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Le poetesse romantiche inglesi. Tra identità e genere, a cura di Lilla Maria Crisafulli e Cecilia Pietropoli, Roma, Carocci, 2002, pp. 333. Da ormai molti anni l’attività scientifica del Centro Interdisciplinare di Studi Romantici del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell’Università degli Studi di Bologna è testimoniata dalla pubblicazione di volumi monografici di cui evidente appare il legame con quelle correnti critiche e teoriche di ambito prevalentemente anglo-americano interessate alla revisione e risistematizzazione del canone letterario. Dopo pregevoli studi dedicati alla rivalutazione in ambito italiano di autrici quali Mary Wollstonecraft, Mary Shelley e delle drammaturghe post-illuministe – oggetto ormai da alcuni decenni di accurata indagine al di là della Manica, ma ancora relativamente sconosciute in Italia – appare adesso una presentazione articolata, che aspira ad essere anche rivisitazione storiografica, di un gruppo poliforme di autrici, vissute in Inghilterra ed Irlanda tra la metà del Settecento ed i primi decenni dell’Ottocento, forse troppo semplicisticamente presentate nel titolo del volume come “poetesse romantiche”. La portata del progetto di ricerca è confermata dall’uscita in contemporanea di un florilegio in due volumi dal titolo Antologia delle poetesse romantiche inglesi, anch’esso a cura di Lilla Maria Crisafulli, pubblicato per gli stessi tipi a distanza di pochissimi mesi, opera unica in Italia per la ricchezza dei testi poetici ivi raccolti, tradotti e commentati, accompagnati da una bibliografia esauriente e articolata che si propone come strumento di ricerca conclusivo ed esemplare dello stato attuale degli studi sulla poesia romantica femminile. L’introduzione afferma che “proprio dalla volontà di ridefinire il canone della poesia romantica e di restituire alla produzione femminile lo spazio adeguato nasce il filo conduttore che collega tutti i saggi raccolti nel presente volume” (p. 11), programmaticamente inserito in un dialogo aperto con i numerosi studi revisionisti dedicati alla riproposizione della produzione letteraria femminile del Lungo Settecento inaugurati a fine Anni Ottanta dalla pubblicazione dell’oramai classica antologia Eighteenth-Century Women Poets, curata da Roger Lonsdale. La liminalità del locus romantico femminile suggerita nel titolo del volume – traccia delle complesse negoziazioni, spesso forzose, di cui furono frequentemente oggetto e raramente soggetto le donne è ampiamente indagata nelle sue molteplici sfaccettature nei venti interventi racchiusi nel volume. La topografia poetica romantica è efficacemente analizzata attraverso un’indagine delle metafore spaziali e degli spazi simbolici del femminile (ricorrono non a caso citazioni dalle opere di Kristeva e Bachelard) che contrappongono, sovvertendola, la visione orizzontale a medio raggio tradizionalmente riservata alle donne (il cosiddetto “sublime al femminile”) con quella verticale della pulsione, dell’infinito e dell’egocentrismo, appannaggio del romanticismo cosiddetto alto al maschile. Le metafore geografiche e architettoniche (la casa e il mondo, l’Europa e le colonie, il domestico e l’esotico, come nei componimenti di Felicia Hemans), politiche e ideologiche (l’impegno antischiavista di Hannah More, Ann Yearsley e Amelia Opie, affiancato ancora dalle tematiche patriottiche di Anna Laetitia Barbauld e Felicia Hemans, nonché dalla rilettura degli avvenimenti storici, principalmente rivoluzionari, in un’ottica di sensibilità e domesticità, come in Helen Maria Williams oppure in The Emigrants di Charlotte Smith, 1793, di cui paradigmatica appare in questo senso la lettera dedicatoria), culturali, sociali e, dunque, letterarie affiorano nei diversi interventi, affiancate dal recupero degli spazi psicologici, intellettuali e spirituali della donna. Il luogo della teatralità scelto da Sydney Owenson, Lady Morgan, conosciuta come Glorvina, dal nome della protagonista del suo romanzo The Wild Irish Girl (1806), permette una complessa messinscena del sé che sta alla base di un nascente nazionalismo culturale indipendente. Il nuovo spazio metropolitano di Londra e Birmingham – cantato nella