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Caleidoscopi
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Questo libro è un’opera di pura fantasia. Ogni riferimento
a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente
casuale.
©Copyright 2015 – Splēn edizioni
Tutti i diritti riservati
www.splen.it
ISBN 978-88-99268-02-2
antonio ciraVoLo
UN CERCHIO NEL BUIO
Parte prima
Sogni
La Virna scalza
Ho sognato Alberto Castagna. Non ci crederete ma vi
prego di sforzarvi. Non so neanche quando è successo,
che l’ho sognato dico. M’è venuto fuori un ricordo come il
rigurgito dello scarico. Su per non so dove fino al cervello
e bum!
Il fatto è che stavo seduto sul bus, quando m’è arrivata
quest’immagine, e poi un’altra, e un’altra ancora e poi, le
une alle altre si sono unite e adesso tutto è chiaro e lineare
come se lo stessi vivendo. È andata così, proprio così.
Sono in macchina, ma non è la mia, per forza, io non
ho macchina (quindi potrebbe essere la mia futura macchina), ok. Sono seduto sulla mia fottuta futura macchina.
Non chiedetemi il modello perché io sto dentro, e da dentro non la riconosco, state attenti. Comunque sono fermo
in coda, anche se davanti a me non c’è nessuno, e manco
dietro. Una strada vuota ed io, in coda senza la coda. Ma
non sono nervoso, pare che stia aspettando qualcosa che
si muove (ma metti la prima e vai, cazzone!) e invece no.
Sono fermo e con il motore acceso. Ad un tratto bussano
sul parabrezza. E già sto per dire “No, grazie, è pulito”
e tutte quelle stronzate lì di circostanza antirazzista che,
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Un cerchio nel buio
pazzesco, mi raggiungono anche in sogno, io lo so che li
manderei a fanculo, ma la società mi ha plagiato l’istinto,
quindi reagisco di conseguenza.
Quindi ’sto ticchettio al vetro. Di là dal parabrezza c’è
quel faccione baffuto di Stranamore. C’ha pure il berretto
del capitano del tonno Nostromo (o solo quello della Findus era capitano, quello del tonno era un marinaio, forse
mozzo per quanto ricordo), ma comunque. Fatto sta che c’è
Alberto Castagna che bussa al mio parabrezza. E sorride.
Porta un giubbotto di pelle marrone, il solito berretto blu di
lana calato fino alle sopracciglia e poi più sotto brillano quei
due occhi azzurri, forse da qualche parte nel cielo mancano
’sti due pezzi di puzzle. Ma che cacchio dico? Comunque io
lo riconosco subito (ma non era morto?), scendo dalla macchina senza stupore, paura o che so io. Scendo e lo saluto.
– Albè, e che ci fai qua?
– Io? Io ci passo ogni mattina, per andare a lavoro. Tu
come stai?
È strano, lui me lo chiede come se non ci vedessimo da
tanto, e io gli rispondo come se nessuno me lo chiedesse da
altrettanto tempo.
– Bene. Sto bene – gli dico. Ma anche in sogno io ho l’istinto di cui mi vanto tanto, la società mi ha plagiato anche
l’autostima (devi sentirti il meglio per ottenere il massimo,
’ste cazzate qua). Comunque lo sgamo subito.
– Ma che sogno sto facendo? Di tutti quelli che mi posso
sognare, belle donne eccetera, mi sogno te?
Lo dico ridendo perché credo di ricordare il suo senso
dell’umorismo, non mi vorrei sbagliare. Lui sorride.
– Vacci piano con le ipotesi, che è questa fretta. Ma dimmi un po’, come ti senti?
– Bene, cioè non è che poi mi senta in qualche modo a
dire il vero, quindi sì, credo che per la prima volta posso
dire di stare bene, come dato di fatto, e basta.
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La Virna scalza
Lui mi prende il braccio e me lo infila nel suo irrigidito nella manica del giubbotto. Cammino a braccetto con
Alberto Castagna in un posto non precisato. Ah, la strada
dove ci troviamo è una normalissima strada asfaltata con
qualche casupola stile anni Sessanta in America. Che so io,
ambientazione tipo Edward mani di forbice o A Serious Man,
ma con meno colori. Ad ogni modo, lasciamo la mia fottutissima futura macchina in mezzo alla strada.
