pregi e difetti delle radici identitarie in italia e nel

Transcript

pregi e difetti delle radici identitarie in italia e nel
Anno IV - Numero 27
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
Reporter
9/16 Settembre 2011
nuovo
UN CAMPANILE
E’ PER SEMPRE
PREGI E DIFETTI DELLE RADICI IDENTITARIE IN ITALIA E NEL MONDO
Il Fenomeno
A centocinquanta anni dall’unità della penisola, c’è chi dubita sul superamento del campanilismo
Vive l’Italia dei cento campanili
Ma oggi le differenze possono innescare processi di crescita e non di scontro
Ida Artiaco
“Fatta l’Italia, ora facciamo gli italiani”. Fiumi di inchiostro sono stati versati per precisare l’attribuzione
di questa celebre frase, di Camillo
Benso Conte di Cavour secondo alcuni, più probabilmente di Massimo
d’Azeglio secondo altri, o addirittura di Giuseppe Garibaldi. Quello che
importa, però, è il vero significato di
queste parole, che bene esprimono
le perplessità dei grandi protagonisti del Risorgimento, all’indomani
della nascita dello Stato Unitario. E
centocinquant’anni dopo quell’epocale evento c’è ancora chi quei
timori di mancata unificazione, non
a livello politico, ma dei sentimenti e delle tradizioni, ce li ha ancora.
L’Italia, si sa, è “la terra dei cento
campanili”, per l’attaccamento a
volte esagerato e gretto alle tradizioni
e agli usi della propria città, che spesso trasforma le differenze in divisioni
e mette gli uni contro gli altri. Da qui,
rivendicazioni territoriali, giurisdizionali, culturali ed economiche
proprie del campanilismo, che contraddistingue la nostra storia, prima
ancora che l’Italia fosse unita politicamente, quando forze politiche e
religiose, anche straniere, hanno
continuamente straziato con confi-
PRIMATO
Il campanile del
Duomo di
Mortegliano, in
provincia di Udine,
è il più alto d’Italia,
con i suoi 113
metrio di altezza
ni diversi la nostra penisola.
Da sempre gli italiani, di tutte le
età e condizioni sociali, si sono dimostrati intimamente legati al proprio campanile, quella struttura che
si staglia al di sopra degli altri edifici e per questo, oltre alla connotazione religiosa, riveste un ruolo
simbolico e si propone quale elemento di identificazione, per sineddoche, col centro abitato in cui
esso si trova e con le persone che all’ombra vi abitano, con il proprio lin-
guaggio, le proprie tradizioni, la
propria storia. Ma, come ha affermato lo storico Fernand Braudel,
nella ricchezza e densità di città della realtà italiana è anche il segno della sua “insigne debolezza”. Quel che
rendeva affascinante il Bel Paese, la
pluralità di tradizioni, di culture e
linguaggi, ha costituito un elemento di volubilità rispetto a quel “cemento” sociale che ha caratterizzato la storia di altre grandi nazioni europee. Spesso, infatti, l’esasperato at-
taccamento al proprio campanile è
sconfinato in un eccesso di rivalità
nei confronti di paesi vicini. Pare che
proprio il termine “campanilismo”
sia attribuibile, come origine, al
rapporto burrascoso fra due comuni oggi in provincia di Napoli, San
Gennaro Vesuviano e Palma Campania.
Il campanile del primo centro
venne privato di orologio verso levante, dove vi era il confine con l’altro paese, proprio perché gli abitanti
Parla Roberto Gervaso, che sull’Italia dei Comuni ha scritto con Montanelli
Esistono solo tanti pezzi di Stato
Roberta Casa
«La storia del nostro paese
è una storia regionale». Ne è
convinto Roberto Gervaso,
giornalista, storico e scrittore,
al quale abbiamo chiesto il vero
significato di una parola che
trova ragion d’essere nella storia medievale, di grande attualità ancora oggi.
Gervaso, sentiamo spesso
dire che esiste un’unica Italia,
ma tanti campanili. Quanto è
vera questa affermazione?
C’è una definizione giusta
per la parola campanilismo?
«La spiegazione non può
prescindere dalla storia del
nostro paese. Dopo le invasioni
barbariche, in Italia cominciarono a formarsi i primi Comuni, più o meno intorno all’anno Mille. Queste prime
‘comunità’, formate da persone di un certo ceto sociale
(quella che in futuro sarà chiamata borghesia), si riunivano
per difendere i loro interessi
proprio intorno al campanile
della chiesa del Comune. Non
intorno a una semplice torre.
2
9 Settembre 2011
E la scelta di un simbolo sacro
anziché politico rimarca l’importanza della fede per i primi
‘cittadini’. Il campanile diventò dunque emblema del Comune, un simbolo architettonico di individualismo. Ogni
borgo, ogni Comune aveva le
sue caratteristiche, le sue
mode, la sua lingua, i suoi co-
puzzle deve combaciare con gli
altri. Ma ciò non è mai avvenuto. Anche quando nel 1861
si ebbe l’Unità d’Italia, all’unità geografica non è corrisposta
quella del popolo. Il borgo continuava a riconoscersi nel
campanile, perché di fatto fu
lasciato fuori. L’Unità fu possibile solo grazie all’azione di
«Il campanile è diventata un’istituzione egoista,
che difende solo i propri
interessi. L’italiano non sente le istituzioni»
stumi; e il termine campanile
riuniva tutte queste cose e diventava un connotato, una
specie di vessillo, di stendardo».
Il popolo italiano sembra
essere sempre più diviso, e la
storia ci spiega il perché. Ma
quale prezzo paga oggi il nostro paese a causa di questa
‘separazione in casa’?
«Oggi in Italia lo Stato non
c’è. Il campanile è solo un pezzo di Stato, che come in un
un elité di 20 mila persone, soprattutto lombarde e piemontesi, formata da professionisti,
proprietari terrieri, avvocati, intellettuali. Non c’era neanche
un contadino. L’80 per cento
degli italiani fu lasciato in disparte. Ancora oggi noi paghiamo caro il prezzo di questa mancata Unità, e lo si è visto nei giorni dei tiepidi festeggiamenti per il Centocinquantenario. La gente non ha
‘sentito’ l’avvenimento, per
molti si è trattato solo di un
giorno di festa qualunque».
Pensa che in futuro sia
possibile creare un vero popolo italiano?
«Il problema è che proprio chi dovrebbe formare coscienza e animo italiani pensa
prima a sé stesso anziché allo
Stato. Quando sentiamo i nostri rappresentanti esprimersi
in un linguaggio basso, scurrile, quando li vediamo eccedere – per utilizzare un eufemismo – in Parlamento, capiamo che è ancora più difficile pensare che queste persone possano formare un popolo, infondergli unità.
Ognuno pensa a sé stesso,
guardando sempre e comunque al proprio campanile. Gli
italiani non hanno mai avuto
un vero e proprio ‘senso di patria’. Il campanile è diventata
un’istituzione egoista, che difende sempre i propri interessi, anziché gli ideali. L’italiano
non sente le istituzioni. Cosa
vuole che gli importi del tricolore, dell’inno di Mameli?
Questa è la verità».
di quest’ultimo non potessero leggere
l’ora. Da allora il passo prima agli
scontri tra fazioni opposte, poi alle
partigianerie esasperate e alle chiusure localistiche è stato breve. Come
dimenticare le faide storiche tra famiglie o fazioni politiche, fino ai
campanilismi delle contrade senesi,
che ancora oggi appassionano e eccitano gli animi al pari delle tifoserie calcistiche? Nonostante l’origine
tutta meridionale, il fenomeno si è
rivelato più forte al Nord, dove si trovano i campanili più grandi d’Italia:
primo tra tutti, quello del Duomo di
Mortegliano, in provincia di Udine,
seguito dal Torrazzo di Cremona e
dal Campanile di San Pietro di Alessandria. Ma è proprio oggi, quando
la globalizzazione genera interdipendenze e commistioni inedite,
soprattutto in seguito al fenomeno
dei flussi migratori dai paesi più poveri del mondo, che le storiche differenze culturali italiane possono essere rivitalizzante in un quadro
nuovo. In una Italia in cui parte sempre più rilevante della popolazione
è costituita da immigrati, la sfida delle istituzioni e dei singoli cittadini
può essere la valorizzazione della
pluralità culturale, innescando processi di comunicazione e non di
scontro.
