Localizzazione del capitale in economia aperta e sovranità degli Stati.

Transcript

Localizzazione del capitale in economia aperta e sovranità degli Stati.
Localizzazione del capitale in economia aperta e sovranità degli Stati. Introduzione La tassazione (nonché la regolamentazione) d’impresa in un contesto internazionale è tema di grande importanza ed attualità. Se lasciamo cadere l’ipotesi semplificatrice di economia chiusa, integralmente sovrana rispetto al contesto internazionale, ci troviamo a dover ragionare in un contesto condizionato dove occorre tenere conto di variabili molto più complesse legate a decisioni non integralmente dipendenti dalla volontà degli Stati. Naturalmente diversi quadri di contesto modificano sostanzialmente il grado di sovranità di un paese nel poter deliberare liberamente una politica di tassazione e regolamentazione d’impresa. Tuttavia, è indubbio, che l’esistenza di un contesto internazionale, non può che modificare le modalità di azione di uno Stato rispetto al funzionamento del sistema produttivo. Vediamo in che termini si pone il problema. Il concetto di sovranità economica La sovranità politica di una collettività, espressa in termini moderni dalla sovranità dello Stato, ha un aspetto formale ed un aspetto sostanziale. Dal punto di vista formale è sovrano uno Stato che attraverso una formalizzazione legale si configura come entità indipendente da poteri ad esso esterni nonché come entità dotata di pieni poteri invalicabili entro il proprio territorio. Tale sovranità è un concetto per l’appunto formale, una sovranità di diritto. Tuttavia la sovranità effettiva (sostanziale) di una collettività (e di uno Stato che la rappresenta) la si misura anche attraverso il grado di capacità di controllo sui processi fondamentali della vita sociale, tra i quali un ruolo eminente spetta ai processi economici. Uno Stato può infatti godere di una totale sovranità formale, ma non avere nei fatti la capacità di dirigere la propria vita economica interna, poiché soggiace a forze esterne che lo condizionano fortemente. Parlare di sovranità economica sostanziale da parte di uno Stato implica la possibilità di implementare, sulla base delle scelte e delle preferenze variabili in ogni epoca, politiche fiscali, politiche monetarie, politiche industriali e politiche commerciali sovrane. E’ evidente che in ultima istanza saranno i rapporti di forza internazionali a sancire il grado di libertà economica di uno Stato in relazione ai condizionamenti esterni. Tuttavia, a priori, vi sono condizioni oggettive che possono favorire o sfavorire l’esercizio di una piena sovranità. Liberalizzazione dei movimenti di merci e capitali e sovranità economica Una delle condizioni che a priori determinano il grado di sovranità economica quanto meno potenziale di uno Stato è il livello di liberalizzazione dei movimenti di merci e di capitali verso l’estero. La liberalizzazione dei movimenti di merci e capitali attuata massicciamente negli ultimi tre decenni nei paesi europei e, seppur in misura diversa e variabile da caso a caso, in molti paesi del mondo, ha avuto forti ripercussioni sulla capacità da parte di uno Stato di determinare le proprie scelte fondamentali di politica economica. Le politiche commerciali, ovvero tutte quelle politiche che regolano gli scambi con l’estero possono essere ai due estremi: fortemente protezioniste (limitazione drastica degli scambi con l’estero, fino al limite estremo dell’autarchia) o fortemente liberoscambiste (liberalizzazione piena degli scambi con l’estero con rimozione di qualsiasi dazio doganale e restrizione o vincolo). In linea di massima una linea fortemente liberoscambista tenderà ad esporre gli Stati al totale condizionamento dei mercati internazionali. Ciò non significa a priori che tale condizionamento venga subito passivamente, dipendendo questo dalla forza specifica di ciascun sistema economico, ma sicuramente implica un grado di rilevante interdipendenza. Analizziamo meglio i contenuti di una politica commerciale liberoscambista. In particolare, per liberalizzazione delle merci nei rapporti internazionali si intende la rimozione di ogni ostacolo (dazio doganale, restrizioni etc) alla libera circolazione delle merci tra paesi in entrata e in uscita (importazioni ed esportazioni). Per liberalizzazione dei movimenti di capitale si intende invece l’assenza di restrizioni alla possibilità del capitale monetario detenuto dai soggetti economici (imprese, persone fisiche e giuridiche) di migrare da un paese ad un altro alla ricerca delle migliori condizioni per massimizzare i profitti. Tale situazione implica l’assenza di barriere