– Lasciala pure, tanto non partirà mai. – dice lui – Andiamo con il mio.
Giriamo alla seconda traversa a destra e, posteggiato con
due ruote sul marciapiede, ci sta il camper, quello bianco
famoso, con la scritta Stranamore sulla fiancata.
– Albè – gli dico – ma vai in giro ancora con il camperone?
– E che ci vuoi fare, sono un sentimentale, ci sono affezionato.
Saliamo, Alberto Castagna si siede al posto di guida, io
in quello del passeggero. Mi volto verso l’interno di questo
bus in miniatura e comincio a osservare con una strana
curiosità ogni dettaglio. Sembra il mio appartamento. Anzi,
è il mio appartamento. C’è il divano-letto marrone di finta
pelle che ho fottuto a mia nonna, la lampada, quella che si
accende toccandola, il tappeto a cerchi arancioni e rossi, ci
stanno pure le mie ciabatte vicino al vaso blu di mia madre.
È in tutto e per tutto il mio fottutissimo monovano su
quattro ruote.
– È per metterti a tuo agio. Cerca di rilassarti adesso e di
goderti il viaggio.
– Viaggio? E dove dobbiamo andare?
Non lo dico spaventato o incuriosito, lo dico senza emozione, come se la mia domanda fosse pura retorica. E infatti Alberto non risponde, accende il motore del camper e
dall’autoradio parte la musica.
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Un cerchio nel buio
Lo sapevo, dovevo aspettarmelo. In fondo i sogni sono il
regno dei cliché. E vabbè, rilassiamoci con All You Need Is
Love... love... love... love...
Mentre la musica scivola come l’olio Alberto guida, lo fa
con la mano destra abbronzata poggiata sul cambio. Non si
volta verso di me, mi butta ogni tanto un’occhiata di coda.
– E allora bello mio, come vanno le tue mani?
– Okkei – dico – certo, se smettessi di grattugiarmele con
i denti esteticamente andrebbe meglio, perlomeno le donne
si schiferebbero di meno a farsi toccare.
– Certo è un vero peccato, dice lui, ma comunque perlomeno tu sai come usarle.
– In che senso?
– Il piano, – dice Alberto – ti ascolto ogni tanto. Non hai
niente di speciale, ma quelle mani scassate, caro mio, sono
il tuo dono al mondo.
È strano, m’aspettavo che citasse in qualche modo Dio
o un accenno divino per calarci meglio nella mistica del
momento, e invece no. Dice che io ho qualcosa da dare
al mondo. “Dev’essere quella tipologia di sogni assemblati
dall’inconscio per instillare autostima quando se ne va in
riserva. Spia rossa lampeggiante, rischio depressione, SOS
o qua finiamo tutti al camposanto. Fico” penso.
– Ma non credo che la mia musica sia speciale, è solo che
non so fare altro e quindi faccio questo.
“La tattica della falsa modestia s’è impossessata anche dei
miei sogni, della mia anima, chissà se funziona anche qua”
penso.
– No, dice lui, qui non serve.
Oh cazzo, mi legge in testa.
– Non me ne faccio nulla dei buoni propositi, non sei qui
per te.
– Come no. È il mio sogno, che faccio, mi subaffitto anche l’immaginazione?
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La Virna scalza
Alberto ride. Uguale uguale alla risata della televisione,
rido anch’io.
– No, – dice lui – ancora stai a pensare al sogno, non so
cos’è ma non è un sogno canonico.
– Bene – dico io – se non sai manco tu cos’è stiamo messi bene. Almeno sai dove mi stai portando?
– So solo questo – dice Alberto Castagna.
La strada, per farvi capire, è una di quelle di montagna,
tutte curve, col dirupo che si scorge subito sotto al finestrino. Noi scendiamo per una vena asfaltata con John Lennon che continua a coprirci il suono dell’aria, qualora ce ne
fosse uno. All’orizzonte il mare. Noi gli andiamo incontro.