IN LETTERATURA
Gli improperi di Dante
le dolcezze del Fogazzaro
■ TOSCANA «Ahi Pisa, vituperio delle genti…» recita Dante
nel XXXIII Canto dell’Inferno. Il campanilismo del poeta fiorentino è uno dei primi esempi nella storia della letteratura
italiana: la celebre contrapposizione tra Firenze e Pisa viene ripresa da Dante nella sua opera più importante, a sottolineare quanto le due città fossero antagoniste già nei primi secoli dell’anno Mille.
■ LOMBARDIA Nei Promessi Sposi, Alessandro Manzoni celebra con descrizioni sapienti le bellezze paesaggistiche della Lombardia seicentesca, la stessa regione che gli diede i
natali. Già l’incipit del romanzo, con il celebre «Quel ramo del
lago di Como che volge a mezzogiorno…» ben rappresenta l’attaccamento appassionato alla terra d’origine.
■ SICILIA Nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
il Principe di Salina esprime l’animo fortemente ‘campanilista’ dell’autore: protagonista delle vicende narrate, egli incarna lo spirito della sicilianità. I cambiamenti avvenuti nell’isola nel corso della storia hanno adattato il suo popolo agli
‘invasori’, senza modificarne essenza e carattere. Il presunto
miglioramento apportato dal nuovo regno appare al principe come un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché
il popolo siciliano e l’orgoglio che lo contraddistingue rimarranno immutati.
■ VENETO In Piccolo Mondo Antico Antonio Fogazzaro,
come scrisse Gallarati Scotti, «ha scoperto le pure sorgenti della sua sincerità e della sua ispirazione. L’accento nuovo egli l’ha trovato in una più intima comunione con gli ideali che gli erano stati trasmessi dai suoi padri; con gli uomini
e la terra della sua infanzia». Un elogio degli umili cittadini
delle montagne.
R. C.
Reporter
nuovo
I Precedenti
I contrasti tra città hanno spesso le proprie radici nella Storia, nell’economia e nella politica
Rivali, dallo stendardo allo sfottò
Guelfi, ghibellini, città marinare, maschere tradizionali e proverbi
Davide Maggiore
Non solo campanili. A svettare sui
tetti dei borghi storici italiani sono
anche le torri. Costruite, come a San
Gimignano, dalle potenti e ricche famiglie locali di un tempo per simboleggiare il proprio prestigio, nel
confronto con vicini e avversari. E
destinate dunque a diventare anche
simboli di divisione.
Molti tratti del campanilismo
italiano, e molti dei contrasti storici tra città, rioni e borgate, possono
in effetti essere fatti risalire proprio
all’epoca delle pietre di cui campanili e torri sono fatti. Contese destinate poi ad attraversare i secoli, e
a riemergere, nella forma diversa (e
più innocua) dell’orgoglio municipale, anche ai giorni nostri. Magari
dimenticando che allora, dai cosiddetti ‘secoli bui’ in poi, la posta in
gioco era ben diversa. Le rivalità locali, magari secolari (come quella tra
Perugia e Assisi di cui fece le spese
il futuro San Francesco, allora giovane uomo d’armi), si inserivano all’interno di uno scontro di proporzioni nazionali, il più celebre di quelli che avrebbero attraversato la penisola per secoli. Guelfi contro ghibellini, che innalzavano le loro fortezze, rispettivamente, a maggior glo-
ETERNA
CONTESA
Una rievocazione
della battaglia
di Montaperti
tra guelfi
e ghibellini
ria del potere papale o di quello imperiale, in lotta tra loro per la supremazia.
Ma anche l’economia ha pesato
nel disegnare l’Italia dei campanili.
È stato il caso delle repubbliche marinare: Amalfi, Pisa, Genova e Venezia, impegnate a lungo in conflitti
per guadagnarsi il controllo dei
mercati dell’Oriente. E, anche una
volta diventata marginale la Via
della Seta, portate dal ricordo di un
passato nobile allo scontro con i
meno blasonati vicini. Come l’orgogliosa Pisa, i cui è proverbiale l’inimicizia con Livorno. ‘Colpevole’ di
essersi facilmente sottomessa, a differenza della rivale, all’odiata dinastia fiorentina dei Medici, che l’aveva persino circondata di bastioni.
Anche quando non si inseriscono in quadri di grande respiro,
però, gli scontri tra campanili hanno spesso ragioni tutt’altro che ideali. Può trattarsi di un interesse al primato ‘geografico’ come avviene per
Cagliari e Sassari, o sullo Stretto tra
messinesi e abitanti di Reggio Calabria. O di conflitti, si sarebbe detto
in passato, ‘di classe’, come accade
in molte città divise tra una parte
vecchia (che si rappresenta come ‘aristocratica’) e un nucleo nuovo sorto, in anni più recenti, più a valle (e
abitato dal popolo che vive di mercato, artigianato, lavoro della terra e,
in seguito, industria). Gli esempi più
celebri sono Bergamo (il velenoso
paragone tra la parte ‘alta’ e quella
‘bassa’ è presente fin dalla commedia dell’Arte con il dualismo tra Brighella e Arlecchino), e, immancabilmente, una cittadina della Toscana
(zona ‘regina’ delle fazioni). È Fucecchio, in cui la rivalità tra nobili
‘insuesi’ e più popolari ‘ingiuesi’
(cioè, rispettivamente, abitanti dei
borghi ‘per in su’ e ‘per in giù’) è stata in parte superata solo dall’ammirazione per il celebre concittadino
Indro Montanelli. Pacificatore ideale, perché ingiuese di padre e insuese
di madre.
Che a far esplodere lo scontro siano state questioni strategiche, di prestigio o più semplicemente materiali,
però, oggi queste radici storiche
sono per lo più dimenticate. E restano nascoste dalle manifestazioni
spicciole e attuali del campanilismo.
Dallo sfottò (tipico quello sulla minore intelligenza del rivale, in cui eccelle, ancora una volta, lo spirito toscano), allo slogan, al detto popolare
(il più celebre è naturalmente: «meglio un morto in casa che un pisano all’uscio», di marca labronica). Insomma, in ogni rivalità locale si è
passati dalla sfida a chi costruisse la
torre più alta, (bloccata a San Gimignano da un’apposita legge), a
quella su chi, tra i rivali, dimostra di
avere la lingua più pronta.
IL SIMBOLO
Un affresco a Palazzo Medici
sulla risposta di Pier Capponi
a Carlo VIII: "Se voi
suonerete le vostre trombe
noi suoneremo le nostre
campane".
A fianco, campane
della fonderia Marinelli
Giulia Cerasi
Se si parla di campanilismo non si può non pensare ad Agnone. Con la sua storia, le sue tradizioni culinarie e artigiane, Agnone (che
nella parlata locale suona
“agneun”) è un comune di
circa 5mila abitanti adagiato
tra i monti dell’alto Molise,
in provincia di Isernia. Gli
agnonesi, forti della presenza di numerose chiese dal
grande interesse artistico e di
una tradizione di figure di secondo piano della letteratura italiana (da Marino Ionata ad Alessandro Apollonio,
da Ippolito Amicarelli a Luigi Gamberale), non di rado
rinvendicano con ostinato
orgoglio le proprie origini.
