma pur sì aspre vie, né sì selvagge
cercar nón sò, chʼAmór nón vènga sèmpre
ragionando cón méco; ét io có llui.
da Rime sparse ( Rime in vita di Madònna Laura ) di Francésco Petrarca
Èrano i capéi dʼòro a Laura sparsi
Èrano i capéi dʼòro a Laura sparsi,
ché ʼn mille dólci nòdi gli avvolgéa,
é ʼl vago lume óltre mišura ardéa
éi quéi bègli òcchi, chʼór né són sì scarsi,
é ʼl višo di pietósi colór farsi,
nón sò sé véro ó falso, mi paréa:
iʼ ché lʼésca amorósa al pètto avéa,
qual meraviglia sé di subito arsi?
Nón èra lʼandar suo còsa mortale,
ma dʼangèlica fórma, é lé paròle
sonavan altro ché pur vóce umana:
uno spirto celèste, un vivo sóle
fu quél chʼiʼ vidi; é sé nón fósse ór tale,
piaga pér allentar dʼarco nón sana.
da Rime sparse (Rime in vita di Madònna Laura) di Francésco Petrarca
165
Chiare, fresche, e dolci acque…
Chiare, fresche, e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse
co lʼangelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor coʼ begli occhi il cor mʼaperse;
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.
Sʼegli è pur mio destino,
e ʼl cielo in ciò sʼadopra,
chʼAmor questʼocchi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni lʼalma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo;
ché lo spirito lasso
non porìa mai in più riposato porto,
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e lʼossa.
Tempo verrà ancor forse
chʼa lʼusato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là ʼvʼella mi scòrse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa e lieta
cercandomi; et o pièta,
già terra infra le pietre
vedendo, Amor lʼinspiri
166
Chiare, frésche, é dólci acque…
Chiare, frésche, é dólci acque,
óve lé bèlle mèmbra
póse colèi ché sóla a mé par dònna;
gentil ramo óve piacque
(cón sospir mi rimèmbra)
a lèi di fare al bèl fianco colónna;
èrba é fiór ché la gónna
leggiadra ricovèrse
có lʼangèlico séno;
aere sacro, seréno,
óve Amór cóʼ bègli òcchi il còr mʼapèrse;
date udiènza insième
a lé dolènti mie paròle estrème.
Sʼégli è pur mio destino,
é ʼl cièlo in ciò sʼadòpra,
chʼAmór questʼòcchi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
còrpo fra vói ricòpra,
é tórni lʼalma al pròprio albèrgo ignuda.
La mòrte fia mén cruda
sé quésta spène pòrto
a quél dubbióso passo;
ché ló spirito lasso
nón porìa mai in più riposato pòrto,
né in più tranquilla fòssa
fuggir la carne travagliata é lʼòssa.
Tèmpo verrà ancór fórse
chʼa lʼušato soggiórno
tórni la fèra bèlla é mansuèta,
é là ʼvʼélla mi scòrse
nél benedétto giórno,
vòlga la vista disïósa é lièta
cercandomi; ét ó pièta,
già tèrra infra lé piètre
vedèndo, Amór lʼinspiri
167
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé mʼ impètre,
e faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.
Daʼ beʼ rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra ʼl suo grembo;
et ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de lʼamoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le trecce bionde,
chʼoro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su lʼonde;
qual con un vago errore
girando parea dir:-Qui regna Amore-.
Quante volte dissʼio
allor pien di spavento:
-Costei per fermo nacque in paradiso!Così carco dʼoblio
il divin portamento,
e ʼl volto, e le parole, e ʼl dolce riso
mʼaveano, e sì diviso
da lʼimagine vera,
chʼiʼ dicea sospirando:
-Qui come vennʼio, o quando?credendo esser in ciel, non là dovʼera.
Da indi in qua mi piace
questa erba sì, chʼaltrove non ho pace.
Se tu avessi ornamenti, quantʼhai voglia,
potresti arditamente
uscir del bosco, e gir in fra la gente.
da Rime sparse (Rime in vita di Madonna Laura) di Francesco Petrarca
168
in guiša ché sospiri
sì dolceménte ché mercé mʼ impètre,
é faccia fòrza al cièlo,
asciugandosi gli òcchi cól bèl vélo.
Daʼ bèʼ rami scendéa
(dólce né la memòria)
una piòggia di fiór sóvra ʼl suo grèmbo;
ét élla si sedéa
umile in tanta glòria,
covèrta già dé lʼamoróso némbo.
Qual fiór cadéa sul lémbo,
qual su lé trécce biónde,
chʼòro forbito é pèrle
èran quél dì a vedérle;
qual si posava in tèrra é qual su lʼónde;
qual cón un vago erróre
girando paréa dir:-Qui régna Amóre-.
Quante vòlte dissʼio
allór pièn di spavènto:
-Costèi pér férmo nacque in paradišo!Così carco dʼoblio
il divin portaménto,
é ʼl vólto, é lé paròle, é ʼl dólce riso
mʼavéano, é sì divišo
da lʼimagine véra,
chʼiʼ dicéa sospirando:
-Qui cóme vennʼio, ó quando?credèndo èsser in cièl, nón là dovʼèra.
Da indi in qua mi piace
quésta èrba sì, chʼaltróve nón hò pace.
Sé tu avéssi ornaménti, quantʼhai voglia,
potrésti arditaménte
uscir dél bòsco, é gir in fra la gènte.
da Rime sparse (Rime in vita di Madònna Laura) di Francésco Petrarca
169
Zefiro torna e ʼ l bel tempo rimena
Zefiro torna e ʼl bel tempo rimena,
e i fiori e lʼerbe, sua dolce famiglia,
e garrir Progne, e pianger Filomena,
e primavera candida e vermiglia.
Ridono i prati, e ʼl ciel si rasserena;
Giove sʼallegra di mirar sua figlia;
lʼaria, e lʼacqua, e la terra è dʼamor piena;
ogni animal dʼamar si riconsiglia.
Ma per me, lasso! tornano i più gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella chʼal ciel se ne portò le chiavi;
e cantar augelletti, e fiorir piagge,
e ʼn belle donne oneste atti soavi
sono un deserto, e fere aspre e selvagge.
da Rime sparse (Rime in morte di Madonna Laura) di Francesco Petrarca
Quanto più mʼ avvicino al giorno estremo
Quanto più mi avvicino al giorno estremo
che lʼumana miseria vuol far breve,
più veggio il tempo andar veloce e leve,
e ʻl mio di lui sperar fallace e scemo.
Iʼ dico aʼ miei pensier: “Non molto andremo
dʼamor parlando omai, ché ʻl duro e greve
terreno incarco come fresca neve
si va struggendo; onde noi pace avremo:
perché con lui cadrà quella speranza
che ne feʼ vaneggiar sì lungamente,
e ʻl riso e ʻl pianto, e la paura e lʼira.
Sì vedrem chiaro poi come sovente
per le cose dubbiose altri sʼavanza;
e come spesso indarno si sospira.”.
dal “Canzoniere” di Francesco Petrarca
170
Z(ζ)èfiro tórna é ʼ l bèl tèmpo riména
Ζ(ζ)èfiro tórna é ʼl bèl tèmpo riména,
é i fióri é lʼèrbe, sua dólce famiglia,
é garrir Prògne, é pianger Filoména,
é primavèra candida é vermiglia.
Ridono i prati, é ʼl cièl si rasseréna;
Giòve sʼallégra di mirar sua figlia;
lʼaria, é lʼacqua, é la tèrra è dʼamór pièna;
ógni animal dʼamar si riconsiglia.
Ma pér mé, lasso! tórnano i più gravi
sospiri, ché dél còr profóndo tragge
quélla chʼal cièl sé né portò lé chiavi;
é cantar augellétti, é fiorir piagge,
é ʼn bèlle dònne onèste atti soavi
sóno un dešèrto, é fère aspre é selvagge.
da Rime sparse (Rime in mòrte di Madònna Laura) di Francésco Petrarca
Quanto più mʼ avvicino al giórno estrèmo
Quanto più mi avvicino al giórno estrèmo
ché lʼumana mišéria vuòl far brève,
più véggio il tèmpo andar velóce é lève,
é ʻl mio di lui sperar fallace é scémo.
Iʼ dico aʼ mièi pensièr: “Nón mólto andrémo
dʼamór parlando omai, ché ʻl duro é grève
terréno incarco cóme frésca néve
si va struggèndo; ónde nói pace avrémo:
perché cón lui cadrà quélla speranza
ché né féʼ vaneggiar sì lungaménte,
é ʻl riso é ʻl pianto, é la paura é lʼira.
Sì vedrém chiaro pòi cóme sovènte
pér lé còse dubbióse altri sʼavanza;
é cóme spésso indarno si sospira.”.
dal “Canzonière” di Francésco Petrarca
171
A Zacinto
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nellʼonde
del greco mar, da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
lʼinclito verso di colui che lʼacque
cantò fatali, ed il diverso esiglio,
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
dai “ Sonetti” di Ugo Foscolo
In morte del fratello Giovanni
Un dì, sʼio non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la pietra, o fratel mio, gemendo
il fior deʼ tuoi gentili anni caduto.
La madre or sol, suo dì tardo traendo,
parla di me col tuo cenere muto;
ma io deluse a voi le palme tendo,
e sol da lunge i miei tetti saluto.
Sento gli avversi Numi, e le secrete
cure ché al viver tuo furon tempesta,
e prego anchʼio nel tuo porto quïete.
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, lʼossa mie rendete
allora al petto della madre mesta.
dai “ Sonetti” di Ugo Foscolo
172
A Z(ζ)acinto
Né più mai toccherò lé sacre spónde
óve il mio còrpo fanciullétto giacque,
Z(ζ)acinto mia, ché té spècchi néllʼónde
dél grèco mar, da cui vérgine nacque
Vènere, é féa quélle išole fecónde
cól suo primo sorriso, ónde nón tacque
lé tue limpide nubi é lé tue frónde
lʼinclito vèrso di colui ché lʼacque
cantò fatali, éd il divèrso ešiglio,
pér cui bèllo di fama é di sventura
baciò la sua petrósa Itaca Ulisse.
Tu nón altro ché il canto avrai dél figlio,
ó matèrna mia tèrra; a nói prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
dai “ Sonétti” di Ugo Fóscolo
In mòrte dél fratèllo Giovanni
Un dì, sʼio nón andrò sèmpre fuggèndo
di gènte in gènte, mé vedrai seduto
su la piètra, ó fratèl mio, gemèndo
il fiór déʼ tuòi gentili anni caduto.
La madre ór sól, suo dì tardo traèndo,
parla di mé cól tuo cénere muto;
ma io deluše a vói lé palme tèndo,
é sól da lunge i mièi tétti saluto.
Sènto gli avvèrsi Numi, é lé secrète
cure ché al viver tuo furon tempèsta,
é prègo anchʼio nél tuo pòrto quïète.
Quésto di tanta spème òggi mi rèsta!
Stranière gènti, lʼòssa mie rendéte
allóra al pètto délla madre mèsta.
dai “ Sonétti” di Ugo Fóscolo
173
Alla sera
Forse perché della fatal quïete
tu sei lʼimmago, a me sì cara vieni,
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe allʼuniverso meni,
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai coʼ miei pensier su lʼorme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier chʼ entro mi rugge.
dai “Sonetti” di Ugo Foscolo
Alla musa
Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, aonia Diva,
quando deʼ miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto
questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete vèr la muta riva:
non udito or tʼinvoco, oimé! soltanto
una favilla del tuo spirto è viva.
E tu fuggisti in compagnia dellʼore,
o Dea! tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del fururo al timor cieco:
però mi accorgo, e mel ridice Amore
che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che deve albergar meco.
dai “Sonetti” di Ugo Foscolo
174
Alla séra
Fórse perché délla fatal quïète
tu sèi lʼ immago, a mé sì cara vièni,
ó Séra! É quando ti cortéggian liète
lé nubi estive é i ζèffiri seréni,
é quando dal nevóso aere inquïète
tènebre é lunghe allʼunivèrso méni,
sèmpre scéndi invocata, é le secrète
vie dél mio còr soaveménte tièni.
Vagar mi fai cóʼ mièi pensièr su lʼórme
ché vanno al nulla etèrno; é intanto fugge
quésto rèo tèmpo, é van cón lui lé tórme
délle cure ónde méco égli si strugge;
é méntre io guardo la tua pace, dòrme
quéllo spirto guerrièr chʼ éntro mi rugge.
dai “Sonétti” di Ugo Fóscolo
Alla muša
Pur tu còpia versavi alma di canto
su lé mie labbra un tèmpo, aònia Diva,
quando déʼ mièi fiorènti anni fuggiva
la stagión prima, é diètro èrale intanto
quésta, ché méco pér la via dél pianto
scénde di Lète vèr la muta riva:
nón udito ór tʼinvòco, oimé! soltanto
una favilla dél tuo spirto è viva.
É tu fuggisti in compagnia dellʼóre,
ó Dèa! tu pur mi lasci alle pensóse
membranze, é dél fururo al timór cièco:
però mi accòrgo, é mél ridice Amóre
ché mal pònno sfogar rade, operóse
rime il dolór ché dève albergar méco.
dai “Sonétti” di Ugo Fóscolo
175
La Pentecoste
Madre dei Santi; immagine
della città superna;
del Sangue incorruttibile
conservatrice eterna;
tu che, da tanti secoli,
soffri, combatti e preghi,
che le tue tende spieghi
dallʼuno allʼaltro mar;
campo di quei che sperano,
Chiesa del Dio vivente;
dovʼeri mai? qual angolo
ti raccogliea nascente,
quando il tuo Re, dai perfidi
tratto a morir sul colle,
imporporò le zolle
del suo sublime altar?
E allor che dalle tenebre
la diva spoglia uscita,
mise il potente anelito
della seconda vita;
e quando, in man recandosi
il prezzo del perdono,
da questa polve al trono
del Genitor salì:
compagna del suo gemito,
conscia deʼ suoi misteri,
tu, della vittoria
figlia immortal, dovʼeri?
In tuo terror sol vigile,
sol nellʼobblio secura,
stavi in riposte mura,
fino a quel sacro dì,
quando su te lo Spirito
rinnovator discese
e lʼinconsunta fiaccola
nella tua destra accese,
quando, segnal deʼ popoli,
ti collocò sul monte,
e neʼ tuoi labbri il fonte
della parola aprì.
176
La Pentecòste
Madre déi Santi; immagine
délla città supèrna;
dél Sangue incorruttibile
conservatrice etèrna;
tu ché, da tanti sècoli,
sòffri, combatti é prèghi,
ché lé tue tènde spièghi
dallʼuno allʼaltro mar;
campo di quéi ché spèrano,
Chièša dél Dio vivènte;
dovʼèri mai? qual angolo
ti raccogliéa nascènte,
quando il tuo Ré, dai perfidi
tratto a morir sul còlle,
imporporò lé ζòlle
dél suo sublime altar?
É allór ché dalle tènebre
la diva spòglia uscita,
miše il potènte anèlito
délla secónda vita;
é quando, in man recandosi
il prèzzo dél perdóno,
da quésta pólve al tròno
dél Genitór salì:
compagna dél suo gèmito,
cònscia déʼ suòi mistèri,
tu, délla vittòria
figlia immortal, dóvʼèri?
In tuo terrór sól vigile,
sól néllʼobblìo secura,
stavi in ripóste mura,
fino a quél sacro dì,
quando su té ló Spirito
rinnovatór discése
é lʼinconsunta fiaccola
nélla tua dèstra accése,
quando, segnal déʼ pòpoli,
ti collocò sul mónte,
é néʼ tuòi labbri il fónte
délla paròla aprì.