– E tu, come ti senti? – dico.
– Sono morto, non mi sento.
– Certo, anche questo è vero, scusami ma mi trovo un
po’ a corto di argomenti, che ti chiedono di solito?
– Ma le solite cazzate. Cosa c’è dopo, Dio esiste, cosa ci
faccio qui e bla bla bla.
Dicendo così mi brucia tutti gli spunti di conversazione,
poi penso che abbia appena letto le domande direttamente dai miei pensieri e mi sento usurpato. Lui legge anche
questo.
– Scusami, non lo faccio apposta, provo a sforzarmi e
faccio finta di non sentire.
– Ti ringrazio. Gentilissimo.
La radio si spegne da sola.
– Siamo arrivati – dice Alberto.
Accosta dietro una grossa casa abusiva (sicuro) a strapiombo sul mare.
– Sì, condonano anche qua – dice lui.
– E allora ha ragione quello laggiù a sentirsi Dio.
Alberto ride, anche io. Apro la portiera.
Incredibilmente una volta sceso s’è fatto buio. La strada
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Un cerchio nel buio
non è illuminata. Solo da una finestra della casa arriva una
luce fioca. Da lontano, dal mare, sembra partire un cono
bianco a intermittenza, un faro. L’aria è di quelle di fine
estate, più pulita del solito, con il solo scroscio delle onde a
farle compagnia. Alberto mi si avvicina e mi tocca delicatamente la spalla. Non è uno spettacolo? – dice.
– Sì, davvero bellissimo.
Con passo lento Alberto prende un piccolo sentiero che
costeggia il giardino della casa, io lo seguo. Passiamo davanti a un enorme cancello di ferro. Sembra che ci stiamo
allontanando dalla casa. Camminiamo e la luce della finestra si stringe in un punto. Alberto si ferma e aspetta. Io lo
raggiungo. Lui si appoggia a un albero.
– Siediti – mi dice.
Io mi guardo in giro e noto una piccola panca di legno
vicino a un immenso ammasso di foglie. Sono foglie verdi,
non secche. Come se in questo posto cadessero dagli alberi
prima di morire. Mi siedo. Alberto Parla.
– La vedi quella casa? Ecco perché sei qui.
Io non capisco. Ma non dico nulla. Aspetto che cominci
la sua storia. Mi aspetto una storia.
– In quella casa vive Virna. Virna è un’anziana signora. E
intendo una signora vera, di quelle che al giorno d’oggi voi
vi sognate. Virna ha sempre combattuto per vivere la vita
che fino ad ora ha vissuto. Sin da bambina, quando giocava
in questo giardino enorme, quando rincorreva sua sorella in mezzo a questi alberi, Virna ha avuto le idee chiare
in testa. Voleva studiare, e studiò. Voleva un uomo, il suo
uomo, con cui costruire una bella famiglia. E ottenne tutto.
Ha sacrificato gran parte del suo tempo per rendere felici
coloro che le stavano accanto. E oggi tutto questo si è realizzato. Ha avuto due figli, Virna. Lasciati andare quando
forse loro non erano ancora in grado di camminare. Ma
non s’è mai persa d’animo. Ha sempre affrontato con il
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La Virna scalza
sorriso tutto e la vita ha ricambiato. Virna diceva sempre
che le piaceva vivere, sentiva la musica della vita, lei ci danzava sulla vita. I suoi figli oggi sono lontani e, in un modo
o nell’altro, anche loro hanno cominciato a costruire il loro
futuro. Virna ha amato, ha amato incondizionatamente la
sua vita e tutto quello che lei ci aveva messo dentro. Costruiva e amava ciò che costruiva. Un’artista che ha sempre
visto la vita come un’opera d’arte, la sua. In questa casa
ha vissuto tutto, ha cresciuto i suoi figli e ha accudito suo
marito. Fino alla fine. È morto due mesi fa. E da allora Virna vive chiusa tra queste mura enormi e sazie. Con quella
luce sempre accesa. Passa le sue giornate ad accarezzare le
foto di suo marito e quelle dei suoi figli. Senza una lacrima.