Ma il campanilismo agnonese è anche una questione
etimologica. Perché è proprio
in questa terra che ha sede
una delle aziende più antiche
del mondo che fabbrica, appunto, campane.
La Pontificia Fonderia
Marinelli è stata fondata nel
Reporter
nuovo
Ad Agnone la fonderia che produce il simbolo dell’attaccamento al proprio paese
Quei rintocchi dicono appartenenza
1339, quando Nicodemo
Marinelli, detto “Campanarus”, fuse una campana di
circa 2 quintali per una chiesa del frusinate. E’ nata così
una tradizione millenaria,
fatta di segreti che i fonditori
si tramandano ininterrottamente, di padre in figlio.
Ad Agnone, ancora oggi, per
realizzarne una si usano le
stesse tecniche dei maestri
del Medioevo e del Rinascimento. Elementi essenziali
per la riuscita delle campane,
il cui ciclo di lavorazione varia da trenta a novanta gior-
ni, sono lo spessore, il peso,
il diametro e l’altezza, il tutto nel rispetto di proporzioni ben stabilite.
Ma quella di fondere le
campane è un’arte antica,
che risale probabilmente al
popolo cinese, anche se non
si conosce il momento preciso a partire dal quale la
campana è stata usata come
richiamo di fede. E dal 1924
la fonderia Marinelli, su concessione di Papa Pio XI, può
vantare il privilegio di poter
scolpire lo Stemma Pontificio. L’azienda agnonese è di-
ventata così la fonderia del
Vaticano, tanto che Giovanni Paolo II l’ha visitata nel
marzo del 1995.
Descrizione metaforica di
un innamoramento, annuncio di un giorno di festa, ma
anche - in passato - segnalazione di un pericolo come un
incedio o un grosso temporale, il rintocco delle campane della fonderia Marinelli risuonano in tutto il
mondo: da New York a Pechino, da Gerusalemme al
Sud America, fino alla Corea.
Ad Agnone sono state fuse la
campana per il Santuario di
Lourdes nel centenario dell’apparizione (1958), la commemorativa del primo centenario dell’Unità d’Italia
(1961), la campana del Concilio Vaticano II (1963),
quella della “Perestrojka”
per lo storico incontro del
Papa con Gorbaciov (1989),
fino a quella del Giubileo del
2000 che pesa ben cinque
tonnellate.
L’attività dei fonditori
agnonesi è dunque intrecciata intimamente con la nostra storia, come un grande
libro che rievoca i fatti, i personaggi, i momenti. Ma la
campana è anche uno strumento musicale, con cui si
eseguono veri e propri concerti. Ogni campana, infatti,
ha una vera e propria “voce”,
ossia una nota, i cui procedimenti per ottenerla erano
già stati descritti da Diderot
nell’Encyclopedie.
Per i Marinelli la campana “è compagna dell’uomo,
elemento della sua storia,
figlia della sua cultura, voce
del suo cuore”. E proprio alla
campana, accanto alla fonderia, hanno dedicato un
museo. Perché, da simbolo
della divisione e della rivalità, la campana agnonese può
diventare l’emblema di un
Paese che, a 150 anni dalla
sua unificazione, ancora fatica a trovare la propria identità.
9 Settembre 2011
3
Il Futuro
Blog, social network e telefoni smartphone: la tecnologia esalta l’attaccamento al territorio
Tutti in Rete, arroccati nel “glocale”
Il web non ha spazzato via la cultura stracittadina, l’ha rafforzata
SMARTPHONE
Vivere le appartenenze
Notizie più vicine
Le battaglie del campanilismo moderno si
combattono anche sul campo della tecnologia mobile. Oltre all’acerrima rivalità tra Apple e Microsoft, che è diventata una vera e
propria lotta di “stili di vita”, l’ultima frontiera
del campanilismo multimediale è quella delle app. Sono tantissime le applicazioni per
smartphone, iPhone o Blackberry, che aiutano
gli utenti a conoscere meglio il territorio che
li circonda e a sentirsi parte di questo o quel
“campanile”.
Grazie alla tecnologia geolocal, che consente in qualsiasi momento di rintracciare la
posizione esatta del proprietario di un telefono
acceso, questi software aiutano gli utenti a trovare negozi e altri servizi nelle vicinanze e soprattutto li mettono in contatto con altre persone che in quel momento si trovano nella
stessa zona.
Tra le applicazioni più famose ci sono
AroundMe per iPhone, che permette di avere all’istante indicazioni sugli esercizi commerciali (e non solo) presenti nei dintorni, e
Ubinav, che trasforma un Blackberry in un navigatore satellitare. Ma l’app mobile e web più
diffusa è senz’altro Foursquare: grazie a questo servizio più di due milioni di persone nel
mondo interagiscono via cellulare solo con gli
utenti individuati dal satellite nella stessa città.
La crisi dell’editoria cartacea ha in parte
cambiato l’organizzazione dei media locali. Se
prima i giornali erano orgogliosamente indipendenti dalle testate delle province confinanti,
oggi sinergie ed economie di scala prevalgono
sul campanilismo cartaceo. È il caso, ad
esempio, delle Gazzette di Mantova, Reggio
Emilia e Modena, tre testate del gruppo
Espresso che hanno unito le pagine nazionali lasciando alle notizie dai singoli territori
una parte marginale. Stesso esperimento, nel
campo delle freepress, per Leggo, gruppo
Caltagirone editore: delle 24 pagine del quotidiano gratuito solo due sono dedicate alla
cronaca locale, con notizie dalle 15 redazioni sparse sul territorio italiano.
Grazie all’aumento delle frequenze televisive con il passaggio al digitale terrestre, invece, la concorrenza delle tv locali sul territorio intraprovinciale è rimasta piuttosto alta.
Lo stesso vale per Internet: i bassi costi di realizzazione di una testata online consentono
anche ad aggregati territoriali piccolissimi di
creare un proprio giornale, fatto di notizie di
quartiere e appuntamenti locali. Dalla “Padania” alle Isole, vale la pena di citare Alperiodic.net, «comünicazion virtüal in lumbard
insübrich», e Logosardigna.sar, portale esclusivamente in lingua sarda con tanto di dizionario «sardu-italianu».
BLOG
Un etere tricolore
«Finché vivrò amerò una sola bandiera»
è solo uno dei tanti blog dedicati a un “campanile”, che popolano la Rete. Scritto da un
ragazzo salernitano, il diario è interamente
dedicato alle vicende della provincia campana: dalla commemorazione del terremoto dell’Irpinia alle partite della Salernitana Calcio. Un’anomalia del web? Macché: di blog
“campanilisti” l’etere tricolore, il cosiddetto
“.it”, è pieno. Da Predoi, che si vanta di essere la «città più a nord d’Italia», al comune di Lampedusa e Linosa, che dall’altro
capo dello stivale si mostra al popolo del web
attraverso un sito ricco di immagini e racconti
dedicati esclusivamente alle due isole siciliane.
Non solo pubblicità positiva, però. Dai
campanili delle chiese alla Rete, infatti, il legame col territorio si fa ancora più forte quando si tratta di difendere la propria identità culturale da quella del “vicino”.
Un esempio: la storica rivalità tra le città di Pisa e Livorno, che dalle torrette in mattoni è migrata sul web. Il primato di ironia e
goliardia va senz’altro al blog “pisamerda.wordpress.com”, che vanta l’archivio
completo di «tutti i video contro i pisani scovati sul web» e soprattutto una raccolta di
scatti fotografici che, forse in modo un po’ incauto, ritraggono la scritta che dà il nome al
blog.