177
Come la luce rapida
piove di cosa in cosa,
e i color vari suscita,
dovunque si riposa;
tal risonò molteplice
la voce dello Spiro:
lʼArabo, il Parto, il Siro
in suo sermon lʼudì.
Adorator deglʼidoli,
sparso per ogni lido,
volgi lo sguardo a Solima,
odi quel santo grido:
stanca del vile ossequio,
la terra a Lui ritorni:
e voi che aprite i giorni
di più felice età,
spose che desta il sùbito
balzar del pondo ascoso;
voi già vicine a sciogliere
il grembo doloroso;
alla bugiarda pronuba
non sollevate il canto:
cresce serbato al Santo
quel che nel sen vi sta.
Perché, baciando i pargoli,
la schiava ancor sospira?
e il sen che nutre i liberi
invidïando mira?
Non sa che al regno i miseri
seco il Signor solleva?
che a tutti i figli dʼEva
nel suo dolor pensò?
Nova franchigia annunziano
i cieli, e genti nove;
nove conquiste, e gloria
vinta in più belle prove;
nova, ai terrori immobile
e alle lusinghe infide,
pace che il mondo irride,
ma che rapir non può.
O Spirto! supplichevoli
aʼ tuoi solenni altari;
soli per selve inospite;
vaghi in deserti mari;
178
Cóme la luce rapida
piòve di còsa in còsa,
é i colór vari suscita,
dovunque si ripòsa;
tal risonò moltéplice
la vóce déllo Spiro:
lʼArabo, il Parto, il Siro
in suo sermón lʼudì.
Adoratór déglʼidoli,
sparso pér ógni lido,
vòlgi ló sguardo a Sòlima,
òdi quél santo grido:
stanca dél vile ossèquio,
la tèrra a Lui ritórni:
é vói ché aprite i giórni
di più felice età,
spòše ché désta il sùbito
balzar dél pòndo ascóso;
vói già vicine a sciògliere
il grèmbo doloróso;
alla bugiarda prònuba
nón sollevate il canto:
crésce serbato al Santo
quél ché nél sén vi sta.
Perché, baciando i pargoli,
la schiava ancór sospira?
é il sén ché nutre i liberi
invidïando mira?
Nón sa ché al régno i mišeri
séco il Signór sollèva?
ché a tutti i figli dʼÈva
nél suo dolór pensò?
Nòva franchigia annunziano
i cièli, é gènti nòve;
nòve conquiste, é glòria
vinta in più bèlle pròve;
nòva, ai terróri immòbile
é alle lušinghe infide,
pace ché il móndo irride,
ma ché rapir nón può.
Ó Spirto! supplichévoli
aʼ tuòi solènni altari;
sóli pér sélve inòspite;
vaghi in dešèrti mari;
179
dallʼAnde algenti al Libano,
dʼErina allʼirta Haiti,
sparsi per tutti i liti,
uni per te di cor,
noi Tʼimploriam! Placabile
Spirto discendi ancora,
aʼ tuoi cultor propizio
propizio a chi Tʼignora:
scendi e ricrea; rianima
i cor nel dubbio estinti;
e sia divina ai vinti
mercede il vincitor.
Discendi Amor; negli animi
lʼire superbe attuta;
dona i pensier che il memore
ultimo dì non muta:
i doni tuoi benefica
nutra la tua virtude;
siccome il sol, che schiude
dal pigro germe il fior;
che lento poi sullʼumili
erbe morrà non colto,
né sorgerà coi fulgidi
color del lembo sciolto,
se fuso a lui nellʼetere
non tornerà quel mite
lume dator di vite
e infaticato altor.
Noi Tʼimploriam! Nei languidi
pensier dellʼinfelice
scendi piacevol alito,
aura consolatrice:
scendi bufera ai tumidi
pensier del vïolento;
vi spira uno sgomento,
che insegni la pietà.
Per Te sollevi il povero
al ciel, chʼè suo, le ciglia,
volga i lamenti in giubilo,
pensando a cui somiglia:
cui fu donato in copia,
doni con volto amico,
con quel tacer pudico,
che accetto il don ti fa.
180
dallʼAnde algènti al Libano,
dʼErina allʼirta Haiti,
sparsi pér tutti i liti,
uni pér té di còr,
nói Tʼimploriam! Placabile
Spirto discéndi ancóra,
aʼ tuòi cultór propizio,
propizio a chi Tʼignóra:
scéndi é ricrèa; rianima
i còr nél dubbio estinti;
é sia divina ai vinti
mercéde il vincitór.
Discéndi Amór; négli animi
lʼire supèrbe attuta;
dóna i pensièr ché il mèmore
ultimo dì nón muta:
i dóni tuòi benèfica
nutra la tua virtude;
siccóme il sól, ché schiude
dal pigro gèrme il fiór;
ché lènto pòi sullʼumili
èrbe morrà nón còlto,
né sorgerà cói fulgidi
colór del lémbo sciòlto,
sé fušo a lui néllʼètere
nón tornerà quél mite
lume datór di vite
é infaticato altór.
Nói Tʼimploriam! Néi languidi
pensièr déllʼinfelice
scéndi piacévol alito,
aura consolatrice:
scéndi bufèra ai tumidi
pensièr dél vïolènto;
vi spira uno sgoménto,
ché inségni la pietà.
Pér Té sollèvi il pòvero
al cièl, chʼè suo, lé ciglia,
vòlga i laménti in giubilo,
pensando a cui somiglia:
cui fu donato in còpia,
dóni cón vólto amico,
cón quél tacér pudico,
ché accètto il dón ti fa.
181
Spira dei nostri bamboli
nellʼineffabil riso:
spargi la casta porpora
alle donzelle in viso;
manda alle ascose vergini
le pure gioie ascose;
consacra delle spose
il verecondo amor.
Tempra deʼ baldi giovani
il confidente ingegno;
reggi il viril proposito
ad infallibil segno;
adorna la canizie
di liete voglie sante;
brilla nel guardo errante
di chi sperando muor.
da “Inni Sacri” di Alessandro Manzoni
182
Spira déi nòstri bamboli
nellʼineffabil riso:
spargi la casta pórpora
alle donζèlle in višo;
manda alle ascóse vérgini
le pure giòie ascóse;
consacra délle spòše
il verecóndo amór.
Tèmpra déʼ baldi gióvani
il confidènte ingégno;
règgi il viril propòšito
ad infallibil ségno;
adórna la canizie
di liète vòglie sante;
brilla nél guardo errante
di chi sperando muòr.
da “Inni Sacri” di Alessandro Manzóni
183
Marzo 1821
Soffermàti sullʼ arida sponda,
volti i guardi al varcato Ticino,
tutti assorti nel nuovo destino,
certi in cor dellʼ antica virtù,
han giurato: non fia che questʼonda
scorra più tra due rive straniere;
non fia loco ove sorgan barriere
tra lʼltalia e lʼltalia, mai più!
Lʼhan giurato: altri forti a quel giuro
rispondean da fraterne contrade,
affilando nellʼombra le spade
che or levate scintillano al sol.
Già le destre hanno strette le destre;
già le sacre parole son porte.
O compagni sul letto di morte,
o fratelli su libero suol.
Chi potrà della gemina Dora,
della Bormida al Tanaro sposa,
del Ticino e dellʼOrba selvosa
scerner lʼ onde confuse nel Po;
chi stornargli del rapido Mella
e dellʼ Oglio le miste correnti,
chi ritorgliergli i mille torrenti,
che la foce dellʼ Adda versò,
quello ancora una gente risorta
potrà scindere in volghi spregiati,
e a ritroso degli anni e dei fati,
risospingerla ai prischi dolor:
una gente che libera tutta,
o fia serva tra lʼ Alpe ed il mare;
una dʼ arme, di lingua, dʼ altare,
di memorie, di sangue e di cor.
184
Marzo 1821
Soffermàti sullʼ arida spónda,
vòlti i guardi al varcato Ticino,
tutti assòrti nél nuòvo destino,
cèrti in còr déllʼ antica virtù,
han giurato: nón fia ché quéstʼónda
scórra più tra due rive stranière;
nón fia lòco óve sórgan barrière
tra lʼltalia é lʼltalia, mai più!
Lʼhan giurato: altri fòrti a quél giuro
rispondéan da fratèrne contrade,
affilando néllʼómbra lé spade
ché ór levate scintillano al sól.
Già lé dèstre hanno strétte lé dèstre;
già lé sacre paròle són pòrte.
Ó compagni sul lètto di mòrte,
ó fratèlli su libero suòl.
Chi potrà délla gèmina Dòra,
della Bórmida al Tanaro spòša,
del Ticino é déllʼ Órba selvósa
scèrner lʼ ónde confuše nél Pò;
chi stornargli dél rapido Mèlla
é déllʼ Òglio lé miste corrènti,
chi ritòrgliergli i mille torrènti,
ché la fóce déllʼ Adda versò,
quéllo ancóra una gènte risórta
potrà scindere in vólghi spregiati,
é a ritróso dégli anni é déi fati,
risospingerla ai prischi dolór:
una gènte ché libera tutta,
ó fia sèrva tra lʼ Alpe éd il mare;
una dʼ arme, di lingua, dʼ altare,
di memòrie, di sangue é di còr.
185
Con quel volto sfidato e dimesso,
con quel guardo atterrato ed incerto,
con che stassi un mendico sofferto
per mercede nel suolo stranier,
star doveva in sua terra il Lombardo;
lʼ altrui voglia era legge per lui;
il suo fato, un segreto dʼ altrui;
la sua parte, servire e tacer.
O stranieri, nel proprio retaggio
torna Italia, e il suo suolo riprende;
o stranieri, strappate le tende
da una terra che madre non vʼ è.
Non vedete che tutta si scuote,
dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla
sotto il peso deʼ barbari piè?
O stranieri ! sui vostri stendardi
sta lʼobbrobrio dʼun giuro tradito;
un giudizio da voi proferito
vʼaccompagna allʼ iniqua tenzon;
voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera;
ogni gente sia libera, e pera
della spada lʼiniqua ragion.
Se la terra ove oppressi gemeste,
preme i corpi deʼ vostri oppressori,
se la faccia dʼ estranei signori
tanto amara vi parve in quei dì,
chi vʼha detto che sterile, eterno
saria il lutto dell ʻ itale genti ?
chi vʼha detto che ai nostri lamenti
saria sordo quel Dio che vʼudì?
186
Cón quél vólto sfidato é dimésso,
cón quél guardo atterrato éd incèrto,
cón ché stassi un mendìco soffèrto
pér mercéde nél suòlo stranièr,
star dovéva in sua tèrra il Lombardo;
lʼ altrui vòglia èra légge pér lui;
il suo fato, un segréto dʼ altrui;
la sua parte, servire é tacér.
Ó stranièri, nél pròprio retaggio
tórna Italia, é il suo suòlo riprènde;
ó stranièri, strappate lé tènde
da una tèrra ché madre nón vʼ è.
Nón vedéte ché tutta si scuòte,
dal Cenišio alla balza di Scilla ?
Nón sentite ché infida vacilla
sótto il péso déʼ barbari piè?
Ó stranièri ! sui vòstri stendardi
sta lʼobbròbrio dʼun giuro tradito;
un giudizio da vói proferito
vʼaccompagna allʼ iniqua tenzón;
vói ché a stórmo gridaste in quéi giorni:
Dio rigètta la fòrza stranièra;
ógni gènte sia libera, é pèra
délla spada lʼiniqua ragión.
Sé la tèrra óve opprèssi geméste,
prème i còrpi déʼ vòstri oppressóri,
sé la faccia dʼ estranei signóri
tanto amara vi parve in quéi dì,
chi vʼha détto ché stèrile, etèrno
saria il lutto déllʼ itale gènti ?
chi vʼha détto ché ai nòstri laménti
saria sórdo quél Dio ché vʼudì?
187
Sì: quel Dio che nellʼ onda vermiglia
chiuse il rio che inseguiva Israele,
quel che in pugno alla maschia Giaele
pose il maglio ed il colpo guidò:
quel che è Padre di tutte le genti,
che non disse al Germano giammai:
vaʼ, raccogli ove arato non hai;
spiega lʼugne, lʼItalia ti do.
Cara Italia! dovunque il dolente
grido uscì del tuo lungo servaggio;
dove ancor dellʼumano lignaggio
ogni speme deserta non è;
dove già libertade è fiorita,
dove ancor nel segreto matura,
dove ha lacrime unʼ alta sventura,
non cʼè cor che non batta per te.
Quante volte sullʼAlpe spiasti
lʼapparir dʼun amico stendardo!
quante volte intendesti lo sguardo
neʼ deserti del duplice mar!
Ecco alfin dal tuo seno sbocciati,
stretti intorno aʼ tuoi santi colori,
forti, armati deʼ propri dolori,
i tuoi figli son sorti a pugnar.
Oggi, o forti, sui volti baleni
il furor delle menti segrete:
per lʼItalia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
al convito deʼ popoli assisa,
o più serva, più vil, più derisa
sotto lʼ orrida verga starà.
Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
che da lunge, dal labbro dʼ altrui,
come un uomo straniero, le udrà!
che aʼ suoi figli narrandole un giorno,
dovrà dir sospirando: io non cʼera;
che la santa vittrice bandiera
salutata quel dì non avrà.
dalle “Odi” di Alessandro Manzoni
188
Sì: quél Dio ché néllʼ ónda vermiglia
chiuse il rio ché inseguiva Išraèle,
quél ché in pugno alla maschia Giaèle
póse il maglio ed il cólpo guidò;
quél ché è Padre di tutte lé gènti,
ché nón disse al Germano giammai:
vaʼ, raccògli óve arato nón hai;
spièga lʼugne, lʼItalia ti dò.
Cara Italia! dovunque il dolènte
grido uscì dél tuo lungo servaggio;
dóve ancór déllʼumano lignaggio
ógni spème dešèrta nón è;
dóve già libertade è fiorita,
dóve ancór nél segréto matura,
dóve ha lacrime unʼ alta sventura,
nón cʼè còr ché nón batta pér té.
Quante vòlte sullʼAlpe spiasti
lʼapparir dʼun amico stendardo!
quante vòlte intendésti ló sguardo
néʼ dešèrti dél duplice mar!
Ècco alfin dal tuo séno sbocciati,
strétti intórno aʼ tuòi santi colóri,
fòrti, armati déʼ pròpri dolóri,
i tuòi figli són sórti a pugnar.
Òggi, ó fòrti, sui vólti baléni
il furór délle ménti segréte:
pér lʼItalia si pugna, vincéte!
Il suo fato sui brandi vi sta.
Ó risórta pér vói la vedrémo
al convito déʼ pòpoli assiša,
ó più sèrva, più vil, più derisa
sótto lʼ òrrida vérga starà.
Òh giornate dél nòstro riscatto!
Òh dolènte pér sèmpre colui
ché da lunge, dal labbro dʼ altrui,
cóme un uòmo stranièro, lé udrà!
ché aʼ suòi figli narrandole un giórno,
dovrà dir sospirando: io nón cʼèra;
ché la santa vittrice bandièra
salutata quél dì nón avrà.
dalle “Òdi” di Alessandro Manzóni
189
Lʼinfinito
Sempre caro mi fu questʼermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dellʼultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir fra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien lʼeterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità sʼannega il pensier mio:
e il naufragar mʼè dolce in questo mare.
da gli “ Idilli” di Giacomo Leopardi
Alla luna
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge lʼanno, sovra questo colle
io venia pien dʼangoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, ché travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar lʼetate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancora che triste, e che lʼaffanno duri!
da gli “ Idilli” di Giacomo Leopardi
190
Lʼinfinito
Sèmpre caro mi fu quéstʼèrmo còlle,
é quésta sièpe, ché da tanta parte
déllʼultimo oriζζónte il guardo esclude.
