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Camminando verso l’Oceano
Domenico Scialla
CAMMINANDO VERSO L’OCEANO
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Camminando verso l’Oceano
Questo romanzo è stato pubblicato per la prima volta nella primavera del
2011 da Gruppo Albatros con il titolo “Insieme”. La versione riveduta e
integrale uscirà entro il 2015.
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Camminando verso l’Oceano
Questo libro è il
Con immenso affetto a Gabriella,
grande amica e compagna di viaggio
A Beppe e Francesco
che, remando contro corrente,
cercano di migliorare questo mondo
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Camminando verso l’Oceano
“Vai e segui il tuo ritmo,
senza mai distaccartene,
è questa la cosa giusta,
secondo il mio modesto parere!”
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Camminando verso l’Oceano
Copyright 2010
Sito dell’autore: www.domenicoscialla.it
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Camminando verso l’Oceano
I.
«È stato il diavolo! Probabilmente lui» mi disse padre Xavier,
voltandosi verso di me, dopo qualche secondo di silenzio con lo
sguardo fisso alla finestra. «Ci prova sempre a rovinare le cose belle,
proprio come un pellegrinaggio verso Santiago de Compostela.»
Mi ricordai di quell’albero dalla forma inquietante che io e St
avevamo incontrato tra Saint Jean Pied de Port e il rifugio di Orisson:
faceva pensare a un demonio. Anche se per poco, mi aveva turbato.
Padre Xavier sedette accanto a me, prendendo le mie mani nelle
sue, e continuò: «È invidioso; era invidioso di quell’entusiasmo, di
quella fede che, anche se laica – oserei dire –, ho letto nei vostri
occhi, quando tu e St, quella povera fanciulla, siete arrivati qui a
Roncesvalles il mese scorso.» Si rialzò e ritornò alla finestra.
«Ora, per superare questi terribili momenti, proprio della tua fede
hai bisogno, più che mai, figliolo!». Sospirò mantenendo verso di me
quello sguardo umile e pieno d’amore. «Abbracciala intensamente e
tienila stretta a te, non puoi fare altro che questo, spero con tutta la
mia anima che la pace e la serenità rifioriscano in te!»
Sentimmo dei passi nella stanza accanto e padre Xavier, aprendo
una piccola porta di legno, vi fece capolino e chiamò Ahim, che dopo
qualche secondo entrò. A me e al ragazzo arabo chiese di fare
insieme a lui qualche minuto di meditazione, di raccoglimento,
ognuno a proprio modo, poi s’inginocchiò ai piedi della Madonna.
Sentì il canto dei pastori che andavano verso la grotta nella magica
notte, iniziò a pregare dicendo: «Vergine Santa assisti le nostre
vite…» poi pian piano diminuì il tono della voce fino a restare in
silenzio. Ahim udì il richiamo del Muezzin e si inginocchiò verso La
Mecca, faccia in terra e braccia in avanti. Declamò in arabo alcuni
versi del Corano, dei quali compresi solo la parola “Allah”, e pian
piano anche lui ridusse il tono della voce fino a restare in silenzio. Io
assunsi una posizione yoga respirando profondamente; mi sentii
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Camminando verso l’Oceano
avvolto da una serena sensazione di benessere, mi vidi fluttuare
nell’Universo tra mille colori e udii un’arpa intonare una melodia
stupenda, nella quale riconobbi l’Adagio di Albinoni. Percepii
l’abbraccio della Vita e recitai alcuni versi scritti da me qualche anno
prima: «Ed ora che le ombre nell’anima si diradano, si fa spazio in
me una Luce serena e io vivo». E così anch’io rimasi in silenzio.
Un cielo punteggiato di stelle aveva da poco sostituito quello
potente di sole di una splendida giornata di primavera, quando mi
congedai da padre Xavier.
Feci un giro, poi sedetti su una panchina, nella piazzetta adiacente
l’ostello del pellegrino, dove avrei dormito. Mi ricordai del
pomeriggio in cui io e St eravamo arrivati lì, in particolare dello
spagnolo di Siviglia, conosciuto al rifugio di Orisson, insieme a un
gruppo di francesi, un olandese con la moglie e una ragazza belga,
l’unica di cui ricordo il nome: Marin. Proprio in quella piccola piazza
lo spagnolo ci aveva chiamati ad alta voce «Italiani!». Ci aveva
sorriso e ci aveva detto che era già arrivato da tre ore, mostrandoci i
piedi rovinati dalle vesciche, a differenza dei nostri, forse quelle tre
ore in più ci avevano salvato. Avevamo chiacchierato per un po’
della prima parte del Cammino. Ci aveva invitato a partecipare alla
messa del pellegrino, indicandoci la strada che portava alla chiesa
dove sarebbe stata celebrata qualche ora dopo. Ne avevamo già
sentito parlare, è importante a Roncesvalles, ma solo lui aveva saputo
infonderci curiosità e desiderio tali da farci decidere di prendervi
parte.
Il colloquio con padre Xavier mi aveva fatto stare bene e mi aveva
dato un po’ di pace.
L’indomani mattina sarei ripartito per Roma.
Tornato a Napoli, nel mio appartamento di via Cimarosa, presi i
miei appunti e, rileggendoli, rivissi ogni momento del viaggio verso
Finisterre.
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Camminando verso l’Oceano
II.
Pieni di curiosità e voglia di natura, St e io arrivammo a Saint Jean
Pied de Port di pomeriggio, col bus da Bayonne, in coincidenza
con il treno della TGV da Paris Montparnasse. Quasi tutti
giungono lì per iniziare, a piedi o in bici, il Cammino verso
Santiago de Compostela, per poi spesso continuare e spingersi
fino all’Oceano Atlantico. (Il percorso è abbastanza semplice,
quasi alla portata di tutti: non è adatto ovviamente a quelle
persone abituate a prendere l’auto anche per andare dal salumiere
dietro l’angolo di casa. Questo Cammino, attualmente patrimonio
dell’UNESCO, nasce nell’antichità come pellegrinaggio religioso,
da tempo però viene intrapreso sempre più per semplice
curiosità, per sport, per amore della natura, per motivi culturali e,
chissà, forse anche per motivi conosciuti solo dall’inconscio.
Tante persone decidono di percorrerlo tutto o in parte, in
un’unica volta o in più volte. Qualcuno lo ripete nel tempo. C’è
chi lo fa da solo - un’esperienza molto forte dal punto di vista
meditativo - ma l’ideale sarebbe camminare in due, massimo in
tre. Ci si può sempre unire ad altri quando si ha voglia e
distaccarsene in qualsiasi momento, senza sentirsi legati a
nessuno).
Il bus si fermò in un piazzale poco distante da una porta
medievale. Entrammo nel paese insieme agli altri passeggeri,
come se facessimo parte di uno stesso gruppo, poi man mano ci
dividemmo tra le diverse stradine. St leggeva, davanti alle case e
alle osterie, i prezzi delle camere e dei menu per la cena, scritti
quasi sempre su lavagnette con gessetti colorati. ( In genere si
alloggia in camere di case private o di albergue, solitamente sono
le soluzioni più economiche. Gli albergue sono degli ostelli, ce ne
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sono di privati e municipali, questi ultimi di norma hanno solo
camerate. In centri di media grandezza si trovano anche hostal e
pension, ovvero alberghi modesti. Nelle città come Pamplona,
Burgos, Leon e nella stessa Santiago, esistono anche dei veri e
propri hotel, perfino di lusso.)
Bussammo a una di quelle case; ci venne incontro un tipo sulla
cinquantina che, sorridendo e invitandoci a seguirlo, ci disse in
francese: «Benvenuti! Vi stavo aspettando e la vostra camera è già
pronta». Rimanemmo sorpresi, probabilmente usava fare così
con tutti, ma ci era piaciuto e ci sarebbe piaciuta anche la camera.
La casa si estendeva su tre piccoli piani ai quali si accedeva con
una scala a chiocciola di legno che partiva dall’ingresso. Al primo
piano abitava il proprietario, al secondo e terzo c’erano le camere,
un soggiorno e una sala colazione. Il proprietario segnò i nostri
nomi in un quaderno e ci disse: «Per arrivare a Roncesvalles avete
due alternative: la via del fondovalle e la via di montagna. Il primo
percorso è meno faticoso, ma anche più monotono; l’altro, è più
impegnativo, soprattutto i primi otto chilometri fino a Orisson,
non a caso lì c’è un rifugio, ma è il più bello. Si sale fino a 1400
metri circa e si possono ammirare delle cose stupende, in certi
tratti c’è forse anche un po’ di neve. Io vi consiglio di fare quello
di montagna, non dovreste avere grosse difficoltà. Potreste
arrivare in due giorni, fermandovi al rifugio; anche se fosse al
completo, un posto per dormire ve lo trovano sempre, semmai
dormireste insieme ad altre trenta persone, per terra» sorrise «ma
anche questo è il Cammino, fantastico e avventuroso. La mattina
seguente potreste poi percorrere gli altri diciassette chilometri
fino a Roncesvalles.»
L’indomani condividemmo la colazione con due cinesine. Ci
prepararono delle fette biscottate con marmellata e ci versarono
del latte; noi tagliammo frutta fresca per loro. Prima di andare via,
inciampai e rischiai di cadere lungo la scala. St, che era dietro di
me, era riuscita a trattenermi per lo zaino. Dopo lo scampato
pericolo, il proprietario mise il sello sulle nostre credenziali, per
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certificare l’inizio del nostro cammino da Saint Jean Pied de Port;
prese da un sacchetto due grandi conchiglie, simbolo del
Cammino, le legò ben strette ai nostri zaini e, ponendo una mano
sulla mia spalla e l’altra su quella di St, ci augurò: «Buen camino.»
Da quel momento avremmo sentito quella esclamazione
moltissime altre volte. Una forte emozione ci pervase l’anima.
Avremmo impiegato quattro ore per arrivare al rifugio di
Orisson. Intenzionati a camminare molto piano, io e St eravamo
quasi sempre da soli, così sarebbe stato anche per il resto del
Cammino: altri ci affiancavano, ci superavano, e in pochi minuti
sparivano all’orizzonte, dopo aver scambiato quasi sempre con
noi qualche parola. Incontrammo anche due italiani. Quello più
giovane aveva degli occhiali fucsia che di certo non passavano
inosservati; anche con loro avremmo chiacchierato qualche
minuto.
«È ancora buono!?» ci disse Congliocchiali in tono scherzoso,
ripetendo una frase di St.
St gli sorrise.
«Da dove venite?» ci chiese Senzaocchiali.
«Io dalla Sicilia, lui dalla Campania» rispose St.
«Noi dalla Toscana e sto portando questo monello verso la
Salvezza!» continuò Congliocchiali, ridendo e fissando
Senzaocchiali.
«Speriamo bene, allora!» intervenni io con ironia.
«Ammesso che ci arriviamo a Santiago, vista la sua età!» fece
Congliocchiali divertito, dando una pacca a Senzaocchiali.
«Ridi ridi tu; un anno in palestra per prepararsi a questo
cammino di certo non l'ho fatto io!» si difese Senzaocchiali.
Scoppiammo tutti e quattro in una forte risata, poi i due
simpaticoni proseguirono e ci salutarono all'unisono.
Era un periodo davvero stressante per me, a causa dell’intervento
chirurgico al quale mi sarei dovuto sottoporre a breve e anche per
i problemi che mi aveva creato da un po’ di anni Lacondary e
questa meravigliosa esperienza non poteva che farmi bene.
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Faceva freddo e il tempo non era affatto buono. Aveva anche un
po’ piovuto. Mentre consumavamo il nostro pranzo, fette
biscottate con prosciutto e miele, pensavamo se continuare fino a
Roncesvalles oppure fermarci e riprendere l’indomani. Una
camminatrice sulla cinquantina, cortese e intrigante, dal cui seno
non riuscivo a distogliere lo sguardo, ci aveva avvisato che
sarebbero state necessarie circa cinque ore di cammino e, a parte
una fontanella, non avremmo trovato nulla, solo tanta splendida
natura. Erano quasi le tre del pomeriggio. Considerati i nuvoloni
e la nostra andatura, che ci avrebbe fatto impiegare almeno sei
ore, scegliemmo di ripartire l’indomani con più tranquillità.
La cena veniva servita alle diciannove e trenta in una sala da
pranzo in pietra con al centro un grande tavolo di legno scuro,
circondato da altri dello stesso tipo per quattro persone. In
fondo, in un grande camino spento penzolava un pentolone di
rame. Il soffitto bianco era rigato da travi dello stesso legno dei
tavoli. Mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo.
La proprietaria ci disse che potevamo sederci a uno dei tavoli
piccoli o, se volevamo, a quello grande, insieme ad altri
camminatori. L’idea di conoscere altri che facevano la nostra
stessa esperienza ci era piaciuta e io e St prendemmo posto, uno
di fronte all’altra, al grande tavolo. Alla mia sinistra c’era lo
spagnolo di Siviglia, alla mia destra Marin, l’olandese con la
moglie, e i francesi che occupavano il resto del tavolo, dagli
olandesi fino a St. I francesi erano tutti operai pensionati, amici
da tempo, animarono la serata con canti popolari, alcuni dei quali
li conoscevo anche in italiano. Volevano che io e St cantassimo O
bella ciao, ma non riuscirono a convincerci. Avevano intenzione di
fare una settimana di cammino ogni anno fino a completarlo. Lo
spagnolo dedicava il Cammino alla figlia, disponeva di quindici
giorni, e sperava di arrivare a Santo Domingo de la Calzada.