4
MEDIA LOCALI
9 Settembre 2011
PUZZLE ON LINE L’Italia resta divisa anche sul web, ma c’è chi prova a unirla
G
lobalizzazione e iperlocalizzazione: due fenomeni opposti che
convivono nello stesso universo,
quello del World Wide Web. Se
da un lato la Rete ha ridisegnato
i confini nazionali, dall’altro
ha rafforzato quelli locali. Nel
mondo 2.0, che tende a diventare
un enorme villaggio globale
dove lo stesso concetto di distanza è rivoluzionato, le identità culturali che riescono a
mantenersi integre sono proprio
quelle iper-locali, proprie di
piccoli mondi di provincia. Un
trend che oggi ha anche un
nome: glocale, termine coniato
dal sociologo ebreo-polacco Zygmunt Bauman come fusione di
globale e locale. Glocalizzare,
cioè, significa favorire l’interazione tra persone di uno stesso
territorio attraverso tecnologie
proprie della comunità globale.
Non stupisce, allora, che la
filosofia glocal abbia mantenuto inalterato uno degli elementi tipici della cultura stracittadina: il campanilismo, l’affermare la superiorità delle proprie
radici soprattutto a scapito di un
modello altro, ritenuto inferiore, con il quale instaurare un
confronto sempre più agguerrito e radicale. Naturalmente, il
modello più immediato con il
quale confrontarsi e scontrarsi
non può che essere quello del vicino. La cultura campanilista
non è scomparsa con la Rete,
non è stata spazzata dalla globalizzazione. Ha solo cambiato muta, adattandosi ai nuovi
mezzi di comunicazione, ai
nuovi codici della interazione.
Così l’ombra del campanile
diventa virtuale, assume la forma dei diari on line, dei blog che
raccontano la vita del territorio,
esaltandone le bellezze architettoniche, paesaggistiche, la
cultura. Orgogliobresciano.org
si propone, ad esempio, di perseguire «la tutela e la (conseguente) valorizzazione di tutti
gli aspetti della cultura bresciana, i quali edificano e mantengono vitale la nostra identità» per «far germogliare e rafforzare nei cuori e nelle menti dei
Bresciani il loro senso di ap-
Così l’ombra del
campanile
diventa virtuale
partenenza alla propria terra».
Diariodifirenze.it, VocediLucca.it, Livorno.wordpress.com
sono altri esempi di diari digitali di territori molto vicini e, se
si vuole, similari. Eppure ognuno dei blogger o comitati attivi
nella difesa della cultura delle rispettive realtà giurerebbe che la
sua è unica, e nella maggior parte dei casi più affascinante delle vicine. Se si rimane alla pagina scritta e diffusa tramite la
rete, è possibile analizzare numerose di queste “testatine”,
dalle quali traspare la volontà di
affermare in termini positivi la
propria identità, mantenendo
una certa dignità di fondo. Dal
piemontese Torinoblog.it al siciliano Orgogliopeloritano.it
ognuno di questi diari diffonde
la cultura del proprio territorio
e lascia lo sfottò al vicino in secondo piano, se non, in qualche
caso, assente del tutto. Discorso parzialmente diverso, invece,
va fatto per la più popolare
piattaforma “social”: Facebook.
Il mondo creato da Mark Zuckerberg è popolato da pagine che
accanto al nome della città italiana presa di mira presentano
la parola “odio”, “merda”, “deve
sprofondare” e altre gentilezze
di questo tipo. C’è chi si augura, ad esempio, che un nuovo terremoto, dopo quello del 1908,
sconvolga la città di Messina.
Per fortuna, anche sulla piattaforma di Facebook non mancano utenti che utilizzano le potenzialità del nuovo strumento
per promuovere l’unione, piuttosto che l’arroccamento cieco
sulla propria identità. È il caso,
ad esempio, di Giovanni Addante, che tramite il social network cerca di far decollare il progetto “Passione calcio Puglia”.
L’obiettivo è quello di creare
una squadra di calcio che unisca le tifoserie di baresi, leccesi, foggiani e tarantini. L’obiettivo prefissato è il raggiungimento di 30.000 adesioni su Facebook, per l’acquisto di una
squadra di calcio esistente o la
creazione di un nuovo Club
“Internazionale” della Puglia.
Un modo per dare «un calcio al
campanilismo».
Pagina a cura di Federica Ionta e Enrico Messina
FACEBOOK
Le pagine “contro”
Saranno pure fittizie molte identità presenti
su Facebook, edulcorate le storie raccontate nei post, “gonfiate” le reazioni di divertimento o indignazione, di gioia come di sgomento che si leggono sul social network. Ma
tra gli elementi che si mantengono autentici
svetta l’attaccamento alla propria città, “urlato”
alla rete tramite le pagine con le quali questa
o quella città si proclama migliore della vicina. In una parola, campanilismo. Ma social,
come i tempi impongono.
Lo scontro virtuale fra vicini è una spina
dorsale che unisce tutta l’Italia presente sul
network, dalla Sicilia al Piemonte, passando
per la Calabria, Puglia, Campania, Abruzzo,
poi su verso Toscana, Emilia Romagna, arrivando fino in Piemonte. Così la pagina “Odio
Catania” assomiglia inesorabilmente a quella “Odio Siena” e all’altra “Odio Piacenza”:
stessi toni da curva, stesse (presuntuose) affermazioni di superiorità da parte degli animatori. Solo che nel primo caso a firmare le
pagine sono ragazzi di Palermo, nel secondo di Pisa e nel terzo di Cremona.
Quasi in tutte le regioni il copione si
mantiene uguale. Ma da Facebook arriva anche la sorpresa che non ti aspetti: sono il migliaio di persone che hanno cliccato “mi piace” in pagine come “No al Campanilismo”,
“Quelli che si sono rotti della rivalità fra Pescara e Chieti”, “W l’Italia unita”.
Reporter
nuovo
Politica
Da Amintore Fanfani a Giancarlo Galan il potere guarda sempre più agli interessi locali
Scelte di cortile dai veto-players
Il campanilismo si istituzionalizza e diventa il nuovo ago della bilancia
Marco Cicala
Narra la leggenda che nel 1963
Amintore Fanfani disegnò di suo pugno, con un tratto rosso, la curva per
avvicinare l’Autostrada del Sole ad
Arezzo, la sua città natale; Clemente Mastella, che nella natia Benevento aveva qualcosa di simile a un regno, il campanile lo aveva messo addirittura nel simbolo del suo partito;
gli onorevoli di tutti i colori politici
si mobilitano a colpi di interrogazioni
parlamentari quando le loro squadre
del cuore vengono penalizzate dagli
arbitri. E ancora, per restare ai giorni nostri, la prima dichiarazione del
neo ministro della Cultura ed ex governatore del Veneto Giancarlo Galan è stata: «L’unico festival del cinema dovrebbe essere a Venezia. Quello di Roma dovrebbe scomparire».
Storie di interessi locali che si sovrappongono a quelli del Paese. E che
spesso li superano, in sfregio a una
collettività di cui la politica, soprattutto quella nazionale, dovrebbe essere al servizio. Il campanilismo in politica nasce con la politica stessa. E
non si è mai estinto. Anzi, si è radicalizzato diventando un vero e proprio manifesto.
È la Lega Nord probabilmente il
più grande esempio di questo per-
LOCALISMI
La Lega Nord
come gli altri
porta l’acqua al
proprio mulino
corso, primo partito locale che è riuscito conquistarsi un posto al sole a
livello nazionale, diventando l’ago della bilancia per le sorti del governo.
Nato come federazione di movimenti autonomisti regionali ha da subito battuto il ferro sui sentimenti indipendentisti del suo bacino di riferimento, quello settentrionale, propagandando presunti vantaggi derivanti da una secessione. Alternando
folklore ad amministrazioni locali efficienti, la Lega ha intrapreso un percorso evolutivo che l’ha incanalata su
binari istituzionali e, contestualmente a un incremento costante
dell’elettorato e dunque di peso politico, ha permesso al Carroccio di
proporre e attuare riforme volte principalmente al benessere della cosiddetta “padania”.