Ma sedèndo é mirando, interminati
spazi di là da quélla, é sovrumani
silènzi, é profondissima quïète
io nél pensièr mi fingo; óve pér pòco
il còr nón si spaura. É cóme il vènto
òdo stórmir fra quéste piante, io quéllo
infinito silènzio a quésta vóce
vò comparando: é mi sovvièn lʼetèrno,
é lé mòrte stagióni, é la prešènte
é viva, é il suòn di lèi. Così tra quésta
immensità sʼannéga il pensièr mio:
é il naufragar mʼè dólce in quésto mare.
da gli “Idilli” di Giacomo Leopardi
Alla luna
Ó graziósa luna, io mi ramménto
ché, ór vòlge lʼanno, sóvra quésto còlle
io venìa pièn dʼangóscia a rimirarti:
é tu pendévi allór su quélla sélva
siccóme ór fai, ché tutta la rischiari.
Ma nebulóso é trèmulo dal pianto
ché mi sorgéa sul ciglio, alle mie luci
il tuo vólto apparia, ché travagliósa
èra mia vita: éd è, né cangia stile,
ó mia dilètta luna. É pur mi gióva
la ricordanza, é il noverar lʼetate
dél mio dolóre. Òh cóme grato occórre
nél tèmpo giovanil, quando ancór lungo
la spème é brève ha la memòria il córso,
il rimembrar délle passate còse,
ancóra ché triste, é ché lʼaffanno duri!
da gli “Idilli” di Giacomo Leopardi
191
A Silvia
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quïete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che allʼopre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
dʼin su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel chʼio sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
192
A Silvia
Silvia, rimèmbri ancóra
quél tèmpo délla tua vita mortale,
quando beltà splendéa
négli òcchi tuòi ridènti é fuggitivi,
é tu, lièta é pensósa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan lé quïète
stanze, é lé vie dintórno,
al tuo perpètuo canto,
allór ché allʼòpre femminili intènta
sedévi, assai contènta
di quél vago avvenir che in ménte avévi.
Èra il maggio odoróso: é tu solévi
còsì menare il giórno.
Io gli studi leggiadri
talór lasciando é lé sudate carte,
óve il tèmpo mio primo
é di mé si spendéa la migliór parte,
dʼin su i veróni del patèrno ostèllo
porgéa gli orécchi al suòn délla tua vóce,
éd alla man velóce
ché percorréa la faticósa téla.
Mirava il cièl seréno,
lé vie dorate é gli òrtì,
é quinci il mar da lungi, é quindi il mónte.
Lingua mortal nón dice
quél chʼio sentiva in séno.
Ché pensièri soavi,
ché speranze, ché còri, ó Silvia mia!
Quale allór ci apparia
la vita umana é il fato!
Quando sovvièmmi di cotanta spème,
un affètto mi prème
acèrbo é sconsolato,
é tornami a dolér di mia sventura.
Ó natura, ó natura,
perché nón rèndi pòi
quél ché prométti allór? perché di tanto
inganni i figli tuòi?
193
Tu pria che lʼerbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle nere chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan dʼamore.
Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dellʼetà mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
i diletti, lʼamor, lʼopre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
Allʼapparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi
194
Tu pria ché lʼèrbe inaridisse il vèrno,
da chiuso mòrbo combattuta é vinta,
perivi, ó tenerèlla. É nón vedévi
il fiór dégli anni tuòi;
nón ti molcéva il còre
la dólce lòde ór délle nére chiòme,
ór dégli sguardi innamorati é schivi;
né téco lé compagne ai dì festivi
ragionavan dʼamóre.
Anche peria fra pòco
la speranza mia dólce: agli anni mièi
anche negaro i fati
la giovinézza. Ahi cóme,
cóme passata sèi,
cara compagna dellʼetà mia nòva,
mia lacrimata spème!
Quésto è quél móndo? quésti
i dilètti, lʼamór, lʼòpre, gli evènti
ónde cotanto ragionammo insième?
quésta la sòrte délle umane gènti?
Allʼapparir dél véro
tu, mišera, cadésti: é cón la mano
la frédda mòrte éd una tómba ignuda
mostravi di lontano.
da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi
195
Il sabato del villaggio
La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dellʼerba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
chʼebbe compagni dellʼetà più bella.
Già tutta lʼaria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan lʼombre
giù daʼ colli e daʼ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene ;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzola in frotta,
e qua e là saltando
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.
Poi, quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto lʼaltro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e sʼaffretta, e sʼadopra
di fornir lʼopra anzi il chiarir dellʼalba.
196
Il sabato dél villaggio
La donζellétta vièn dalla campagna,
in sul calar dél sóle,
cól suo fascio déllʼèrba; é rèca in mano
un mazzolin di ròše é di viòle,
ónde, siccóme suòle,
ornare élla si apprèsta
dimani, al dì di fèsta, il pètto é il crine.
Siède cón lé vicine
su la scala a filar la vecchierèlla,
incóntro là dóve si pèrde il giórno;
é novellando vièn dél suo buòn tèmpo,
quando ai dì délla fèsta élla si ornava,
éd ancór sana é snèlla
soléa danzar la séra intra di quéi
chʼèbbe compagni dellʼetà più bèlla.
Già tutta lʼaria imbruna,
tórna aζζurro il seréno, é tórnan lʼómbre
giù daʼ còlli é daʼ tétti,
al biancheggiar délla recènte luna.
Ór la squilla dà ségno
délla fèsta ché viène;
éd a quél suòn dirésti
ché il còr si riconfòrta.
I fanciulli gridando
su la piazzòla in fròtta,
é qua é là saltando
fanno un lièto romóre:
é intanto riède alla sua parca mènsa,
fischiando, il zappatóre,
é séco pènsa al dì dél suo ripòso.
Pòi, quando intórno è spènta ógni altra face,
é tutto lʼaltro tace,
òdi il martèl picchiare, òdi la séga
dél legnaiuòl, ché véglia
nélla chiusa bottéga alla lucèrna,
é sʼaffrétta, e sʼadòpra
di fornir lʼòpra anzi il chiarir déllʼalba.
197
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran lʼore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno dʼ allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non voʼ; ma la tua festa
chʼanco tardi a venir non ti sia grave.
da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi
A se stesso
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì lʼinganno estremo,
chʼeterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
Tʼacqueta omai. Dispera
lʼultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e lʼinfinita vanità del tutto.
dai “Canti” di Giacomo Leopardi
198
Quésto di sètte è il più gradito giórno,
pièn di spème é di giòia:
diman tristézza é nòia
recheran lʼóre, éd al travaglio usato
ciascuno in suo pensièr farà ritórno.
Garζoncèllo scherzóso,
cotésta età fiorita
è cóme un giórno dʼ allegrézza pièno,
giórno chiaro, seréno,
ché precórre alla fèsta di tua vita.
Gòdi, fanciullo mio; stato soave,
stagión lièta è cotésta.
Altro dirti nón vò; ma la tua fèsta
chʼanco tardi a venir nón ti sia grave.
da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi
A se stésso
Ór poserai pér sèmpre,
stanco mio còr. Perì lʼinganno estrèmo,
chʼetèrno io mi credéi. Perì. Bèn sènto,
in nói di cari inganni,
nón ché la spème, il desidèrio è spènto.
Pòsa pér sèmpre. Assai
palpitasti. Nón val còsa nessuna
i mòti tuòi, né di sospiri è dégna
la tèrra. Amaro é nòia
la vita, altro mai nulla; é fango è il móndo.
Tʼacquèta omai. Dispèra
lʼultima vòlta. Al gèner nòstro il fato
nón donò ché il morire. Omai disprèzza
té, la natura, il brutto
potér ché, ascóso, a comun danno impèra,
é lʼinfinita vanità dél tutto.
dai “Canti” di Giacomo Leopardi di Giacomo Leopardi
199
Traversando la Maremma toscana
Dolce paese, onde portai conforme
lʼabito fiero e lo sdegnoso canto
e il petto ovʼodio e amor mai non sʼaddorme,
pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.
Ben riconosco in te le usate forme
con gli occhi incerti tra ʻl sorriso e il pianto,
e in quelle seguo deʼ miei sogni lʼorme
erranti dietro il giovanile incanto.
Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano;
e sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
e dimani cadrò. Ma di lontano
pace dicono al cor le tue colline
con le nebbie sfumanti e il verde piano
ridente ne le piogge mattutine.
da “Rime nuove” di Giosuè Carducci
San Martino
La nebbia a glʼ irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;
ma per le vie del borgo
dal ribollir deʼ tini
va lʼaspro odor de i vini
lʼanime a rallegrar.
Gira suʼ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su lʼuscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi dʼuccelli neri,
comʼesuli pensieri,
nel vespero migrar.
da “Rime nuove” di Giosuè Carducci
200
Traversando la Marémma toscana
Dólce paéše, ónde portai confórme
lʼabito fièro é ló sdegnóso canto
é il pètto óvʼòdio é amór mai nón sʼaddòrme,
pur ti rivéggo, é il cuòr mi balza in tanto.
Bèn riconósco in té lé ušate fórme
cón gli òcchi incèrti tra ʻl sorriso é il pianto,
é in quélle séguo déʼ mièi sógni lʼórme
erranti diètro il giovanile incanto.
Òh, quél ché amai, quél ché sognai, fu invano;
é sèmpre córsi, é mai nón giunsi il fine;
é dimani cadrò. Ma di lontano
pace dicono al còr lé tue colline
cón lé nébbie sfumanti é il vérde piano
ridènte né lé piògge mattutine.
da “Rime nuòve” di Giosuè Carducci
San Martino
La nébbia a glʼ irti còlli
piovigginando sale,
é sótto il maestrale
urla é bianchéggia il mar;
ma pér lé vie dél bórgo
dal ribollir déʼ tini
va lʼaspro odór dé i vini
lʼanime a rallegrar.
Gira suʼ céppi accési
ló spièdo scoppiettando:
sta il cacciatór fischiando
su lʼuscio a rimirar
tra lé rossastre nubi
stórmi dʼuccèlli néri,
comʼèšuli pensièri,
nél vèspero migrar.
da “Rime nuòve” di Giosuè Carducci
201
Il comune rustico
O che tra faggi e abeti erma sui campi
smeraldini la fredda orma si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero
che tace, o noci della Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando lʼombre dʼun tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,
ma del comun la rustica virtù
accampata a lʼopaca ampia frescura
veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
“Ecco, io parto fra voi quella foresta
dʼabeti e pin ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
E voi, se lʼunno o se lo slavo invade
eccovi, figli, lʼaste, ecco le spade,
morrete per la nostra libertà”.
Un fremito dʼorgoglio empieva i petti,
ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la madre alma deʼ cieli.
Con la man tesa il console seguiva:
“Questo, al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia”.
A man levata il popolo dicea Sì.
E le rosse giovenche di su ʻl prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì.
da “Rime Nuove” di Giosuè Carducci
202
Il comune rustico
Ó ché tra faggi é abéti èrma sui campi
smeraldini la frédda órma si stampi
al sóle dél mattin puro é leggèro,
ó ché foschéggi immobile nél giórno
morènte su lé sparse ville intórno
a la chiéša ché prèga ó al cimitèro
ché tace, ó nóci délla Carnia, addio!
Èrra tra i vòstri rami il pensièr mio
sognando lʼómbre dʼun tèmpo ché fu.
Nón paure di mòrti éd in congrèghe
diavoli gòffi cón biζζarre stréghe,
ma dél comun la rustica virtù
accampata a lʼopaca ampia frescura
véggo né la stagión dé la pastura
dópo la méssa il giórno dé la fèsta.
Il cònsol dice, é póste ha pria lé mani
sópra i santi segnacoli cristiani:
“Ècco, io parto fra vói quélla forèsta
dʼabéti é pin óve al confin neréggia.
É vói trarréte la mugghiante gréggia
é la belante a quélle cime là.
É vói, sé lʼunno ó sé ló šlavo invade
èccovi, figli, lʼaste, ècco lé spade,
morréte pér la nòstra libertà”.
Un frèmito dʼorgóglio empièva i pètti,
ergéa lé biónde tèste; é dé gli elètti
in su lé frónti il sól grande feriva.
Ma lé dònne piangènti sótto i véli
invocavan la madre alma déʼ cièli.
Cón la man tésa il cònsole seguiva:
“Quésto, al nóme di Cristo é di Maria,
órdino é vòglio ché nél pòpol sia”.
A man levata il pòpolo dicéa Sì.
É le rósse giovènche di su ʻl prato
vedéan passare il piccolo senato,
brillando su gli abéti il mezzodì.
da “Rime Nuòve” di Giosuè Carducci
203
Il gelsomino notturno
E sʼaprono i fiori notturni,
nellʼora che penso aʼmiei cari.
Sono apparse in mezzo aʼ viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto lʼali dormono i nidi,
come gli occhi aperti sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
lʼodore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce lʼerba sopra le fosse.
Unʼape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per lʼaia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte sʼesala
lʼodore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: sʼè spento…
Èʼ lʼalba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro lʼurna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
da “I canti di Castelvecchio” di Giovanni Pascoli
204
Il gelsomino notturno
É sʼaprono i fióri notturni,
néllʼóra ché pènso aʼmièi cari.
Sóno apparse in mèζζo aʼ viburni
lé farfalle crepuscolari.
Da un pèzzo si tacquero i gridi:
là sóla una casa bišbiglia.
Sótto lʼali dòrmono i nidi,
cóme gli òcchi apèrti sótto le ciglia.
Dai calici apèrti si ešala
lʼodóre di fragole rósse.
Splènde un lume là nélla sala.
Nasce lʼèrba sópra lé fòsse.
Unʼape tardiva sussurra
trovando già prése lé cèlle.
La Chioccétta pér lʼaia aζζurra
va col suo pigolio di stélle.
Pér tutta la nòtte sʼešala
lʼodóre ché passa cól vènto.
Passa il lume su pér la scala;
brilla al primo piano: sʼè spènto…
È lʼalba: si chiudono i pètali
un pòco gualciti; si cóva,
déntro lʼurna mòlle é segréta,
nón sò ché felicità nuòva.
da “I canti di Castelvècchio” di Giovanni Pascoli
205
Nella nebbia
E guardai nella valle: era sparito
tutto! sommerso! Era un gran mare piano,
grigio, senzʼonde, senza lidi, unito.
E cʼ era appena, qua e là, lo strano
vocio di gridi piccoli e selvaggi:
uccelli spersi per quel mondo vano.
E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenziosi eremitaggi.
Ed un cane uggiolava senza fine,
né seppi donde, forse a certe péste
che sentii, né lontane né vicine;
eco di péste né tarde né preste,
alterne, eterne. E io laggiù guardai:
nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.
Chiesero i sogni di rovine: -Mai
non giungerà? -Gli scheletri di piante
chiesero: -E tu chi sei, che sempre vai?
Io, forse, unʼombra vidi, unʼombra errante
con sopra il capo un largo fascio. Vidi,
e più non vidi, nello stesso istante.
Sentii soltanto glʼinquieti gridi
dʼuccelli spersi, lʼuggiolar del cane,
e, per il mar senzʼonde e senza lidi,
le peste né vicine né lontane.
da i “Primi poemetti” di Giovanni Pascoli
206
Nélla nébbia
É guardai nélla valle: èra sparito
tutto! sommèrso! Èra un gran mare piano,
grigio, senzʼónde, sènza lidi, unito.
É cʼèra appéna, qua é là, ló strano
vocìo di gridi piccoli é selvaggi:
uccèlli spèrsi pér quél móndo vano.
É alto, in cièlo, schèletri di faggi,
cóme sospési, é sógni di rovine
é di silenzïósi eremitaggi.