poesia “alta” di Wordsworth e nelle pagine di Thomas De Quincey – è attraversato dallo sguardo di una flâneuse invisibile, come nel titolo del noto studio di Janet Wolff, che la città – segno del moderno e della creazione umana, nella celeberrima definizione di William Cowper - guarda e indaga con la stessa curiosità per the 1 unpoetic meccanico che mostra per gli spazi bucolici della campagna inglese, velocemente trasformati sotto l’impatto di quello che Timothy Webb definisce “il sublime industriale”. Il margine del paratesto è infine la soglia testuale che l’autrice si riserva per dialogare con il suo pubblico, per presentarsi e proiettarsi all’esterno, costruendo di sé un’immagine spesso ansiosa e reticente – intenzionalmente costruita in base agli stessi stilemi di languida sensibilità e femminilità estrema allora alla base dell’opera d’arte femminile - che ricodifica entro i limiti del gender quanto il genre, e la scrittura in generale, infrangono reiteratamente, come bene si illustra in un interessante saggio di Lia Guerra. In quest’ottica particolarmente coraggiosa appare la scelta compiuta da Laura Bandiera di analizzare la figura e l’opera di William Cowper, un autore il cui ibridismo di genere sessuale (un presunto ermafroditismo, in realtà fantasia nevrotica e sintomo di un profondo disagio d’identità, che inscriveva sul suo corpo contemporaneamente maschile e femminile, periferia e centro, secondo le teorie femministe) trova eco in una poetica della domesticità e dell’intimità all’epoca chiaramente codificata al femminile. Esemplare risulta The Task (1785), poemetto celebratorio del lusso della vita privata e dei piaceri della cosiness familiare, in cui l’io poetico, allontanatosi dall’agone della vita produttiva, “è un soggetto che sente le propria identità maschile compromessa dalle sue molte, troppe indulgenze in ciò che – per consenso sociale – maschile non è” (p. 321). Le costrizioni sessuali e culturali del romanticismo si transustanziano tragicamente nell’opera di Cowper, il quale visse come colpa e bruciante mancanza i disvalori di una femminilità discorsiva che venne esperita come patologia. Inevitabile appare dunque la connessione tra spazio e visione, mondo e sguardo su di esso, a cui è implicita la teorizzazione di una gaze, inevitabilmente sessualizzata, che scivola costantemente – come teorizza Crisafulli - dentro e fuori dal testo, tra inclusione ed esclusione, dal centro al margine e viceversa, within e without, riprendendo il titolo del suo intervento. Lo sguardo della donna-poeta - fluido, presente e sfuggente al tempo stesso, in lotta con la fagocitante forza centripeta dell’estetica romantica (maschile) – riguadagna prospettive perdute, “ritorna sul soggetto” di una poesia autoriflessiva, “mette[ndo] a repentaglio una femminilità che non può dirsi” (p. 42). Dagli interventi raccolti nel volume emerge come particolarmente toccante la dimensione psicologica della scrittura femminile, che sente in un modo diverso da quella maschile e che da questa contemporaneamente dis-sente, dimensione ritagliata tra gli interstizi delle molteplici pressioni culturali a cui era sottoposta la donna-poeta coeva, posta, come si accenna nell’introduzione, sulla soglia, tra silenzio ed affermazione, successo letterario e svalutazione postuma, retorica della reticenza e coscienza creativa, tra “l’arco di Ulisse” (sono parole di Charlotte Smith) e la tela di Penolope. L’epitesto letterario del volume di Crisafulli e Pietropoli, costruito volutamente sull’ambigua intersezione delle categorie gender (genere sessuale) e genre (genere letterario), traducibile in italiano con un unico termine dalla inestricabile e provocatoria bisemia, evidenzia una delle direttrici teoriche de Le poetesse romantiche inglesi, bene enucleata nelle parole di Diego Saglia, uno dei collaboratori all’opera, il quale puntualizza come la femminilizzazione sette- ed ottocentesca di taluni generi letterari - stabilita e mantenuta in base a sfere discorsive consolidate e gendered che replicavano in ambito estetico il paradigma delle due sfere sociali di azione - venga costantemente rivisitata e talora apertamente contestata dalle autrici romantiche, siano queste poetesse, drammaturghe ovvero