Un analogo caso, forse meno rilevante politicamente ma più radicato
sul territorio, è quello legato al Sudtiroler Volkspartei (Partito Popolare
Sudtirolese), che per statuto rappresenta gli interessi delle minoranze tedesca e ladina della provincia au-
tonoma di Bolzano. I valori di riferimento sono quelli dell’autonomismo ma anche della tutela della lingua, tanto che nel l’SVP non ammette
nel proprio partito cittadini che si
sono dichiarati di madrelingua italiana. Realtà piccola ma influente,
come dimostrato recentemente. Approfittando di una situazione parlamentare complessa che vede il governo in sofferenza alla Camera, il
Sudtiroler avrebbe sfruttato il peso dei
suoi tre deputati per ottenere, in cambio dell’astensione al voto di fiducia
del 14 dicembre 2010 al governo Berlusconi, la suddivisione della gestione del parco nazionale dello Stelvio tra enti regionali anziché a livello statale, approvata dal Consiglio dei
Ministri il 22 dello stesso mese.
Nonostante le smentite ufficiali di
rito, l’episodio in piccolo è rapportabile ai costanti veti che la Lega impone al governo su questioni sensibili al Carroccio (immigrazione, federalismo, sicurezza), pena la caduta della maggioranza. E’ la nuova frontiera delle minoranze rilevanti, i cosiddetti “veto players”, che da partiti caratterizzati da una forte ideologia si trasformano in partiti finalizzati
a interessi locali, istituzionalizzando
il campanilismo.
Ma non è solo il Nord ad esprimere tali realtà. Anche nel meridione gli ultimi anni hanno visto il proliferare di partiti politici volti a difendere gli interessi locali. Quello di
maggiore successo è il Movimento per
le Autonomie (Mpa), fondato nel
2005 da Raffaele Lombardo, attuale
governatore della Sicilia. Nato da una
costola dell’Udc siciliana, l’Mpa si è
subito presentato come l’alternativa
alla Lega, partito con cui condivide
alcuni valori fondativi e con il quale
nel 2006 venne stipulato un accordo
definito il “Patto delle Autonomie”.
Il fondatore dell’Udeur rivendica la paternità di un simbolo che non tramonta
Mastella: ‘Il campanile, c’est moi’
Il problema è la dialettica, non le rivendicazioni
Jacopo Matano
Se c’è un partito che ha il
campanile nel cuore (e nel
simbolo), questo è l’Udeur.
Dalla sua fondazione nel
1999, la formazione politica
nata dalle ceneri dell’Udr e
dalle liti sull’eredità democristiana porta l’effige dell’italico sciovinismo dentro
il logo, e nella prima pagina
dell’organo di stampa (che si
chiama, appunto, “Il Campanile”). Oggi il nome dell’Udeur è cambiato – si è aggiunto il sottotitolo “Popolari per il Sud” – e il partito ha
modificato piattaforma e organi dirigenti, ma il campanile
resta lì. Il suo fondatore, Clemente Mastella, candidato a
sindaco di Napoli, spiega perché non può farne a meno.
Mastella, com’è nato il
simbolo del suo partito?
«L’idea è mia. Il campanile era, nelle mie intenzioni, la
parrocchia nella quale ci si in-
Reporter
nuovo
contrava per discutere di politica e società, un luogo di
scambio, un monumento –
simbolico – su cui si potesse
salire per rendersi conto di
quello che capitava nelle zone
limitrofe. Ma anche un modo
accomuna oggi molte forze
politiche. Ma in alcuni casi
siamo costretti. La ragione
ha un nome e un cognome:
Lega Nord. Il Carroccio è ormai predominante in ogni
atto, in ogni gestualità politi-
I Popolari per il Sud sono lo specchio del Paese.
Mi spetterebbe una medaglia
per ciò che ho fatto per la mia parrocchia
per testimoniare l’esistenza
di una realtà territoriale e
politica, per dire al mondo “ci
siamo anche noi”. Rappresentava, dunque, il campanilismo. Ma in modo pacifico”».
Nato a Ceppaloni come
“Udeur”, il partito del campanile si chiama oggi “Popolari per il Sud”. Siete un
esempio di come le ideologie
abbiano lasciato il posto alle
istanze territoriali.
«È una trasformazione che
ca di governo e maggioranza.
Il sud rischia così di essere in
balia di una situazione drammatica, senza una rappresentanza concreta, forte e rumorosa che faccia da contrappunto. Non si può abbandonare il campanile».
I partiti del territorio,
però, sono fatti per pensare
soltanto alle proprie istanze.
Questo non rischia di trasformare la politica in un
agone di egoismi?
«Oggi c’è questo rischio,
ma il problema è la dialettica, non il contenuto delle rivendicazioni. Vede, quando
è nato l’Udeur il confronto,
nel mondo politco, era ancora veramente democratico.
E il campanile, la rivendicazione delle istanze territoriali, era legato ad alcuni
valori che erano quelli di una
solidarietà spiccata, un apertura verso l’altro, uno scambio reciproco di opinioni,
anche aspro, ma sempre caratterizzato da un “garbo”
democratico. Tutto questo
non c’è più».
La Dc, nella prima repubblica, era un partito “modello” in quanto a campanilismo. Molti erano gli esponenti politici che, da Roma,
facevano di tutto per favorire il proprio collegio. Lei, da
ex democristiano, non sarà
stato da meno. Cosa ha fatto per la sua parrocchia?
«Ho fatto moltissime cose
ORGOGLIO Mastella con il vecchio logo del suo partito. Nel nuovo c’è ancora il campanile
per Ceppaloni e per la provincia di Benevento, e le rivendico tutte. Pensiamo all’università, che non sarebbe
mai sorta senza il mio intervento. Pensiamo alla scuola di
magistratura, che ho fatto
trasferire sempre a Benevento quando ero ministro della
Giustizia. Credo che la “medaglia al campanile” mi spetti di diritto».
Non è che i napoletani,
magari più campanilisti di
lei, decideranno di non votarla perché è di Ceppaloni?
«Vede, il mio è un campanile orientato verso tutto il
mezzogiorno, un Sud di cui
Napoli è indiscutibilmente la
capitale culturale, sociale, politica. Parlando di me, dunque, userei una metafora calcistica. Posso dire di essermi
fatto le ossa a Ceppaloni, di
aver partecipato agli allenamenti nelle giovanili a Benevento e di essere pronto per
giocare nel Napoli. Credo
che il pubblico mi apprezzerà, anche se di un altro campanile».
9 Settembre 2011
5
Sport & Tradizione
Tifoserie negli stadi: l’appartenenza alla squadra conta più della famiglia e della patria
Un vivere tra folklore ed eccessi
Coreografie spettacolari ma anche raccapriccianti episodi di violenza
Raffaele d’Ettorre
Scontri senza quartiere, dove il
quartiere diventa la propria tifoseria,
il colore della maglia, la curva di appartenenza: barriere impenetrabili,
che da sempre avvelenano le dispute
sportive in campo, calamitando costantemente i riflettori mediatici su
episodi di ferocia inaudita. Il campanilismo calcistico, in Italia, sembra essere scolpito nel dna dei tifosi: duro a morire perché spesso il
senso di appartenenza alla squadra
scolpisce barriere ideologiche che si
sostituiscono alla famiglia e alla patria, diventando addirittura religione. La risultante più immediata di
questo processo è un tifo appassionato allo stadio, coreografie spettacolari nelle curve, striscioni e cori
spesso ingegnosi e fulminanti nella
loro devastante ironia. Il campanilismo calcistico però non è solo folklore. C’è un lato torbido, una dimensione macabra, nella pratica
quasi mafiosa, che emerge prepotentemente a dispetto dello sport.