Éd un cane uggiolava sènza fine,
né sèppi dónde, fórse a cèrte péste
ché sentii, né lontane né vicine;
èco di péste né tarde né prèste,
altèrne, etèrne. É io laggiù guardai:
nulla ancóra é nessuno, òcchi, vedéste.
Chièsero i sógni di rovine: -Mai
nón giungerà? -Gli schèletri di piante
chièsero: -É tu chi sèi, ché sèmpre vai?
Io, fórse, unʼómbra vidi, unʼómbra errante
cón sópra il capo un largo fascio. Vidi,
é più nón vidi, néllo stésso istante.
Sentii soltanto glʼinquïèti gridi
dʼuccèlli spèrsi, lʼuggiolar dél cane,
é, pér il mar senzʼónde é sènza lidi,
lé péste né vicine né lontane.
da i “Primi poemétti” di Giovanni Pascoli
207
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta.Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che lʼanima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
tʼilluse, che oggi mʼillude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nellʼaria
secondo le fronde
più rade, men rade.
208
La piòggia nél pinéto
Taci. Su lé sòglie
dél bòsco nón òdo
paròle ché dici
umane; ma òdo
paròle più nuòve
ché parlano gócciole é fòglie
lontane.
Ascólta.Piòve
dalle nuvole sparse.
Piòve su lé tamerici
salmastre éd arse,
piòve su i pini
scagliósi éd irti,
piòve su i mirti
divini,
su lé ginèstre fulgènti
di fióri accòlti,
su i ginépri fólti
di còccole aulènti,
piòve su i nòstri vólti
silvani,
piòve su lé nòstre mani
ignude,
su i nòstri vestiménti
leggièri,
su i fréschi pensièri
ché lʼanima schiude
novèlla,
su la favola bèlla
ché ièri
tʼilluše, ché òggi mʼillude,
ó Ermióne.
Òdi? La piòggia cade
su la solitaria
verdura
cón un crepitìo ché dura
é varia néllʼaria
secóndo lé frónde
più rade, mén rade.
209
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
dʼarborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta.Lʼaccordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dallʼumida ombra remota.
Più sordo e più fioco
sʼallenta, si spegne.
Solo una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non sʼode voce del mare.
210
Ascólta. Rispónde
al pianto il canto
délle cicale
ché il pianto australe
nón impaura,
né il cièl cinerino.
É il pino
ha un suòno, é il mirto
altro suòno, é il ginépro
altro ancóra, stroménti
divèrsi
sótto innumerévoli dita.
É immèrsi
nói siam néllo spirto
silvèstre,
dʼarbòrea vita vivènti;
é il tuo vólto èbro
è mòlle di piòggia
cóme una fòglia,
é lé tue chiòme
auliscono cóme
lé chiare ginèstre,
ó creatura terrèstre
ché hai nóme
Ermióne.
Ascólta, ascólta. Lʼaccòrdo
délle aèree cicale
a pòco a pòco
più sórdo
si fa sótto il pianto
ché crésce;
ma un canto vi si mésce
più ròco
ché di laggiù sale,
dallʼumida ómbra remòta.
Più sórdo é più fiòco
sʼallènta, si spègne.
Sólo una nòta
ancór trèma, si spègne,
risórge, trèma, si spègne.
Nón sʼòde vóce dél mare.
211
Or sʼode su tutta la fronda
crosciare
lʼargentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dellʼaria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nellʼombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra lʼerbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i malleoli
cʼintrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che lʼanima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
mʼilluse, che oggi tʼillude,
o Ermione.
da “Alcyone” di Gabriele DʼAnnunzio
212
Ór sʼòde su tutta la frónda
crosciare
lʼargèntea piòggia
ché mónda,
il cròscio ché varia
secóndo la frónda
più fólta, mén fólta.
Ascólta.
La figlia déllʼaria
è muta; ma la figlia
dél limo lontana,
la rana,
canta néllʼómbra più fónda,
chi sa dóve, chi sa dóve!
É piove su lé tue ciglia,
Ermióne.
Piòve su lé tue ciglia nére
sì ché par tu pianga
ma di piacére; nón bianca
ma quaši fatta virènte,
par da scòrza tu èsca.
É tutta la vita è in nói frésca
aulènte,
il cuòr nél pètto è cóme pèsca
intatta,
tra lé palpebre gli òcchi
són cóme pólle tra lʼ èrbe,
i dènti négli alvèoli
són cóme mandorle acèrbe.
É andiam di fratta in fratta,
ór congiunti ór disciòlti
(é il vérde vigór rude
ci allaccia i mallèoli
cʼintrica i ginòcchi)
chi sa dóve, chi sa dóve!
É piòve su i nòstri vólti
silvani,
piòve su lé nòstre mani
ignude,
su i nòstri vestiménti
leggièri,
su i fréschi pensièri
ché lʼanima schiude
novèlla,
su la favola bèlla
ché ièri
mʼilluše, ché òggi tʼillude,
ó Ermióne.
da “Alcyóne” di Gabriéle DʼAnnunzio
213
I pastori
Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra dʼAbruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono allʼAdriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor dʼacqua natìa
rimanga neʼcuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga dʼavellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lunghʼ esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è lʼaria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquìo, calpestìo, dolci romori.
Ah perché non son io coʼ miei pastori?
da “Alcyone” di Gabriele DʼAnnunzio
214
I pastóri
Settèmbre, andiamo. È tèmpo di migrare.
Óra in tèrra dʼAbruzzi i mièi pastóri
lascian gli stazzi é vanno vèrso il mare:
scéndono allʼAdriatico selvaggio
ché vérde è cóme i pascoli déi mónti.
Han bevuto profondaménte ai fónti
alpèstri, ché sapór dʼacqua natìa
rimanga néʼcuòri èšuli a confòrto,
ché lungo illuda la lór séte in via.
Rinnovato hanno vérga dʼavellano.
É vanno pél tratturo antico al piano,
quaši pér un erbal fiume silènte,
su lé vestigia dégli antichi padri.
Ó vóce di colui ché primaménte
conósce il tremolar délla marina!
Óra lunghʼ ésso il litoral cammina
la gréggia. Sènza mutaménto è lʼaria.
Il sóle imbiónda sì la viva lana
ché quaši dalla sabbia nón divaria.
Isciacquìo, calpestìo, dólci romóri.
Ah perché nón són io cóʼ mièi pastóri?
da “Alcyóne” di Gabriéle DʼAnnunzio
215
Sono una creatura
Come questa pietra
del San Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata.
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede.
La morte
si sconta
vivendo.
da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti
San Martino del Carso
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro.
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto.
Ma nel cuore
nessuna croce manca.
Eʼ il mio cuore
il paese più straziato.
da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti
216
Sóno una creatura
Cóme quésta piètra
dél San Michèle
così frédda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalménte
dišanimata.
Cóme quésta piètra
è il mio pianto
ché nón si véde.
La mòrte
si scónta
vivèndo.
da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti
San Martino dél Carso
Di quéste case
nón è rimasto
ché qualche
brandèllo di muro.
Di tanti
ché mi corrispondévano
nón è rimasto
neppure tanto.
Ma nél cuòre
nessuna cróce manca.
È il mio cuòre
il paéše più straziato.
da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti
217
Veglia
Unʼintera nottata
buttato vicino
al compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene dʼamore.
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.
da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti
Fratelli
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tramante
nella notte
Foglia appena nata
Nellʼaria spasimante
involontaria rivolta
dellʼuomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti
218
Véglia
Unʼintèra nottata
buttato vicino
al compagno
massacrato
cón la sua bócca
digrignata
vòlta al plenilunio
cón la congestióne
délle sue mani
penetrata
nél mio silènzio
hò scritto
lèttere piène dʼamóre.
Nón sóno mai stato
tanto
attaccato alla vita.
da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti
Fratèlli
Di ché reggiménto siète
fratèlli?
Paròla tramante
nélla nòtte
Fòglia appéna nata
Néllʼaria spašimante
involontaria rivòlta
déllʼuòmo prešènte alla sua
fragilità
Fratèlli
da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti
219
Soldati
Si sta
come dʼautunno
sugli alberi
le foglie
da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti
Natale
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro capriole
di fumo
del focolare
da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti
220
Soldati
Si sta
cóme dʼautunno
sugli alberi
lé fòglie.
da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti
Natale
Nón hò vòglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Hò tanta
stanchézza
sulle spalle
Lasciatemi così
cóme una
còsa
posata
in un
angolo
é dimenticata
Qui
nón si sènte
altro
ché il caldo buòno
Stò
cón lé quattro capriòle
di fumo
dél focolare
da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti
221
Vanità
Dʼimprovviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dellʼimmensità
E lʼuomo
curvato
sullʼacqua
sorpresa
dal sole
si rinviene
unʼombra
Cullata e
piano
franta
da “Lʼallegria” di Giuseppe Ungaretti
Non gridate più
Cessate dʼuccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
Hanno lʼimpercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dellʼerba,
lieta dove non passa lʼuomo.
da “Il dolore” di Giuseppe Ungaretti
222
Vanità
Dʼimprovviso
è alto
sulle macèrie
il limpido
stupóre
dellʼimmensità
É lʼuòmo
curvato
sullʼacqua
sorprésa
dal sóle
si rinviène
unʼómbra
Cullata é
piano
franta
da “Lʼallegria” di Giusèppe Ungarétti
Nón gridate più
Cessate dʼuccidere i mòrti,
nón gridate più, nón gridate
sé li voléte ancóra udire,
sé sperate di nón perire.
Hanno lʼimpercettibile sussurro,
nón fanno più rumóre
dél créscere déllʼèrba,
lièta dóve nón passa lʼuòmo.
da “Il dolóre” di Giusèppe Ungarétti
223
Padre, se anche tu non fossi…
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre,
per te stesso egualmente tʼamerei.
Ché mi ricordo dʼun mattin dʼinverno
che la prima viola sullʼopposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
E subito la scala tolta in spalla
di casa uscisti e lʼappoggiavi al muro.
Noi piccoli dai vetri si guardava.
E di quellʼaltra volta mi ricordo
che la sorella, bambinetta ancora,
per la casa inseguivi minacciando.
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura, ti mancava il cuore:
tʼeri visto rincorrere la tua
piccola figlia e, tutta spaventata,
tu vacillando lʼattiravi al petto
e con carezze la ricoveravi
tra le tue braccia come per difenderla
da quel cattivo chʼeri tu prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini
pel tuo cuore fanciullo tʼamerei.
da “Poesie” di Camillo Sbarbaro
224
Padre, sé anche tu nón fossi…
Padre, sé anche tu nón fóssi il mio
padre,
pér té stésso egualménte tʼamerèi.
Ché mi ricòrdo dʼun mattin dʼinvèrno
ché la prima viòla sullʼoppósto
muro scopristi dalla tua finèstra
é cé né désti la novèlla allégro.
É subito la scala tòlta in spalla
di casa uscisti é lʼappoggiavi al muro.
Nói piccoli dai vétri si guardava.
É di quéllʼaltra vòlta mi ricòrdo
ché la sorèlla, bambinétta ancóra,
pér la casa inseguivi minacciando.
Ma raggiuntala ché strillava fòrte
dalla paura, ti mancava il cuòre:
tʼèri visto rincórrere la tua
piccola figlia é, tutta spaventata,
tu vacillando lʼattiravi al pètto
é cón carézze la ricoveravi
tra lé tue braccia cóme pér difènderla
da quél cattivo chʼèri tu prima.
Padre, sé anche tu nón fóssi il mio
padre, sé anche fóssi a mé un estraneo,
fra tutti quanti gli uòmini
pél tuo cuòre fanciullo tʼamerèi.
da “Poešie” di Camillo Sbarbaro
225
Taci, anima stanca di godere
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (allʼuno e allʼaltro vai
rassegnata).
Ascolto e non mi giunge una tua voce.
Non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non dʼira e di speranza,
e neppure di tedio.
Ammutolita
giaci col corpo in una disperata
indifferenza.
Noi ci stupiremmo
non è vero, mia anima, se adesso
il cuore sʼarrestasse, se sospeso
ci fosse il fiato…
Invece camminiamo.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne e tutto è quello
che è – soltanto quello che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con occhi asciutti me stesso.
da “Poesie” di Camillo Sbarbaro
226
Taci, anima stanca di godére
Taci, anima stanca di godére
é di soffrire (allʼuno é allʼaltro vai
rassegnata).
Ascólto é nón mi giunge una tua vóce.
Nón di rimpianto pér la mišerabile
giovinézza, nón dʼira é di speranza,
é neppure di tèdio.
Ammutolita
giaci cól còrpo in una disperata
indifferènza.
Nói ci stupirémmo
nón è véro, mia anima, sé adèsso
il cuòre sʼarrestasse, sé sospéso
ci fósse il fiato…
Invéce camminiamo.
É gli alberi són alberi, lé case
sóno case, lé dònne
ché passano són dònne é tutto è quéllo
ché è – soltanto quéllo ché è.
La vicènda di giòia é di dolóre
nón ci tócca. Perduto ha la vóce
la sirèna dél móndo é il móndo è un grande
dešèrto.
Nél dešèrto
io guardo cón òcchi asciutti mé stésso.
da “Poešie” di Camillo Sbarbaro
227
Ora che sei venuta
Ora che sei venuta,
che con passo di danza sei entrata
nella mia vita
quasi folata in una stanza chiusa
a festeggiarti, bene tanto atteso,
le parole mi mancano e la voce
a tacerti vicino già mi basta.
Il pigolìo così che assorda il bosco
al nascere dellʼalba, ammutolisce
quando sullʼorizzonte balza il sole.
Ma te la mia inquietudine cercava
quando ragazzo
nella notte dʼestate mi facevo
alla finestra come soffocato:
che non sapevo, mʼaffannava il cuore.
E tutte tue sono le parole
che, come lʼacqua allʼorlo che trabocca,
alla bocca venivano da sole,
lʼore deserte, quando sʼavanzavan
puerilmente le mie labbra dʼuomo
da sé, per desiderio di baciare….
da “Versi a Dina”, in “Poesia e prosa” di Camillo Sbarbaro
228
Óra ché sèi venuta
Óra ché sèi venuta,
ché cón passo di danza sèi entrata
nélla mia vita
quaši folata in una stanza chiusa
a festeggiarti, bène tanto attéso,
lé paròle mi mancano é la vóce
a tacérti vicino già mi basta.
Il pigolìo così ché assórda il bòsco
al nascere déllʼalba, ammutolisce
quando sullʼoriζζónte balza il sóle.
Ma té la mia inquietudine cercava
quando ragazzo
nélla nòtte dʼestate mi facévo
alla finèstra cóme soffocato:
ché nón sapévo, mʼaffannava il cuòre.
É tutte tue sóno lé paròle
ché, cóme lʼacqua allʼórlo ché trabócca,
alla bócca venivano da sóle,
lʼóre dešèrte, quando sʼavanzavan
puerilménte lé mie labbra dʼuòmo
da sé, pér desidèrio di baciare….
da “Vèrsi a Dina”, in “Poešia é pròša” di Camillo Sbarbaro
229
La bambina che va sotto gli alberi
La bambina che va sotto gli alberi
non ha che il peso della sua treccia,
un fil di canto in gola.
Canta sola
e salta per la strada; ché non sa
che mai bene più grande non avrà
di quel poʼ dʼoro vivo per le spalle,
di quella gioia in gola.