Cosparsa di rimpianti. Nessuno la vedrà mai sconfitta a
parte se stessa. Lei non vorrà mai cercare la compagnia
compassionevole di qualcuno. Non ne ha bisogno. Adesso
Virna ha la consapevolezza che il suo cammino lo ha già
percorso. Aspetta solo di andarsene scalza e in punta di
piedi, come ha sempre vissuto.
Alberto fa un sospiro. Io rimango in silenzio. Mi fa un
segno con la mano. Guarda, mi dice. Lo raggiungo. Lui mi
indica la finestra. Vedo Virna. Il viso spigoloso scalfito dal
tempo. Gli occhi, anche da questa distanza, sono grandi
e consapevoli. Colmi. Porta una camicia da notte blu. I
capelli tirati indietro. Ha un non so che di eterno quella
donna. È bellissima. Una bellezza senza tempo. Dal faro
arriva il fascio luminoso e intermittente. Illumina a tratti il
terrazzo della casa affacciato sul mare. Per qualche minuto
restiamo in silenzio. Poi Alberto dice. Ecco perché sei qui.
Mi guarda sorridendo. Ad un tratto una folata di vento mi
scombina i capelli, lui continua a sorridere sostenendo i
suoi folti baffi marrone. Il vento s’alza ancora. Le foglie,
quelle verdi raccolte in mucchio, cominciano a disperdersi.
È aria piacevole che non mi scuote, che mi purifica, che
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Un cerchio nel buio
mi ispira. Ecco, dice Alberto. È quello che ti serve. Falla
ballare ancora un po’ sulla vita.
Mi volto. Il vento improvvisamente s’è placato. Al posto
del mucchio di foglie adesso ci sono un pianoforte e un
sgabello. È il mio piano. Mi viene in mente adesso che era
l’unica mancanza nel camper nella ricostruzione del mio
appartamento. Rimango muto a osservarlo. L’aria è ferma.
Il vento ha spazzato via anche le nuvole. La luna schiarisce
tutto con il suo velo. Noi ne veniamo avvolti.
Non so cosa suonare. Adesso davvero, non riesco a pensare a cosa suonare. Alberto mi accompagna fino al piano.
– Non devi pensare, suona. Suona per lei.
Annuisco. Mi siedo, accarezzo il piano. Riaccolgo il mio
fratellino da muro anche qui, in questo giardino fiorito
chissà su quale terra. Saluto il mio strumento, ingraziandomi la sua benevolenza. Aspetto che sia lui a darmi il suo
prezioso suggerimento. Una nota. La prima nota sussurrata come un bisbiglio tra i banchi di scuola. E poi andrò da
solo. Dammi una nota fratellino. La mia mano sinistra si
ferma su un fa. Il tasto scende giù, il martello pizzica la corda ed ecco la mia nota. Comincio a suonare. Una musica
mai suonata. La suono per Virna. I tasti mi scivolano sotto
le dita. Le mie dita grattugiate. Ma non importa. La melodia avvolge tutto. È una musica leggera, come l’aria, mi
viene di suonarla così. Con rispetto. Spero che queste note
le arrivino comunque. Spero che scivolino fino a Virna. La
finestra della terrazza si apre. Mentre continuo a corteggiare la mia melodia, vedo Virna uscire. Cammina lentamente,
con i suoi piedi nudi. Guarda il mare, guarda lontano fino a
dove il mare arriva. Io lascio che sia lei adesso a guidare le
mie mani. Lascio che lei mi suggerisca la sua musica. Virna arriva fino alla ringhiera, la stringe e tira un po’ la testa
indietro. Occhi chiusi. Respira il tuo mare Virna, respira
la tua musica. Virna sembra sentirla, sembra volerla acco12
La Virna scalza
gliere. Si porta le mani sulle spalle. La testa piegata da un
lato. Si abbraccia. E lentamente, Virna, comincia a danzare.