all’entrata e all’uscita, ovvero la mancanza di normative che disciplinino l’ingresso di capitale straniero e la mancanza di normative e di discipline fiscali (tassazione disincentivante.) che regolino l’uscita di capitali dal proprio paese. La liberalizzazione commerciale internazionale è un argomento di grande rilievo nello studio della tassazione d’impresa all’interno di un contesto globale. Una massima liberalizzazione sia di merci che di capitali implica infatti, a priori, l’impossibilità da parte di uno Stato di poter implementare politiche fiscali, commerciali, industriali e politiche dei redditi pienamente sovrane. Vediamo sinteticamente il motivo analizzando separatamente la liberalizzazione dei movimenti di merci e la liberalizzazione dei movimenti di capitale. La liberalizzazione dei movimenti di merci implica che imprese che operano in contesti normativi nazionali differenti possano vendere merci nel proprio paese di riferimento senza dazi doganali. Tale circostanza implica che, qualora tali imprese abbiano costi di produzione più bassi dovuti a circostanze di natura salariale, fiscale o normativa (non legati cioè ad una maggiore efficienza) possono effettuare una concorrenza “sleale” nei confronti delle imprese che operano nel contesto nazionale. Tale concorrenza potrebbe indurre il legislatore ad adeguare il livello di pressione fiscale e il livello di restrittività delle normative (ambientali e di regolamentazione) agli standard imposti da paesi con normative meno restrittive. Si aprirebbe quindi una concorrenza al ribasso tra i diversi quadri normativi nazionali che tenderebbe ad allentare la tassazione sulle imprese, a rendere più blande le normative sul rispetto dell’ambiente e a produrre una pressione al ribasso sui salari dei lavoratori. Uno stesso effetto, con conseguenze più dirompenti, viene causato dalla liberalizzazione dei movimenti di capitali. In questo caso la corsa al ribasso sulle normative fiscali e sulla regolamentazione delle imprese si avrebbe per il timore che i capitali possano lasciare il paese poiché non hanno alcun vincolo né subiscono alcuna forma di tassazione nel caso di trasferimento in altri paesi con normative più vantaggiose. In questo caso lo stesso risultato che in presenza di liberalizzazione delle merci si verifica indirettamente (per ridare capacità competitiva alle imprese), avrebbe un impatto diretto e di più ampia portata: si tratterebbe infatti di impedire una possibile fuga di capitali che rischierebbe di desertificare industrialmente un paese. Questa corsa al ribasso in un certo senso non apparterebbe più alla sfera decisionale di uno Stato, ma diverrebbe un movimento oggettivo non più controllabile da parte degli Stati che si impone sopra ogni altro tipo di valutazione. Gli effetti distributivi diretti e indiretti interni della liberalizzazione commerciale internazionale Naturalmente gli effetti più drastici della corsa al ribasso cui abbiamo accennato sarebbe di ordine distributivo in termini diretti e indiretti. In primo luogo, la corsa al ribasso sui salari innescata dalla liberalizzazione di merci e capitali, provocherebbe un massiccio spostamento di quote distributive di reddito nazionale dai salari ai profitti, attuando quindi una tendenziale redistribuzione dal basso verso l’alto. In secondo luogo, si avrebbero conseguenze importanti sulla distribuzione dell’onere fiscale sulla collettività. La liberalizzazione tenderebbe infatti ad imporre agli Stati una riduzione del carico fiscale sui soggetti dotati di maggiore capacità di mobilità transfrontaliera. Ovvero vi sarebbe quindi una riduzione della tassazione sulle imprese in generale, ma in particolare sulle società di capitali e sulle attività finanziarie. Sono questi infatti i soggetti (giuridici o fisici) più propensi oggettivamente alla delocalizzazione. Le grandi società di capitale in quanto dotate di solide strutture organizzative, di forte capacità economica e di una tendenziale scissione tra soggetti che lavorano direttamente nell’impresa (legati fisicamente al luogo di produzione) e soggetti proprietari. Le attività finanziarie in quanto capitali puramente monetari capaci di traslare da una nazione ad un’altra con estrema facilità e bassissimi costi di transazione. A fronte di una probabile riduzione della tassazione sulle società di capitali e sulle attività finanziarie, qualora lo Stato volesse mantenere un livello di gettito fiscale invariato, dovrebbe aumentare la tassazione su tutti quei soggetti caratterizzati da un basso rischio di mobilità, ovvero sui lavoratori, dipendenti ed autonomi e sulle piccole imprese. Ciò causerebbe quindi