Anche noi avevamo quindici giorni; pensavamo di camminare
circa una settimana e poi continuare in treno o in bus fino a
Finisterre. Marin, come lo spagnolo, faceva il Cammino da sola
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e sperava di arrivare a Compostela in un mese; ci sarebbe riuscita
in trentasette giorni. Tra me e lei sbocciò un’intesa che si
preannunciava davvero particolare, ci scambiammo le e-mail con
la promessa di rivederci sia in Italia che in Belgio. Mi interessava,
mi attraeva e faceva venir fuori le mie fantasie più profonde, e lei
mi dava a intendere lo stesso. Dell’olandese capimmo poco: suo
padre era italiano, sua madre rumena, sua moglie svizzera e la
figlia era sposata con un imprenditore veneto. Non
comprendemmo il motivo per cui si trovassero lì. Rientrammo
presto nella nostra stanza, una lavanderia, con tanto di lavatrice,
tavolo da stiro, panni da stirare e due brande pieghevoli
appoggiate al muro; era quello l’unico modo per dormire lì per
quella notte. St si addormentò in un batter d’occhio, io mi misi a
pensare intensamente a Marin, a quanto fosse bella nel corpo e
nell’anima. Decisi che mi sarei ispirato a lei per un personaggio
del mio prossimo romanzo. Presi poi il telefonino e mi misi ad
ascoltare la sua voce che avevo registrato a sua insaputa.
“Abito per massimo sei mesi l’anno, il tempo di lavorare un po’,
con mia sorella, in una casa lasciata da una zia, poi sono quasi
sempre in giro per il mondo. Amo la gente, la natura e tutto ciò
che mi circonda. Eh, eh sono una farfalla, io! Come lavoro faccio
attività occasionali. Guadagno quanto basta per una vita modesta
ma piena di emozioni. Pensi sia una sbandata, vero?”
“No Marin, non lo penso affatto, anzi ti apprezzo molto; anche
io sono quasi così!” le risponde la mia voce.
“Ecco, sei a buon punto, ma è quel ‘quasi’ che non va bene, ah
ah!”
“Hai ragione Marin, hai ragione.”
“Ecco bravo, sei sulla strada giusta, non sembri messo tanto
male. Dove vivo io mi ritengono una sbandata, una poco di
buono. Ma io me ne sbatto! Sai quanto me ne sbatto, faccio
quello che mi va e vado dritta per la mia strada.”
“E fai bene, così si deve fare, ma non tutti ne sono capaci.”
“Purtroppo sono ancora molte le persone che si scandalizzano
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per il fatto che io vivo la mia vita in questo modo, pensando a
tutto anziché a trovarmi un lavoro serio, dicono loro, farmi una
famiglia. Non mi interessa! Io voglio vivere così e tanti non
riescono a capire che sono felice e molto più di loro, oserei
aggiungere. Che palle quando ti dicono tu fai così perché non
vuoi prenderti le tue responsabilità, vuoi fare cose che non si
fanno più alla tua età, perché ogni cosa va fatta a suo tempo.
Sono convinta che la maggior parte di chi parla così non se le
prende affatto le proprie responsabilità perché vive esattamente al
contrario di come vorrebbe, solo che non ha coraggio per
affrontare il giudizio, le pressioni degli altri, le pressioni di una
società che spesso c’impone dei modelli ben precisi di vita. Anche
la paura di restare soli fa la sua parte. Ma quand’è che si resta
veramente soli, se non quando s’ignora la propria anima? E che
vuol dire prendersi le proprie responsabilità, ogni cosa a suo
tempo? Chi stabilisce e come si stabilisce quando ci si prende le
proprie responsabilità e qual è il tempo giusto per fare
determinate cose? Io penso che sono concetti relativi: solo
ascoltando la voce della propria anima ci si prende davvero le
proprie responsabilità e si fanno le cose giuste per quel momento.
E allora le espressioni ‘prendersi le proprie responsabilità’, ‘ogni
cosa a suo tempo’, prendono un significato bellissimo, vincente,
non perdente. Metti che una come me si prendesse le
responsabilità di un lavoro fisso e di una famiglia, quello che
vuole la nostra società malata, ti immagini che fine farebbe, cosa
si perderebbe? Che tristezza! Mia sorella, cinque anni fa, il giorno
del matrimonio, già sapeva che dopo qualche tempo avrebbe
chiesto la separazione. Aveva deciso di sposare Bill solo perché
le dava sicurezza, lui l’amava, e per la paura di restare sola. Ma
qualche mese prima del matrimonio tutto questo non bastava più,
l’idea di trascorrere una vita insieme a Bill l’annoiava
enormemente. Non ebbe il coraggio di non sposarsi più,
nonostante le mie insistenze. Molti non hanno la personalità, il
carattere, per affrontare il giudizio degli altri, per fare ciò che
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vogliono, ciò per cui si sentono veramente portati, anche
correndo dei rischi. È molto più semplice sposarsi e poi, dopo
qualche tempo, dire: ‘mi dispiace abbiamo sbagliato, non eravamo
fatti l’uno per l’altra’, anziché dire ‘non mi voglio più sposare’.
Immagina quante pressioni: i genitori, il tuo futuro coniuge e il
prete e questo e quello. Roba da popolino mediocre!”
Ci svegliammo verso le quattro e, prima di riaddormentarci,
avemmo l’occasione di notare che il cielo era sgombro di nuvole e
pieno di stelle. Faceva anche abbastanza caldo.
Dopo aver fatto colazione con lo spagnolo e l’olandese ci
salutammo calorosamente, non sapendo se ci saremmo più rivisti,
e iniziammo il nostro secondo giorno di cammino.
La natura si esprimeva magicamente: le vallate, la vegetazione, il
canto degli uccelli, qualche pezzo di neve ancora non sciolta, il
ronzio degli insetti, il profumo portato da un dolce e fresco
venticello di primavera. Di tanto in tanto qualche aquilotto ci
sorvolava, mentre ci capitava di calpestare vermiciattoli che,
legati tra loro, formavano lunghi bastoncini simili a liquirizia. A
questo si aggiungevano i canti di alcuni camminatori, man mano
che si avvicinavano si facevano sempre più definiti fino a sfumare
all’orizzonte. Erano canti di gioia, di ogni genere e lingua, da
Albachiara a My way, da La vie en rose a Time, in arabo, francese,
inglese, spagnolo e altre lingue a noi incomprensibili. Non tutti per fortuna in pochi - rispettavano chi come loro camminava per
quei sentieri, qualunque fossero le motivazioni: alcuni religiosi
cantavano ad altissima voce, in modo sguaiato, con uno sguardo
quasi per dire “qui ci devo essere solo io e quelli come me, le tue
motivazioni non contano, le mie invece mi portano lontano”.
Forse in paradiso, chissà. Commentammo uno di questi
spiacevoli episodi con un maratoneta inglese e un gruppo di
escursionisti svizzeri; convenimmo che l’unica soluzione, per
evitare che quell’atmosfera di pace e fratellanza venisse turbata,
fosse quella di tenerli lontano quanto basta: io e St ci fermammo
una mezz’oretta e li lasciammo proseguire, gli altri ripresero con il
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loro passo veloce in modo da lasciarli indietro. Tra gli
escursionisti c’era anche un non vedente. Ce n’eravamo resi conto
solo perché aveva preso dallo zaino dei fogli scritti in braille e si
era messo a leggere con le dita. Ci aveva colpito la sua autonomia,
soprattutto quando camminava, mano nella mano, con la
fidanzata: sembrava esser lui a guidarla. Quel non vedente e gli
altri erano riusciti ad aiutarmi a combattere dei pensieri di
disprezzo che volevano a tutti i costi impossessarsi di me, dopo
aver incontrato quei religiosi. Succede ogniqualvolta mi trovo ad
avere a che fare con persone prive di ogni forma di rispetto,
egoiste, che pensano di essere migliori degli altri e di avere
sempre la Verità tra le mani. Imploro la Vita di fermare questi
pensieri affinché non inquinino l’anima.
Dopo circa due ore di cammino ci raggiunse lo spagnolo, ci
sorrise, ci guardò per qualche secondo con il suo sguardo potente
e proseguì. Lo sentivamo molto vicino, soprattutto St, doveva
essere proprio una persona speciale.
Marin, invece, ci raggiunse nel punto in cui dovevamo prendere
un sentiero per continuare. Eravamo fermi lì da una decina di
minuti, non riuscivamo proprio a trovare segnali che indicassero
il Cammino: una freccia gialla o a volte una striscia rossa e bianca.
Ne avevamo uno proprio davanti agli occhi e non lo avevamo
notato. Scoppiammo a ridere, pensammo che è proprio vero che
a volte le cose che sembrano più complesse sono le più semplici,
le abbiamo a portata di mano ma non le vediamo, distratti da
altro. In quella circostanza l’altro era probabilmente quel paradiso
che ci circondava, i cavalli che, non molto distanti da noi,
galoppavano liberi nei prati. Marin si avvicinò a uno e lo carezzò,
lo abbracciò, gli sussurrò delle parole in francese. Nel vedere con
quanta naturalezza e dolcezza quella ragazza faceva questo anche
a me e St venne voglia di imitarla.
Condividemmo quasi una mezz’ora di cammino. Gli sguardi
miei e di Marin continuavano a incontrarsi, con grande
complicità, proprio com’era accaduto al rifugio. Ci sorridemmo.
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Lentamente la mia mano partì fino ad accarezzarle i capelli. Poi
per un po’ stemmo mano nella mano.
Ci separammo alla fontanella, lei proseguì, riprendendo il
proprio passo, noi ci fermammo per un po’: St aveva deciso di
curare l’unica vescica ( comunemente detta anche ampolla ) che le
era spuntata, sotto il piede destro, qualche ora prima. Si lavò con
cura le mani e sì sedette; iniziò a tamponare l’ampolla con
dell’ovatta imbevuta di tintura di iodio. Legò a un ago un filo di
cotone e li disinfettò. Bucò un’estremità della vescica facendo
uscire del liquido semitrasparente e spinse l’ago fino a farlo uscire
dall’estremità opposta. Rabbrividii nel vedere quella scena,
nonostante sapessi che non si avverte alcun dolore in quanto la
pelle è morta. Un uccellino si posò poco distante da noi e iniziò a
osservare St con attenzione. La mia compagna di viaggio staccò
l’ago dal filo e ne legò le due estremità per non farlo sfilare.
Sorrise e precisò al piccolo pennuto che quel filo doveva restare
così per almeno qualche ora, finché la vescica non si sarebbe
asciugata. Due camminatori, uno sulla trentina e l’altro sulla
settantina, rispettivamente di Messina e Varese, chiesero a St il
permesso di farle una foto per documentare quell’operazione.
Lei non se la sentì di dire di no, io mi divertii da morire a
osservare la scena, sotto i suoi sguardi minacciosi. Stemmo
qualche altro minuto seduti in silenzio, poi St coprì il tutto con
una garza sterile e rimise i calzini e le scarpe levandosi in piedi.
L’uccellino s’innalzò in volo. Una volta curate le vesciche si può
riprendere a camminare, come se non ci fossero quasi mai state,
per cui decidemmo di ripartire; saremmo arrivati a Roncesvalles
tre ore dopo.
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III.
A un quarto alle otto io e St eravamo già in chiesa. Si stava
recitando il rosario, eravamo ancora in pochi e l’atmosfera era
molto suggestiva. Tra i presenti c’erano lo spagnolo e il gruppo di
francesi; dopo un po’ sarebbe arrivata anche Marin.
Alle otto in punto, da una porta di legno alla mia sinistra,
quattro sacerdoti vestiti di bianco entravano cantando, fino a
raggiungere l’altare. Uno di loro era proprio padre Xavier, che
avremmo conosciuto più tardi sul sagrato.
Due dei francesi, uno con la fotocamera, l’altro con una
videocamera, ci passavano davanti continuamente; sembrava gli
interessasse più di ogni altra cosa portare a casa ottime immagini
da mostrare agli amici. Mi aspettavo qualche cenno di rimprovero
da parte di qualcuno, ma tutti si comportavano come se nulla di
anomalo stesse accadendo. Mentre stavo per dire io qualcosa,
d’improvviso, un vecchio malvestito interruppe la celebrazione
gettandosi a terra e urlando in inglese: «Grazie Dio, grazie per
tutto ciò che hai fatto per me!»
Rimanemmo tutti in silenzio per qualche secondo, poi uno dei
sacerdoti riprese la celebrazione. Il vecchio si rialzò e prese posto
non molto lontano dallo spagnolo. I due francesi smisero di fare i
fotoreporter e tornarono ai loro posti.
Alla fine, in diverse lingue, veniva data la benedizione a tutti i
presenti che, poco alla volta, durante la funzione, erano
aumentati, fino a riempire l’intera chiesa.
A cena sedemmo con uno studente australiano sulla ventina, una
coppia gay di Montecarlo, entrambi sulla cinquantina, un tipo
sulla settantina, che non avrebbe detto una parola per tutta la
sera, e un operaio di Berlino. Passammo subito alle presentazioni
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davanti a un piatto di fusilli scotti al pomodoro. L’australiano
studiava architettura a Parigi e non riuscivamo a capire il motivo
per cui fosse lì. A un tratto l’affascinante e minuta cameriera,
responsabile di non poche mie distrazioni, mi porse il secondo
piatto e, dinanzi a un mio atteggiamento di profonda perplessità,
mi fece notare che si trattava di una trota di fiume con patate e
verdure grigliate. Molto meglio della pasta scotta. L’operaio,
mentre lottava con le spine e cercava di mettere in bocca qualche
pezzo di pesce, iniziò a parlare con me: mi chiese da quale parte
d’Italia venivamo e se facevamo il Cammino. Era stanchissimo e
mi raccontò che era intenzionato ad arrivare a Finisterre a piedi,
aveva a disposizione un mese e una settimana. La coppia si teneva
per mano dolcemente, parlava poco ma eravamo riusciti a capire
che erano degli imprenditori e avevano circa due mesi per
terminare il Cammino. Chiedevano a Dio il perdono per aver
licenziato e trattato male tanti loro operai. Dopo il dessert, crema
fritta o zuppa inglese o tiramisù, ci congedammo per andare a
dormire.