È un ballo lento. Accennato. Un tango sopito. I suoi piedi nudi scivolano senza scosse. Virna danza. Una guancia
poggiata sul dorso di una mano. Gli occhi chiusi. Virna sta
abbracciando tutta la sua vita, la sta corteggiando e ringraziando. Virna danza. E mentre lo fa si tiene al petto tutto
quello che da quel petto è nato. Riporta tutto a casa, tutto
con sé. Io continuo a farmi guidare da lei, aspetto il cadere
delle sue oscillazioni per far loro compagnia con una nota,
con un accordo. Osservo i contorni del suo profilo. La luce
del faro le passa addosso con delicatezza, e poi va via. Lascio andare tre note di seguito, come a volerla accarezzare
da qui. Coccolo questa donna anziana come volessi cullare
una vita intera. La sento mia, e come tutto quello che è
stato suo, anche io mi lascio abbracciare da lei.
Sento il suo calore, la sua pelle grinza e profumata. Sento
il suo respiro placido, di febbre passata. Sento le sue dita
accarezzarmi i capelli, il suo corpo lungo scaldarmi sotto le
lenzuola. Sento i suoi passi mentre dormo, la coperta sotto
il mento. Sento i suoi baci, la sua saliva. Sento la sua ninna nanna. La spugna passata sul petto. La schiuma. Il suo
seno, quel caldo soffice di ritorno a casa. Sento i sussulti
del suo pianto, le lacrime sulle labbra. Le sue labbra. Sono
parte del suo mondo adesso. Partorito su quel terrazzo.
Immerso in una melodia. Metto i miei piccoli piedi scalzi
sui suoi. Danzo con te, non ti lascio sola. Stanotte, danzo
con te.
Scendo dal mio autobus con un viso e un ammasso di
note che ho paura di dimenticare. Corro verso casa canticchiando il mio motivetto. Non lo perdere, non lasciarlo
andare. Infilo a forza la chiave nella toppa. Lascio cadere
borsa e cappotto a terra. Mi siedo al piano, comincio a
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Un cerchio nel buio
suonare. Voglio ricordare ogni nota, voglio scrivere il tuo
pezzo, Virna. Chiunque tu sia, ovunque tu stia danzando.
Annoto, cancello, semino polvere di gomma sui tasti.
Chiudo gli occhi per ricordarmi di te, Virna, un’immagine, tu. Fuori il buio è ancora più buio, ma io continuo.
Dormirò quando tutto sarà finito, quando sarai stanca di
danzare. T’aspetto.
Mi sveglio con un rivolo di bava impastata sul mento.
L’alito bollente. Non ricordo quando sono finito sul divano. Non ricordo d’essermi alzato. Non ricordo d’essermi
coricato. Riprendo contatto con mani, naso, piedi e cuscini, sparsi un po’ qua e un po’ là. C’è un tappeto di fogli
sparpagliato per terra. La mia musica, la sua. Cerco l’ultimo. Perché voglio capire che tutto è andato come doveva.
Lo vedo. Il mio pezzo è finito. Prima di tutto, di caffè e
dentifricio, di acqua e mutande pulite, prima di rendermi
conto di che ore sono, prima penso a lei. Prendo il cellulare, chiamo Andrea, il mio produttore.
– Ma sai che ore sono? – dice lui.
– Non me ne frega un cazzo Andrea. Ho il pezzo. Sono
da te fra dieci minuti. Chiudo.
Da quei dieci minuti sono passati quattro anni. E da allora non ho più smesso di scrivere. Adesso compongo colonne sonore. Ho un contratto che quattro anni fa non
sarei neanche riuscito ad immaginare. Le mie dita stanno
cominciando lentamente a guarire. Rimangono ammaccate, ma non sanguinano più, anche loro hanno trovato un
po’ di pace. Il mio monovano ancora non lo lascio. È rimasto tutto intatto. Ho comprato una macchina, però, e
ho scoperto che la strada è un’enorme fonte di musica.
Sarà l’artificialità del movimento, delle luci. Il rumore del
copertone che digrigna sull’asfalto o, forse ancor di più, la
purezza del suono della musica al suo interno. Una nota
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La Virna scalza
dopo un’altra, mai uguale alla precedente, davanti a un cespuglio, a un paesaggio sempre diverso dall’ultimo. Spesso
mi succede di desiderare di perdermi, e lo faccio. Salgo in
macchina, e vado. Senza sapere dove, senza sapere come e
quando tornerò. So solo che al mio ritorno avrò un mucchio di note da riassettare come calzini nel giusto cassetto.