un effetto distributivo ulteriore a sfavore dei meno abbienti. Se invece lo Stato accettasse di subire una riduzione di gettito sarebbe allora costretto a diminuire la spesa pubblica con probabile effetto distributivo comunque regressivo (tenendo conto che i benefici della spesa pubblica, in termini relativi, sono maggiormente indirizzati alla popolazione meno abbiente). In conclusione i probabili effetti distributivi di una liberalizzazione delle merci e dei capitali in presenza di contesti normativi nazionali differenziati (com’ è in effetti nella realtà) avrebbero carattere prevalentemente regressivo. Liberalizzazione commerciale ed efficienza Un altro aspetto da tenere in dovuta considerazione sono gli effetti della liberalizzazione commerciale internazionale sull’efficienza delle imprese. In linea teorica, la liberalizzazione internazionale produce due effetti opposti il cui esito finale è valutabile solo dopo aver analizzato le caratteristiche del contesto internazionale. Vediamo di cosa si tratta. Gli argomenti tradizionali a favore del libero scambio sono proprio relativi ad un presumibile aumento di efficienza dei sistemi produttivi con un guadagno netto a livello del sistema produttivo mondiale nel suo insieme. Ciò sarebbe dovuto a due circostanze: 1-­‐ la prima circostanza concerne un meccanismo tradizionalmente descritto dalla “teoria dei vantaggi comparati” nella sua versione “assoluta” (derivata dall’analisi di Adam Smith) e “relativa” (derivata dall’analisi di David Ricardo). Nella versione smithiana tale teoria afferma che laddove vige la libera concorrenza internazionale un determinato bene verrà prodotto dal paese che deve sopportare i costi di produzione più bassi. Ciascun paese produrrà quindi soltanto i beni per la cui produzione sopporta costi di produzione più bassi. In tal modo si ottimizzerebbe a livello mondiale l’efficienza produttiva minimizzando i costi di produzione internazionali di tutti i beni. Nella sua versione ricardiana (teoria dei vantaggi comparati relativi) la teoria giunge ad un risultato ancora più forte. L’idea è che ogni paese produrrà i beni e servizi per i quali avrà un vantaggio in termini di costi relativo e non assoluto. Ovvero sia, in un mondo semplificato costituito da soli due paesi, se un paese A produce grano ad un costo di produzione unitario pari a 1 per tonnellata e carne ad un costo di produzione unitario pari a 3 per tonnellata e un paese B produce gli stessi due beni ad un costo di produzione rispettivamente pari a 3 e 4 per tonnellata di prodotto, vi sarà convenienza a che il paese A produca esclusivamente grano (poiché su tale produzione detiene un vantaggio pari al doppio rispetto al paese B) e il paese B produca soltanto carne (poiché sebbene abbia uno svantaggio in termini di costi di produzione rispetto ad A tale svantaggio è meno intenso rispetto alla produzione di grano e ciò comporta che al paese A convenga in ogni caso concentrare tutte le proprie risorse nella produzione di grano). Un esempio numerico molto semplice basta per comprendere la logica sottesa a tale teoria. Immaginiamo che i due paesi abbiano risorse produttive (capitale e lavoro) tali da poter permettere una produzione totale di massimo 10 tonnellate di grano e 10 tonnellate di carne. Immaginiamo di seguire la prescrizione logica della teoria dei costi comparati relativa. Stando a tale teoria il paese A dovrebbe produrre solo grano (ovvero quel bene in cui ha il vantaggio produttivo più forte). In tal caso il costo di produzione totale del grano ammonterebbe ad 1x10 = 10. Il paese B produrrebbe a questo punto 10 tonnellate di carne con un relativo costo di produzione pari a 4x10= 30. I costi di produzione totali ammonterebbero a 50. Ora invece ipotizziamo che entrambi i paesi producano un paniere di beni bilanciato (ciascun paese 5+5 di grano e carne). I costi di produzione di A sarebbero uguali a 1*5 + 3*5 = 20 . I costi di produzione di B sarebbero invece: 3*5 + 4*5 = 35. Il totale ammonterebbe a 55, 5 in più rispetto alla situazione precedente. Questo tipo di tendenza alla specializzazione produttiva, conveniente sul piano della riduzione totale dei costi di produzione sarebbe indotto proprio dall’esistenza di una libera concorrenza internazionale. 