Untitled - Edizioni Clichy
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Durante un’intervista di Carlo Mazzarella per un documentario della Rai sulla Milano del boom economico, 1963 SORBONNE Sorbonne, l’Università di Parigi, il mito del cambiamento, il maggio incruento di una rivoluzione colorata. Le grandi idee del Novecento in piccoli libri che concentrano l’essenza del pensiero di persone che hanno immaginato altri mondi e prospettive diverse. Ampliando, innovando, spesso ribaltando, le conoscenze o i punti di vista dei contemporanei e delle generazioni successive. Le parole, le derive, i percorsi, le frenate, la corsa. © 2015 Edizioni Clichy - Firenze Edizioni Clichy Via Pietrapiana, 32 50121 - Firenze www.edizioniclichy.it Isbn: 978-88-6799-166-2 Luciano Bianciardi Il precario esistenziale A cura di Gian Paolo Serino Edizioni Clichy Sommario Biografia Il precario esistenziale DI GIAN PAOLO SERINO Parole e Immagini Come si diventa un intellettuale Il lavoro culturale L’integrazione La vita agra «Con TRIBUNA POLITICA nasce la TV del dolore» Il fuorigioco mi sta antipatico Bibliografia essenziale 9 19 45 47 55 61 69 81 89 103 Con il iglio Ettore, nel 1953 Il precario esistenziale DI GIAN PAOLO SERINO «Gli automi vendono e comprano ogni cosa, hanno la pupilla dilatata per via dei colori, della luce, della musica calcolata, non battono più le palpebre, non ti vedono. Io lo dico sempre, metteteci una catasta di libri, e accecati come sono comprerebbero anche quelli». Luciano Bianciardi, La vita agra, 1962 «In Italia stanno impazzendo: Milano di notte sembra un Luna Park, hanno attaccato lumini anche alle palle di Sant’Ambrogio, e la folla compra, compra, compra. Figurati che comprano anche i libri...». Lettera a Mario Terrosi, Milano, 22 dicembre 1962 «La televisione non uccide, certo, ma può fare di peggio. Può imbottire teste, indurre ai consumi e formare opinioni. Perché l’uso della televisione è gratuito. Non si paga. Però si sconta». Carosello a Manhattan, Notizie Letterarie, 1965 19 «Se vogliamo che le cose cambino, inutile occupare le università, occorre occupare le banche e far saltare le televisioni. Non c’è altra possibile soluzione rivoluzionaria». Il Guerin Sportivo, 23 Dicembre 1968 «Essere di sinistra non signiica ormai nulla. Tutti sono di sinistra, dai cattolici ai socialdemocratici, ai socialisti, ai comunisti e a quelli che si dicono con infelice neologismo «extraparlamentari» (come a signiicare che si sono prenotati un posto in parlamento per l’indomani)». Il Guerin Sportivo, 13 Settembre 1971 Il vero dramma di Luciano Bianciardi è di essere più commentato che letto. Ancora oggi molti conoscono La vita agra, ma ben pochi l’hanno letto davvero. Quanti sanno, anche tra lettori e critici letterari, che ad esempio Henry Miller è uno dei personaggi del romanzo? Quanti sanno che «il Torracchione» - che nel romanzo il protagonista vuole abbattere a colpi di dinamite - non è, come quasi tutto sostengono, il Pirellone di Milano, ma la Torre Galfa, sede della Montedison? E quanti sanno perché Luciano Bianciardi vedeva proprio nella Montedison il simbolo di un «boom economico» fasullo e del tutto eime20 ro? Questo non vuole essere un saggio critico su Luciano Bianciardi. E non vuole nemmeno essere un panegirico sullo scrittore che, per primo in Italia, ha compreso, sin dal inire degli anni ’50, che il consumismo di massa era soltanto una chimera. Bianciardi è stato il primo romanziere e saggista, ben prima di Umberto Eco e di Pier Paolo Pasolini, a intuire - e scrivere - come la società dei consumi sia stata soltanto una mera illusione. Oggi ne vediamo, attraverso gli schermi della nostra vita ultrapiatta, le conseguenze. La cementiicazione di quegli anni ha asfaltato non soltanto i nostri cuori, trasformandoci da lettori della vita a «tele-spettatori», ma anche le nostre città, le nostre coste, i nostri migliori panorami. E i risultati li paghiamo ancora oggi: tutto si gretola, tutto sta «franando», tutte quelle luci al neon, tutto il nostro ottimismo si riduce a scempi ambientali ed economici. Non c’è niente da «risanare», come dicono da anni politici di ogni partito, ma è tutto da rifare. Se davvero si vuole il cambiamento. Bianciardi, sin dal 1959, tutto questo lo scrisse. Attraverso i suoi romanzi, i suoi saggi, i suoi articoli, 21 attraverso le sue oltre cento traduzioni dai più importanti scrittori americani. Bianciardi descrisse per primo come in un mondo che continua a progredire nessuno progredisce veramente. Certo le sue lotte - sin dai tempi in cui giovane intellettuale toscano si era inventato il «bibliobus» perché i libri andassero incontro ai lettori più disagiati (i minatori) e non il contrario - le pagò sino all’ultimo. Con la sua «vita agra» di un anarchico che non cedette mai a nessun compromesso. Le pagò sino alla ine. Fino all’ultimo giorno di un’esistenza spesa a cercare di far comprendere