A noi che non abbiamo
altra felicità che di parole,
e non lʼacceso fiocco e non la molta
speranza che fa grosso a quella il cuore,
se non è troppo chiedere, sia tolta
prima la vita di quel solo bene.
da “Poesie” di Camillo Sbarbaro
Sonno, dolce fratello della Morte
Sonno, dolce fratello della Morte,
che dalla Vita per un poʼ ci affranchi
ma ci rilasci tosto in sua balia
come gatto che gioca col gomitolo;
di te, finché la mia vita giustifichi
la vita della mia sorella e un segno
che son vissuto anchʼio finché non lasci,
io mi contenterò e del tuo inganno.
Vieni, consolatore degli afflitti.
Abolisci per me lo spazio e il tempo
e nel nulla dissolvi questo io.
Nessun bambino mai così fidente
sʼabbandonò sul seno della madre
comʼio nelle tue mani mʼabbandono.
Quando si dorme non si sa più nulla.
da “Poesie” di Camillo Sbarbaro
230
La bambina ché va sótto gli alberi
La bambina ché va sótto gli alberi
nón ha ché il péso délla sua tréccia,
un fil di canto in góla.
Canta sóla
é salta pér la strada; ché nón sa
ché mai bène più grande nón avrà
di quél pò dʼòro vivo pér lé spalle,
di quélla giòia in góla.
A nói ché nón abbiamo
altra felicità ché di paròle,
é nón lʼaccéso fiòcco é nón la mólta
speranza ché fa gròsso a quélla il cuòre,
sé nón è tròppo chièdere, sia tòlta
prima la vita di quél sólo bène.
da “Poešie” di Camillo Sbarbaro
Sónno, dólce fratèllo délla Mòrte
Sónno, dólce fratèllo délla Mòrte,
ché dalla Vita pér un pòʼ ci affranchi
ma ci rilasci tòsto in sua balia
cóme gatto ché giòca cól gomitolo;
di té, finché la mia vita giustifichi
la vita délla mia sorèlla é un ségno
ché són vissuto anchʼio finché nón lasci,
io mi contenterò é dél tuo inganno.
Vièni, consolatóre dégli afflitti.
Abolisci pér mé ló spazio é il tèmpo
é nél nulla dissòlvi quésto io.
Nessun bambino mai così fidènte
sʼabbandonò sul séno délla madre
cómʼio nélle tue mani mʼabbandóno.
Quando si dòrme nón si sa più nulla.
da “Poešie” di Camillo Sbarbaro
231
Meriggio
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro dʼorto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
chʼora si rompono ed ora sʼintrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
comʼè tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale
Non chiederci la parola
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
lʼanimo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah lʼuomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e lʼombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale
232
Meriggio
Meriggiare pallido é assòrto
prèsso un rovènte muro dʼòrto,
ascoltare tra i pruni é gli stèrpi
schiòcchi di mèrli, frusci di sèrpi.
Nélle crèpe dél suòlo ó su la véccia
spiar lé file di rósse formiche
chʼ óra si rómpono éd óra sʼintrécciano
a sómmo di minuscole biche.
Osservare tra fróndi il palpitare
lontano di scaglie di mare
méntre si lèvano trèmuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
É andando nél sóle ché abbaglia
sentire cón triste meraviglia
comʼè tutta la vita é il suo travaglio
in quésto seguitare una muraglia
ché ha in cima còcci aguzzi di bottiglia.
da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale
Nón chièderci la paròla
Nón chièderci la paròla ché squadri da ógni lato
lʼanimo nòstro infórme, é a lèttere di fuòco
ló dichiari é risplènda cóme un cròco
perduto in mèzzo a un polveróso prato.
Ah lʼuòmo ché sé né va sicuro,
agli altri éd a sé stésso amico,
é lʼómbra sua nón cura ché la canicola
stampa sópra uno scalcinato muro!
Nón domandarci la fòrmula ché móndi pòssa aprirti,
sì qualche stòrta sillaba é sécca cóme un ramo.
Codésto sólo òggi possiamo dirti,
ciò ché nón siamo, ciò ché nón vogliamo.
da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale
233
Ho sceso dandoti il braccio…
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattrʼocchi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
da “Satura” di Eugenio Montale
Forse un mattino
Forse un mattino andando in unʼaria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come uno schermo, sʼaccamperanno di gitto
alberi case colli per lʼinganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me nʼandrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale
234
Hò scéso dandoti il braccio…
Hò scéso, dandoti il braccio, alméno un milióne di scale
é óra ché nón ci sèi è il vuòto ad ógni gradino.
Anche così è stato brève il nòstro lungo viaggio.
Il mio dura tuttóra, né più mi occórrono
lé coincidènze, lé prenotazióni,
lé trappole, gli scòrni di chi créde
ché la realtà sia quélla ché si véde.
Hò scéso milióni di scale dandoti il braccio
nón già perché cón quattrʼòcchi fórse si véde di più.
Cón té lé hò scése perché sapévo ché di nói due
lé sóle vére pupille, sebbène tanto offuscate,
èrano lé tue.
da “Satura” di Eugènio Montale
Fórse un mattino
Fórse un mattino andando in unʼaria di vétro,
arida, rivolgèndomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuòto diètro
di mé, cón un terróre di ubriaco.
Pòi cóme uno schérmo, sʼaccamperanno di gitto
alberi case còlli pér lʼinganno consuèto.
Ma sarà tròppo tardi; éd io mé nʼandrò zitto
tra gli uòmini ché nón si voltano, cól mio segréto.
da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale
235
Ripenso il tuo sorriso
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me unʼacqua limpida
scorta per avventura tra le pietraie dʼun greto,
esiguo specchio in cui guardi unʼellera i suoi corimbi;
e su tutto lʼabbraccio dʼun bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto sʼesprime libera unʼanima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in unʼondata di calma,
e che il tuo aspetto sʼinsinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima dʼuna giovinetta palma…
da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale
Spesso il male di vivere
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era lʼincartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza :
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale
236
Ripènso il tuo sorriso
Ripènso il tuo sorriso, éd è pér mé unʼacqua limpida
scòrta pér avventura tra lé pietraie dʼun gréto,
ešiguo spècchio in cui guardi unʼéllera i suòi corimbi;
é su tutto lʼabbraccio dʼun bianco cièlo quièto.
Codésto è il mio ricòrdo; nón saprèi dire, ó lontano,
sé dal tuo vólto sʼesprime libera unʼanima ingènua,
ó véro tu sèi déi raminghi ché il male dél móndo estènua
é rècano il lóro soffrire cón sé cóme un tališmano.
Ma quésto pòsso dirti, ché la tua pensata effigie
sommèrge i crucci estrósi in unʼondata di calma,
é ché il tuo aspètto sʼinsinua nélla mia memòria grigia
schiètto cóme la cima dʼuna giovinétta palma…
da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale
Spésso il male di vivere
Spésso il male di vivere hò incontrato:
èra il rivo strozzato ché gorgóglia,
èra lʼincartocciarsi délla fòglia
riarsa, èra il cavallo stramazzato.
Bène nón sèppi, fuòri dél prodigio
ché schiude la divina Indifferènza:
èra la statua nélla sonnolènza
dél meriggio, é la nuvola, é il falco alto levato.
da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale
237
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
da “Ed è subito sera” di Salvatore Quasimodo
Alle fronde dei salici
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sullʼerba dura di ghiaccio, al lamento
dʼagnello dei fanciulli, allʼurlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
da “Giorno dopo giorno” di Salvatore Quasimodo
238
Éd è subito séra
Ognuno sta sólo sul cuòr délla tèrra
trafitto da un raggio di sóle:
éd è subito séra.
da “Éd è subito séra” di Salvatóre Quašimodo
Alle frónde déi salici
É cóme potevamo nói cantare
cón il piède stranièro sópra il cuòre,
fra i mòrti abbandonati nélle piazze
sullʼèrba dura di ghiaccio, al laménto
dʼagnèllo déi fanciulli, allʼurlo néro
délla madre ché andava incóntro al figlio
crocifisso sul palo dél telègrafo?
Alle frónde déi salici, pér vóto,
anche lé nòstre cétre èrano appése,
oscillavano lièvi al triste vènto.
da “Giórno dópo giórno” di Salvatóre Quašimodo
Nota:
cétra è lʼantico e noto strumento musicale.
cètra è uno scudo piuttosto piccolo e rotondo in uso fin dalla antichità
presso popolazioni africane ed ispaniche.
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Uomo del mio tempo
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
-tʼho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. Tʼho visto: eri tu
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse allʼaltro fratello:
“Andiamo ai campi”. E quellʼeco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
da “Giorno dopo giorno” di Salvatore Quasimodo
Milano, agosto 1943
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: sʼè udito lʼultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E lʼusignolo
è caduto dallʼantenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi dai cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.
da “Tutte le poesie” di Salvatore Quasimodo
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Uòmo dél mio tèmpo
Sèi ancóra quéllo délla piètra é délla fiónda,
uòmo dél mio tèmpo. Èri nélla carlinga,
cón lé ali maligne, lé meridiane di mòrte,
-tʼhò visto- déntro il carro di fuòco, alle fórche,
alle ruòte di tortura. Tʼhò visto: èri tu
cón la tua sciènza ešatta persuaša allo sterminio,
sènza amóre, sènza Cristo. Hai uccišo ancóra,
cóme sèmpre, cóme uccišero i padri, cóme uccišero
gli animali ché ti videro pér la prima vòlta.
É quésto sangue odóra cóme nél giórno
quando il fratèllo disse allʼaltro fratèllo:
“Andiamo ai campi”. É quéllʼèco frédda, tenace,
è giunta fino a té, déntro la tua giornata.
Dimenticate, ó figli, lé nuvole di sangue
salite dalla tèrra, dimenticate i padri:
lé lóro tómbe affóndano nélla cénere,
gli uccèlli néri, il vènto, còprono il lóro cuòre.
da “Giórno dópo giórno” di Salvatóre Quašimodo
Milano, agósto 1943
Invano cérchi tra la pólvere,
pòvera mano, la città è mòrta.
È mòrta: sʼè udito lʼultimo rómbo
sul cuòre dél Naviglio. É lʼušignòlo
è caduto dallʼanténna, alta sul convènto,
dóve cantava prima dél tramónto.
Nón scavate pózzi dai cortili:
i vivi nón hanno più séte.
Nón toccate i mòrti, così róssi, così gónfi:
lasciateli nélla tèrra délle lóro case:
la città è mòrta, è mòrta.
da “Tutte lé poešie” di Salvatóre Quašimodo
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ESERCIZI DI LETTURA
ORTOEPICA
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GALILÈO GALILÈI
Galilèi enuncia il principio dʼinèrzia
Rinserratevi cón qualche amico nélla maggióre stanza ché sia sótto
covèrta di alcun gran navilio, é quivi fate dʼavér mósche, farfalle é
simili animalétti volanti; siavi anco un gran vašo dʼacqua é déntrovi
déʼ pescétti; sospèndasi anco in alto qualche secchièllo ché a góccia
a góccia vadia versando déllʼacqua in un altro vašo di angusta bócca,
ché sia pósto a basso é, stando férma la nave, osservate diligenteménte
cóme quélli animalétti volanti cón pari velocità vanno vèrso tutte lé
parti délla stanza; i pésci si vedranno andar notando indifferenteménte
pér tutti i vèrsi, lé stille cadènti entreranno tutte nél vašo sottopósto; é
vói, gettando allʼamico alcuna còsa, nón più gagliardaménte la dovréte
gettare vèrso quélla parte ché vèrso quésta quando lé lontananze sièno
eguali; é saltando vói, cóme si dice, a piè giunti, eguali spazii passeréte
vèrso tutte lé parti. Osservate ché avréte diligenteménte tutte quéste
còse, benché niun dubbio ci sia ché méntre il vascèllo stà férmo nón
dèbbano succèder còsì, fate muòver la nave cón quanta si vòglia
velocità; (purché il mòto sia unifórme é nón fluttuante in qua é in là)
vói nón riconosceréte una minima mutazióne in tutti li nominati effètti,
né da alcuno di quélli potréte comprènder sé la nave cammina ó pure
sta férma: vói saltando passeréte nél tavolato i medéšimi spazii ché
prima, né, perché la nave si muòva velocissimaménte, faréte maggióri
salti vèrso la póppa ché vèrso la prua, benché, nél tèmpo ché vói state
in aria, il tavolato sottopóstovi scórra vèrso la parte contraria al vòstro
salto; é gettando alcuna còsa al compagno, nón cón più fòrza bišognerà
tirarla, pér arrivarlo, sé égli sarà vèrso la prua é vói vèrso la póppa, che
sé vói fuste situati pér lʼoppòšito; lé gócciole cadranno cóme prima
nél vašo inferióre, sènza cadérne pur una vèrso póppa, benché, méntre
la gócciola è pér aria, la nave scórra mólti palmi; i pésci nélla lóro
acqua nón cón più fatica noteranno vèrso la precedènte ché vèrso la
susseguènte parte dél vašo, ma cón pari agevolézza verranno al cibo
pósto su qualsivòglia luògo déllʼórlo dél vašo; é finalménte lé farfalle
é lé mósche continueranno i lóro vóli indifferenteménte vèrso tutte lé
parti, né mai accadrà ché si riduchino vèrso la parte ché riguarda la
póppa, quaši ché fussero stracche in tenér diètro al velóce córso délla
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nave, dalla quale pér lungo tèmpo, trattenèndosi pér aria, saranno state
separate; é sé abbruciando alcuna lagrima dʼincènso si farà un pòco di
fumo, vedrassi ascénder in alto éd a guiša di nuvolétta trattenérvisi, é
indifferenteménte muòversi nón più vèrso quésta ché vèrso quélla parte.
É di tutta quésta corrispondènza dʼeffètti né è cagióne lʼèsser il mòto
délla nave comune a tutte lé còse contenute in éssa éd allʼaria ancóra,
ché pér ciò dissi io ché si stésse sótto covèrta ; ché quando si stésse di
sópra é néllʼaria apèrta é nón seguace dél córso délla nave, differènze
più é mén notabili si vedrèbbero in alcuni dégli effètti nominati: é nón è
dubbio ché il fumo resterèbbe in diètro, quanto lʼaria stéssa; lé mósche
pariménti é lé farfalle, impedite dallʼaria, nón potrèbber seguir il mòto
délla nave, quando da éssa pér spazio assai notabile si separassero;
ma trattenèndovisi vicine, perché la nave stéssa, cóme di fabbrica
anfrattuósa, pòrta séco parte déllʼaria sua pròssima, sènza intòppo ó
fatica seguirèbber la nave, é pér simil cagióne veggiamo tal vòlta, nél
córrer la pòsta, lé mósche importune é i tafani seguir i cavalli, volandogli
óra in quésta éd óra in quélla parte dél còrpo; ma nélle gócciole cadènti
pochissima sarèbbe la differènza, é né i salti é né i proiètti gravi, dél
tutto impercettibile.
da “Dialogo sópra i due massimi sistèmi dél móndo” di Galilèo Galilèi
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UGO FÓSCOLO
Daʼ Còlli Euganei, 11 ottóbre 1797
Il sacrificio délla patria nòstra è consumato: tutto è perduto; é la vita,
seppure né verrà concèssa, nón ci resterà ché pér piangere lé nòstre
sciagure é la nòstra infamia. Il mio nóme è nélla lista di proscrizióne,
ló sò: ma vuòi tu chʼio pér salvarmi da chi mʼopprime mi commétta
a chi mi ha tradito? Consóla mia madre: vinto dalle sue lacrime lé hò
ubbidito, é hò lasciato Venèzia pér evitare lé prime persecuzióni, é lé
più feróci. Ór dovrò io abbandonare anche quésta mia solitudine antica,
dóve, sènza pèrdere dagli òcchi il mio sventurato paéše, pòsso ancóra
sperare qualche giórno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorènzo;
quanti sóno dunque gli sventurati? É nói, purtròppo, nói stéssi Italiani
ci laviamo lé mani nél sangue déglʼItaliani. Pér mé ségua ché può.