Non riuscivo a togliermi dalla testa la cameriera; decisi di
riscendere, ma non c’era più; dovetti accontentarmi di sognare.
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Camminando verso l’Oceano
IV.
Dopo aver comprato frutta, pane e miele per il pranzo, in un
supermercato fuori Roncesvalles, io e St riprendemmo il
Cammino.
Un gruppo di imbecilli sulla quarantina cercò di farci sbagliare
direzione, dicendoci di proseguire per una strada opposta a quella
in cui continuavano i segnali. Le loro facce poco affidabili e il
tono di disprezzo con cui ci avevano chiamato “peregrinos!” ci
insospettirono e, prestando ancora più attenzione del solito,
riuscimmo a evitare uno spiacevole contrattempo.
Giuste invece furono le indicazioni, qualche ora dopo, di un
contadino che, con un potente “Buen camino”, ci suggerì con
braccio teso la direzione da prendere. Aveva fermato di proposito
il trattore con il quale era da poco uscito da un casolare.
Costeggiammo per qualche minuto graziose casette e poi
imboccammo un sentiero di campagna che proseguiva tra alberi
alti e sottili, dal tronco quasi completamente verdastro. Di tanto
in tanto dei rudimentali cancelletti di legno interrompevano il
percorso, ma si aprivano facilmente.
Nel primo pomeriggio ci affiancò un tipo sulla sessantina. Aveva
raggiunto Lourdes in moto da Brescia e aveva iniziato il
Cammino da Saint Jean. Portava uno zaino di diciotto chili, i
nostri insieme ne pesavano venti. Si lamentò della moglie che gli
aveva fatto portare roba inutile, ma fu contento quando gli
suggerimmo di spedire indietro un po’ di cose. Aveva intenzione
di compiere il Cammino in venti giorni. Diceva di essere uno
sportivo e si vedeva dal suo fisico, dal passo e da come
impugnava le aste da trekking.
Dopo aver preso una stanza presso la casa di una simpatica e
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gentile signora, nei pressi del ponticello che porta al centro di
Zubiri, facemmo un giro e ci fermammo per cena al Dux.
All’entrata un grande schermo trasmetteva l’incontro di calcio
Espanyol-Barcelona e tanti tifosi esultavano per una bella azione
che si era appena conclusa. Ci venne incontro una ragazza e ci
chiese se volevamo cenare o prendere semplicemente qualcosa al
bar. Ci accompagnò nella sala sul retro, dove c’erano alcuni tavoli
apparecchiati per quattro e uno per dieci. A quello grande era
seduto il tipo di Brescia con altri nove camminatori che non
avevamo mai visto fino ad allora. Ci dispiacque non poterci unire
a loro, ma riuscimmo a scambiare quattro chiacchiere prima di
sederci al nostro tavolo.
Zubiri è una piccola cittadina, più grande dei paesini che si
attraversano in precedenza; non è difficile trovare negozi, banche,
distributori automatici di bibite, sigarette e preservativi.
Mentre attraversavamo una piazzetta, ci veniva incontro un tipo
che, portando in mano un compact disc e fissandolo di tanto in
tanto, asseriva delirando di essere il lettore cd del posto. Gli
sorridemmo divertiti e continuammo nel vedere, non molto
lontano da noi, l’operaio di Berlino. Solo e pensieroso, era
appoggiato a un muretto. Scambiammo qualche impressione sulla
giornata, poi lo salutammo e tornammo in camera: la stanchezza
si stava impossessando di noi.
Disteso con lo sguardo verso il soffitto giallino, pensai a Marin e
considerai che per tutto il giorno non l’avevamo incontrata. Mi
preoccupai di non rivederla più lungo il Cammino. Sognai di farci
l’amore, proprio in quel posto e in quel preciso momento. Stetti
davvero bene provando una forte emozione.
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Camminando verso l’Oceano
V.
C’incamminammo verso Larrasoana alle dieci. Per circa due ore
non avremmo incontrato cose interessanti né tanti camminatori,
eravamo soli. Incominciammo a renderci conto che forse, per
quanto belli i posti successivi, non avremmo più visto scorci al
pari di quelli del primo tratto dei Pirenei. Ci aveva anche turbato
il costeggiare una brutta e puzzolente fabbrica a qualche
chilometro da Zubiri.
Il tempo era cattivo e piovve abbastanza sia in mattinata che nel
primo pomeriggio.
Entrammo in Larrasoana attraverso il piccolo ponte medievale.
Costeggiammo la chiesa di San Nicola di Bari, che era chiusa, e
proseguimmo lungo una strada a sinistra. Avemmo l’impressione
di trovarci in una città fantasma: a parte una donna con un
bambino e due cani randagi, che avevamo incrociato poco prima,
non c’era anima viva.
Nei pressi di una cascata decidemmo di consumare il nostro
pranzo e riposare un po’ distesi ai piedi di un albero. Il tempo era
migliorato e dopo qualche ora, nei pressi di Burlanda, sarebbe
diventato davvero bello e caldo. Prima di ridare al nostro passo il
ritmo adeguato, ci divertimmo nell’osservare una mandria di
mucche. Non molto lontano sentivamo delle pecore al pascolo
con il proprio pastore.
Le strade di Burlanda brulicavano di gente ed erano piene di
bancarelle di ogni genere. Un pifferaio, alzando e abbassando lo
strumento, ci affiancò ballando. Uno scultore indiano ci volle
mostrare delle statuette in legno e avorio.
Da Burlanda cominciavano a vedersi segni più significativi di vita
cittadina. Da quel momento non avremmo incontrato solo
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Camminando verso l’Oceano
borghetti, distese verdi, campi di girasole e pecore al pascolo, ma
anche piccole e grandi città come Pamplona, Estella, Burgos,
Leon e la stessa Santiago de Compostela.
Usciti da Burlanda pensammo di dare un po’ di sollievo ai nostri
piedi, rinfrescandoli e sostituendo le scarpe da trekking con i
sandali.
Poco prima del ponte medievale che porta in Pamplona, un
simpatico ometto sulla settantina ci augurò un “Buen camino”,
indicandoci la direzione da prendere.
A Pamplona stemmo un paio d’ore, il tempo di visitarla, poi
decidemmo di raggiungere Cizur, il paese successivo a circa
cinque chilometri. Fu un vigile urbano a darci le indicazioni per
riprendere la strada.
Cizur è diviso in due parti: Cizur Menor e Cizur Mayor. A Cizur
Menor c’è l’ostello del pellegrino; entrammo per chiedere
informazioni e incontrammo lo spagnolo; seduto su un muretto
basso fissava i piedi malridotti. St fece un sorriso di gioia quando
incrociò il suo sguardo, io scoppiai in una forte risata nel vedere
quella scena dei piedi così buffa. Ci spiegò che non riusciva
proprio a metterli a terra e sperava di poter ripartire l’indomani.
Mentre lui e St continuavano a chiacchierare accanitamente, mi
chiedevo il perché le persone non prevengono quelle spiacevoli
situazioni con delle semplici azioni e un po’ di buona volontà.
Basterebbe cospargere i piedi con del talco dopo averli lavati,
mettere dei calzini puliti, e ripetere eventualmente l’operazione
durante la giornata se il piede incomincia a sudare. Il sudore è il
miglior alleato delle vesciche. Bisogna poi camminare con un
passo adeguato al proprio fisico. In questo modo quasi
sicuramente si scongiurano problemi o si riducono notevolmente.
Nel caso le ampolle spuntino però bisogna curarle
tempestivamente e non lasciarle così o, peggio ancora, attaccarci
su dei cerotti.
«Perché non rallenti il passo?» gli chiesi senza avere il coraggio di
aggiungere altro.
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Camminando verso l’Oceano
Mi sorrise e con aria compiaciuta ci spiegò: «Il passo deve andare
in sintonia con il ritmo dell’anima, altrimenti è come essere a un
concerto dove il vocalist non va a tempo di musica.»
Quel concetto e il modo in cui lo aveva espresso ci era piaciuto
davvero, nonostante non ci avesse convinto del tutto.
La responsabile della struttura ci spiegò che dovevamo
raggiungere Cizur Mayor per trovare una stanza e quindi fare un
altro chilometro.
Usciti dall’ostello ricevetti la telefonata di Bruno Silvio detto il
Saccarosio; mi chiese come stesse andando, mentre La’, di fianco
a lui, canticchiava “Forza ragazzi, siete grandi”. Gli confermai che
tutto procedeva per il meglio e sintetizzai quanto era avvenuto in
quei primi settantadue chilometri; gli dissi anche che era mia
intenzione aggiornarlo ogni cento chilometri circa, poi cadde la
linea e non riuscii più a richiamarlo, era irraggiungibile. Dissi a St
che erano in un negozio di sanitari, non molto distante da casa
mia; Bruno stava misurando dei water per il suo nuovo
appartamento. Mi ricordai che in quella zona i cellulari non
prendono quasi mai. In quel periodo Bruno spesso mi chiamava
da negozi di arredamento; un giorno in particolare si
scompisciava dalle risate perché una commessa gli aveva detto
che un certo tavolo era fatto con legno di pene; lapsus freudiano?
Bruno si era divertito anche la mattina di quel giorno: in treno, si
era avvicinato al suo scompartimento un minchione che, dopo
aver letto i numeri dei posti, si era seduto sul sediolino pieghevole
di fronte, in corridoio. Quando il controllore gli aveva chiesto il
perché non sedesse nello scompartimento, al posto assegnatogli,
aveva risposto che il suo posto era il numero ventinove, lato
corridoio.
Bruno e La’, come tanti al paese, erano davvero felici per quello
che stavo vivendo, a differenza di altri che dubitavano persino
che stessi facendo il Cammino.
St mi disse: «Queste persone hanno rimosso dal cuore la voglia
di sognare, che è il motore della Vita e per questo non credono
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Camminando verso l’Oceano
che certe cose siano realizzabili. Forse per invidia – o
semplicemente per indifferenza - sminuiscono quello che di
buono viene fatto.»
Io fui perfettamente d’accordo con lei.
Incontrammo Pedro e Nataly con Sofy, la figlia di otto anni che
li seguiva su una piccola bici. Ci diedero alcune informazioni su
come riprendere il Cammino l’indomani, senza tornare a Cizur
Menor; poi ci indicarono un alberghetto a tre stelle davvero
carino nel quale, a breve, avremmo preso alloggio. L’ingresso
dell’albergo dava su una piazzetta ed era di fianco a un pub, dove,
dopo un giro per Cizur e la contemplazione di una fantastica vista
notturna, avremmo passato il resto della serata.
C’era della buona musica e un grande schermo dava le immagini
di una partita del campionato spagnolo.
«Siete pellegrini?» chiese il cameriere nel porgerci i nostri toast.
«Camminatori, siamo camminatori» lo corresse St.
«Vi ho visto arrivare all’albergo con gli zaini. In genere qui non
trovate altri camminatori, di solito si fermano giù a Cizur Menor»
continuò il cameriere senza dire nulla a proposito della
precisazione di St, ma correggendo l’errore.
Gli sorridemmo chiedendogli che partita si stesse disputando.
Non ci sentì distratto da due ragazzi che lo avevano chiamato a
gran voce. Si trattava di Real Madrid-Valencia. Del Napoli non
sapevo nulla, avevo deciso di vedere le partite registrate al mio
ritorno, senza conoscerne i risultati. Avrebbe concluso il
campionato al sesto posto, entrando in Europa League.
Al tavolo di fianco, una bella e sensuale brunetta sulla ventina mi
stava fissando già da un po’, quasi non curandosi di ciò che stava
dicendo il ragazzo che le sedeva di fianco. Volli pensare che le ero
piaciuto: mi serviva per alimentare le mie fantasie, che in quei
giorni erano più intense del solito.
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Camminando verso l’Oceano
VI.
Intorno a mezzogiorno giungemmo in una piazzetta, dove
c’erano una fontanella e delle panchine. Su una sedeva Marin.
Quando la vedemmo la mia anima balzò in cielo in un secondo.
Mi sedetti subito accanto a lei, ci sorridemmo e ci raccontammo
di quei due giorni in cui non ci eravamo incontrati. Faceva caldo e
il sole era il sovrano in quel cielo terso e intensamente azzurro, a
differenza di quando avevamo lasciato Cizur, dove faceva
freschetto e piovigginava. Due donne sulla sessantina, sedute sulla
panchina di fianco, stavano mangiando. Mentre una raccoglieva
un pezzo di pane da terra, che le era appena caduto, per poi
continuare a mangiarlo, l’altra con uno scatto si alzava sbraitando
e prendendo a calci la panchina: un rivolo d’acqua, creato da St
che si rinfrescava i piedi, aveva raggiunto il suo zaino. In un
attimo le due presero le proprie cose e fulminandoci con lo
sguardo se ne andarono cantando in francese “O Santa Vergine
prega, per noi”. Tutti e tre scoppiammo a ridere e Marin,
scuotendo la testa, disse qualcosa in francese, che non
m’impegnai più di tanto a capire.
Dietro a un muretto, St andò a fare la pipì.
Riprendemmo il cammino verso le Sagome, sculture che
rappresentano vari tipi di pellegrini, e i mulini.
«A dopo, tanto vi raggiungo» fece Marin scherzando.
E così fu, dopo un paio d’ore ci raggiunse e ci superò in un
attimo. La rincontrammo però dopo, seduta sotto un albero,
sofferente per le vesciche. St notò che a quell’albero era legata
l’estremità di un’amaca, mentre l’altra era fissata all’albero
successivo. Non ci pensò mezza volta a far cadere lo zaino a terra
e a montarci su. Dopo qualche secondo dormiva profondamente.