2-­‐ Una seconda circostanza secondo cui la concorrenza internazionale favorirebbe una maggiore efficienza riguarderebbe la spinta innovativa sulle imprese. A parità di legislazioni fiscali e di normative di regolamentazione nonché a parità di livelli salariali, una maggiore concorrenza internazionale, infatti, potrebbe aumentare l’efficienza delle imprese spingendole ad effettuare innovazioni di processo e di prodotto per sostenere la concorrenza estera. Dando per assunta l’ipotesi (in realtà nei fatti insostenibile) che vi sia una sostanziale omogeneità di legislazioni fiscali e di regolamentazione e di livelli salariali tra gli Stati del mondo, non è comunque affatto scontato a priori che una maggiore concorrenza internazionale produca sempre e comunque una maggiore efficienza delle imprese. Sono molte le circostanze, infatti, in cui politiche protezionistiche possono avere risvolti positivi. Sull’efficienza dinamica delle imprese1, sull’efficienza tecnico –produttiva (laddove vi sia una situazione di monopolio naturale) 2 o nell’evitare concentrazioni monopolistiche internazionali rese proprio possibili dalla liberalizzazione3. In ogni, a priori, una maggior concorrenza internazionale può produrre maggiore efficienza in alcuni settori produttivi solo se la competizione si fonda su vantaggi acquisiti grazie alla riduzione dei costi di produzione effettivi resa possibile dall’innovazione di processo e di prodotto. Se la leva competitiva diventa invece la riduzione dei costi fiscali, salariali e normativi (in una parola i costi extra-­‐produttivi), in presenza di normative nazionali 1 Come vedremo con più attenzione nella parte dedicata alla regolamentazione dei mercati e delle imprese per efficienza dinamica si intende la capacità di un’impresa di innovare (efficienza innovativa) 2 Per la nozione di efficienza tecnica e di monopolio naturale si veda la parte sulla regolamentazione dei mercati e delle imprese 3 Anche sul legame tra liberalizzazione e concentrazione avremo modo di tornare nella parte relativa alla regolamentazione dei mercati eterogenee, è chiaro che non soltanto non si potrà avere alcun aumento di efficienza, ma è probabile che, a livello internazionale, si avrà un effetto di diminuzione complessiva di quest’ultima. Vediamo il perché. In un contesto di competizione sui costi esterni al processo produttivo in senso stretto (che per semplicità definiamo “costi sociali”, dati dalla somma dei costi fiscali, salariali e di regolamentazione) le imprese che godono di contesti normativi più vantaggiosi punteranno a competere facendo leva su vantaggi legati ai minori costi sociali non effettuando quindi alcuno sforzo in direzione di una maggiore efficienza. Tale dinamica peraltro indurrà i legislatori dei paesi caratterizzati da normative più restrittive ad allentare tali normative consentendo così alle imprese di recuperare competitività ancora una volta attraverso la riduzione dei costi extra-­‐produttivi (sociali). Si creerà un effetto domino che progressivamente potrebbe portare ad una drastica diminuzione dell’efficienza di tutte le imprese nel mondo e ad una parallela rincorsa al ribasso delle legislazioni nazionali fiscali, salariali e ambientali. Pertanto, contrariamente a quanto ipotizzato dai sostenitori di una liberalizzazione su vasta scala, che sovente portano come argomento a favore del libero commercio internazionale lo stimolo all’efficienza per le imprese, in un sistema-­‐mondo caratterizzato da legislazioni fiscali e di regolamentazione estremamente eterogenee e da costi del lavoro estremamente eterogenei, vi è un rischio elevato che gli effetti sull’efficienza di una liberalizzazione commerciale internazionale possano essere negativi. Tale rischio è tanto più alto quanto più è forte il divario tra le diverse legislazioni nazionali in tema fiscale, salariale e di regolamentazione. Liberalizzazione degli scambi con l’estero e le disuguaglianze internazionali Altro elemento di riflessione molto importante nella trattazione dei vantaggi-­‐svantaggi del commercio internazionale sono gli effetti sulle disuguaglianze tra paesi nel mondo. Al di là dei problemi legati alle asimmetrie normative e legislative tra le diverse realtà nazionali, infatti, può sorgere, a priori un problema di asimmetrie nei livelli di sviluppo tra i paesi. Secondo la teoria tradizionale, basata come visto sulla teoria dei vantaggi comparati (assoluti e-­‐o relativi) il libero commercio internazionale dovrebbe portare ad aumenti di efficienza produttiva e dunque di benessere e sviluppo per tutti i paesi. Tale riflessione non tiene però conto dei differenziali di sviluppo tra i paesi, ovvero della disuguaglianza internazionale. Vi è un vasto filone di ricerca di economia dello sviluppo (che si è diffuso nella letteratura economica latino americana a partire dagli anni ’70) che analizza l’impatto asimmetrico prodotto dal commercio internazionale. I prodromi di tale dibattito risalgono in realtà al diciannovesimo secolo con l’analisi di Friedrich List in