Poiché hò disperato é délla mia patria é di mé, aspètto tranquillaménte
la prigióne é la mòrte. Il mio cadavere alméno nón cadrà tra braccia
stranière; il mio nóme sarà sommessaménte compianto daʼ pòchi
uòmini buòni, compagni délle nòstre mišèrie; é lé mie òssa poseranno
su la tèrra déʼ miéi padri.
26 ottóbre 1797
Lʼhò veduta, ó Lorènzo, la divina fanciulla; é té né ringrazio. La trovai
seduta, miniando il pròprio ritratto. Si rizzò salutandomi cóme sʼélla
mi conoscésse, é ordinò a un servitóre ché andasse a cercare di suo
padre. Égli nón sperava, mi dissʼélla, ché vói saréste venuto; sarà pér
la campagna; né starà mólto a tornare. Una ragazzina lé córse fra lé
ginòcchia dicèndole nón sò ché allʼorécchio.
È lʼamico di Lorènzo, lé rispóse Terèsa, è quéllo ché il babbo andò a
trovare lʼaltrʼièri…
Io tornava a casa cól cuòre in fèsta.- Ché? ló spettacolo délla bellézza
basta fórse ad addormentare in nói tristi mortali tutti i dolóri? Védi pér
mé una sorgènte di vita: unica cèrto, é chi sa! fatale.
Ma sé io sóno predestinato ad avére lʼanima perpetuaménte in tempèsta,
nón è tuttʼuno?
247
17 marzo 1798
Da due mési nón ti dò ségno di vita, é tu ti sèʼ sgomentato; é témi
chʼio sia vinto oggimai dallʼamóre da dimenticarmi di té é délla patria.
Fratèl mio Lorènzo, tu conòsci pur pòco mé é il cuòre umano éd il
tuo, sé prešumi ché il desidèrio di patria pòssa temperarsi, mai , nón
ché spègnersi; sé crédi ché cèda ad altre passióni — bèn irrita lé altre
passióni, é nʼè più irritato; éd è pur véro, é in quésto hai détto pur bène!
Lʼamóre in unʼanima ešulcerata, é dóve lé altre passióni sóno disperate,
rièsce onnipotènte — é io ló pròvo; ma ché rièsca funèsto, tʼinganni:
sènza Terèsa, io sarèi fórse òggi sottèrra.
La Natura crèa di pròpria autorità tali ingégni da nón potér èssere
sé nón generósi; vénti anni addiètro sì fatti ingégni si rimanévano
inèrti éd assiderati nél sopóre universale dʼItalia: ma i tèmpi dʼòggi
hanno ridestato in éssi lé virili é natìe lóro passióni: éd hanno
acquistato tal tèmpra, ché spezzarli puòi, piegarli nón mai. É nón è
sentènza metafišica quésta: la è verità ché splènde nélla vita di mólti
antichi mortali gloriosaménte infelici; verità di cui mi sóno accertato
convivèndo fra mólti nòstri concittadini; é li compiango insième é gli
ammiro; da ché sé Dio nón ha pietà déllʼItalia, dovranno chiudere nél
lóro secrèto il desidèrio di patria — funestissimo! perché ó strugge ó
addolóra tutta la vita; é nondiméno anziché abbandonarlo, avranno cari
i pericoli, é quéllʼangòscia, é la mòrte. Éd io mi sóno uno di quésti; é
tu, mio Lorènzo.
Ma sʼio scrivéssi intórno a quéllo chʼio vidi é sò délle còse nòstre,
farèi còsa superflua é crudèle ridestando in vói tutti il furóre ché
vorrèi pur sopire déntro di mé: piango, crédimi, la patria — la piango
secretaménte, é desidero
Ché lé lagrime mie si spargan sóle.
Unʼaltra spècie di amatóri dʼItalia si querèli ad altissima vóce a sua
pòsta.
Esclamano dʼèsser stati venduti é traditi: ma sé si fóssero armati,
sarèbbero stati vinti fórse, nón mai traditi, é sé si fóssero difési sino
allʼultimo sangue, né i vincitóri avrèbbero potuto vénderli, né i vinti si
sarèbbero attentati di comperarli.
Sé nón ché moltissimi déʼ nòstri prešumono ché la libertà si pòssa
comperare a danaro; prešumono ché lé nazióni stranière vèngano pér
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amóre déllʼequità a trucidarsi scambievolménte suʼ nòstri campi ónde
liberare lʼItalia! Ma i Francéši ché hanno fatto parére ešecrabile la
divina teoria délla pubblica libertà, faranno da Timoleóni in prò nòstro?
— Moltissimi intanto si fidano nél Giòvine Eròe nato di sangue italiano:
nato dóve si parla il nòstro idiòma. Io da un animo basso é crudèle, nón
mʼaspetterò mai còsa utile éd alta pér nói.
Ché mʼimpòrta chʼabbia il vigóre é il frèmito dél leóne, sé ha la ménte
volpina, é sé né compiace?
Sì, basso é crudèle — né gli epiteti sóno ešagerati. A ché nón ha égli
venduto Venèzia cón apèrta é generósa feròcia? Selim I ché féce
scannare sul Nilo trènta mila guerrièri Circassi arrésisi alla sua féde,
é Nadir Schah ché nél nòstro sècolo trucidò trecènto mila Indiani,
sóno più atróci, bensì méno sgradévoli. Vidi cón gli òcchi mièi una
costituzióne democratica postillata dal Giòvine Eròe, postillata di
mano sua; é mandata da Passeriano a Venèzia perché sʼaccettasse: é
il trattato di Campo Fòrmio èra già da più giórni firmato é Venèzia èra
trafficata; é la fiducia ché lʼEròe nutriva in nói tutti ha riempito lʼItalia
di proscrizióni, dʼemigrazióni, é dʼešilj.—
Nón accušo la ragióne di stato ché vénde, cóme branchi di pècore, lé
nazióni: così fu sèmpre, é così sarà: piango la patria mia,
Ché mi fu tòlta, é il mòdo ancór mʼoffènde.
Nasce Italiano, é soccorrerà un giórno alla patria: altri sél créda; io
rispósi, é risponderò sèmpre: - La natura ló ha creato tiranno: é il
tiranno nón guarda a patria; é nón lʼha.
da “Ultime lèttere di Jacopo Òrtis” di Ugo Fóscolo
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ALESSANDRO MANZÓNI
Addio, mónti…
Addio, mónti sorgènti dallʼacque, éd elevati al cièlo; cime inuguali, nòte
a chi è cresciuto tra vói, é imprèsse nélla sua ménte, nón méno ché ló sia
lʼaspètto déʼsuòi più familiari; torrènti, déʼ quali distingue ló scròscio,
cóme il suòno délle vóci domèstiche; ville sparse é biancheggianti sul
pendio, cóme branchi di pècore pascènti; addio! Quanto è tristo il passo
di chi, cresciuto tra vói, sé né allontana! Alla fantašia di quéllo stésso
ché sé né parte volontariaménte, tratto dalla speranza di fare altróve
fortuna, si dišabbelliscono, in quel moménto, i sógni délla ricchézza;
égli si maraviglia dʼèssersi potuto risòlvere, é tornerèbbe allóra indiètro,
sé nón pensasse ché, un giórno, tornerà dovizióso.Quanto più sʼavanza
nél piano, il suo òcchio si ritira, dišgustato é stanco, da quéllʼampiézza
unifórme; lʼaria gli par gravósa é mòrta; sʼinóltra mèsto é dišattènto
nélle città tumultuóse; lé case aggiunte a case, lé strade ché sbóccano
nélle strade, pare ché gli lèvino il respiro; é davanti agli edifizi ammirati
dallo stranièro, pènsa, cón desidèrio inquièto, al campicèllo dél suo
paéše, alla casuccia a cui ha già mésso gli òcchi addòsso, da gran
tèmpo, é ché comprerà, tornando ricco aʼ suòi mónti.
Ma chi nón avéva mai spinto al di là di quélli neppure un desidèrio
fuggitivo, chi avéva compósti in éssi tutti i disegni déllʼavvenire, é
nʼè sbalzato lontano, da una fòrza pervèrsa! Chi, staccato a un tèmpo
dalle più care abitudini, é disturbato nélle più care speranze, lascia quéi
mónti, pér avviarsi in traccia di sconosciuti ché nón ha mai desiderato
di conóscere, é nón può cón lʼimmaginazióne arrivare a un moménto
stabilito pér il ritórno! Addio, casa natìa, dóve, sedèndo, cón un pensièro
occulto, sʼimparò a distinguere dal rumóre déʼ passi comuni il rumóre
dʼun passo aspettato cón un misterióso timóre. Addio, casa ancóra
stranièra, casa sogguardata tante vòlte alla sfuggita, passando, é nón
sènza rossóre; nélla quale la ménte si figurava un soggiórno tranquillo é
perpètuo di spòša. Addio, chièša, dóve lʼanimo tornò tante vòlte seréno,
cantando lé lòdi dél Signóre; dovʼèra promésso, preparato un rito; dóve
il sospiro segréto dél cuòre dovéva èssere solenneménte benedétto, é
lʼamóre venir comandato, é chiamarsi santo; addio! Chi dava a vói tanta
giocondità è pér tutto; é nón turba mai la giòia déʼ suòi figli, sé nón pér
prepararne lóro una più cèrta é più grande….
da “I Proméssi spòši” di A. Manζóni
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IGNAZIO SILÓNE
La scélta délla libertà
La libertà nón è una còsa ché si pòssa ricévere in regalo…Si può vivere
anche in paéše di dittatura éd èssere libero, a una sémplice condizióne,
basta lottare cóntro la dittatura. Lʼuòmo ché pènsa cón la pròpria tèsta
é consèrva il suo cuòre incorrótto, è libero.Lʼuòmo ché lòtta pér ciò
ché égli ritiène giusto, è libero. Pér cóntro, si può vivere nél paéše più
democratico délla tèrra, ma sé si è interiorménte pigri, ottuši, servili,
nón si è liberi; malgrado lʼassènza di ógni coercizióne violènta, si è
schiavi. Quésto è il male, nón bišógna implorare la pròpria libertà dagli
altri. La libertà bišógna prèndersela, ognuno la porzióne ché può….
da “Vino é Pane” di I. Silóne
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ARIE LIRICHE
ORTOEPICHE
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L’ORTOEPIA NELLA MUSICA
Da quando ci occupiamo di ortoepia ci siamo accorti che anche
nella musica lirica e nel canto in generale gli effetti di una buona
dizione hanno un grande importanza.
A prescindere dalle preferenze che ciascun melomane ha per questo
o quel cantante, si possono infatti “osservare”, se ci si impegna a farlo
come nel caso della poesia, delle differenze molto significative. Ad
esempio noi abbiamo imparato ad apprezzare e a provare maggior
gioia nellʼascoltare quei cantanti che, a parità (per quanto questo
sia possibile) di qualità tecniche e interpretative, hanno una miglior
ortoepia. Abbiamo anche notato che i cantanti stranieri, a parte gli
immancabili “accenti” dovuti alle caratteristiche della loro lingua
originaria, sono a volte in possesso di una dizione che fa intravvedere
impegno e studio in senso ortoepico. La ragione di questo è che forse,
proprio perché stranieri, hanno cercato o comunque ricevuto lʼaiuto di
validi maestri di dizione: cosa della quale non si sono preoccupati in
genere i cantanti italiani.
Noi siamo convinti che sia una cosa totalmente diversa, tanto
per fare un esempio, sentire Enzo iniziare la famosa romanza da “La
Gioconda”, con “Cièlo é mar!- lʼetèreo vélo…” , oppure con “Ciélo è
mar!-lʼetéreo vèlo…”. Ma forse siamo semplicemente suggestionati da
questa nostra idea…, al punto che vi sono dei cantanti, da sempre amati
e presenti nella nostra memoria, che ci diventano ogni giorno più cari
poiché “rivisti” sotto questo aspetto. Possiamo proprio dire che per noi
il parametro “dizione” riesce , ricorrendo a unʼespressione forse troppo
usata, a “fare la differenza”.
Un altro aspetto interessante è che, riascoltando ora le voci dei
grandi cantanti lirici in riferimento a momenti diversi della loro carriera
( che in alcuni casi si è protratta per molti decenni ), si possono cogliere
dei cambiamenti, dei miglioramenti legati alla pronuncia; pensiamo che
alcuni di essi siano giunti a capire lʼimportanza di una buona dizione al
fine di accrescere la qualità e la bellezza del loro canto.
Le stesse considerazioni si possono fare anche nel campo della
musica leggera, dove vi sono dei brani “immortali” che sono stati, e
continuano a esserlo, interpretati da molti cantanti. Chi di noi, in alcuni
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momenti della giornata, non ha intonato qualche volta “Tu che mi hai
preso il cuor…” ? Ebbene, ci sono una sostanziale differenza e una
diversa musicalità fra “Tu ché mi hai préso il cuòr…” e “Tu chè mi hai
prèšo il cuór…”.
Lʼascolto di certi cantanti, oltre che procurarci una gioia in sé, ci ha
fatto nascere una speranza. Poiché i brani da loro interpretati sono delle
vere e proprie lezioni di ortoepia e un potente mezzo di comunicazione, e
poiché i giovani spesso imitano, copiano i loro miti con estrema facilità,
forse un domani potremo sentire le nuove generazioni esprimersi con
un migliore italiano.
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Norma
Qual cor tradisti, qual cor perdesti
questʼora orrenda ti manifesti.
Da me fuggire tentasti invano;
crudel Romano, tu sei con me.
Un nume, un fato di te più forte
ci vuole uniti in vita e in morte.
Sul rogo istesso che mi divora,
sotterra ancora sarò con te.
Pollione
Ah! troppo tardi tʼho conosciuta…
sublime donna, io tʼho perduta…
Col mio rimorso è amor rinato,
più disperato, furente egli è.
Moriamo insieme, ah! si, moriamo:
lʼestremo accento sarà chʼio tʼamo.
Ma tu morendo non mʼaborrire,
pria di morire perdona a me.
Duetto Norma-Pollione dal 2° atto di “Norma” di V. Bellini.
Libretto di Felice Romani.
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Nòrma
Qual còr tradisti, qual còr perdésti
quéstʼóra orrènda ti manifèsti.
Da mé fuggire tentasti invano;
crudèl Romano, tu sèi cón mé.
Un nume, un fato di té più fòrte
ci vuòle uniti in vita é in mòrte.
Sul rógo istésso ché mi divóra,
sottèrra ancóra sarò cón té.
Pollióne
Ah! tròppo tardi tʼhò conosciuta…
sublime dònna, io tʼhò perduta…
Cól mio rimòrso è amór rinato,
più disperato, furènte égli è.
Moriamo insième, ah! sì, moriamo:
lʼestrèmo accènto sarà chʼio tʼamo.
Ma tu morèndo nón mʼaborrire,
pria di morire perdóna a mé.
Duétto Nòrma-Pollióne dal 2° atto di “Nòrma” di V. Bellini.
Librétto di Felice Romani.
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Arturo
A te, o cara, amor talora
mi guidò furtivo e in pianto;
or mi guida a te dʼaccanto
tra la gioia e lʼesultar.
Al brillar di sì bellʼora,
se rammento il mio tormento
si raddoppia il mio contento,
mʼè più caro il palpitar.
Aria di Arturo dal 1° atto de “I Puritani” di V. Bellini.
Libretto di Carlo Pepoli.
Elvira
Qual mai funerea
voce funesta
mi scuote e desta
dal mio martir!
Se fui sì barbara,
nel trarlo a morte,
mʼavrà consorte
nel suo martir!!