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Camminando verso l’Oceano
Mi sedetti di fronte a Marin e tolsi la t-shirt sudata su cui era
scritta una mia frase: “Molti vivono guardando non oltre la punta
del proprio naso, io voglio volare più alto di un’aquila”. Dopo un
po’ anche lei tolse la maglietta. Ci fissammo e mi accarezzò il
petto baciandolo. C’inoltrammo nella campagna.
Quando fu tempo di andare, Marin decise di restare ancora lì, per
riposarsi un altro po’. Ci raggiunse qualche ora dopo nei pressi di
un paese a circa sei chilometri da Puente la Reina, bevve una
bibita fresca con noi e riprese.
Un tipo inglese, affiancandoci, ci chiedeva dove poter comprare
del vino bollente; noi non sapemmo dare risposta all’insolita
domanda.
A due chilometri circa da Puente la Reina, adocchiammo degli
annunci di affittacamere; purtroppo non c’era posto e, mentre
continuavamo a cercare, fuori dall’ostello del pellegrino
incontrammo lo spagnolo. Stavolta fu St a toccare il cielo in un
attimo. Ci disse: «È inutile cercare, il posto è piccolo e a quest’ora
le poche camere sono occupate.»
Ci consigliò di proseguire per Puente la Reina. Intanto iniziava a
piovigginare. Indossammo i nostri k-way e, respirando un odore
intenso di natura bagnata, attraversammo campi di granturco.
Arrivammo dopo circa un'ora. Un contadino grassottello,
augurandoci “Buen camino”, ci disse che a duecento metri
saremmo entrati nel paese.
In un piazzale un gruppo di tedeschi scendeva da un autobus
granturismo. L’autista ci disse che occorreva camminare altri
cinque minuti per raggiungere il centro storico. Lì, non molto
distante dalla chiesa di Santiago, trovammo posto in un grazioso
albergo in stile medievale.
L’indomani mattina, trovai St e lo spagnolo a fare colazione
insieme. Si sorridevano e parlavano con complicità, non mi
avevano visto entrare, quasi mi sentii un intruso. Gli accennai un
sorriso. Lo spagnolo affermò che si sentiva in forma, i piedi non
gli facevano male e sembrava che anche il corpo si fosse abituato
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Camminando verso l’Oceano
al ritmo dell’anima; questo gli avrebbe permesso probabilmente di
fare qualche chilometro in più. Non vedeva l’ora di arrivare a
Santo Domingo de la Calzada.
«È un posto magico, meraviglioso, essendo spagnolo ci sono
stato altre volte, ma non a piedi, ovviamente. Avverti una
sensazione splendida quando cammini per le strade del centro,
nei paraggi della Cattedrale. Andate a visitarla, è bellissima e
molto suggestiva! Troverete un gallo e una gallina vivi che da
secoli sono lì, ovviamente non sono sempre gli stessi» affermò
ridendo a crepapelle con aria compiaciuta. Io e St ci fissammo per
qualche istante. «Eh, succede sempre qualcosa di bello dopo aver
visitato quel luogo. La faccenda è legata a un miracolo: secoli fa,
arrivò a Santo Domingo una famiglia, due coniugi col figlio, che
faceva il Cammino. La figlia del proprietario della locanda dove i
pellegrini pernottarono s’innamorò perdutamente del giovane, ma
non essendo ricambiata, decise di mettergli nella bisaccia un calice
d’argento per poterlo accusare di furto. Il ragazzo quindi fu
condannato a morte con l’impiccagione. I genitori, prima di andar
via, volevano vederlo e mentre andavano sul luogo
dell’esecuzione sentirono la voce del figlio che diceva di non esser
tristi, lui era vivo, Santo Domingo lo aveva salvato. I due si
precipitarono dal giudice per raccontare della rivelazione e lui,
ridendo a più non posso, mentre impugnava un coltello e una
forchetta, disse che il ragazzo era vivo come lo erano il gallo e la
gallina che stava per gustare. Improvvisamente, sia il gallo che la
gallina si alzarono e incominciarono a svolazzare per la stanza.»
Finito il racconto, mise lo zaino in spalla e ci salutò con affetto.
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Camminando verso l’Oceano
VII.
Appena lasciato Puente la Reina, incominciammo a percepire un
suono incantevole, sembrava quello di un’arpa; mentre ci
avvicinavamo diventava sempre più chiaro. Un uomo di mezz’età
suonava l’hang e di fianco una bellissima giovane danzava al
ritmo di quella melodia. Erano l’egiziano Alì e l’indiana Shira.
Entrambi pregavano l’Altissimo, che prendeva il nome di Allah
per Alì e di Buddha per Shira, affinché la terza moglie dell’uno
guarisse da un brutto cancro e l’anima dell’altra si avvicinasse il
più possibile all’Illuminazione.
Dopo aver parlato un po’ delle nostre vite, iniziai a intonare una
canzone, scritta da me tre anni prima.
Mi aveva sorpreso quanto fossero stati bravi, Alì con l’hang e
Shira con i propri passi, ad andare a tempo con
quell’arrangiamento mai sentito. Mi venne voglia di cantare anche
i versi di due mie poesie.
Alì sedette accanto a St e, con pazienza e amore, le fece suonare
il suo strumento che tanto l’affascinava, mentre io e Shira, alle
loro spalle, contemplavamo l’orizzonte.
Restammo quasi due ore incantati dalla magia dei due artisti, poi,
dopo un immenso abbraccio e dopo che io avevo assaporato un
intenso bacio di Shira, decidemmo di riprendere il Cammino.
Anche Shira e Alì ci sarebbero rimasti sempre nel cuore.
Costeggiando un cimitero malridotto, ci trovammo davanti una
vecchia vestita di nero. Sembrava esser comparsa dal nulla. I suoi
occhi m’inquietavano quasi quanto l’albero di Orisson. Con una
mano impugnava un bastone malridotto e con l’altra chiedeva
l’elemosina. Le porsi qualche centesimo ma non sembrò
soddisfatta. Prese da una tasca una conchiglia nera, con sopra
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Camminando verso l’Oceano
disegnato in giallo il volto di una strega, e voleva regalarcela; con
gentilezza non l’accettammo e continuammo a camminare. La
vecchia incominciò a gridare sbattendo per terra il bastone. Corse
verso di noi ma inciampò e cadde. Mi fermai e cercai di capire se
avesse bisogno di aiuto ma in pochi secondi si rialzò e, da come si
dimenava e urlava, sembrava avere più forze di prima.
Fortunatamente, dopo uno sguardo potente di St, tornò indietro
gridando: «Aim gaim pussuffu’, galin aiim, iim bidim lectaru’.»
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Camminando verso l’Oceano
VIII.
«È tranquillo Igor, vuole solo giocare» ci fece un tipo sulla
settantina, quando il cane che aveva al guinzaglio, abbaiando,
aveva alzato le zampe all’altezza delle mie spalle. «Ne ho due,
l’altro, Chico, bianco e piccolino, è a casa» c’indicò con un cenno
la sua villetta «non li posso portare a spasso insieme, non mi
farebbero camminare. Sono come cane e gatto. Ah! Li ho trovati
entrambi in campagna, erano abbandonati e malconci e ora
vivono con me da tre anni.»
Io e St prendemmo coraggio e incominciammo ad accarezzare
Igor giocandoci. Di tanto in tanto riusciva a leccarci le mani.
«Andate ad Estella?» ci chiese.
«Sì» gli risposi.
E mentre stavo per domandargli quanto altro mancasse, lui disse:
«Ne avete per qualche altra oretta, dista cinque o sei chilometri da
qui. Ma se camminate li fate in un paio d’ore, il percorso è
abbastanza facile.»
Ringraziandolo, lo salutammo e proseguimmo. Ricambiò il saluto
agitando la mano all’altezza del naso e ci augurò “Buen camino”.
Qualche minuto dopo incontrammo Marin quasi barcollante, a
stento riuscì a salutarci, era di una stanchezza infinita. Le porsi
una bottiglietta d’acqua e le chiesi se avesse bisogno d’altro.
«Grazie» mi disse attaccandosi alla bottiglia e lasciandosi cadere a
terra. «Stamattina ho iniziato il Cammino correndo più del solito
e, con questo sole, questo caldo, non mi ha fatto bene. Mi
fermerò per un paio d’ore e poi cercherò di arrivare a Estella.»
Io e St non eravamo affatto stanchi fisicamente, con la nostra
andatura e le numerose pause sarebbe stato difficile arrivare nelle
condizioni di Marin, ma incominciavamo a essere stanchi
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Camminando verso l’Oceano
mentalmente. Il sole intanto era proprio pungente per cui, a pochi
chilometri da Estella, entrammo in una farmacia e comprammo
una crema solare e una rinfrescante. La farmacista ci disse che le
piacevano gli italiani; ci parlò di due ragazze, una di Ascoli e l’altra
di Reggio Calabria, che da qualche anno si erano trasferite lì.
Quella di Ascoli era la maestra di suo figlio. Quasi le invidiammo:
quel posto era molto grazioso e forse viverci sarebbe stato
fantastico.
Arrivati ad Estella, un signore sulla sessantina, al quale avevamo
chiesto delle informazioni, ci volle accompagnare a un B&B;
speravamo ci fosse posto. Emmanuel, così si chiamava, ci
raccontò che era in pensione da qualche anno e ogni giorno
cercava un buon modo per trascorrere il tempo.
«E quale modo migliore di aiutare due pellegrini!?» sottolineò
soddisfatto.
Evitammo di correggerlo precisando “camminatori”. Per quella
notte il posto c’era. Emmanuel compiaciuto abbozzò un sorriso
e andando via ci salutò con calore.
Dopo esserci riposati e rinfrescati, facemmo un giro per Estella.
In un bar mangiammo un sandwich prosciutto e formaggio e
qualcosa che assomigliava a un gateau di patate. Un gruppo di
tifosi stava guardando Inter-Barcelona, tristi per il vantaggio della
squadra italiana.
Quella notte dormimmo poco a causa del caldo. Il mattino dopo
decidemmo di fermarci un altro giorno. Passeggiammo tra le
stradine del centro piene di un andirivieni di persone dovuto
anche a due curiosi mercatini. Non pensammo più al Cammino
fino a sera.
Considerammo di aver fatto centotredici chilometri in sei giorni
e ne rimanevano altri otto per raggiungere Finisterre;
incominciammo a valutare se fosse il caso di continuare in
autobus o in treno, oppure camminare qualche altro giorno.
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Camminando verso l’Oceano
IX.
Non lontano dalla fermata del bus dal quale eravamo scesi e dalla
famosa Cattedrale della leggenda del gallo e della gallina,
scorgemmo, in fondo alla strada che avevamo appena imboccato,
il tipo di Brescia. Nonostante avessimo allungato il passo, non
riuscimmo a raggiungerlo. Si era perso tra la gente.
Dopo cena, nella piccola e graziosa hall dell’albergo,
conoscemmo Iren e sua madre Cristin. Venivano da Zurigo. Ci
dissero, in un italiano stentato, che facevano il Cammino per
curiosità e amore per la natura e gli ultimi cento chilometri li
avrebbero fatti insieme a Robert, il fidanzato di Iren. Sia Robert
che il Cammino li avevano conosciuti in seguito a uno spiacevole
avvenimento. Cristin ci chiese sorridendo se fossimo curiosi di
saperne la storia; a parte la nostra curiosità, che era tanta, era
evidente che volesse proprio raccontarcela.
«L’anno scorso, l’ultimo giorno di vacanza, mentre
passeggiavamo nel parco di Gaudì a Barcellona, due donne
slovene ci avvicinarono facendoci notare che avevamo i capelli
pieni di escrementi di piccione e ci aiutarono a pulirli. Dicevano
di trovarsi in Spagna per fare il Cammino e ci spiegarono cosa
fosse, visto che non sapevamo nulla a riguardo. Dopo qualche
minuto che le due se n’erano andate, ci rendemmo conto di non
avere più i portafogli. Quando andammo a sporgere denuncia, al
commissariato ci fu detto che quella sostanza, simile ad
escremento di uccello, viene spesso usata dai malintenzionati per
distrarre le potenziali prede. Nonostante non avessimo più soldi
né carta di credito, eravamo abbastanza tranquille per la prossima
partenza; ma, qualche ora dopo, in aeroporto annunciarono la
cancellazione dei voli per almeno un giorno, causa maltempo. A
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Camminando verso l’Oceano
quel punto iniziammo a preoccuparci! Robert, che era a pochi
passi da noi, aveva sentito cosa avevamo detto, percependo la
nostra agitazione. Si avvicinò e si rese disponibile ad aiutarci. Da
quel momento non si sarebbe più staccato da noi finché, due
giorni dopo, il Salvador Dalì non sarebbe arrivato nella stazione
di Zurigo. Il resto lo potete immaginare, la mia bambina e Robert
incominciarono a frequentarsi e… e ora siamo qui» concluse
Cristin con un atteggiamento soddisfatto e felice.
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Camminando verso l’Oceano
X.
Dopo esserci fermati qualche ora a Burgos, giusto il tempo per
fare una passeggiata per il centro e visitare la bellissima
Cattedrale, arrivammo in bus a Leon. Ci accolse con grandi leoni
di marmo posti alle estremità di un ponte che, dalla zona
dell’autostazione e della stazione ferroviaria, porta al centro. Ci
divertimmo a fotografare le sculture in ferro che si trovano per le
strade: un tipo legge seduto su una panchina, un uomo e un
bambino sono pronti per partire per chissà quale destinazione, un
gigante, quasi disteso sul marciapiedi, sembra scrutare e sfidare
tutto ciò che ha intorno.
In un grande centro commerciale acquistammo la versione
spagnola dell’ultimo cd di Eros Ramazzotti: da quel momento
sarebbe diventato la colonna sonora del nostro viaggio.