L’ordine ha l’unica utilità di renderci edotti su ciò che non
vorremmo mai perdere.
Negli ultimi tempi penso sempre meno a Virna, non la
ricordo quasi più. È strano quanto ti possa mancare una
donna che non hai mai conosciuto, una donna che, per
quanto ne so, potrebbe anche non essere mai esistita. Non
ho mai raccontato a nessuno questa storia, anche se tutti
l’hanno ascoltata inconsapevolmente.
Spesso torno a casa sfinito, il piano alcune volte vorrei
non trovarlo neanche qui. È come una moglie vogliosa che
m’aspetta ogni sera per ricevere la mia passione e la mia
frustrazione. E io, talvolta, proprio non ce la faccio. Potrei
fare tutto, ma non suonare. Ma in fondo è una bella relazione, con il mio strumento, dico. La cosa bella è che un
piano, a differenza di una donna, ti perdona sempre.
Stasera, per esempio, ho solo voglia di pizza, birra e un
bel film. Ho mal di piedi, di testa, mi sa anche di naso. Mi
duole qualunque cosa sporga per più di un centimetro da
me (be’, quasi tutto). Sprofondo nel mio divano, davanti
alla mia tv. Mi addormento quasi subito. Un sonno profondo.
Mi risveglio di soprassalto. Sono le quattro del mattino.
Il sonno m’ha lasciato improvvisamente. Il film alla tv è
finito, non ricordo neanche di cosa parlava. Faccio un po’
di zapping mentre gli occhi si riprendono dal loro passato
torpore. Cerco un canale musicale, cerco un film di quelli
sporcaccioni un po’ vintage. Invece la mia attenzione si
ferma su un programma che raccoglie spezzoni di vecchie
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Un cerchio nel buio
trasmissioni. C’è una simpatica gag di Verdone, dei primi
Ottanta. Incrocio le braccia e mi rilasso. Lo sketch finisce.
Stacchetto del programma. E poi spunta lui.
Alberto Castagna. Mi scappa un sorriso come lo stimolo
della pipì. Lo ritrovo dopo tutti questi anni con il suo berretto di lana blu, i suoi occhi, pezzi dello stesso puzzle, e
con i suoi baffoni a incorniciare un sorriso. Alberto manda
un servizio di Stranamore, risento la sua voce e mi coglie
una profumata malinconia. Mi manca un po’ anche lui. La
sua immagine si perde ma il sorriso mi resta stampato in
viso. Mi cosparge di nostalgia e vitalità. Ho bisogno di aria.
Voglio un po’ d’aria fresca.
Cerco le chiavi della macchina nel mio giubbotto e vado.
Vado a perdermi.
Esco dalla città e imbocco la nazionale.
È quasi l’alba e la mia macchina mi ha portato fino a
uno slargo, una piccola villa con panche e alberi. C’è anche
uno scivolo. C’è la pace dei luoghi per bambini quando i
bambini riposano. È una pace carica di quiete ancestrale,
un luogo che sospira per godersi la tregua dalla gioia. Sono
seduto su una di queste panche di legno macero d’umido.
Il sedere sullo schienale e i piedi sulla seduta. Posizione da
giovane. Ammiro lo scorcio che i rami mi regalano. Quella
palla rossa lontana che sale dal mare. Penso a Virna, adesso, alla musica che ho composto per lei. Ne ho voglia, ne
canticchio il motivetto. Vorrei incontrarla davvero, farmi
ispirare ancora. Dalla sua camicia da notte blu, scrivere ancora una danza per lei, non lasciarla sola ancora per un po’.
Il sole è già alto, mi viene fame e voglia di caffè. Risalgo
in macchina. Cerco un cd nel contenitore sotto il sedile.