Arturo
Credeasi, misera!
da me tradita,
traea sua vita
in tal martir!
Or sfido i fulmini,
disprezzo il fato,
se teco al lato
potrò morir!
Duetto Elvira-Arturo dal 3° atto de “I Puritani” di V. Bellini.
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Arturo
A té , ó cara, amór talóra
mi guidò furtivo é in pianto;
ór mi guida a té dʼaccanto
tra la giòia é lʼešultar.
Al brillar di sì bèllʼóra,
sé ramménto il mio torménto
si raddóppia il mio contènto,
mʼè più caro il palpitar.
Aria di Arturo dal 1° atto dé “I Puritani” di V. Bellini.
Librétto di Carlo Pépoli.
Elvira
Qual mai funèrea
vóce funèsta
mi scuòte é désta
dal mio martir!
Sé fui sì barbara,
nél trarlo a mòrte,
mʼavrà consòrte
nél suo martir!!
Arturo
Credéasi, mišera!
da mé tradita,
traéa sua vita
in tal martir!
Ór sfido i fulmini,
disprèzzo il fato,
sé téco al lato
potrò morir!
Duétto Elvira-Arturo dal 3° atto dé “I Puritani” di V. Bellini.
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Edgardo
Mʼodi e trema.
Sulla tomba che rinserra
il tradito genitore,
al tuo sangue eterna guerra
io giurai nel mio furore:
Ma ti vidi…in cor mi nacque
altro affetto, e lʼira tacque…
Pur quel voto non è infranto…
Io potrei compirlo ancor!
Lucia
Deh! ti placa…deh! ti frena…
Può tradirne un solo accento!
Non ti basta la mia pena?
Vuoi chʼio mora di spavento?
Cela, cela ognʼaltro affetto,
solo amor tʼinfiammi il petto…
Ah! il più nobile, il più santo
deʼ tuoi voti è un puro amor!
…………………………………
Lucia-Edgardo
Verranno a te sullʼaura
i miei sospiri ardenti,
udrai nel mar che mormora
lʼeco deʼ miei lamenti…
Pensando chʼio di gemiti
mi pasco e di dolor,
spargi una mesta lagrima
su questo pegno allor!
Duetto Lucia-Edgardo dal 1° atto di “ Lucia di Lammermoor” di G. Donizetti.
Libretto di Salvatore Cammarano.
262
Edgardo
Mʼòdi é trèma.
Sulla tómba ché rinsèrra
il tradito genitóre,
al tuo sangue etèrna guèrra
io giurai nél mio furóre:
Ma ti vidi…in còr mi nacque
altro affètto, é lʼira tacque…
Pur quél vóto nón è infranto…
Io potrèi compirlo ancór!
Lucia
Dèh! ti placa…dèh! ti fréna…
Può tradirne un sólo accènto!
Nón ti basta la mia péna?
Vuòi chʼio mòra di spavènto?
Céla, céla ognʼaltro affètto,
sólo amór tʼinfiammi il pètto…
Ah! il più nòbile, il più santo
déʼ tuòi vóti è un puro amór!
…………………….
Lucia-Edgardo
Verranno a té sullʼaura
i mièi sospiri ardènti,
udrai nél mar ché mórmora
lʼèco déʼ mièi laménti…
Pensando chʼio di gèmiti
mi pasco é di dolór,
spargi una mèsta lagrima
su quésto pégno allór!
Duétto Lucia-Edgardo dal 1° atto di “Lucia di Lammermoor” di G. Donizétti.
Libretto di Salvatóre Cammarano.
263
Va pensiero…
Va, pensiero, sullʼali dorate:
va, ti posa sui clivi, sui colli,
ove olezzano trepide e molli
lʼaure dolci del suolo natal!
Del Giordano le rive saluta,
di Sïonne le torri atterrate…
Oh, mia patria sì bella e perduta!
Oh, membranza sì cara e fatal!
Arpa dʼor dei fatidici vati,
perché muta dal salice pendi?
Le memorie nel petto riaccendi,
ci favella del tempo che fu!
O simile di Solima ai fati
traggi un suono di crudo lamento,
o tʼispiri il Signore un concento
che ne infonda al patire virtù!
Coro dal 3° atto del “Nabucco” di G. Verdi.
Libretto di Temistocle Solera.
264
Va pensièro…
Va, pensièro, sullʼali dorate:
va, ti pòsa sui clivi, sui còlli,
óve oléζζano trèpide é mòlli
lʼaure dólci dél suòlo natal!
Dél Giordano lé rive saluta,
di Sïònne lé tórri atterrate…
Òh, mia patria sì bèlla é perduta !
Òh, membranza sì cara é fatal !
Arpa dʼòr déi fatidici vati,
perché muta dal salice pèndi?
Lé memòrie nél pètto riaccèndi,
ci favèlla dél tèmpo ché fu!
Ó simile di Solima ai fati
traggi un suòno di crudo laménto,
ó tʼispiri il Signóre un concènto
ché né infónda al patire virtù!
Còro dal 3° atto dél “Nabucco” di G. Vérdi.
Librétto di Temistocle Solèra.
265
Patria oppressa…
Patria oppressa! Il dolce nome
no, di madre aver non puoi,
or che tutta ai figli tuoi
sei conversa in un avel.
Dʼorfanelli e di piangenti
chi lo sposo e chi la prole
al venir del nuovo Sole
sʼalza un grido e fere il Ciel.
A quel grido il Ciel risponde
quasi voglia impietosito
propagar per lʼinfinito,
patria oppressa, il tuo dolor.
Suona a morto ognor la squilla,
ma nessuno audace è tanto
che pur doni un vano pianto
a chi soffre e a chi muor.
Coro dal 4° atto del “Macbeth” di G. Verdi.
Libretto di F.M. Piave.
266
Patria opprèssa…
Patria opprèssa! Il dólce nóme
nò, di madre avér nón puòi,
ór ché tutta ai figli tuòi
sèi convèrsa in un avèl.
Dʼorfanèlli é di piangènti
chi ló spòšo é chi la pròle
al venir dél nuòvo Sóle
sʼalza un grido é fére il Cièl.
A quél grido il Cièl rispónde
quaši vòglia impietosito
propagar pér lʼinfinito,
patria opprèssa, il tuo dolór.
Suòna a mòrto ognór la squilla,
ma nessuno audace è tanto
ché pur dóni un vano pianto
a chi sòffre é a chi muòr.
Còro dal 4° atto dél “Macbeth” di G. Vérdi.
Librétto di F.M. Piave.
267
Cortigiani, vil razza dannata
Cortigiani, vil razza dannata,
per qual prezzo vendeste il mio bene?
A voi nulla per lʼoro sconviene,
ma mia figlia è impagabil tesor.
La rendete… o, se pur disarmata,
questa man per voi fora cruenta;
nulla in terra più lʼuomo paventa,
se dei figli difende lʼonor.
Quella porta, assassini, mʼaprite.
Ah! Voi tutti a me contro venite!
Ebben, piango, Marullo…signore,
tu chʼhai lʼalma gentil come il core,
dimmi tu dove lʼhanno nascosta?
Eʼ là?…Eʼ vero?…tu taci!…perché?…
Miei signori…perdono, pietate…
Al vegliardo la figlia ridate…
Ridonarla a voi nulla ora costa,
tutto il mondo è tal figlia per me.
dallʼaria di Rigoletto dal 2° atto di “Rigoletto” di G. Verdi.
Libretto di F.M. Piave.
268
Cortigiani, vil razza dannata
Cortigiani, vil razza dannata,
pér qual prèzzo vendéste il mio bène?
A vói nulla pér lʼòro sconviène,
ma mia figlia è impagabil tešòr.
La rendéte… ó, sé pur dišarmata,
quésta man pér vói fòra cruènta;
nulla in tèrra più lʼuòmo pavènta,
sé déi figli difènde lʼonór.
Quélla pòrta, assassini, mʼaprite.
Ah! Vói tutti a mé cóntro venite!
Ebbèn, piango, Marullo…signóre,
tu chʼhai lʼalma gentil cóme il còre,
dimmi tu dóve lʼhanno nascósta?
È là?…È véro?…tu taci!…perché?…
Mièi signóri…perdóno, pietate…
Al vegliardo la figlia ridate…
Ridonarla a vói nulla óra còsta,
tutto il móndo è tal figlia pér mé.
dallʼaria di Rigolétto dal 2° atto di “Rigolétto” di G. Vérdi.
Librétto di F.M. Piave.
269
Tutte le feste al tempio
Gilda
( Ciel! Dammi coraggio! )
Tutte le feste al tempio
mentre pregava Iddio
bello e fatale un giovane
sʼofferse al guardo mio…
Se i labbri nostri tacquero
dagli occhi il cor parlò.
Furtivo fra le tenebre
solo ieri a me giungeva…
Sono studente, povero,
commosso, mi diceva,
e con ardente palpito
amor mi protestò.
Partì…. il mio core aprivasi
a speme più gradita,
quando improvvisi apparvero
color che mʼhan rapita,
e a forza qui mʼaddussero
nellʼansia più crudel.
Rigoletto
( Solo per me lʼinfamia
a te chiedeva, o Dio…
Chʼella potesse ascendere
quanto caduto erʼio….
Ah, presso del patibolo
bisogna ben lʼaltare!
Ma tutto ora scompare
lʼaltar si rovesciò! )
Piangi, fanciulla, e scorrere
fa il pianto sul mio cor.
Scena sesta del 2° atto di “Rigoletto” di G. Verdi.
Libretto di F.M. Piave.
270
Tutte lé fèste al tèmpio
Gilda
( Cièl! Dammi coraggio! )
Tutte lé fèste al tèmpio
méntre pregava Iddio
bèllo é fatale un gióvane
sʼoffèrse al guardo mio…
Sé i labbri nòstri tacquero
dagli òcchi il còr parlò.
Furtivo fra lé tènebre
sólo ièri a mé giungéva…
Sóno studènte, pòvero,
commòsso, mi dicéva,
é cón ardènte palpito
amór mi protestò.
Partì…. il mio còre aprivasi
a spème più gradita,
quando improvviši apparvero
colór ché mʼhan rapita,
é a fòrza qui mʼaddussero
nellʼansia più crudèl.
Rigolétto
( Sólo pér mé lʼinfamia
a té chiedéva, ó Dio…
Chʼélla potésse ascéndere
quanto caduto erʼio….
Ah, prèsso dél patibolo
bišógna bèn lʼaltare!
Ma tutto óra scompare
lʼaltar si rovesciò! )
Piangi, fanciulla, é scórrere
fa il pianto sul mio còr.
Scèna sèsta dél 2° atto di “Rigolétto” di G. Vérdi.
Librétto di F.M. Piave.
271
Tacea la notte placida…
Tacea la notte placida
e bella in ciel sereno
la luna il viso argenteo
mostrava lieto e pieno…
Quando suonar per lʼaere,
infino allor sì muto,
dolci sʼudiro e flebili
gli accordi dʼun lïuto,
e versi melanconici
un Trovator cantò.
Versi di prece ed umile
qual dʼuom che prega Iddio
in quella ripeteasi
un nome….il nome mio!…
Corsi al veron sollecita….
Egli era! egli era desso!…
Gioia provai che agli angeli
solo è provar concesso!….
Al core, al guardo estatico
la terra un ciel sembrò.
Aria di Leonora dal 1° atto de “Il Trovatore” di G.Verdi.
Librétto di Salvatore Cammarano.
272
Tacéa la nòtte placida…
Tacéa la nòtte placida
é bèlla in cièl seréno
la luna il višo argènteo
mostrava lièto é pièno…
Quando suonar pér lʼaere,
infino allór sì muto,
dólci sʼudiro é flèbili
gli accòrdi dʼun lïuto,
é vèrsi melancònici
un Trovatór cantò.
Vèrsi di prèce éd umile
qual dʼuòm ché prèga Iddio
in quélla ripetéasi
un nóme….il nóme mio!…
Córsi al verón sollècita….
Égli èra! égli èra désso!…
Giòia provai ché agli angeli
sólo è provar concèsso!….
Al còre, al guardo estatico
la tèrra un cièl sembrò.
Aria di Leonòra dal 1° atto dé “ Il Trovatóre” di G.Vérdi.
Librétto di Salvatóre Cammarano.
273
Libiam neʼ lieti calici…
Alfredo
Libiam neʼ lieti calici
che la bellezza infiora,
e la fuggevol ora
sʼinebri a voluttà.
Libiam nei dolci fremiti
che suscita lʼamore,
poiché quellʼocchio al core
onnipotente va.
Libiamo, amor fra i calici
più caldi baci avrà.
Violetta
Tra voi saprò dividere
il tempo mio giocondo;
tutto è follia nel mondo
ciò che non è piacer.
Godiam, fugace e rapido
è il gaudio dellʼamore.
Eʼ un fior che nasce e muore,
né più si può goder.
Godiam….cʼinvita un fervido
accento lusinghier.
Duetto dal 1° atto di “La Traviata” di G. Verdi.
Librétto di F. M. Piave.
274
Libiam néʼ lièti calici…
Alfrédo
Libiam néʼ lièti calici
ché la bellézza infióra,
é la fuggévol óra
sʼinèbri a voluttà.
Libiam néi dólci frèmiti
ché suscita lʼamóre,
poiché quéllʼòcchio al còre
onnipotènte va.
Libiamo, amór fra i calici
più caldi baci avrà.
Violétta
Tra vói saprò dividere
il tèmpo mio giocóndo;
tutto è follia nél móndo
ciò ché nón è piacér.
Godiam, fugace é rapido
è il gaudio déllʼamóre.
È un fiór ché nasce é muòre,
né più si può godér.
Godiam….cʼinvita un fèrvido
accènto lušinghièr.
Duétto dal 1° atto di “La Traviata” di G. Vérdi.
Librétto di F. M. Piave.
275
Celeste Aida
Se quel guerrier
io fossi! Se il mio sogno
si avverasse!….Un esercito di prodi
da me guidato… e la vittoria - e il plauso
di Menfi tutta! – E a te, mia dolce Aida,
tornar di lauri cinto….
Dirti: per te ho pugnato e per te ho vinto!
Celeste Aida, forma divina,
mistico serto di luce e fior;
del mio pensiero tu sei regina,
tu di mia vita sei lo splendor.
Il tuo bel cielo vorrei ridarti,
le dolci brezze del patrio suol,
un regal serto sul crin posarti,
ergerti un trono vicino al sol.
Aria di Radames dal 1° atto di “Aida” di G.Verdi.
Libretto di Antonio Ghislanzoni.
276
Celèste Aida
Sé quél guerrièr
io fóssi! Sé il mio sógno
si avverasse!….Un ešercito di pròdi
da mé guidato… é la vittòria - é il plaušo
di Mènfi tutta! – É a té, mia dólce Aida,
tornar di lauri cinto….
Dirti: pér té ho pugnato é pér té hò vinto!
Celèste Aida, fórma divina,
mistico sèrto di luce é fiór;
dél mio pensièro tu sèi regina,
tu di mia vita sèi ló splendór.
Il tuo bèl cièlo vorrèi ridarti,
lé dólci bréζζe dél patrio suòl,
un regal sèrto sul crin posarti,
èrgerti un tròno vicino al sól.
Aria di Radames dal 1° atto di “Aida” di G.Vérdi.
Librétto di Antònio Ghislanzóni.
277
Ella giammai mʼamò
Ella giammai mʼamò!…No, quel cor chiuso è a me,
amor per me non ha!…
Io la rivedo ancor contemplar triste in volto
il mio crin bianco il dì che qui di Francia venne.
No, amor per me non ha!…
Ove son?…Quei doppier
presso a finir!…Lʼaurora imbianca il mio veron!