come la cultura sia entrare nel tempo senza vendersi ai poteri del tempo. Non accettò mai anche il più redditizio dei compromessi - quelli del Dio Denaro - quando, ad esempio, Indro Montanelli gli ofrì una collaborazione al Corriere della Sera per trecentomila lire al mese (erano gli anni Sessanta. A oggi corrispondono più o meno a cinquemila euro al mese) - ma Bianciardi riiutò. Non perché avesse in antipatia Montanelli (che, anzi, fu il primo a recensire La vita agra proprio sul Corriere), ma aveva il sentore di sentirsi meno libero rispetto agli 22 editoriali che poteva irmare per riviste come ABC, Playmen, Le Ore, Il Guerin Sportivo (ai tempi della direzione di Gianni Brera, altro genio del giornalismo che intuì la grandezza dello scrittore) e altre riviste di certo ben minore importanza. Era fatto così Luciano Bianciardi. Voleva essere coerente con il proprio pensiero - giusto o sbagliato che fosse - ino alla ine. Sin da giovanissimo la sua lotta per la libertà, oggi la chiamiamo «indipendenza», lo portò a scelte scomode, discutibili, forse folli: ma nessuno potrà mai negare a Luciano Bianciardi di essere (stato) un uomo libero. Chi può dire altrettanto? Bianciardi non voleva la rivoluzione, Bianciardi voleva la più grande delle rivolte: la coerenza di ciascuno di noi. Scrisse centinaia di editoriali, articoli, recensioni, ma in realtà ne scrisse una sola: siate coerenti con voi stessi, toglietevi il paraocchi, liberatevi delle comodità che vi inchiodano a una sedia, a una scrivania, ad un televisore e pensate con la vostra testa. In quegli anni di luci colorate, Lambrette, frigidaire, Seicento e ogni nuova scoperta di benessere, fu l’unico a non credere in quei beni di consumo che 23 oggi ci hanno ridotto così: non ad acquistare, ma a essere acquistati, non a consumare, ma a essere consumati. Nemmeno con il successo del romanzo La vita agra, cinquemila copie vendute soltanto la prima settimana, Bianciardi si acquietò. Anzi. Bianciardi visse con amarezza ininita quella fama, alla ine dei conti tanto cercata in tutta la sua vita. Si accorse che nulla era davvero cambiato. Comprese che «il successo è soltanto il passato remoto del verbo succedere». Con quel libro, «la storia di un’incazzatura in prima persona singolare», voleva che anche i lettori s’incazzassero. E invece fu soltanto un «tripudio di applausi». Bianciardi conosceva bene, forse, l’origine della parola «applauso»: l’applauso era l’invenzione che gli antichi usavano per coprire le grida dei lapidati a morte. Bianciardi venne sepolto da decine di migliaia di applausi. Morì a quarantanove anni. Il 14 novembre 1971. Da solo. Non c’è nessuno con lui quella sera, nella sezione D, letto 106, del reparto di Medicina Interna al quinto piano dell’Ospedale San Carlo di Milano. Sono le 21.30 - come riporta la cartella clinica - del 26 24 ottobre 1971. Ci sono solo gli infermieri della Croce Rossa che lo hanno ricoverato d’urgenza trovandolo per strada, in compagnia di un «amico»... in «avanzato stato di coma etilico». Luciano Bianciardi muore dopo 19 giorni di agonia: alle 8.30 del 14 novembre 1971. Al suo funerale ci saranno soltanto quattro persone. Dimenticato da tutti. Rimosso. Anche dagli stessi che lo avevano incensato in vita come in terra. L’anarchico toscano, lo scrittore ribelle che afogava la propria disperata solitudine nel demone della bottiglia, l’intellettuale che si faceva invitare ai cocktail editoriali solo «per mandare afanculo gli ectoplasmi», il giovane che credeva nel potere salviico della lettura tanto da portare ai minatori romanzi e saggi dopo chilometri e chilometri di strada da «maremma», l’editorialista antesignano di tanti apocalittici, ma del tutto integrati, con il cuore a sinistra e il portafoglio a destra, l’uomo che aveva lottato per essere (umano) si era ridotto a un fantasma di se stesso. Era fatto così Bianciardi: aiutò talmente tanto i lettori, da dimenticare di aiutare se stesso. Per fortuna i suoi scritti rimangono, la 25 sua voce è più potente che mai e l’unico favore che possiamo ricambiare è leggere tutti i suoi libri. Libri di Eco Giovedì 16 luglio 1959, dal teatro della Fiera di Milano, Mike Bongiorno con voce rotta dall’emozione presentò l’ ultima puntata di Lascia o raddoppia? Luciano Bianciardi ne scrisse così su L’Avanti! di martedì 28 luglio: «L’altro giovedì, annunciando la ine della sua trasmissione, Mike Bongiorno aveva gli occhi appesantiti e la voce rotta dalla commozione. A guardarlo cinicamente poteva anche far ridere, con quella faccia più pecorile del solito, ma sarebbe stato ingiusto farsi befa di un uomo così onestamente mediocre. Bisogna dire che Mike Bongiorno meritava il successo che ha avuto proprio in virtù del suo schietto, lampante grigiore... Era certamente il più simpatico dei presentatori della televisione: migliore di Mario Riva (troppo ancorato al volemose bene romanesco), migliore di Enzo 26