saggiste. Ricorda Saglia come l’intergenericità produttiva romantica, così destabilizzante per le gerarchie estetiche costituite, venga pienamente abbracciata dalle autrici dell’epoca, le quali scelsero di cimentarsi in determinati generi letterari (tradizionalmente maschili), attraverso una messa in discussione del genere sessuale che talvolta comportò catastrofiche conseguenze in termini di ricaduta pubblicitaria, oltre che di reputazione personale e letteraria (fu questo il caso di Anna Laetitia Barbauld e Joanna Baillie). Da qui parte l’esplorazione di Saglia del racconto in versi romantico – forma letteraria ibrida, tradizionalmente associata ai nomi di Walter Scott e Lord Byron, ma frequentata con grande abilità, nonché con un (al tempo) riconosciuto successo, anche da autrici adesso riposizionate al centro del canone poetico 2 coevo, quali Letitia Elizabeth Landon (The Improvvisatrice, 1824), Mary Russell Mitford (Narrative Poems on the Female Character, 1813) e Felicia Hemans (The Abencerrage, 1819). . Gli interventi raccolti in Le poetesse romantiche inglesi, e ancor più l’antologia poetica che si accompagna al volume, rendono chiaro come l’investigazione di alcuni generi letterari romantici quali l’elegia, l’ode, il dramma in versi, l’iscrizione ed il sonetto non possa prescindere dal recupero e dalla rivisitazione operati da alcune poetesse, prime tra tutte Barbauld, Hemans e Smith. Ad esempio gli Elegiac Sonnets (1784), a cui lo stesso Wordsworth plaudì pubblicamente – seppure a distanza di ventisette anni dalla morte di Charlotte Smith, tradendo un’insospettata anxiety of influence che la morte della poetessa riuscì felicemente ad esorcizzare - superarono già le otto edizioni entro la fine del secolo. Feconde occasioni di riflessione sorgono dalle recuperate intersezioni che emergono tra poetica romantica femminile e maschile (Charlotte Smith e William Wordsworth, appunto), nel muto dialogo che salda autrici – adesso misconosciute – del primo Ottocento ai grandi nomi del canone vittoriano e contemporaneo. Nella discussione del frammento In the Manner of the Old Romance di Mary Hays (1793) e del long poem Psyche; or, The Legend of Love dell’irlandese Mary Tighe (1805), Cecilia Pietropoli rintraccia un paradigma cavalleresco femminile che mi sembra anticipare il successivo poemetto The Prince’s Progress di Christina Rossetti - anch’esso una complessa rielaborazione della tradizione poetica cortese. Il modello cavalleresco maschile è femminilizzato e contestato attraverso il rifiuto del finale epitalamico tipico dell’epica - che segna la reificazione della donna-premio della quest maschile - oppure tramite l’esaltazione di un ideale domestico che fortemente contrasta con il destino eroico spettante al guerriero. Le alterne fortune editoriali dietro alla multiforme produzione di Felicia Hemans, reinserita a pieno titolo nel canone romantico solo a partire dalla fondamentale opera di Marlon Ross The Contours of Mascoline Desire: Romanticism and the Rise of Women Poetry (1989) e successivamente dagli studi di Susan Wolfson, indica ancora una volta come le politiche dei curatori possano influenzare decisivamente le fortune di una poetessa, il cui stile, stigmatizzato nel 1873 come female, “with the monotone of mere sex”, da William Michael Rossetti (non nuovo del resto a siffatti arbitri compilativi) in realtà anticipa, talvolta superandolo, il modello drammatico popolarizzato in seguito da Robert Browning (“Properzia Rossi”, 1828, un intenso monologo di cui è protagonista la scultrice bolognese celebrata da Vasari), influenzando inoltre Tennyson nell’elaborazione del tema a lui caro della donna prigioniera, “[whose] mind and constitution gradually sank” (“Arabella Stuart”, 1831). All’esplorazione dei legami tra la scrittura poetica romantica e quella vittoriana è dedicato anche il saggio di Maria Stella, la quale legge con partecipazione le poesie del corpus brontiano – quello che potremmo definire lo spazio del desiderio e del sogno che si apre tra Gondal e le Wuthering Heights -, rintracciandone i nessi con la poetica di Emily Dickinson, Alfred Tennyson e, soprattutto Ted Hughes, il quale in Remains of Helmet (1979) rivive le topografie dello Yorkshire investendole di