Mi distesi su una panchina e, con la testa appoggiata sulle gambe
di St, decisi di riposare un po’.
«Rich, ti è arrivato un sms!» mi disse St dopo un po’.
«Dov’è arrivato!?» le chiesi con voce debole e assonnata.
«Come dov’è arrivato, Rich!? Al tuo cellulare, dove vuoi che sia
arrivato, in tasca, tra le mani!?» mi disse scoppiando a ridere e
carezzandomi la testa. «Ti stai addormentando Rich, vero!?»
«Dai, prendi il telefonino e leggilo, leggi… lo, dai!» le chiesi con
voce sempre più da ubriaco.
St rideva a crepapelle, quasi non riusciva a respirare.
«Il mittente è DANYCUGINA: “Ciao cugino come va il cammino?
Tony vorrebbe essere lì con te, in quei posti meravigliosi. Ti
abbracciamo con affetto”.»
«Dai St, rispondile, ris… pondile… Ah e grazie per averlo letto,
dai… rispondile ris ris ris…»
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Camminando verso l’Oceano
«Dai, cosa vuoi che le risponda?»
«Scrivi, scrivi!»
«Dimmi, ti ascolto, vai» rise di nuovo a crepapelle, nel vedermi in
quello stato sempre più rimbecillito da una stanchezza che mi
divorava.
Dopo qualche minuto, perplessa ma divertita, mi disse: «Ascolta,
te lo leggo, ascolta cosa mi hai fatto scrivere! ‘Saremmo
onoratissimi di averlo con noi. Si può fare, se lui non fa solo
chiacchiere ma si erige al cielo e diritto va verso la meta, come un
guerriero di Carlo Magno o, meglio ancora, come un giocatore
del Napoli, non come uno della Juventus altrimenti manco un km
farebbe, ma essendo St tifosa del Catania ci possiamo mettere
anche il Mascara che un po’ più dell’uccellino corre. We o we o
gne gne gne’. Ah, Rich mi fai morire, ma come devo fare con
te!?»
«Vendimi!»
«Ti devo vendere? Ah, sì Rich!?»
«Sì… al mer… cato di Roncesvalles!»
«Ah ah ah ah ah, al mercato di Roncesvalles! Pieno delirio, è vero
Rich!? Ma mi hai sentito quando ho letto il messaggio per tua
cugina?»
«Certo, certo, concerto! Certo che… sì, dai mandalo, mandalo,
mandalooooo, prima che sia troppo tardi, avanza!»
«Prima che sia troppo tardi!? Ah! Vuoi che mandi questo sms
così com’è!?»
«Così proprio come l’hai letto, ma… ma… rileggilo un attimo, lo
voglio riascoltare, ci fosse qualche errore di forma, di contenuto,
lo correggiamo! Dai dai dai baby!»
«Oh Dio santo, santa pazienza, ascolta: ‘Saremmo onoratissimi di
averlo con noi. Si può fare, se lui non fa solo chiacchiere ma si
erige al cielo e diritto va verso la meta, come un guerriero di Carlo
Magno o, meglio ancora, come un giocatore del Napoli, non
come uno della Juventus altrimenti manco un km farebbe, ma
essendo St tifosa del Catania ci possiamo mettere anche il
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Camminando verso l’Oceano
Mascara che un po’ più dell’uccellino corre. We o we o gne gne
gne’. Ah, Rich! Ah ah ah ah ah ah sei un disastro, ma ti voglio
bene!»
«Vendimi!»
«Va bene ti vendo – ah! – e al mercato di Roncesvalles, è vero
Rich?»
«È vero St, ma ora… invia, invialo! Dai St, prima che sia troppo
tardi!»
«Davvero vuoi che lo faccia!? Tu sei pazzo, tu sei pazzo, Rich!»
«Invia… in… via, invialooooooo!»
«Fatto, inviato a DANYCUGINA!»
Dissi a St che spesso mi capita di delirare durante momenti di
dormiveglia. E chi è con me si diverte un mondo ad ascoltarmi e
a farmi domande su quello che dico per rendere la cosa ancora
più bella. Le raccontai di una volta in cui ero disteso sull’erba
con Ava, a Roma, nel parco dell’acquedotto. Dopo qualche
secondo di silenzio le avevo detto:
«Tu lo sai come la Nokia testa le batterie dei telefonini?»
«No, come fa?» mi aveva chiesto Ava.
«Producono una batteria gigantesca.»
«Grande quanto una parete, Rich?»
«No, un po’ meno, come un pannello pubblicitario.»
«E poi come la provano?»
«Con tantissimi cellulari: mille, duemila.»
«E come ce li collegano?»
«È sufficiente avvicinarli, è potente questa batteria!»
«E poi?»
«Vedono quanto dura, no!?»
Le raccontai anche di un’altra volta che ero sdraiato sulle gambe
di Cirla, in riva al mare di Gaeta. Qualche secondo di silenzio e
avevo esordito: «Quanto sei acida questa sera!»
«Ma non hai sempre detto che sono dolce?» aveva replicato Cirla.
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Camminando verso l’Oceano
«Tutte le mie donne lo sono, anche Marisa!»
«E adesso chi è questa Marisa?»
«La mia camiciaia.»
«La tua camiciaia?»
«Si, quella che mi sta facendo le camicie su misura.»
«Questa è nuova, ah!»
«Ne ha fatto una bianca e adesso ne sta cucendo una rossa e
dopo ne cucirà una azzurra, ne voglio dieci.»
«E quanto costano?»
«Duecentottanta euro ciascuna.»
«Non è un po’ tantino?»
«Dici che mi sta fregando?»
«Non lo so, non ho idea di quanto costi una camicia su misura.
Ma perché te le sei fatte fare su misura?»
«Vuoi mettere il piacere di farsi cucire una camicia addosso? E
poi Marisa è molto precisa, considera che ha misurato anche la
cicatrice della vaccinazione che ho sul braccio.»
«Ah, ah ah ah ah! La cicatrice della tua vaccinazione! E quindi
spenderai duemila e ottocento euro per dieci camicie? Mah, mi
sembra strano.»
«Dovresti vedermi quanto sono bellino, lì fermo, mentre mi
cuciono la camicia addosso; certo è un po’ seccante, per almeno
un'ora non mi posso muovere, però… vuoi mettere…?»
«Ma ti piace questa Marisa? Com’è?»
«È bona, ma questo non vuol dire nulla, sai quante donne bone
incontro?»
«Ah, non me la racconti giusta, Rich! Ah ah ah!»
«E che c'è di strano in tutto questo!?»
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Camminando verso l’Oceano
XI.
«Ehilà!»
«Ciao Contessa, come stai?!» feci sistemando l’auricolare del
telefonino.
«Bene Rich, solita vita, nulla di che in questo periodo, ma tutto
ok, direi.»
«Bene bene, la mia Contessa!»
«Tu dove sei?»
«In treno per Ponferrada, ci avviciniamo sempre più a Santiago.»
«Ti ho chiamato per dirti che ho finito di tradurre in inglese, in
tedesco ho bisogno di un’altra decina di giorni, i tuoi ultimi scritti.
Massimo per fine mese mando tutto all’editore. Invece, per quegli
appuntamenti con la televisione è tutto confermato per fine
giugno; un bel colpo direi, anche se a loro ho fatto credere che
gli facciamo un favore ad andare e per quella cifra.»
«Brava Contessa, sono proprio soddisfatto, così si fa, quelli così
meritano di essere trattati, altrimenti ti schiacciano.»
«Poi ieri mi ha chiamato Ingalo e vorrebbe incontrarti. Gli ho
detto che sei fuori…»
«Di testa se mi parli di lui! Vado fuori di testa, se mi parli di lui!»
le dissi infuriato. «Di’ a Ingalo di andare a… di andare…»
St mi prese le mani nelle sue, poi mi carezzò, sussurrandomi con
amore: «Non ti arrabbiare Rich, qualunque siano le motivazioni, ti
prego.»
Tornai quasi in me.
«Di andare al diavolo» continuò ridendo Contessa.
«Eh, da quando ho iniziato ad avere un po’ di successo con la
scrittura e la grafica… tutti, dico tutti, mi vogliono, soprattutto
molti di quelli che prima non mi consideravano minimamente; un
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Camminando verso l’Oceano
esempio?... Proprio Ingalo, che ha un conto in sospeso con me, e
tu lo sai molto bene quanto male gratuito mi ha fatto tre anni fa,
ma ora fa finta di nulla. Ingalo mi fa schizzare anche perché mi
fa pensare alla dottoressa Lupa e alla duchessa Achia, che stronze
anche quelle!»
«Ah, sì, mi ricordo, altri casini anche quelli. »
«Un altro esempio…? Lacondary. Fino a un anno fa mi facevano
una pressione da paura per costringermi ad andare via, e… ora
“Rich di qua”, “Rich di là”, comprano le mie tele, le mettono
dappertutto nelle varie sedi, si vantano di avermi nella loro
squadra e non sanno forse che è ancora per poco e poi anche loro
se ne andranno al diavolo!»
«Ti stai alterando di nuovo, dai Rich, dai» mi fece St, con un
sorriso pieno d’amore.
«È chiaro che ora questi signori vogliono usare la tua immagine
per…»
«Brava, brava, Contessa, sono dei paraculi da paura!»
«Beh, dai, però non ti arrabbiare, che risolviamo tutto!»
«Il fatto è che questa gente mi ha fatto molto male, senza valide
motivazioni, che è peggio ancora.»
«Lo so Rich, lo so, ma non devi permettere a questa gentaglia di
farti fare il sangue amaro, non devi dargli tutto questo potere.»
«Hai ragione e…»
«Volevo dirti anche un’altra cosa, me ne stavo dimenticando:
certe dichiarazioni, come quella fatta durante l’intervista per La
fatica della nostra terra, dovresti evitarle, te lo dico con tutto il cuore,
stai diventando un personaggio pubblico e…»
«Sì, ma quali dichiarazioni? Ora non ricordo di preciso, ricordo
solo che ne ho sparate tante» sogghignai.
«Te la leggo, ce l’ho qui davanti: ‘La società in cui sono nato e ho
vissuto finora (tra un po’ me ne vado, ora finalmente posso) è
una società di cui io non ho mai avuto tanta considerazione,
giusto quel minimo perché ne fanno parte delle persone che
stimo e a cui voglio bene. È una società perdente, più vali e più
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Camminando verso l’Oceano
non ti permette di emergere, più vali e più ti schiaccia; è una
società che premia gli ignoranti e i disonesti’. Hai perfettamente
ragione, sei sincero, ma questi modi di fare ti creeranno non
poche rogne. Ti trasformi, diventi una belva quando ti trovi ad
aver a che fare con il paese e con certe persone; il ragazzo
pacato, dolce, dove va a finire? Un po’ più di diplomazia, questa
gente così va trattata: ci si mettono loro in queste condizioni, un
po’ più…»
«Io voglio avere a che fare con la brava gente, con chi mi stima e
non mi usa; quelli furbi, falsi, disonesti, lontano da me quanto più
possibile! Io sto bene qui perché la maggior parte della gente che
incontri è semplice, sincera, umile, brava, gente per bene
insomma, e in ogni cosa che fa senti certi valori.»
«Mi chiedo invece se non stai un po’ idealizzando la gente che
incontri lì, viste le circostanze, l’atmosfera che stai respirando, i
luoghi in cui ti trovi, insomma l’esperienza bella e particolare che
stai vivendo.»
«Può darsi, Contessa, ma i concetti restano; non voglio gente
losca, negativa, accanto a me e alle mie cose, ma solo brava gente.
Quelli come Ingalo e Lupa si fanno belli, salvano le apparenze,
ma se devono passare sul tuo cadavere lo fanno senza problemi.
E anche Lacondary se ne fregava dei miei quadri, dei miei libri,
quando non ero nessuno. E così Ingalo, mi ha sempre
considerato un poco di buono e mi ha sempre, dico sempre,
messo i bastoni tra le ruote. Non fanno nulla se non hanno un
tornaconto, cara! Non hanno la minima idea di che cosa significhi
fare qualcosa per gli altri semplicemente per il gusto di farlo, per
fare del bene a qualcuno. No, io da qui, quasi quasi non torno
più!»
«Beh, lo abbiamo detto spesso che a volte è balordo questo
mondo, no!?»
«Dai basta, scusa lo sfogo, ma ora mi sento meglio!»
«Ok, dai, continua a divertirti, con questi me la vedo io, la tua
manager» mi tranquillizzò.
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Camminando verso l’Oceano
«Sì, brava, tienili lontano da me!»
«Ok, faccio il possibile. Ma parliamo ora di cose serie. Quando ci
vediamo e ci prepari una bella cenetta da te?»
«Dopo che sarò rientrato ci possiamo vedere a casa mia quando
volete, ma voglio preparare anche una cenetta tutta per te e ti
invito ad altre due: una a Roma e l’altra a Padova. Cucinerò per
una quindicina di amici, tutti rigorosamente velisti; mi hanno
chiesto in particolare i cannelloni panna, carciofi e spinaci e la
torta al cioccolato. Cucinare per me è un piacere e lo faccio
volentieri soprattutto per chi lo apprezza.»
«Ok, se posso non ne perderò una, stanne certo. Ci aggiorniamo
alla prossima?»
«Ok, alla prossima allora. Ciao Contessa, ciao, a presto!»
«Ah, scusa Rich, a proposito, dimenticavo, ci sei ancora?»
«Sì, sì, sono qui, dimmi.»
«Per quanto riguarda quella mostra a Londra, hai saputo quando
esponi?»
«Non ancora, ma per metà luglio dovrei avere una data sicura.»
«Speriamo non capiti nella prima metà di ottobre, sarebbe
difficile liberarmi e ci terrei a esserci.»
