Musica e liturgia - Coro S.Cecilia

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Musica e liturgia - Coro S.Cecilia
Musica e partecipazione nella liturgia
Giacomo Baroffio
Il discorso sulla musica e la partecipazione nella liturgia hanno un fondamento storico nella centralità della
Parola di Dio e dell’azione con cui si accompagna questa Parola nella storia quotidiana. Momento critico in
questa situazione è l’accoglienza da parte dell’uomo della Parola che va recepita, compresa e vissuta quale
essa è: Parola di Dio. Ogni momento dell’esistenza è segnato dalla presenza o dall’assenza della Parola in
un alternarsi continuo di luci e di ombre, di spazi vitali e di zone in cui la morte sembra regnare sovrana.
Questa precarietà che segna il cammino glorioso della Parola nella storia non è dovuta a limiti della Parola
stessa, ma alla povertà umana: povertà che è insieme mancanza di docilità allo Spirito, incapacità di aprire il
cuore, paura di ascoltare provocazioni che mettono in crisi e che comunque esigono un’accettazione
incondizionata di Dio e del suo messaggio.
La storia della musica nella liturgia cristiana segna una tappa di un lungo cammino iniziato nell’esperienza
orante di Israele, quando si è compreso che solo il linguaggio musicale era adeguato per trasmettere la
Parola di Dio nella celebrazione liturgica. Due i motivi principali: a) un fatto puramente fisico esigito dalla
necessità di far pervenire il messaggio divino a una cerchia vasta di uditori presenti in uno spazio ampio. La
semplice pronuncia parlata in casi del genere non permette a un discorso di raggiungere lunghe distanze. Il
gridare ad alta voce distorce i suoni e rende incomprensibile il messaggio. Di qui la scoperta di un tono di
voce che canta il parlato su una corda di recita ricca di armonici che permettono alla voce stessa di correre e
raggiungere un vasto uditorio. b) un fatto di rilevanza spirituale: ogni proclamazione è sempre anche
un’interpretazione di quanto viene annunciato. Il tono della voce, il mutare del timbro, la fluidità o gravità
nella pronuncia, il tono sommesso o forte sono tutte componenti che a livello istintivo, in modo intuitivo e
quasi sempre al di là di un processo razionale voluto coscientemente, rivelano ciò che è realmente percepito
quale nucleo centrale del discorso che si pronuncia o della parola che si legge.
Quest’ultima è forse la ragione principale per cui i nostri padri nella vita liturgica di Israele hanno elaborato
un sistema di proclamazione della Parola di Dio - la cantillazione - che è costituito da una serie di segmenti
musicali con particolari caratteristiche atte a permettere di identificare le grandi sezioni del pensiero e del
discorso con cui tale pensiero viene espresso. Ci sono pertanto formule di intonazione che evidenziano
l’inizio di ciascun periodo, formule di cadenza che esprimono la conclusione intermedia o definitiva del
discorso e altre strutture musicali tutte elaborate alfine di rendere comprensibile la Parola nel suo dispiegarsi
verbale. In tale modo essa è sottratta alla proclamazione-interpretazione di chi la pronuncia; in tale modo
essa è libera di dire se stessa a quanti l’ascoltano nella fede senza condizionamenti dei mediatori (i lettori, i
salmisti).
Come hanno affermato i padri della Chiesa, il Verbo di Dio è nato dal silenzio eterno del Padre. La Parola
nella liturgia esige di essere cantata, ma il suo orizzonte vitale, il contesto che permette di risuonare e di
essere un fatto di fede è il silenzio della preghiera. Silenzio che - come diceva Madeleine Delbrel - talvolta è
tacere, è sempre ascoltare. La musica nella liturgia - a maggior ragione rispetto ad altre situazioni come
opere sinfoniche e corali, dove le pause hanno un significato che non sì può mai sottovalutare - vive di
silenzio, scaturisce dal silenzio che nell’adorazione scava nel cuore lo spazio adeguato ad accogliere la
Parola. Parola e silenzio, silenzio e Parola in musica sono chiamati a tessere nella liturgia un contrappunto
armonico con momenti inalienabili di un silenzio anche solo materiale che troppo spesso manca, rischiando
di banalizzare ogni aspetto della celebrazione.
La primitiva comunità cristiana ha costruito l’edificio liturgico con riti, testi e musiche derivati in un primo
momento dalla tradizione ebraica. Con il passare dei secoli, ogni generazione nei diversi ambienti culturali
si è innestata sull’esperienza precedente compiendo però lo sforzo di vivere in prima persona, sui piano
individuale e comunitario, l’incontro con Dio. Esito tra i tanti possibili di questa epopea, radicata
nell’ascolto della Parola, è la risonanza che tale incontro provoca nel cuore umano. Si possono ammirare,
sotto questo aspetto, i tanti e diversi monumenti dell’arte cristiana dalle basiliche alle pitture murali, dai
mosaici e dalle miniature dei codici liturgici ai poemi e agli scritti traboccanti una infinita per il Dio
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crocifisso. Tra questo mondo di incanti, che ancora oggi lasciano attoniti, pieni di stupore, senza parole, le
melodie liturgiche sono una testimonianza privilegiata della fede vissuta. La storia ci insegna a discernere
tutta una serie di stratificazioni complesse e affascinanti a livello di ricerca. Ma ancora più grande è il
fascino che le melodie comunicano nella preghiera, facendo trapelare, tra le parole dei testi sacri, bagliori
incandescenti: le scintille dello Spirito che mettono a fuoco i cuori ottenebrati e paralizzati dall’abitudine,
dal formalismo.