Germana sull’opportunità di adottare una linea di politica commerciale protezionistica per favorire lo sviluppo industriale nascente nel paese in quel periodo storico in contrapposizione al libero scambismo dell’economia politica classica inglese. La tesi di fondo è che il libero scambismo tende a favorire i paesi la cui struttura produttiva e industriale è già sviluppata e forte, in grado cioè di competere in un libero mercato internazionale. I paese più arretrati, invece, non riuscirebbero a sostenere la competizione e andrebbero incontro ad un impoverimento dei propri sistemi produttivi. Le industrie nascenti più deboli, infatti verrebbero spiazzate sul mercato internazionale dalle industrie più sviluppate dei paesi di vecchia industrializzazione, scomparendo poco a poco dal mercato. Tale circostanza favorirebbe un ampliamento della divaricazione già esistente tra i diversi tassi di sviluppo economico e industriale peggiorando le disuguaglianze internazionali. Una linea protezionistica, invece, consentirebbe ai sistemi produttivi nazionali in via di sviluppo, di crescere senza subire un’insostenibile pressione internazionale potendo così nel tempo colmare il divario con i paesi più sviluppati. Dati alla mano, possiamo verificare che in 40 anni di accentuate politiche liberoscambiste nel mondo le disuguaglianze tra paesi anziché ridursi sono sensibilmente aumentate. Ciò non significa che non possano aver giocato un ruolo preminente anche altri fattori, ma sicuramente l’applicazione dei principi del libero scambio non ha favorito una convergenza tra paesi in condizioni di sviluppo differente. La liberalizzazione degli scambi con l’estero. Contesto internazionale e caso europeo. Nella parte delle lezioni relativa all’evoluzione storica della regolamentazione dei mercati approfondiremo nel concreto quali sono state le tappe fondamentali che hanno favorito negli ultimi decenni la transizione da un sistema ad economia parzialmente chiusa (protetta verso l’estero) ad un sistema di economia aperta. Basti per ora ricordare che il processo è avvenuto in maniera graduale, ma drastica nelle sue conseguenze. Per ciò che concerne i paesi europei il cambiamento di contesto si è articolato su due livelli: da un lato una generale integrazione internazionale tra paesi che ha visto l’allentamento del sistema di dazi doganali tra area doganale unica europea e altri paesi, tendenza accelerata con gli accordi commerciali internazionali bilaterali degli anni ’90 e 2000. Attualmente l’area europea è tra le più aperte al commercio internazionale al mondo con una media dei dazi sui prodotti industriali pari all’1,6% e pari al 4% sulle altre tipologie di merci. Da un altro lato, sul piano interno, si è avuto un processo di totale integrazione dei mercati interna all’area UE, avvenuto con la piena liberalizzazione dei movimenti di merci (1968) e capitali (1985-­‐1990) tra i paesi membri. Con l’allargamento dell’Unione (2004-­‐2007), peraltro, l’area di libero scambio è stata ampliata a paesi caratterizzati da normative e legislazioni molto diversi rispetto ai paesi membri di vecchia data. Tale situazione generale ha prodotto nel tempo una drastica erosione di sovranità economica dei paesi i cui elementi più rilevanti consistono proprio in una perdita di sovranità fiscale. In particolare la libera circolazione integrale di capitali all’interno dell’area europea ha prodotto una tendenza molto forte, già prima spiegata, alla riduzione del peso fiscale sui fattori produttivi più mobili a scapito di quelli più rigidi con conseguenze redistributive di carattere regressivo piuttosto importanti. Conclusioni Una linea liberoscambista di politica commerciale implica una drastica riduzione di sovranità economica nazionale poiché impone una competizione tra contesti normativi differenti. Tale competizione può avere effetti distributivi di carattere regressivo diretto e indiretto nonché ripercussioni potenziale negative sull’efficienza delle imprese e dei sistemi produttivi dovute ad una competizione internazionale incentrata sulla riduzione dei costi sociali (a scapito dell’aumento di efficienza produttiva). Una linea almeno parzialmente protezionistica, pur riducendo i vantaggi della specializzazione produttiva favoriti dal libero scambio (ed enfatizzati dalla letteratura tradizionale), può favorire il mantenimento di forme di sovranità economica sostanziale da parte degli Stati, ridurre gli effetti distributivi regressivi del liberoscambismo e favorire, per i paesi a struttura industriale più arretrata, uno sviluppo endogeno che la libera competizione internazionale rischierebbe di minare all’origine.