«Dai Contessa, non mi abbandonare proprio in quell’occasione,
speriamo capiti dopo, altrimenti per favore cerca di liberarti, ci
vuole qualcuno che mi affianchi e tenga testa a quei critici del
cazzo, mi sentirei perso.»
«Ehi, servo a così tanto io?» sorrise compiaciuta.
«A molto di più, altroché, sei una buona manager e non faccio
retorica.»
«Va bene, dai, anche per questo farò il possibile, ci aggiorniamo.»
«Ok Contessa, va bene, alla prossima, ciao.»
«Ciao ciao, Rich!»
Chiusi gli occhi, feci un profondo respiro. St mi prese la mano.
Considerai che, a causa di Ingalo, Lupa e quelli come loro, la
rabbia mi aveva vinto e l’odio stava prendendo il sopravvento.
Non doveva accadere: “La rabbia e l’odio accecano gli occhi
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Camminando verso l’Oceano
dell’anima, quelli devono restare sempre limpidi e pieni d’amore”
mi aveva detto una volta Pirello.
M’immaginai posto tra l’odio, una faccia losca e sogghignante, e
l’amore, un volto limpido e luminoso. L’odio mi metteva davanti
tutti quelli che mi turbavano: Ingalo, la dottoressa Lupa, il mio
capo, la duchessa Akia e altri ancora ed evidenziava tutto il male
che mi avevano fatto, incitandomi al disprezzo e alla vendetta.
Mi faceva immaginare Ingalo e il mio capo sofferenti per la fame
e la sete e io, poco distante, pieno di soddisfazione, bevevo,
mangiavo e gli dicevo: “Volete, ne volete un po’!?” e non gli davo
nulla, proprio nulla!
Mi faceva vedere la dottoressa Lupa che stava annegando in un
fiume infuriato dalle correnti e io, da una roccia, le dicevo: “Ehi,
sono qui, sono qui sopra, non mi vedi!? Hai forse bisogno di un
cannocchiale!? Non ti salvo, non ti salvo. Puttana!”; le lanciavo
una corda, che mi riprendevo non appena stava per afferrarla.
Mi faceva visualizzare la duchessa Akia legata a una sedia e
imbavagliata. Con una mano le tiravo i capelli e con l’altra la
schiaffeggiavo fortemente, fino a farle perdere il respiro e a farle
sanguinare il naso. Le dicevo: “Brutta stronza, mi fidavo di te, sei
una povera fallita, insignificante; ti sai solo ben vendere, ma non
vali un cazzo e questo lo sai. Hai ingannato me e i miei, ti sei
persino sostituita a loro in certe circostanze e mi hai rovinatooo!
E ora chi mi ridà quello che mi hai tolto, puttana! Chi me lo
ridààà!?”
Similmente immaginai gli altri in difficoltà e io godevo senza far
nulla per aiutarli.
Il bene cercava di farmi tornare in me. Mi faceva vedere quanto
queste persone fossero deboli, fragili, e bisognose di tanto aiuto.
“Su dieci persone tre sono santi, due i cattivi e gli altri cinque
sono poveracci addormentati, che forse non si sveglieranno mai
fino all’ultimo dei propri giorni” mi aveva detto una volta Pirello.
Il male mi attirava a sé come una calamita, mentre il bene si
disperava e cercava di riprendermi. Non volevo andare verso il
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Camminando verso l’Oceano
male, mi dimenavo, resistevo piantando saldi i piedi a terra,
chiedevo con tutte le mie forze alla Vita di salvarmi, desideravo
intensamente di trovarmi tra le braccia del bene, di sentirmi
l’anima leggera dal peso dell’odio e della rabbia. E mentre mi
vedevo sfinito ma determinato a non cadere nelle grinfie del male,
all’improvviso fui raggiunto da un fascio di luce che mi tirava
lentamente indietro, fino a portarmi in braccio all’amore. “No,
no, noooooo!” gridava il male.
A Ingalo e al capo lanciai un pezzo di pane ammuffito e una
borraccia che avevo riempito da una pozzanghera, alla dottoressa
Lupa lasciai afferrare la corda e legai l’altra estremità stretta a un
albero, liberai la duchessa Akia. Aiutai tutti gli altri che avevo
visto in difficoltà e, senza dire nulla a nessuno, mi voltai e andai
via. Una limpida e serena sensazione di benessere mi pervase
totalmente e mi fece ricominciare ad attingere alla fonte della
Vita.
Arrivammo a Ponferrada alle quattro del pomeriggio. Faceva
molto caldo ed era una splendida giornata. Una signora al di fuori
della stazione ci disse che dovevamo camminare circa dieci minuti
per arrivare al centro storico, dove c’era anche la fortezza
medievale dei Templari. Mi ricordai che in treno una ragazza,
seduta qualche posto più avanti a noi, parlando al cellulare,
diceva che l’indomani sera, proprio alla fortezza, ci sarebbe stato
uno spettacolo teatrale, durante il quale sarebbe stato coinvolto
anche il pubblico. Una sorta di teatro interattivo, da quello che
avevamo capito. La cosa ci era piaciuta e ci aveva entusiasmato.
In poco più di mezz’ora avevamo trovato un modesto ma carino
B&B: Da Mario. Il proprietario, Mario, non sapeva nulla
dell’evento teatrale dell’indomani, né sapevano nulla all’osteria,
dove avremmo cenato qualche ora dopo.
Correva l’anno del Signore 1183. In una stanza, nella fortezza di
Ponferrada, giacevo morto su una grande pietra. Ero stato un
valoroso Cavaliere Templare. Intorno a me, illuminati dalla
debole e tremula luce delle torce, c’erano quasi tutti quelli che
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Camminando verso l’Oceano
avevo incontrato durante il Cammino. Marin con una mano
teneva la mia e con l’altra si asciugava le lacrime, una mi cadde
sulla guancia. Fuori si udiva l’avvicinarsi di una processione che
intonava canti gregoriani. Mentre si apriva la porta, mi trovai nel
XXI secolo. In un grande campo, sotto una quercia secolare,
c’erano i miei parenti e amici, mia madre aveva il volto gonfio e
pieno di lacrime. Padre Xavier, vestito di bianco, apriva un’urna e
spargeva al vento le mie ceneri. Tra gli amici c’erano anche quelli
della mia band e del coro che intonavano Gli Angeli di Vasco
Rossi. Le ceneri avanzavano sui campi di grano, le distese d’acqua
e i paesi fino ad arrivare a un pontile avvolto da un azzurro
intenso. Alla fine di quel pontile…, nella stanza del B&B di
Ponferrada, fui svegliato di colpo da Mario che bussava alla porta
dicendo: «È ora di lasciare la camera o confermarla per un’altra
notte.»
Decidemmo di confermare.
Dello spettacolo teatrale nessuno sapeva nulla e quella sera alla
fortezza non c’era anima viva.
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Camminando verso l’Oceano
XII.
In treno verso Santiago ebbi un incubo di cui, per ora, non voglio
raccontare; al mio risveglio mi fece sentire profondamente
tormentato. St mi raccontò che, mentre dormivo, mi chiedevo
continuamente, con sempre più durezza, perché ci trovassimo su
quel treno. Non riuscivo proprio a tranquillizzarmi, nonostante St
tentasse di farmi capire che non aveva senso tutto quel tormento.
I cattivi pensieri, con furbizia e ostinazione, volevano prendere il
sopravvento. Riuscii per fortuna ad addormentarmi di nuovo,
proprio quando un terribile mal di testa mi stava facendo
diventare matto. Mi svegliò St qualche minuto prima dell’arrivo a
Compostela. Mi sentivo abbastanza bene, più rilassato. Dopo un
po’, però, mi vinse un forte senso di delusione, proprio quando
percepii Santiago come una normalissima città, col proprio caos,
le vie piene di grandi negozi e i lavori in corso.
In albergo l’istinto mi vinse e quasi come impazzito scrissi a tutta
la rubrica un sms: ‘Santiago è una città normale, col proprio caos, con i
propri casini, molto meglio i paesini del primo tratto del Cammino. E non ho
trovato Dio ad aspettarmi! Dov’è, dov’è!? PORTATEMI DIO, LO VOGLIO
VEDERE, PORTATEMI DIO, GLI DEVO PARLARE…(Vasco Rossi)’.
Quell’incubo in treno mi aveva preso la mente, sconvolto,
condizionato non poco.
“Ma cosa mi aspettavo da Santiago, pensavo di vedere forse gli
angeli che fluttuavano ad altezza d’uomo, o cose del genere?” mi
chiedevo. Quella parte del cervello che amava tormentarmi stava
di nuovo trionfando; ma stavolta riuscii a tranquillizzarmi più
facilmente, facendo una doccia e pensando alle cose belle che
avremmo potuto fare quella sera.
Appena St si rese conto che ero tranquillo, mi disse sorridendo:
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Camminando verso l’Oceano
«Ma quale Dio vorresti trovare e proprio qui a Santiago? Dio lo si
può trovare dovunque, lo sai, e penso che tu lo abbia già trovato
da tempo. Sicuramente non come molti altri credono di averlo
trovato, ma questo è un bene, ti allontana dalla mediocrità e
dall’ipocrisia. E forse quell’sms voleva essere anche una
provocazione per chi ha trovato Dio sulla base del nulla o quasi.»
Le parole di St contribuirono ancora di più al mio benessere.
Arrivammo alla Cattedrale quasi a mezzanotte. Nonostante fosse
bella, non mi aveva colpito particolarmente; mi chiedevo se
quella di Burgos non fosse più bella e imponente. St considerò
che le sensazioni negative che avevo avuto a Santiago, forse,
dipendevano dalle eccessive aspettative che avevo riposto in
quella meta e dal terribile incubo. Magica, invece, era quella notte,
pullulante di stelle e di persone che erano nella piazza antistante la
Cattedrale. Alcune, distese, contemplavano il cielo, altre
dipingevano, altre ancora cantavano, suonavano e ballavano. Io
e St ci aggregammo a un gruppo che stava intonando Blowin’ in the
wind, di Bob Dylan. Tutti, tenendoci per mano, cantammo
melodie universali, ognuno nella propria lingua. E in quella
splendida e romantica notte, piena di pace e di fratellanza, ci
sentimmo davvero felici.
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Camminando verso l’Oceano
XIII.
A Finisterre scendemmo dall’autobus alle diciassette circa. Ci si
avvicinò Diego, un ragazzo sulla trentina, pelle olivastra e capelli
ricci neri. Ci propose di andare ad alloggiare presso l’albergo del
fratello Victor; mostrandoci un volantino con delle foto ci invitò
ad andarlo a vedere, senza alcun impegno. Era davvero grazioso e
decidemmo di restarci due giorni.
A cena ci fu presentata una coppia di Milano che aveva fatto da
Leon tutto il Cammino a piedi. Entrambi piacevoli, lui però poco
loquace. Ci ricordarono che stava per incominciare la partita di
Champions League Barcelona-Inter. Ci trovammo presto insieme
a un gruppo di spagnoli, tra cui Diego e Victor, nella grande sala
a piano terra.
«Basta anche uno 0 a 0 per l’Inter» commentò il milanese,
((incominciando con quella frase a dire qualche parola in più.))
L’Inter eliminò il Barcelona e mi dispiacque moltissimo leggere
amarezza e delusione sul volto degli spagnoli. Diego, con occhi
bassi, quasi piangendo e con la mano sul petto, ci disse: «Era goal,
era goal, non lo ha preso con il braccio il pallone, ma con il
petto.»
Faceva riferimento al goal non convalidato al Barcelona. La
delusione sarebbe durata fino al giorno dopo, ci tenevano
davvero a quella partita.
L’indomani ci svegliammo tardi. Visitammo al porto il mercatino
dei pescatori, passeggiammo fino al faro e alla spiaggia, dove
saremmo ritornati alle dieci di sera per contemplare il tramonto.
Proprio al tramonto, in riva al mare, coi piedi bagnati dalle onde,
ci sentimmo profondamente sereni. Erano stati giorni magici. St
prese le mie mani nelle sue e guardandomi negli occhi disse: «Si
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Camminando verso l’Oceano
sta proprio bene qui, non credi? Abbiamo veramente vissuto dei
bellissimi momenti, pur non essendo arrivati a piedi. Pensavo
però una cosa… te ne volevo parlare nel pomeriggio, ma poi ho
deciso di dirtela proprio qui e in questo momento. Che ne dici di
continuare gli anni successivi, almeno cento chilometri l’anno,
fino ad arrivare su questa spiaggia a piedi?»
Il mio cuore straripò di gioia, la strinsi a me e dandole il cinque le
dissi: «Ok, almeno cento chilometri a piedi ogni anno! Fino a
finire il Cammino!»
Una stella cadde lenta sull’oceano, quando il sole era da poco
scomparso all’orizzonte. Mi alzai, entrai in acqua e corsi verso
l’orizzonte quasi a volerlo raggiungere. Mi lasciai cadere
all’indietro e fissai il cielo per qualche istante. Mi rialzai tutto
bagnato e tornai indietro.
St non c’era.
Sorrisi, mi guardai intorno, mi gettai nella sabbia e gridai:
«Sttttttttt, St vuoi giocare a nascondino!? Non ti vengo a trovare,
aspetto qui, sono stanco!»
Passarono i minuti, ma St non tornava.
«Che palle St, ho capito ti devo venire a cercare!» feci
rialzandomi e dirigendomi verso un falò di sommozzatori
tedeschi che si ubriacavano e cantavano canzoni dei Beatles.
Pensai che si fosse unita a loro. Non c’era. Stetti lì un po’ nella
speranza che St decidesse di venire fuori. Percorsi poi la lunga
passerella di legno dietro la spiaggia che salendo portava a delle
panchine in pietra. Pensai che mi stesse osservando, facendosi un
mare di risate alle mie spalle.