accorate valenze biografiche. Il paesaggio maestoso e sublime di Brontë è dominato dalla soggettività della donna-poeta, potente creatore della propria opera, come emerge nella prefazione composta da Charlotte per l’edizione postuma del romanzo della sorella, in cui la poetica dell’umile e l’intenso egotismo tipici del romanticismo alto raggiungono vette sublimi, tradizionalmente assai distanti da quelle riservate alla penna femminile: “Wuthering Heights was hewn in a wild workshop, with simple tools, out of homely materials. The statuary found a granite block on a solitary moor: […] he wrought with rude chisel, and from no model but the vision of his meditation.” Non tutti i contributi presentati nella generosa selezione fatta dalle due curatrici raggiungono tuttavia lo stesso auspicato livello. Mentre alcuni autori seguono un impianto scolastico-divulgativo, limitandosi a ripresentare in questa sede teorie e tassonomie critiche maturate altrove o ancora in fase di elaborazione, risulta evidente come altri contributi si segnalino invece per innovatività tematica, spessore critico, rigore metodologico, nonché per l’ampiezza dei riferimenti bibliografici presentati. Interessanti e veramente suggestive appaiono poi le possibilità di ricerca introdotte da 3 taluni saggi, che sembrano tuttavia fermarsi - tra il provocatorio e l’inconsapevole - proprio sul margine di notevoli spunti ulteriori di ricerca. Particolarmente importante potrebbe ad esempio rivelarsi l’indagine a cui fa cenno Serena Baiesi del linguaggio della critica giornalistica coeva (allora quasi esclusivamente maschile) alla scrittura (femminile). Riprendendo il concetto del “gendering of the written discorse” elaborato da Gary Kelly e menzionato da un altro dei collaboratori, Baiesi presenta una silloge critica estratta da alcune riviste dell’epoca (Edinburgh Review, Westminster Review, Quarterly Review, The British Critic) che mette in rilievo la liminalità del discorso critico maschile, costruito sugli incerti e tortuosi equilibri intessuti da frasi concessive, ipotetiche e avversative, i cavallereschi (e sussiegosi) though (“sebbene”) affiancati dai più drastici (e realistici) yet (“tuttavia”) e dai complimenti agghiaccianti che preludono alle educate stroncature. La scrittrice - il cui sesso rappresenta un inamovibile albatros culturale e sociale, tristemente contrastante con le magnanime teorie su authorship e authority, genio e natura di stampo prettamente (alto) romantico – è invitata a inforcare sommessamente “her shagreen spectacles” e “knitting needles”, mentre il benintenzionato opinionista letterario (significativamente anonimo, secondo una consuetudine che si protrasse fino alla metà dell’Ottocento) le ricorda with gusto, anticipando la domanda che si sarebbe posta di lì a poco Elizabeth Barrett Browning: “Though educated women are very conversant with elegant literature, perhaps even more than the majority of men, […] and though the poet is proverbially ‘born, not made’; and though there is nothing in the habits of women which, so much as in the severer occupations of men, should tend to quench the poetical fire, or induce them to resist its inspiration, yet where is the poetess whom even partiality could place in the elevated class to which belong Shakespeare, Spencer, Milton, Dryden, Byron?” In costante revisione di questa tradizione critica (e quindi canonica), obiettivo de Le poetesse romantiche inglesi è ricordare che il luogo della scrittura femminile, collocato forzatamente tra l’anonimato decoroso e la fatica malretribuita, si apre a generi, stili, e spazi “alti” e altri allo stesso tempo. “Poiché alla verità storica possono accedere solo gli uomini, lo spazio della fantasia, ormai denaturato e privato della sua linfa vitale dall’eccessivo uso, resta appannaggio di romanziere e poetesse”, ricorda pertinentemente una delle curatrici del volume. Romance, la fair enchantress a cui si rivolgono sia l’iconoclasta Matthew Gregory Lewis come la conservatrice Ann Radcliffe, non a caso sta alla base del termine “romantico”, appunto. Non solo celle, angoli e soffitte, dunque, ma anche sontuosi palazzi, vedute meravigliose ed infinite camere dell’io, con insospettabile vista sul mondo. Francesca Saggini 4