Maggio 2010, vigilia di LazioInter. La Roma è in corsa scudetto
con i nerazzurri, i capi ultrà della tifoseria laziale minacciano la dirigenza: «Se non battete l’Inter siete finiti». L’intimidazione arriva per po-
LO SFOTTO’
I tifosi laziali
ironici consegnano
lo scudetto
nelle mani
dell’Inter
ai danni dei cugini
giallorossi
sta, accompagnata da un proiettile di
grosso calibro. La Lazio regalerà all’Inter, giocando senza opporre resistenza alcuna, il lasciapassare per
lo scudetto, togliendolo così alla
Roma. Qui il campanilismo investe
i vertici della dirigenza, modificando la sostanza del gioco del calcio.
«Lo sai che sei un uomo morto?»:
l’intimidazione, solitamente riservata
ai giornalisti “scomodi” nei regimi
dittatoriali, arriva dritta in faccia al
cronista Catapano, in margine alla
partita tra Chievo e Roma. «Qui non
possiamo farti niente, ma ormai sei
segnato»: l’avvertimento è di un
capo ultrà romanista, le minacce
sono concrete.
Questa dimensione fosca del
campanilismo affonda le sue radici
direttamente nelle curve degli stadi.
Di fatto, gli scontri “partigiani” fra
le diverse tifoserie sono spesso sfociati nelle domeniche italiane in
veri e propri episodi di guerriglia urbana, dipingendo alcuni dei peggiori
affreschi della cronaca nera italiana.
Gli accoltellamenti tra milanesi e
cremonesi, nel 1984, costarono la
vita al diciottenne Marco Fonghessi, rossonero ucciso “per un equivoco” da altri tifosi milanisti.
A Firenze, nel giugno del 1989,
la Fiorentina sfida il Bologna. Alcuni teppisti lanciano una molotov sul
treno che sta riportando a casa i bolognesi: l’esplosione sfigura in pieno viso il quattordicenne Ivan Dall’Olio.
Nel 2001, il messinese Antonio
Currò, 24 anni, muore dopo l’ esplosione di una bomba carta in Messina-Catania.
Nel 2003 allo stadio Partenio, nella partita Avellino-Napoli, le curve si
scontrano con violenza disumana. Sergio Ercolano finisce in un fossato, sbatte la testa e muore a soli 20 anni.
In Italia, finora, l’unica risposta
trovata per arginare il fenomeno del
tifo violento è stata l’adozione di misure sempre crescenti di ordine
pubblico. In questo modo si è delegato alle Forze dell’Ordine il compito
di contenere, reprimere e punire il
tifo violento. Il risultato, però, non
è stato quello sperato. La tensione intorno ai campi da gioco è aumentata, il conflitto ha trovato una nuova
dimensione: non più (o non tanto)
tra ultrà delle opposte tifoserie, ma
tra ultrà e Forze dell’Ordine. In
questo senso, l’idea di “istituzionalizzare” i supporter con la cosiddetta
“Tessera del tifoso” ha avuto risvolti tutt’altro che felici. «Tesserato infame dichiarato», «Abbonato
servo dello Stato»: con questi slogan
sinistri, gli ultrà (che la tessera non
l’hanno mai fatta, eppure ogni domenica riescono ad intrufolarsi in
curva) hanno ormai dichiarato guerra allo Stato.
IL TIFO
Piazza del Campo si riempie
per assistere alla corsa.
A fianco, i cavalli
delle Contrade dell’Onda
e della Selva
Lorenzo d’Albergo
Il canape è appena caduto: le contrattazioni tra i
fantini sono concluse. Ora
bisogna solo domare al meglio le fiammanti monoposto
dal motore impazzito. I cavalli, cavalcati rigorosamente a pelo, senza sella, sono
quasi incontrollabili: il “bibitone”, un mix di sostanze
eccitanti, li trasforma in
schegge impazzite. Negli attimi che precedono l’inizio
della corsa, qualcuno ha venduto il suo onore per poche
migliaia di euro e ne dovrà
render conto a fine palio ai
contradaioli che lo hanno ingaggiato, qualcun altro ha
provato ad assicurarsi la gloria a suon di bigliettoni. Gli
zoccoli scalpitano sulla terra di Piazza del Campo, che
per 60 interminabili secondi trattiene il fiato. D’altronde del possibile esito della
corsa si è parlato per dodici
mesi e si parlerà per tutto il
prossimo anno. Funziona
6
9 Settembre 2011
Il Palio di Siena: un esempio di scontro fra contrade che si ripete da sempre
Ventre a terra per essere amici
così dal 1644, due volte l’anno nel periodo estivo.
Il racconto del Palio di
Siena potrebbe fermarsi ai retroscena (neanche fosse organizzato in transatlantico)
che i telecronisti Rai snocciolano in diretta nazionale,
agli accordi economici sottobanco, alle gelosie e alle
botte da orbi tra contrade rivali. Ma la competizione tra
rioni nasconde qualcosa di
più. Lo sa bene Gianluca, 29
anni, un’adolescenza e un’infanzia passata sotto i colori
dell’Istrice. Al termine di
una delle tante riunioni alle
quali il contradaiolo doc
deve essere presente, racconta perché, se sei nato a
Siena, al Palio non si sfugge:
«È un’esperienza totalizzante. Se guardo alla storia personale di alcuni dei miei
compagni, mi accorgo che
qui, senza partecipare alle attività organizzate dalla contrada, sarebbe difficile farsi
una vita».
Già, perché dal servizio di
pre e post-scuola alla discoteca pomeridiana per i liceali,
tutto passa per i colori che si
sceglie di difendere e sostenere, «e se ne sei fuori, a una
certa età è perfino più difficile trovare un lavoro in città». Così, le 17 contrade, a
volte consorelle, più spesso
nemiche, che si spartiscono
la città smettono di essere un
pittoresco residuato tardo
rinascimentale. L’appartenenza a una di queste, che
sia la poco invidiata “nonna”
o la fresca vincitrice del palio, rappresenta il cartellino
da visita del vero senese.
Qualcosa che differenzia da
chi vive fuori dalla cinta
muraria della cittadina toscana.
Un’unità che traspare anche nel racconto di Mario,
della contrada della Chiocciola: «Anche gli scontri tra
ragazzotti, le “rimbossolate” al limite tra due territori nemici, fanno parte del palio. Ricordo di essermi scontrato con tanti amici della
Tartuca, amici veri, e certo
non ci si risparmiava. Poi, a
Palio finito, ci si ritrovava al
bar di confine e ci si offriva
da bere».
Insomma, come scriveva
il poeta fiorentino Mario
Luzi, «Il Palio è il Palio.
Nessuna interpretazione sociologica, storica, antropologica, potrebbe spiegarlo.
Sublimazione e dannazione
insieme del fato in ogni singolo senese e della sua cittadinanza. Rogo furente della senesità, in ogni caso impareggiabile conferma di
essa».
Dietro a quei due minuti
di corsa forsennata per portarsi a casa il Palio e il piatto d’argento in cui si fa mangiare il ronzino vincente, si
nasconde una Siena più complessa di quello che il telespettatore medio può immaginare. Una città diversa
da tutte le altre, con il suo
particolarissimo tessuto sociale, nel quale prima di potersi definire senese, bisogna
essere contradaioli.
Reporter
nuovo
Cucina & Cinema
Il super-chef Colonna: «C’è un posto per tutte le regioni nella squadra azzurra del piatto»
Ma il mio Totti resta il cacio e pepe
Per questo ho il titolo di “Ottavo re di Roma”. No alla guerra olio-burro
Andrea Andrei
«Partire dalle proprie origini. Sempre. Poi cavalcarle e diventare cittadini del mondo. Pensare locale e
agire globale». È la sua ricetta migliore, quella più importante. E dire
che lui, di ricette, se ne intende. Eh
sì, perché Antonello Colonna, uno dei
più grandi chef italiani, è partito dalla cucina romana con la quale è cresciuto, l’ha re-interpretata e ha conquistato il mondo. Ha aperto locali a
New York, ha partecipato e organizzato eventi di portata internazionale.