Già spunta il dì! Passar veggo i miei giorni lenti!
Il sonno, o Dio! sparì daʼ miei occhi languenti!
Dormirò sol nel manto mio regal
quando la mia giornata è giunta a sera;
dormirò sol sotto la volta nera
là, nellʼ avello dellʼEscurïal.
Se il serto regal a me desse il potere
di leggere nei cor, che Dio può sol veder!…
Se dorme il prence, veglia il traditore;
il serto perde il Re, il consorte lʼonore!
Dormirò sol nel manto mio regal
quando la mia giornata è giunta a sera,
dormirò sol sotto la volta nera
là nellʼavello dellʼEscurïal.
Aria di Filippo dal 3° atto, scena prima, del “Don Carlo” di G. Verdi.
Versione del 1884. Revisione del libretto di Angelo Zanardini.
278
Élla giammai mʼamò
Élla giammai mʼamò!… Nò, quél còr chiuso è a mé,
amór pér mé nón ha!…
Io la rivédo ancór contemplar triste in vólto
il mio crin bianco il dì ché qui di Francia vénne.
Nò, amór pér mé nón ha!…
Óve són?…Quéi doppièr
prèsso a finir!…Lʼauròra imbianca il mio verón!
Già spunta il dì! Passar véggo i mièi giórni lènti!
Il sónno, ó Dio! sparì daʼ mièi òcchi languènti!
Dormirò sól nél manto mio regal
quando la mia giornata è giunta a séra;
dormirò sól sótto la vòlta néra
là, nellʼ avèllo déllʼEscurial.
Sé il sèrto regal a mé désse il potére
di lèggere néi còr, ché Dio può sól vedér!…
Sé dòrme il prènce, véglia il traditóre;
il sèrto pèrde il Ré, il consòrte lʼonóre!
Dormirò sól nél manto mio regal
quando la mia giornata è giunta a séra,
dormirò sól sótto la vòlta néra
là nellʼavèllo déllʼEscurïal.
Aria di Filippo dal 3° atto, scèna prima, del “Dòn Carlo” di G. Vérdi.
Versióne dél 1884. Revisióne dél librétto di Angelo Zanardini.
279
O don fatale, o don crudel
O don fatale, o don crudel
che in suo furor mi fece il cielo!
Tu che ci fai sì vane, altere,
ti maledico, o mia beltà.
Versar, versar sol posso il pianto,
speme non ha, soffrir dovrò;
il mio delitto è orribil tanto
che cancellar mai non potrò!
O mia Regina, io tʼimmolai
al folle error di questo cor.
Solo in un chiostro al mondo ormai
dovrò celar il mio dolor!
Oh ciel! E Carlo! a morte domani andar vedrò!…
Ah! un dì mi resta, la speme mʼarride.
Sia benedetto il ciel! Lo salverò!
Aria di Eboli dal 3° atto di “Don Carlo” di G. Verdi.
280
Ó dón fatale, ó dón crudèl
Ó dón fatale, ó dón crudèl
ché in suo furór mi féce il cièlo!
Tu ché ci fai sì vane, altère,
ti maledico, ó mia beltà.
Versar, versar sól pòsso il pianto,
spème nón ha, soffrir dovrò;
il mio delitto è orribil tanto
ché cancellar mai nón potrò!
Ó mia Regina, io tʼimmolai
al fòlle errór di quésto còr.
Sólo in un chiòstro al móndo ormai
dovrò celar il mio dolór!
Òh cièl! É Carlo! a mòrte domani andar vedrò!…
Ah! un dì mi rèsta, la spème mʼarride.
Sia benedétto il cièl! Ló salverò!
Aria di Èboli dal 3° atto di “Dòn Carlo” di G. Vérdi.
281
Cielo e mar
Cielo e mar!-lʼetereo velo
splende come un santo altare.
Lʼangiol mio verrà dal cielo?!
Lʼangiol mio verrà dal mare?!
Qui lʼattendo, ardente spira
oggi il vento dellʼamor.
Quel mortal che vi sospira
vi conquide, o sogni dʼor!
Cielo e mar!-per lʼaura fonda
non appar né suol, né monte,
lʼorizzonte bacia lʼonda,
lʼonda bacia lʼorizzonte!
Qui nellʼombra ovʼio mi giacio
collʼanelito del cor,
vieni, o donna, vieni al bacio
della vita incantator.
dallʼaria di Enzo dal 2° atto di “La Gioconda” di A.Ponchielli.
Libretto di Tobia Gorrio.
282
Cièlo é mar
Cièlo é mar!-lʼetèreo vélo
splènde cóme un santo altare.
Lʼangiol mio verrà dal cièlo?!
Lʼangiol mio verrà dal mare?!
Qui lʼattèndo, ardènte spira
òggi il vènto déllʼamór.
Quél mortal ché vi sospira
vi conquide, ó sógni dʼòr!
Cièlo é mar!-pér lʼaura fónda
nón appar né suòl, né mónte,
lʼorizzónte bacia lʼónda,
lʼónda bacia lʼoriζζónte!
Qui néllʼómbra óvʼio mi giacio
cóllʼanèlito dél còr,
vièni, ó dònna, vièni al bacio
délla vita incantatór.
dallʼaria di Ènzo dal 2° atto di “La Giocónda” di A.Ponchièlli.
Librétto di Tobia Gorrio.
283
Che gelida manina
Che gelida manina!
se la lasci riscaldar.
Cercar che giova? Al buio non si trova.
Ma per fortuna è una notte di luna,
e qui la luna lʼabbiamo vicina.
Aspetti, signorina,
le dirò con due parole
chi son, che faccio e come vivo. Vuole?
Chi son? Sono un poeta.
Che cosa faccio? Scrivo.
E come vivo? Vivo.
In povertà mia lieta
scialo da gran signore
rime ed inni dʼamore.
Per sogni, per chimere
e per castelli in aria
lʼanima ho milionaria.
Talor dal mio forziere
ruban tutti i gioielli
due ladri: gli occhi belli.
Vʼentrar con voi pur ora,
ed i miei sogni usati
tosto son dileguati.
Ma il furto non mʼaccora,
poiché vi ha preso stanza
la dolce speranza!
Or che mi conoscete,
parlate voi. Chi siete?
Vi piaccia dir?
Aria di Rodolfo dal duetto del 1° atto de “La Bohème” di G. Puccini.
Libretto di L. Illica e G. Giacosa.
284
Ché gèlida manina
Ché gèlida manina!
sé la lasci riscaldar.
Cercar ché giòva? Al buio nón si tròva.
Ma pér fortuna è una nòtte di luna,
é qui la luna lʼabbiamo vicina.
Aspètti, signorina,
lé dirò cón due paròle
chi són, che faccio é cóme vivo. Vuòle?
Chi són? Sóno un poèta.
Ché còsa faccio? Scrivo.
É cóme vivo? Vivo.
In povertà mia lièta
scialo da gran signóre
rime éd inni dʼamóre.
Pér sógni, pér chimère
é pér castèlli in aria
lʼanima hò milionaria.
Talór dal mio forzière
ruban tutti i gioièlli
due ladri: gli òcchi bèlli.
Vʼentrar cón vói pur óra,
éd i mièi sógni ušati
tòsto són dileguati.
Ma il furto nón mʼaccòra,
poiché vi ha préso stanza
la dólce speranza!
Ór ché mi conoscéte,
parlate vói. Chi siète?
Vi piaccia dir?
Aria di Rodòlfo dal duétto del 1° atto dé “La Bohème” di G. Puccini.
Librétto di L. Illica é G. Giacòsa.
285
Sì. Mi chiamano Mimì
Sì.
Mi chiamano Mimì,
ma il mio nome è Lucia.
La storia mia
è breve. A tela o a seta
ricamo in casa e fuori…
Son tranquilla e lieta
ed è mio svago
far gigli e rose.
Mi piaccion quelle cose
che han sì dolce malìa,
che parlano dʼamor, di primavere,
di sogni e di chimere,
quelle cose che han nome poesia…
lei mʼintende? …
Mi chiamano Mimì,
il perché non so.
Sola, mi fo
il pranzo da me stessa.
Non vado sempre a Messa,
ma prego assai il Signore.
Vivo sola, soletta
là in una bianca cameretta:
guardo sui tetti e in cielo;
ma quando vien lo sgelo
il primo sole è mio
il primo bacio dellʼaprile è mio!
Germoglia in un vaso una rosa…
foglia a foglia la spio!
Così gentile
il profumo dʼun fiore!
Ma i fior chʼio faccio, ahimé! non hanno odore.
Altro di me non le saprei narrare.
Sono la sua vicina
che la vien fuori dʼora a importunare.
Aria di Mimì dal duetto del 1° atto de “ La Bohème” di G. Puccini.
Libretto di L. Illica e G. Giacosa.
286
Sì. Mi chiamano Mimì
Sì.
Mi chiamano Mimì,
ma il mio nóme è Lucia.
La stòria mia
è brève. A téla ó a séta
ricamo in casa é fuòri…
Són tranquilla é lièta
éd è mio svago
far gigli é ròše.
Mi piaccion quélle còse
ché han sì dólce malìa,
ché parlano dʼamór, di primavère,
di sógni é di chimère,
quélle còse ché han nóme poešia…
lèi mʼintènde? …
Mi chiamano Mimì,
il perché nón sò.
Sóla, mi fò
il pranζo da mé stéssa.
Nón vado sèmpre a Méssa,
ma prègo assai il Signóre.
Vivo sóla, solétta
là in una bianca camerétta:
guardo sui tétti é in cièlo;
ma quando vièn ló sgèlo
il primo sóle è mio
il primo bacio déllʼaprile è mio!
Germóglia in un vašo una ròša…
fòglia a fòglia la spio!
Così gentile
il profumo dʼun fióre!
Ma i fiór chʼio faccio, ahimé! nón hanno odóre.
Altro di mé nón lé saprèi narrare.
Sóno la sua vicina
ché la vièn fuòri dʼóra a importunare.
Aria di Mimì dal duétto dél 1° atto dé “ La Bohème” di G. Puccini.
Librétto di L. Illica é G. Giacòsa.
287
Recondita armonia
Recondita armonia
di bellezze diverse!…Eʼ bruna Floria,
lʼardente amante mia,
e te, beltade ignota,
cinta di chiome bionde!
Tu azzurro hai lʼocchio,
Tosca ha lʼocchio nero!
Lʼarte nel suo mistero
le diverse bellezze insiem confonde:
ma nel ritrar costei
il mio solo pensiero, Tosca, tu sei!
……………………………………
Qual occhio al mondo
Qual occhio al mondo può star di paro
allʼardente occhio tuo nero?
Eʼ qui che lʼesser mio sʼaffisa intero.
Occhio allʼamor soave, allʼira fiero,
qual altro al mondo può star di paro,
allʼocchio tuo nero?
Arie di Cavaradossi dal 1° atto di “Tosca”di G. Puccini.
Libretto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacosa.
288
Recòndita armonia
Recòndita armonia
di bellézze divèrse!…È bruna Flòria,
lʼardènte amante mia,
é té, beltade ignòta,
cinta di chiòme biónde!
Tu aζζurro hai lʼòcchio,
Tósca ha lʼòcchio néro!
Lʼarte nél suo mistèro
lé divèrse bellézze insièm confónde:
ma nél ritrar costèi
il mio sólo pensièro, Tósca, tu sèi!
……………………………………
Qual òcchio al móndo
Qual òcchio al móndo può star di paro
allʼardènte òcchio tuo néro?
È qui ché lʼèsser mio sʼaffiša intèro.
Òcchio allʼamór soave, allʼira fièro,
qual altro al móndo può star di paro,
allʼòcchio tuo néro?
Arie di Cavaradòssi dal 1° atto di “Tósca”di G. Puccini.
Librétto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacòsa.
289
Vissi dʼarte
Vissi dʼarte, vissi dʼamore,
non feci mai male ad anima viva!
Con man furtiva
quante miserie conobbi, aiutai.
Sempre con feʼ sincera
la mia preghiera
ai santi tabernacoli salì,
sempre con feʼ sincera
diedi fiori agli altar.
Nellʼora del dolore
perché, perché Signore,
perché me ne rimuneri così?
Diedi gioielli
della Madonna al manto,
e diedi il canto
agli astri, al ciel, che ne ridean più belli.
Nellʼora del dolor
perché, perché, Signor,
perché me ne remuneri così?
Aria di Tosca dal 2° atto di “Tosca” di G. Puccini.
Libretto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacosa.
290
Vissi dʼarte
Vissi dʼarte, vissi dʼamóre,
nón féci mai male ad anima viva!
Cón man furtiva
quante mišèrie conóbbi, aiutai.
Sèmpre cón féʼ sincèra
la mia preghièra
ai santi tabernacoli salì,
sèmpre cón féʼ sincèra
dièdi fióri agli altar.
Néllʼóra dél dolóre
perché, perché Signóre,
perché mé né rimuneri così?
Dièdi gioièlli
délla Madònna al manto,
é dièdi il canto
agli astri, al cièl, ché né ridéan più bèlli.
Néllʼóra dél dolór
perché, perché, Signór,
perché mé né remuneri così?
Aria di Tósca dal 2° atto di “Tósca” di G. Puccini.
Librétto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacòsa.
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E lucean le stelle
E lucean le stelle…e olezzava
la terra… stridea lʼuscio
dellʼorto… e un passo sfiorava la rena.
Entrava ella fragrante,
mi cadea tra le braccia.
Oh! dolci baci , o languide carezze,
mentrʼio fremente
le belle forme disciogliea dai veli!
Svanì per sempre il sogno mio dʼamore…
Lʼora è fuggita
e muoio disperato!…
E non ho amato mai tanto la vita!
Aria di Cavaradossi dal 3° atto di “Tosca” di G. Puccini.
Libretto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacosa.
Nessun dorma
Nessun dorma!…Tu pure, o Principessa,
nella tua fredda stanza
guardi le stelle
che tremano dʼamore e di speranza.
Ma il mio mistero è chiuso in me,
il nome mio nessun saprà!
Solo quando la luce splenderà,
su la tua bocca lo dirò, fremente!…
Ed il mio bacio scioglierà il silenzio
che ti fa mia!………….
Dilegua, o notte!…
Tramontate, o stelle…!
Allʼalba vincerò!…..
dallʼaria di Calaf dal 3° atto di “Turandot” di G. Puccini.
Libretto di G. Adami e R. Simoni.
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É lucéan lé stélle
É lucéan lé stélle…é oléζζava
la tèrra… stridéa lʼuscio
déllʼòrto… é un passo sfiorava la réna.
Entrava élla fragrante,
mi cadéa tra lé braccia.
Òh! dólci baci , ó languide carézze,
méntrʼio fremènte
lé bèlle fórme disciogliéa dai véli!
Svanì pér sèmpre il sógno mio dʼamóre…
Lʼóra è fuggita
é muòio disperato!…
É nón hò amato mai tanto la vita!
Aria di Cavaradòssi dal 3° atto di “Tósca” di G. Puccini.
Librétto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacòsa.
Nessun dòrma
Nessun dòrma!…Tu pure, ó Principéssa,
nélla tua frédda stanza
guardi lé stélle
ché trèmano dʼamóre é di speranza.
Ma il mio mistèro è chiuso in mé,
il nóme mio nessun saprà!
Sólo quando la luce splenderà,
su la tua bocca ló dirò, fremènte!…
Éd il mio bacio scioglierà il silènzio
ché ti fa mia!………..
Dilégua, ó nòtte!….
Tramontate, ó stélle!….
Allʼalba vincerò!….
dallʼaria di Calaf dal 3° atto di “Turandòt” di G. Puccini.
Librétto di G. Adami é R. Simóni.
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Finito di stampare nel mese di Novembre 2003
per conto della
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