Nulla! Non escludevo che fosse tornata in albergo. Ci andai ma
non era neanche lì. Di corsa tornai indietro. La cercai di nuovo al
gruppo dei tedeschi, alle panchine, per la spiaggia. Non potei più
pensare a uno scherzo così lungo, ma cercai di mantenere ancora
la calma, non facendomi vincere dalla paura che voleva prendere
il sopravvento. Cos’era potuto accadere!? Era tutto iniziato come
uno scherzo e poi St aveva avuto qualche problema? Era caduta
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Camminando verso l’Oceano
da qualche parte? Qualche cane feroce l’aveva aggredita? Mille
cattivi pensieri si susseguivano. Mi aveva seguito in acqua, il
pensiero peggiore, e… Quest’ultima idea mi terrorizzò, mi prese
la bocca dello stomaco! Riuscì ad entrare in me. “No, no, no non
pensare questo!” mi dissi con tutte le mie forze. Sperai che
quell’ipotesi non si sarebbe concretizzata.
Dopo un po’ iniziarono le ricerche, quelle serie: io, quelli
dell’albergo, i sommozzatori tedeschi, tutti uniti nel cercare St e
sostenere la mia disperazione. Diego mi diceva che in quella zona
non vedeva alcun pericolo e con quel mare calmo non poteva,
non voleva, confermare la mia terribile ipotesi. Mare calmo, sì,
ma dei cartelli posti all’inizio della spiaggia vietavano la
balneazione. Non potevo pensare che St si fosse inoltrata in
acqua e tutto in pochi secondi, senza che io me ne fossi accorto.
Ero stanco, non mi reggevo più in piedi, mi lasciai cadere in
ginocchio e coi pugni saldi nella sabbia gridai: «St, St, Sttttttt!!!»
Mi distesi sfinito.
«Ma i Beatles che fine hanno fatto? È morto solo John Lennon?»
chiedevo a St al telefono, sdraiato sul divano nel mio soggiorno.
«Veramente, che io sappia sono tutti morti tranne Paul
McCartney» rispondeva St.
«Ma sei sicura, St? Io non ho saputo nulla, che figura, non ho
mandato neanche un messaggio di condoglianze alle famiglie,
cerca d’informarti!»
«Rich, Rich…» rideva St «ti stai addormentando, è vero Rich? Sei
quasi o già nel mondo dei sogni e come al solito deliri, è vero
Rich?»
Non le rispondevo.
Dopo qualche minuto di silenzio dicevo con voce confusa: «Devi
informarti, assolutamente informarti, St!»
«Ah, sei ancora sveglio Rich, sono in internet e mi sto proprio
documentando sulla questione, mi hai incuriosita, se resisti
qualche minuto e non ti addormenti ti dico come stanno davvero
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Camminando verso l’Oceano
le cose» concludeva St ridendo.
«C i sei ancora, Rich?» mi chiedeva dopo un po’.
«Sì St, ci sono, ci sono, dimmi, dimmi!» le rispondevo con voce
debole e quasi ubriaca.
«Ne sono morti due, George Harrison e John Lennon. Il primo
di cancro nel 2001, Lennon nel 1980 assassinato da un fan.»
«Meno male che non sono morti tutti, almeno questo, però
sempre una figuraccia con le famiglie ho fatto, bisogna
recuperare… biso… gna… recuperare. Quando muore qualcuno
me lo devi far sapere, cazzo! È giusto che io sia vicino alle
famiglie in queste circostanze!»
«Ehi, eh, sveglia, sveglia…» mi chiamava Diego, tirandomi per
un braccio «nulla, purtroppo ancora nulla e il mare si sta anche
agitando, su sveglia!» mi schiaffeggiava le guance «è quasi mattino,
bisognerà avvisare la polizia.»
Mi alzai di scatto sedendomi, mi guardai intorno e incominciai a
piangere disperato.
«Noooooooooooooooo!» gridavo.
Diego mi mise la mano sulla spalla, prese la mia e mi aiutò a
rialzarmi.
«Non serve, non serve a nulla essere disperati!» considerò Diego.
Qualche ora dopo dichiaravo alla polizia quanto segue: «Ho
conosciuto St, Stefania Barcio, siciliana di Agrigento, ventisei
anni, sul treno da Parigi a Bayonne. Andava a Saint Jean Pied de
Port per iniziare il Cammino verso l’Oceano. Come me, aveva
due settimane di tempo per raggiungere Finisterre. Abbiamo
subito simpatizzato e parlando ci siamo resi conto di essere
compatibili su molte cose. Abbiamo per cui deciso di fare il
Cammino insieme. I primi sette giorni circa a piedi, il resto in
treno o in bus. Vive coi genitori e sua sorella Gina. Mi ha parlato
tanto della sua famiglia, dei suoi amici, ma in modo generico.
Prima di tornare a casa suppongo che ci saremmo scambiati i
numeri del cellulare e altro, ma durante il Cammino non ci
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Camminando verso l’Oceano
abbiamo pensato. Eravamo sempre insieme e non avevamo
probabilmente considerato l’ipotesi che ci potessimo perdere o,
all’inizio soprattutto, non ci interessava più di tanto. Negli
alberghi dove abbiamo pernottato non hanno i suoi dati. Ci
dicevano sempre che bastava solo un documento e io ero sempre
il più rapido a prenderlo, forse per una sorta di sfida col tempo.
Ho nel cellulare solo due foto, venute anche male. St non ama
farsi fotografare, ho dovuto sudare per avere quelle foto insieme.
Tra le sue cose, vestiti, trucchi, ho trovato anche un quaderno;
inizialmente ho pensato che fosse il diario del nostro viaggio. Ho
sbirciato un po’ tra le pagine ingiallite. Parla di episodi che si
svolgono a Pozzallo, in provincia di Ragusa. L’ultima pagina
scritta racconta di una gita a Modica che una certa Stefania, con la
sua famiglia, avrebbe dovuto fare l’indomani, 29 aprile 1928.»
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Camminando verso l’Oceano
XIV.
Erano trascorsi già tre mesi da quando St era scomparsa e io non
riuscivo proprio a darmi pace. Di continuo le varie supposizioni mi
pressavano la mente: “L’hanno rapita” ipotesi condivisa da Marin.
“Per scherzo si è nascosta e poi le è accaduto qualcosa” ipotesi
condivisa da Marin. “Ė entrata in acqua ed è annegata” ipotesi
condivisa da Marin. “Se n’è semplicemente andata senza dire nulla!”
ipotesi condivisa dal dottor Ul e Marin.
Tutte le ipotesi potevano essere valide, ma io desideravo tanto fosse
valida solo la quarta: mi dispiaceva averla persa, ma ero felice per
lei. Mi sembrava d’impazzire, anche perché quasi tutte le volte che
mi addormentavo avevo lo stesso incubo: scarafaggi, migliaia di
scarafaggi che venivano verso di me e la voce dei Beatles che
cantavano Help. Mi chiedevo se quell’incubo volesse significare
qualcosa, se St avesse proprio bisogno di aiuto, o era tutto solo uno
scherzo della mia mente, come sosteneva il dottor Ul. Volevo
considerare ogni cosa, non volevo tralasciare nulla. “Ma in che modo
potevo aiutarla? Da cosa potevo partire!?” mi chiedevo
continuamente.
Quella melodia mi tormentava anche da sveglio, me la sentivo sulla
pelle. Leggevo e rileggevo il testo per cercare di capire se tra le righe
fosse nascosta qualche indicazione.
Aiuto, ho bisogno di qualcuno,
aiuto, non di uno qualsiasi,
aiuto, sai ho bisogno di qualcuno, aiuto!
Ma il messaggio poteva essere semplicemente “Help!”, “Aiuto!”,
non necessariamente doveva esserci un indizio nel testo. Io intanto lo
rileggevo mille volte al giorno con ossessione, ma nulla. “Che potevo
fare?” continuavo a chiedermi.
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Camminando verso l’Oceano
Marin mi aveva consigliato di consultare Strunk, un indovino
austriaco; uno dei migliori, sosteneva. Gli indovini, i maghi e cose
del genere, non mi avevano mai convinto ma volli ascoltarla e le
chiesi di mettermi in contatto con lui al più presto, St poteva essere
in pericolo e ogni minuto era prezioso.
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Camminando verso l’Oceano
XV.
Strunk, dopo aver fatto una serie di domande su di me e
sull’accaduto, stette un quarto d’ora esatto a bisbigliare formule
magiche e ad armeggiare con un pendolo. Poi mi chiese se oltre
all’incubo degli scarafaggi ne avessi avuti altri, se avessi avuto
visioni o cose del genere, sia durante che dopo il Cammino. Gli
raccontai del sogno di Ponferrada e quello riguardante la morte dei
Beatles a Finisterre, proprio la sera della scomparsa; poi mi ricordai
dell’incubo che ebbi verso Santiago e del delirio di Leon.
Strunk volle approfondire soprattutto l’incubo di Santiago. Stette
qualche minuto senza parlare, poi sbiancò d’improvviso e urlò delle
parole strane cadendo a terra. Cantò alcuni versi di Help, ma con una
melodia tutta sua:
Aiuto, ho bisogno di qualcuno,
aiuto, non di uno qualsiasi.
Aiutami se puoi, mi sento giù,
e apprezzo molto che tu sia qui,
aiutami a tornare coi piedi per terra.
E adesso che la mia vita è cambiata in molti modi
la mia indipendenza sembra scomparire nella foschia
ma a volte mi sento così insicuro.
Io so che ho bisogno di te come non mai.
Scrisse qualcosa su un foglietto, lo chiuse in una busta e mi si
avvicinò. Mi prese le mani e disse: «St è in pericolo, la devi aiutare.
La percepisco in una condizione particolare: sotto o in qualcosa, al
disotto di qualcosa, non so di preciso dove e come, ma percepisco
qualcosa di basso. Vedo del fumo o forse nebbia, ma… quando mi
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Camminando verso l’Oceano
hai visto turbato ho sentito una voce, di questo non ti posso
assolutamente parlare, ma ti dico che ti devi sbrigare. Prendi questa
busta e custodiscila con cura, devi aprirla e cantarne il contenuto solo
se ti trovi di fronte a una situazione particolarissima, non so dirti di
che tipo, forse un grosso pericolo, devi percepirla tu. Non sprecare
questa possibilità, potrebbe portarti alla salvezza di St. Parti subito
per Finisterre, fermandoti a Ponferrada, Pedrouzo e Santiago,
massimo tre giorni per ogni tappa. Devi trovare assolutamente
qualcosa, sta a te capire cosa. A Santiago vai in Cattedrale, bagna
con acqua benedetta questa busta e prega a tuo modo. Da Ponferrada
devi procedere verso le mete successive solo con i tuoi piedi. Se
dopo tre giorni a Finisterre non accade nulla riparti per ritornare, non
è detto che Finisterre sia il posto dove potrai risolvere ogni cosa.»
«Tante informazioni, ma molto generiche, come faccio a capire i
momenti giusti, cosa è giusto fare!?» gridai con le mani in aria.
Strunk mi abbracciò e quasi piangendo disse: «Non posso e non so
fare altro, ma sento che devi assolutamente andare, è l’unico modo
per tentare di salvare St.»
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Camminando verso l’Oceano
XVI.
Il centro di Ponferrada era pieno di gente quella sera. Molti andavano
verso la fortezza. Io ero turbatissimo. Eliminate dalla mente le
domande “ma che sto facendo?” e “se tutto questo non portasse a
nulla?” e preso per buono che stavo andando ad aiutare St, c’era ora
da capire come individuare gli indizi giusti; cosa prendere in
considerazione.
Marin mi aveva consigliato di lasciarmi andare alla Vita e, non con
ossessione ma con attenzione, dovevo osservare, sentire, tutto quello
che mi circondava, tutto quello che mi accadeva, senza tralasciare il
minimo dettaglio.
Insieme ad altre persone, tra cui una coppia davanti a me con un
passeggino e dei ragazzini che affiancandomi saltellavano, presi la
salita che, illuminata da piccole fiaccole poste per terra alle due
estremità, portava nella fortezza. All’entrata due cavalieri in
armatura ci fecero passare tirando a sé le lance incrociate. All’interno
altri a cavallo simulavano tornei e azioni di guerra. A ogni angolo
c’erano scene che portavano i visitatori indietro nel tempo. Feci un
giro, poi entrai in una stanza dove, con mia sorpresa, trovai tante
persone intorno a un cavaliere morto. Una donna piangendo gli
teneva la mano. Rimasi ancora più stupito quando, dopo qualche
minuto, udii da fuori dei canti gregoriani. Uscii da quella stanza e
vidi avvicinarsi una processione di incappucciati che indossavano
qualcosa di simile a un saio. Pian piano entravano. Uno dei ragazzini
che, poco prima, saltellando, era entrato insieme a me nella fortezza,
mi distolse da quella scena; prendendomi la mano e tirandomi mi
faceva segno di seguirlo; la tenerezza del suo sguardo mi fece cedere.
Uno degli incappucciati corse verso di noi e, mettendomi una mano
sulla spalla, mi disse: «Devi andare via da Ponferrada, subito!»
Il ragazzino sembrò turbato da quell’affermazione, lo spinse e gli
disse di andare via, poi continuò a tirarmi fino a portarmi al cospetto
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di una splendida donna, capelli biondi e occhi azzurri, che mi prese
per mano, congedò il ragazzino, mi sorrise, mi carezzò e mi portò in
una parte della fortezza dove non c’era nessuno; ci amammo. Mi
disse che quello era solo l’inizio di una serata indimenticabile,
m’invitò a seguirla in una casa poco distante dalla fortezza, dove
altre splendide fate erano ad aspettarmi. La cosa mi entusiasmò e
agitò tutte le mie passioni ma, mentre la seguivo, uscendo dal
castello e facendoci spazio tra i visitatori, ricordai le parole
dell’incappucciato. E fui combattuto tra la voglia di passare la notte
lì e andare via. Sarei potuto ripartire l’indomani mattina intorno alle
otto, come avevo già deciso. “Ma se l’incappucciato aveva ragione e
serviva ripartire subito?” mi chiedevo.