Eppure, in barba a qualsiasi snobismo,
la cosa di cui va più fiero è una: «Mi
chiamano l’ottavo re di Roma, per il
mio cacio e pepe».
Lei è considerato uno degli ambasciatori della cucina negli Stati
Uniti. Se dovesse scegliere un piatto che rappresenti al meglio il gusto
tipico della cucina italiana, quale sceglierebbe?
«Nel mondo, l’amatriciana e la carbonara sono dei capisaldi. Lo dico
sempre: l’amatriciana sta al Pantheon
DELIZIE Lo chef Antonello Colonna, il “Cacio e Pepe” e un interno del suo
ristorante nel palazzo delle Esposizioni a Roma
come la carbonara sta al Colosseo.
Qualsiasi tour operator mostrerebbe
a un turista questi due monumenti.
Difficilmente, nell’illustrare le meraviglie dell’Italia culinaria, si parla del
risotto alla milanese».
Diciamoci la verità, lei è un po’ di
parte...
«Se fossi stato un’artista e se fossi
nato in Tibet, le mie opere avrebbero preso ispirazione dai quei luoghi,
da quella cultura. Io ho ereditato la cucina romana, che di per sé non è un
patrimonio particolarmente raffinato.
È il popolo. È il pastore, che cucinava con quello che aveva a disposizione
per sostentarsi, non per fare alta cucina. Più che essere di parte faccio
marketing. Devo per forza parlare
male del ragù alla bolognese, no?».
A proposito di contrasti, la “sfida”
fra la cucina del nord e quella del sud
si potrebbe riassumere in “burro”
contro “olio”. Lei da che parte sta?
«Se unissimo nord, centro e sud,
avremmo una squadra con la quale
potremmo sfidare il mondo intero.
Coinvolgendo i miei più grandi col-
leghi del Piemonte, della Lombardia,
del Friuli, dell’Emilia, della Toscana,
del Lazio, della Campania della Calabria, della Sicilia. L’unione di queste forze rappresenta un patrimonio
inestimabile, degno della tutela dell’Unesco. Certo che se poi dovessimo
giocare un campionato nazionale a sedici squadre, sicuramente difenderei
il mio olio dal burro. Ma dal punto di
vista di un professionista, non è possibile parlare male del burro. È esattamente quello contro cui combatto
ogni giorno».
Con tutti questi localismi in cucina, come fa a mettere d’accordo i
gusti delle persone?
«Mettere d’accordo i gusti della
gente è difficile. La cucina è una scienza che non ha mai avuto punti fermi.
È stata sempre fatta da interpretazione. Certo, oggi, con la commercializzazione della cucina, c’è l’illusione
che chiunque possa essere un cuoco.
Così come, nel calcio, tutti si sentono allenatori. La cucina, purtroppo,
da questo punto di vista è diventata
un elettrodomestico».
Dai maestri del neorealismo le mille immagini e realtà che ci raccontano
Film, tessere del mosaico Italia
La Roma di Rossellini e Visconti e gli emuli di oggi
Chiara Aranci
La Sicilia di Visconti, la
Roma di Rossellini e quella di
De Sica, le risaie delle campagne vercellesi di De Santis, le
diverse ambientazioni geografiche di Paisà di sempre di
Rossellini, la Milano di Antonioni sono spaccati dell’Italia
di quegli anni. Ognuno ne ritrae un angolo e gli italiani iniziano a conoscersi senza doversi spostare.
Il neorealismo è stato una
vetrina dell’Italia divenuta patrimonio del cinema mondiale e i nostri divi di allora, icone senza tempo. Ci ha messo
davanti un’Italia in divenire, segnata dall’esperienza della
guerra ma con volontà di riscatto. Le storie narrate ci
hanno fatto emozionare, sognare e sperare, ma soprattutto credere che nonostante tutto, si poteva andare avanti e costruire un’Italia diversa. Andare
al cinema negli anni ’50 e ’60
era un evento molto sentito per
chi andava, con la propria famiglia o con gli amici. Le
emozioni davanti ai capolavori
indiscussi di quegli anni erano autentiche, e dal nord al
Reporter
nuovo
sud l’Italia era unita nel nome
di Visconti, De Sica, Antonioni, De Santis, Rossellini e
dei grandi attori che quel momento ci ha regalato. L’Italia di
quei film raccontava la realtà,
fatta di miseria e dramma ma
anche quella delle persone
comuni, che cercavano con un
sorriso di rappresentare l’enorme sforzo e impegno che il bel
Paese stava facendo per ri-
mille tessere del mosaico Italia. Il movimento neorealista
fu d’ispirazione per i registi della nuova generazione: Fellini
come Pasolini. Seppure profondamente diversa la loro
produzione è spiccatamente
diversa, entrambi hanno attinto a quel periodo per poi
fare cinema a proprio modo.
Dalle commedie recenti
come “Basilicata Coast to Co-
Nella Grande Guerra di Monicelli i contrasti
di campanile si stemperano
in un ideale comune a esaltazione della Patria
prendersi dalla guerra. I bambini vengono utilizzati dai registi per dire ai grandi cosa fare,
le ambientazioni sono girate
per la maggior parte in esterni nelle campagne desolate, o
nelle città ancora martoriate
dalla guerra. Per gli interni si
ricorre agli studi di Cinecittà,
che diviene il perno su cui
grandi registi si incontrano e si
scontrano, dove riflettono sulla poetica cinematografica e sugli stili da adottare. Così i film
del neorealismo divengono le
ast” di Rocco Papaleo, dove
viene ritratta una regione bella quanto inesplorata come la
Basilicata che fa da sfondo in
un’avventura di alcuni amici
che decidono di attraversarla
come fosse la leggendaria route 66 americana, coast to coast, come pure “Respiro” del
giovane Emanuele Crialese,
ambientato nella splendida
isola di Lampedusa, ritraggono l’Italia di oggi con le sue
paure, le sue ansie ma pur
sempre con una fotografia che
riempie d’orgoglio l’essere italiani. E come dimenticare il
campione d’incassi dello scorsa stagione “Benvenuti al Sud”
di Luca Miniero, un frizzante
ritratto dell’italianità dal nord
al sud. E dal passato rimane attuale l’insegnamento dell’intramontabile “La Grande
Guerra” di Mario Monicelli.
Nel film due grandissimi del
nostro cinema, Albero Sordi e
Vittorio Gassmann, dando un
calcio al campanilismo, interpretano due commilitoni,
un romano e un milanese,
chiamati a combattere nella
Prima guerra mondiale. Diversi di carattere e di origini i
due sono uniti dalla mancanza di qualsiasi ideale e dalla volontà di evitare i pericoli della battaglia per salvare la pelle. Ma quando ci sarà da salvare la Patria, non si tireranno
indietro e fieri del loro essere
italiani, si immoleranno per la
nobile causa.
E allora che si parli pure di
campane e campanilismi. Ci
piace sentirci e riconoscerci diversi davanti agli altri, ben
consapevoli che in certi momenti le campane possono
tacere.
NEOREALISMO Gassman e Sordi ne “La grande guerra”
REALTA’ I protagonisti di “Basilicata coast to coast”
9 Settembre 2011
7
All’Estero
Tanti i “campanili” nel mondo, ma a volte come in Spagna e in Irlanda sfociano nel terrore
Ventisei cantoni e c’è anche di peggio
E nelle barzellette lo sciocco è sempre l’altro. Presi di mira gallesi e polacchi
Emiliana Costa
Con ventisei cantoni e quattro lingue nazionali, la Svizzera
ha conquistato negli anni la
palma di paese europeo più
campanilista. E se questo primato può far storcere il naso a
qualcuno, il nostro vicino
d’Oltralpe non se ne cura,
vantando un caleidoscopio di
culture e tradizioni diverse,
specchio e orgoglio di ogni singolo campanile elvetico. Dalla provincia di Berna - la più
estesa con i suoi seimila chilometri quadrati – al minuscolo semicantone di Basilea.