Guido. Vado avanti o torno indietro, non so. Mi sono perso, finalmente. Tra le mani mi cade il cd del promo del pezzo scritto per Virna. Perché no, mi dico. Riparte la musica,
quelle note, spalmate sull’asfalto. L’aria entra dal finestrino
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La Virna scalza
e porta con sé l’odore della salsedine. Scendo costeggiando gli alberi di questa strada deserta. Vado giù infilando
curve, crune d’ago. Inforco gli occhiali da sole, picchetto
il volante con le dita tenendo il tempo, quello che lei ha
lasciato. C’è una macchina posteggiata davanti ad un cancello di ferro, un cancello enorme. Schivo la macchina con
distrazione. Passo davanti alla casa.
Esiste una memoria fotografica di tipo ecoico. Qualcosa
a cui si deve lasciare il tempo per ricomporsi. E poi trovare il tempo giusto per incasellarla, per dare un senso a
quell’immagine. Tutto mi si ricompone in mente a circa
trecento metri dalla casa. Quella casa. Mi fermo, non ingrano la retromarcia per tornare indietro. Spengo il motore.
Scendo con paura e un po’ di incredulità. Lascio i miei passi dietro di me, a far compagnia alla musica che arriva dal
mio stereo. Lo sportello aperto. Sento schiamazzi e risate
piccole, il suono dei bambini con il fiato corto, quello del
nascondino, di acchiapparella. Mi avvicino come si avvicinerebbe un anziano sacerdote alla sua prima parrocchia.
Tenendo con difficoltà a bada la valanga di odori, di immagini e suoni che vengono da chissà quale tempo. Le urla si
fanno più nette. Piccole urla.
– Tanto non lo troviii... Nonna, nonna, Simonetta mi nasconde Jojo.
Nascosto dietro il cancello, scostando leggermente un
cespuglio vedo due bambine che si rincorrono sul prato.
Dietro le loro spalle il terrazzo dove Virna ha danzato. Un
brivido mi si blocca nelle vene del collo. Gli occhi mi bruciano. Spio questo scorcio di sogno con timido rispetto.
Nella mia gola si forma una patina secca come se avessi
viaggiato con la testa fuori dal finestrino e la bocca aperta.
Osservo quei movimenti rapidi perché fatti da gambe corte, da piedi piccoli. Passi che mancano l’uno all’altro, passi
nuovi nel mondo, che vogliono ancora stare vicini per non
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Un cerchio nel buio
sentirsi soli. Per saper tornare a casa. Le mani mi sudano,
sono calde. Mi sento catapultato senza preavviso in uno
scorcio di vita che non credevo nemmeno di aver mai vissuto davvero. Ho bisogno di una spinta, di coraggio. Lo
prendo in un sospiro e lo tengo stretto. Esco allo scoperto.
– Ciao – dico.
Una delle due bambine, la più grande, avrà circa otto
anni, si ferma. Mi guarda portandosi la mano a fare ombra
sugli occhi.
– Ciao – mi dice.
L’altra bambina, forse spaventata, corre dentro casa.
– State giocando? – chiedo.
– Sì – lo dice con titubanza (non parlare con gli sconosciuti, non dar loro confidenza).
– Siete sole in casa?
– No. – dice lei – C’è la nonna.
Immagino il viso di Virna che sguscia da quelle pareti
e viene da me, con l’espressione curiosa di chi non mi ha
mai visto. Ma che dovrei dirle? “Salve, lei non mi conosce,
ma io conosco lei, più che altro m’è apparsa in sogno, e
non era proprio un sogno, diciamo che mi ha portato qui
Alberto Castagna, sì, quello morto. Mi avrebbe chiesto di
scrivere una melodia per lei. Sì, sono un musicista. E io
l’ho scritta sa? Ha avuto anche un discreto successo. Le va
di sentirla?”
E chi me la leva una denuncia. Per cosa? Ma che ne so!
Io mi denuncerei. Mentre sto per battere in ritirata e congedarmi dalla mia piccola interlocutrice l’altra bambina tira
a forza una grossa mano da dentro casa.
– Che c’è amore? Dove mi porti?
La voce è rauca, profonda. Ma calda. La piccola mano
quasi si perde tra le dita enormi della signora che sta trascinando. Esce una figura massiccia, una donna prorompente, con dei seni che hanno allattato decine di figli. Ha il
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La Virna scalza
viso tondo, le gote rosse, il naso a punta. Ha i capelli tirati
indietro, e forse questa è l’unica analogia con il ricordo di
Virna che per tutto questo tempo ho serbato. L’anziana
signora mi guarda, sorride una semiluna.