Una vocina insidiosa e pungente cercava di distogliermi dalle parole
dell’incappucciato. Considerai che ripartire qualche ora dopo non
avrebbe comportato nulla. Era notte, poteva essere difficile affrontare
i percorsi del Cammino. Mi convinsi per un po’. Intanto veloci
attraversammo la piazzetta principale di Ponferrada. Le parole
dell’incappucciato però ritornarono a riecheggiare nella mia mente
fino a non lasciarmi più. Mi fermai, mi staccai con forza da
quell’angelo biondo e le dissi che dovevo andare, e voltandomi corsi
indietro. Lei mi raggiunse, mi riprese la mano e col suo sorriso mi
disse: «Dai, solo poche ore, abbiamo bisogno di essere amate
proprio stanotte e proprio da te!»
Mi chiesi se non fosse anche quello un modo per avere un indizio.
M’inginocchiai sfinito. Chi aveva ragione, l’incappucciato o la fata?
Quale delle due cose poteva servire al mio scopo?
E passai quasi tutta la notte ad amare quattro splendide sirene.
Ripresi il Cammino alle sei del mattino, circa due ore prima di
quando avevo previsto inizialmente, appena arrivato a Ponferrada. I
dubbi restavano, mi chiedevo in continuazione se non avessi
sbagliato, se non avessi dovuto riprendere il Cammino subito.
Tormenti, mancanza di fiato, sensazioni atroci. Ma niente e nessuno
poteva dirmi quale delle due scelte era giusta. Se avessi fatto il
contrario, se avessi dato retta alle parole dell’incappucciato,
comunque avrei messo da parte qualcosa. Il dubbio rimaneva
nonostante mi sembrasse di aver assecondato il volere della mia
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Camminando verso l’Oceano
anima. Se avessi ceduto semplicemente a delle meschine tentazioni
forse avrei sbagliato di grosso. Pensai che ormai era fatta, avevo
agito così e non serviva tormentarsi ma dovevo cercare di andare
avanti e tenere la mente vuota, limpida, per poter cogliere i segni.
Quest’ultimo pensiero e i consigli di Marin mi diedero un po’ più di
serenità.
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Camminando verso l’Oceano
XVII.
A pochi chilometri da Villafranca del Bierzo, in direzione di O
Cebreiro, vidi qualcosa di simile a una biglia, alla cui estremità era
legata una cordicella, che rotolava spinta da un debole ma continuo
venticello. Istintivamente mi lanciai verso terra e l’afferrai, proprio
quando stava per precipitare nell’avvallamento poco distante da me.
Qualche secondo di ritardo e l’avrei persa. Era una bella sferetta di
cristallo; pulii la terra che c’era attaccata e la misi al collo.
A Pedrouzo, dopo una lunga attesa, durante la quale più volte avevo
perso la pazienza e stavo per andare via, fui ricevuto da Alvia, una
vecchietta di novantadue anni considerata la portafortuna del
Cammino. Mi chiese perché fossi lì. Fui tentato dal raccontarle tutto,
ma poi mi frenai, la diffidenza mi vinse e le dissi che il motivo
fondamentale era la curiosità. Mi sorrise, mi carezzò il viso, con uno
sguardo quasi per dire “tu non me la racconti giusta”, e tenendomi le
mani recitò una strana litania in portoghese. Mi porse una croce
greca fatta con due bastoncini di legno legati da uno spago e mi
disse: «Ora vai, ho da incontrare tanti altri. Buen camino.»
Le diedi un bacio, l’abbracciai e andai via. Quella donna mi aveva
trasmesso amore e serenità. Stringevo tra le mani quella croce e di
tanto intanto la guardavo. Mi accorsi che sopra c’era incisa molto
piccola la parola lectarù.
Nella Cattedrale di Santiago rimasi quasi due ore chiedendo alla
Vita di aiutarmi; irrequieto camminavo da una parte all’altra, poi,
come mi aveva detto Strunk, mi avvicinai a un’acquasantiera e
bagnai la busta. Pensai di fare la stessa cosa anche con la sfera e con
la croce.
E mentre stavo per andar via, un monaco con il saio azzurro,
trattenendomi per un braccio, mi disse qualcosa in una lingua che
sembrava cinese. Non capii nulla né volli impegnarmi più di tanto a
farlo, ero davvero stanco; lo salutai con cortesia e decisi di tornare in
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Camminando verso l’Oceano
albergo. L’indomani mi sarei incamminato verso Finisterre.
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Camminando verso l’Oceano
XVIII.
Ore 20 e 45. Sono seduto in riva al mare. Le onde lambiscono i miei
piedi e i tormenti si fanno sempre più pesanti. Di St nessuna traccia,
non l’ho trovata ancora. Ma del resto non ho mai creduto davvero a
quanto mi ha detto di fare Strunk, ho sempre diffidato dei maghi. Mi
sa che sto perdendo solo tempo. St, approfittando di una mia
distrazione, quella sera se n’è andata, tutto qui! Devo uscire da
questa situazione: non posso fare altro, null’altro e non voglio più
pensare all’ipotesi che le sia successo qualcosa. Dopodomani
riparto, basta! Partirei anche domani ma, a questo punto, voglio far
passare tutti e tre i giorni, giusto per non lasciare nulla in sospeso.
O forse perché una parte di me in fondo confida un po’ in quel
mago? La verità è che sono confuso, sono tormentato, arrabbiato…
aiuto! Ed ecco che quella stramaledetta canzone, che un tempo tanto
amavo e ora quasi odio, torna a torturarmi. Help, I need somebody,
help!
Dopo aver scritto nel mio diario, mi distesi e, con gli occhi verso il
cielo, mi misi a riposare finché non mi addormentai.
Mi svegliai alle cinque del mattino seguente e scoraggiato decisi di
passeggiare per far passare il tempo, lasciando perdere, a quel punto,
segni e indizi. Dalla spiaggia andavo alle panchine di pietra, dalle
panchine tornavo alla spiaggia; poi andavo nel punto in cui quella
maledettissima sera c’erano i sommozzatori tedeschi, poi nella parte
dietro la spiaggia. Le 9, le 10, le 11… le 18, le 19 e il tempo scorreva
lento e pesante. Mi lasciai andare all’indietro sulla sabbia e gridai:
«Nooooooo, noooooo, noooo, basta!»
Caddi in un sonno profondo.
Appena mi svegliai con la luna piena in cielo e il mare che infuriava,
sbattuto da un forte e gelido vento, mi sentii le gambe calde e pesanti
come il piombo; sollevai la testa e centinaia, forse migliaia, di
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Camminando verso l’Oceano
scarafaggi coprivano il mio corpo fin sotto l’ombelico. Help, I need
somebody, help e quella canzone, mio Dio, di nuovo quella
stramaledettissima canzone, colonna sonora dei miei tormenti. Dopo
un po’ il mio naso incominciò a sanguinare. Mi diedi pizzichi, mi
schiaffeggiai, mi guardai intorno, ero sveglio completamente, mi
assicurai che non fosse un incubo, la ripetizione di quell’incubo che
avevo avuto in treno verso Santiago. Incominciava proprio così: gli
scarafaggi fino all’ombelico e il sangue dal naso. La paura, il terrore
aumentò in modo esponenziale. Dovevo fare qualcosa. Mi chiedevo
con ansia se tutto sarebbe andato come l’incubo. In tal caso mi sarei
ritrovato senza più forze, col corpo ricoperto completamente di
quegli insetti schifosi, senza riuscire a muovere neppure un dito,
pieno di sangue, e poi mi sarei visto precipitare nel nulla. Nero, tutto
nero. Ormai le bestiacce avanzavano velocissime e avevano superato
l’ombelico. Riuscivo a muovere leggermente il bacino, le braccia e la
testa. Con una mano mi asciugai il sangue, poi mi ricordai “La busta,
il mago!” e dallo zaino tirai fuori la busta, poi la croce. Strinsi la
croce nella mano destra poi la portai al petto e con l’altra mano
strinsi anche la sfera di cristallo che avevo al collo, ormai per me
diventata un amuleto. Aprii la busta e in fretta ma con attenzione
cantai:«Aim gaim pussuffu’, galin aiim, iim. » Nulla, nulla, ricantai e
ricantai ancora: «Aim gaim pussuffu’, galin aiim, iim.» Ah, mi
ricordai di ciò che era scritto sulla croce. Ricantai aggiungendo:
«lectaru’»; nulla, ricantai ancora e poi ancora come un dannato:
«Aim gaim pussuffu’, galin aiim, iim lectarù»; ma nulla. Strinsi la
sfera di cristallo con tutte le mie forze, la strappai dal collo e
gridando «maledetto mago, maledetto tutto!» la lanciai per terra. Ma
nel fare questo gesto notai che sulla sfera era inciso qualcosa, non ci
avevo mai fatto caso, sforzandomi e allungandomi riuscii a farla
rotolare verso di me. Non riuscivo a distinguere nulla, era tutto molto
piccolo. Presi velocemente dallo zaino la lente d’ingrandimento.
Sulla sfera era inciso Bidim.
Subito ricantai le parole che erano nella busta poi quella parola sulla
croce e quell’ultima sulla sfera: «Aim gaim pussuffu’, galin aiim, iim
lectarù bidim.»
Gli scarafaggi avevano superato il petto dirigendosi ancora più veloci
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Camminando verso l’Oceano
verso il collo. Ricantai e ricantai e ricantai ancora: «Aim gaim
pussuffu’, galin aiim, iim lectarù bidim.»
Nulla!
«Accidenti!» gridai, e sfinito mi lasciai andare al mio destino.
Quando gli scarafaggi avevano coperto quasi tutta la bocca, così,
come per miracolo, mi venne un’idea: ricantai le parole che erano
nella busta e poi quella parola che era sulla sfera di cristallo e infine
quella che era sulla croce: «Aim gaim pussuffu’, galin aiim, iim bidim
lectarù.»
Un’onda fortissima mi coprì e trascinò in acqua quasi tutti gli
scarafaggi, tranne uno che rimase stordito a qualche passo da me;
forse era morto. Le forze mi tornarono e quasi non credevo ai miei
occhi. Vidi il monaco col saio azzurro camminare in riva al mare,
guardandomi mi disse la stessa frase che mi aveva detto a Santiago e
in quella lingua incomprensibile. Poi con un sorriso pieno d’amore
continuò: «Ricorda, figliolo, la sfera è prima della croce ti avevo
detto a Santiago.»
Sedette in riva come per pregare. D’improvviso una luce venne fuori
dalla sfera di cristallo fino a raggiungere lo scarafaggio, poi da lì
continuò alzandosi per circa due metri e si allargò per almeno un
altro metro. In quella luce in pochi istanti si materializzò St. Sì, sì, da
quello scarafaggio quasi morto ritornò St. La luce d’improvviso si
dissolse; il monaco disse: «Aim gaim pussuffu’, galin aiim, iim bidim
lectarù; quando la meta raggiungerai, scarabeo diverrai e solo con
queste parole ti salverai.»
Il monaco scomparve e poi scomparvero anche la sfera, la croce e la
busta col foglietto. St riprese lentamente vita e, riacquistate le forze,
si gettò tra le mie braccia. Al di sopra dell’Oceano infuriato
vedemmo un intenso bagliore diffondersi nel cielo oscuro.
Sentii dietro di me una mano scuotere la mia spalla e, mentre mi
voltavo per capire chi fosse, vengo svegliato da Gabriella che mi
dice: «Ehi ehi, Domenico, Domenico, dai svegliati, svegliati,
abbiamo l’autobus tra un’ora.»
«Dio buono, Gabry…» faccio balzando fuori dal sacco a pelo «stavo
sognando! Ah, ah ah, ah ah, ho rivissuto tutto, proprio tutto, quello
che abbiamo fatto durante il Cammino, anche i miei dubbi, i miei
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Camminando verso l’Oceano
tormenti e la stessa promessa dei cento chilometri che ci siamo fatti
qui, ieri sera e… Lì tu ti chiamavi St, Stefania, e io Richard.»
«Può capitare di sognare cose fatte davvero, a me anche…»
«Sì, ma c’è dell’altro! Oltre quello che ci è davvero accaduto…»
scuoto la testa «a Santiago ho dato quasi di matto perché chissà quale
Dio mi aspettavo di trovare lì. E poi tu, proprio tu e proprio qui, dopo
che sono entrato in acqua, sei scomparsa. Sì, ah ah ah, io, i
sommozzatori tedeschi, Diego e gli altri dell’albergo, non sapevamo
che fine avessi fatto, Gabriella! Le ricerche, la mia disperazione, Dio
buono se ci penso era così reale!»
«La tua disperazione!? Ma allora un po’ mi vuoi bene, Domenico.»
«Certo, e ora ancora di più. La cosa buffa è che sei stata vittima di un
maleficio, ah! Poi io, proprio io, grazie a un mago e a un po’ di
fortuna ti ho salvata; eri diventata uno scarafaggio, uno scarafaggio
tra tanti, e…»
«Uno scarafaggio!? Dai, ora però andiamo, altrimenti perdiamo
l’autobus, mi racconti per strada tutti i particolari, sono davvero
curiosa» sorride e si rialza.
Raccolgo i sacchi a pelo, la prendo per mano, le sorrido e,
incamminandoci verso l’ albergo, inizio a cantare:
Help, I need somebody,
help, not just anybody,
help, you know I need someone, help.
When I was younger,
so much younger than today, I never needed anybody’s
help in any way!
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