Tra le ricorrenze più celebri, la
festa del tiro di Aarau, la manifestazione federale dei costumi a Svitto e quella dei
tamburi e pifferi a Interlaken.
Ma gli otto milioni di abitanti svizzeri non sono gli
unici detentori, nel vecchio
continente, di un multiculturalismo cresciuto all’ombra
del campanile. Anche in Gran
Bretagna, a quattro ore di treno dalla capitale, fiorisce una
storica civiltà celtica cresciuta
nel grembo della corona britannica. Si tratta della Scozia,
una regione dagli usi e costumi completamente diversi da
quelli dei “cugini” londinesi.
Guai a confondere un inglese
- ai raduni delle Highlands,
giochi durante i quali i concorrenti si sfidano al tiro alla
fune, al lancio del martello e a
gare di atletica leggera. Senza
dimenticare l’inimitabile kilt,
il gonnellino a quadri inventato nel ‘700 da Thomas Rawlinson e oggi indossato, soprattutto, durante le cerimonie
Guai a confondere un inglese con un abitante
di Edimburgo, potrebbe
sembrare allo scozzese quasi un insulto
con un abitante di Edimburgo,
potrebbe sembrare a quest’ultimo quasi un insulto. Gli
scozzesi tengono molto alla
loro bandiera, sotto la quale
sono germogliate una serie di
variopinte tradizioni. Dalla
cornamusa - lo strumento aerofono a sacco, dal suono inconfondibile ed emozionante
ufficiali.
Dal “campanile culturale” si
scivola facilmente in quello
dello sfottò. Se gli inglesi considerano irlandesi, scozzesi e
gallesi troppo ruspanti e bevitori incalliti, gli americani non
hanno fatto sconti agli amici
polacchi, dipingendoli come
sciocchi e poco istruiti. Men-
tre i francesi hanno inventato
una serie infinita di barzellette sul poliglotta popolo belga.
Ci sono, però, delle volte
in cui l’attaccamento eccessivo a una bandiera sfocia nel
sangue. E’ il caso del terrorismo basco propugnato dall’Eta. Dal 1958 a oggi l’organizzazione armata ha compiuto numerosi attentanti in
nome della secessione dal
governo spagnolo. Stessa sorte per l’Irlanda del nord, dove
da anni gruppi di scissionisti
lottano per l’indipendenza
da Londra. Tragica la situazione nella regione sudanese
del Darfur, piegata da un interminabile conflitto contro
l’esercito lealista. In Sri Lanka la guerra civile è terminata tre anni fa. In questo caso
il governo cingalese avrebbe
avallato un vero e proprio genocidio per impedire la creazione di uno stato Tamil nel
nord del paese.
Un caso a sé negli Stati Uniti. Qui la sfida è il primato nelle università
In lizza Nobel, sport, presidenti
E per Harvard, Barack Obama vale doppio punteggio
Ilaria Del Prete
Non è difficile individuare
per le strade di Roma un americano che abbia fatto il college. Si distinguono per il loro
abbigliamento. Dal cremisi
delle t-shirt di Harvard, al blu
di quelle di Yale, al giallo oro
delle felpe di Berkeley, gli statunitensi sfoggiano con fierezza i simboli della loro università di appartenenza. Come
se in quegli indumenti feticcio
fossero racchiuse le loro origini
e il loro orgoglio.
In un paese in cui i campanili da far suonare sono pochi, il campanilismo assume
forme ben diverse da quelle
consuete, e anziché essere
espressione dell’attaccamento alla propria città d’origine si
trasforma in celebrazione delle università che si frequentano o si sono frequentate. Così
come in Italia esistono le rivalità tra contrade o fazioni opposte di una stessa area geografica, in America la competizione si sviluppa tra campus
e campus.
La battaglia più aspra è
senz’altro quella tra Harvard e
Yale, due delle più ambite
8
9 Settembre 2011
All’attacco Crimson verso Bulldogs nella sfida del The Game
università della Ivy League
(lega che accomuna gli otto
atenei privati più prestigiosi
dello stato). Acerrimi nemici
nelle competizioni sportive, i
Crimson e i Bulldogs si sfidano ogni anno alla fine del
campionato nel The Game, la
partita di football più attesa dagli allievi delle due rivali: vincere questo match è di gran
lunga più importante che ottenere un punteggio più alto
nell’intero campionato. Altro
terreno di sfida tra le due storiche università è la Harvard-
Yale Regatta: la sfida in canoa
tra gli allievi è la competizione sportiva studentesca più antica degli Usa. Attualmente, gli
studenti di Harvard sembrano
i più in forma, detengono infatti il titolo annuale per The
Game e, con 91 vittorie, il record per le regate.
Ma non è solo lo sport a infervorare gli animi di studenti, accademici e alumni (gli ex
allievi). C’è accesa rivalità anche sui grandi cervelli, e la
guerra si combatte a colpi di
premi Nobel. In realtà esisto-
no diversi criteri per conteggiare il numero di studiosi insigniti del premio, ed è dunque
difficile stabilire quale università detenga il primato. Se
si prendono in considerazione
non solo i laureati e i ricercatori di un ateneo, ma anche i
suoi insegnanti (sia premiati
durante il periodo di docenza
che prima o dopo), la prima in
classifica è la Columbia University di New York, con 97
premi Nobel divisi nelle sei sezioni previste dal riconoscimento dell’Accademia di Svezia. Seguono, con 88, l’Università di Chicago, e con 77 il
Mit, Massachusetts Institute of
Technology. Se alla Columbia
ha studiato il filosofo Bertrand Russell, premio Nobel
per la letteratura nel 1950, a
Yale ha insegnato l’economista
Joseph Stiglitz (che però si è
laureato al Mit), premiato nel
2001.
Infine, motivo di fregio
sono i presidenti americani che
si sono formati in un ateneo
anziché un altro. È ancora
una volta Harvard ad avere il
primato: l’ultimo leader è Barack Obama, anche premio
Nobel per la pace nel 2009.
TRADIZIONI Dall’alto, la festa del tiro ad Aarau in Svizzera e
suonatori di cornamusa agli Highlands games in Scozia
I CUGINI INGLESI
Sempre più Oxford-Cambridge
Oxford e Cambridge, due facce dell’eccellenza universitaria made in England. La sana rivalità che vige tra
i due atenei è pari solo alla loro antichità, e si manifesta
sia tramite le classifiche annuali stilate dalla commissione
paragovernativa Research Assessment Exercise - in cui ormai Cambrige ha sorpassato Oxford - sia nella competizione sportiva. Anche in madrepatria come negli Usa a
decretare il migliore tra i due è la Oxford-Cambridge Boat
Race, la gara di canottaggio che anima le acque del Tamigi con le vogate di otto atleti per squadra. Il titolo nel
2011 se l’è aggiudicato Oxford, ma Cambridge rimonta
sui premi Nobel: 87 a 57.
I. D. P.
Reporter
nuovo
Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini”
della LUISS Guido Carli
Direttore responsabile
Roberto Cotroneo
Comitato di direzione
Sandro Acciari, Alberto Giuliani,
Sandro Marucci
Direzione e redazione
Viale Pola, 12 - 00198 Roma
tel. 0685225558 - 0685225544
fax 0685225515
Stampa
Centro riproduzione dell’Università
Amministrazione
Università LUISS Guido Carli
viale Pola, 12 - 00198 Roma
Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008
[email protected]
!
www.luiss.it/giornalismo
Reporter
nuovo