– Prego, ha bisogno di qualcosa?
Io rimango zitto per un paio di secondi. Non so se sono
più imbarazzato o deluso. Non so. La donna si avvicina
trascinandosi all’interno di un grembiule che pare un lenzuolo sui suoi sandali, la bambina sempre stretta in una
mano. Cerco di improvvisare.
– Mi scusi tanto ma non c’è nessuno in giro e non sapevo
a chi chiedere. Mi sono perso e dovrei riprendere la nazionale, non potrebbe per caso darmi una mano?
La vecchia signora sorride. Si passa la mano libera a stendere il grembiule.
– Sì, capita spesso, non è difficile però dovrebbe tornare
indietro per circa quattro chilometri.
Mentre cerco di scorgere qualche somiglianza tra Virna
e la donna che mi sta dando queste indicazioni, la bambina
continua con poca convinzione a strattonare la nonna per
la mano.
– Nonna, Simonetta non vuole tornarmi Jojo.
– Aspetta amore, non vedi che sto parlando con il signore?
Sorrido, fingo spudoratamente di memorizzare le sue indicazioni, seguo addirittura con lo sguardo il suo dito che
disegna le direzioni in aria.
– Nonna, nonna... io voglio Jojo.
La nonna non si spazientisce, le nonne non si spazientiscono mai.
– Mi scusi. Simonetta, prendi Jojo e portalo subito qua.
Non fare la capricciosa, è suo, non tuo.
La bambina di circa otto anni, controvoglia, va a recuperare questo fantomatico Jojo. La nonna si scusa nuovamente. Finisce di darmi le sue indicazioni.
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Un cerchio nel buio
– Ha capito? Non è difficile.
Annuisco mentre la bambina che le tiene la mano mi
guarda di sottecchi, come se non si fidasse, mi mette a disagio. Voglio andarmene, non voglio spiegazioni, non ci
sarebbe comunque a chi chiederle. Non voglio risposte.
Ringrazio la signora e le stringo la mano infilandola nell’inferriata. Nel frattempo Simonetta è tornata con in braccio
un bambolotto di pezza blu. Mi fa tenerezza, la stessa che
ha lei nel porgerlo alla sorellina. I brividi che si rincorrevano fino a qualche attimo fa su e giù per la schiena stanno
defilandosi dai piedi, sento un formicolio. Sto per andarmene, mi volto comunque con un sorriso. Sento la voce
della nonna.
– Virna, ringrazia Simonetta. Vedi che ti vuole bene?
Inchiodo i miei passi e mi volto lentamente. Vedo la figura imponente della donna rincasare e Simonetta ricominciare a correre. Sono sicuro di aver sentito bene. Virna. La
piccola Virna. La osservo dalla mia distanza. Ha il suo Jojo
in braccio, lo stringe al petto. Si siede per terra e lo bacia.
Poi si toglie scarpe e calze, sono così piccole che potrebbero andare bene anche a Jojo. La piccola Virna si rialza
e prende Jojo per una mano. Pezza e carne. E comincia
a danzare. Stringe il suo cavaliere tra le braccia. E Virna
danza. Lentamente senza musica. Scalza.
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Indice
Un cerchio nel buio
di Antonio Ciravolo
Parte prima – Sogni
La Virna scalza
A cuore aperto
Propaganda Asperger
Capelli
La donna di spade
Stefania
p.
p.
p.
p.
p.
p.
7
23
38
43
52
70
Parte seconda – Primi epiloghi
Echi p. 97
Parte terza – Tempi
La marcia dei sogni
p. 161
Parte quarta – Punti
Il cerchio
p. 239
Un cerchio nel buio
di Antonio Ciravolo
progetto grafico
illustrazione in copertina
editing e correzione di bozze
stampa
Livio Sgarlata
Margherita Sgarlata e
Riccardo Francaviglia
Surya Amarù
Tipografia Edi.bo s.r.l.
www.splen.it