In ogni epoca, per quanto c’è dato di conoscere a partire dall’età carolingia, nel mondo della liturgia la
musica, ma non solo essa, ha trovato continuamente un fecondo equilibrio tra il patrimonio che le veniva
consegnato con rispetto e riverenza dal passato e le istanze contemporanee. In ogni Chiesa locale la vita
concreta della comunità suggeriva a poeti e musici nuove espressioni capaci di cantare la fede nel presente.
Un equilibrio estremamente fecondo perché, mentre preparava il cuore all’ascolto della Parola, dischiudeva
la mente a prospettive nuove, metteva la persona mistica della Chiesa in grado di varcare la soglia del
futuro. Passato, presente e futuro sono i tre poli che da sempre autenticano il linguaggio musicale e poetico
nella celebrazione. Omettere o limitare anche una sola di queste tre istanze significa costruire sul vuoto: chi
si abbarbica al passato chiudendosi ai presente è un archeologo nostalgico senza speranza che non crede nel
presente perché fondamentalmente non ha fiducia in se stesso. Non ha il coraggio del rischio, è convinto di
sopravvivere scimmiottando il passato, come se l’esperienza dei nostri predecessori valesse
automaticamente per noi, oggi, qui. Ogni esperienza è positiva soltanto a condizione che sia vissuta in prima
persona. Il passato senza presente è un sogno fantastico. Confortante forse, ma è un sogno alienante d’e
trascina fuori della realtà.
Chi si illude di poter edificare il presente amputando il passato, di solito brutalmente con vera foga
iconoclasta, è come chi volesse costruire un edificio senza fondamenta. L’immagine è eloquente, ma
purtroppo in campo musicale, e prima ancora, nel solco della tradizione liturgica, spesso si è verificata. In
parte tale atteggiamento è dovuto semplicemente all’ignoranza delle cose, in parte perché si intuisce che
quanto si vuole costruire nel presente non regge il paragone con il passato. Non sono certamente d’oro tutto
il canto gregoriano e tutta la polifonia classica; ma di fronte ad autentiche opere d’arte balza agli occhi in
modo inequivocabile la miseria di tanta produzione musicale odierna destinata alla liturgia perché in altre
sedi non avrebbe accoglienza. E’ questo anche il frutto di una moda banale che richiama una lapidaria
sentenza del cardinal Suenens: “Chi sposa la moda oggi, domani è vedovo”. Ciò spiega la sterilità di tante
sperimentazioni odierne condannate a non aver futuro.
C’è anche chi si balocca con un futuro che non ha nessun retroterra nel passato e neppure nel presente.
Siamo anche qui di fronte a un mondo di sognatori che progettano l’irreale, vittime di programmatori abili
soltanto a pubblicizzare il vuoto totale. La novità per la novità: un miraggio utopistico che affascina e
stordisce quanti non reggono l’urto con la storia reale e cercano uno spazio qualsiasi pur di sottrarsi alla
difficile concretezza del presente, spesso causa di sofferenze e smarrimento.
Un primo problema di fondo nella vita musicale all’interno della liturgia è ricuperare con rispetto e
cognizione di causa l’equilibrio tra passato, presente, futuro. Poi è assolutamente necessario ricuperare il
linguaggio musicale, dato che di fatto oggi la celebrazione nella maggior parte dei casi è amusicale.
Le parti del presidente sono totalmente recitate: si pensi alle orazioni, alla preghiera eucaristica. Anche la
proclamazione del Vangelo, che spetterebbe a un diacono, solitamente è parlata senza nessuna modulazione.
Gli interventi sporadici dell’assemblea sono anch’essi recitati, spesso in modo disordinato.
Entrando in una chiesa durante il servizio liturgico di solito non si ascolta nessun brano in canto. Nel
medioevo, al contrario, non c’era parola che non fosse cantata, compresa la preghiera eucaristica. Certo, la
struttura melodica dei brani strettamente musicali, quali un introito e un alleluia, era diversa rispetto a quella
di altri generi di testi. Ma si ricordi che sia le orazioni che le letture erano modulati in base a tutta una serie
di repertori di canti destinati appunto ai recitativi liturgici dell’eucologia e alla proclamazione delle letture
(cantillazione).
Della situazione attuale la responsabilità non ricade principalmente sulla pastorale liturgica ancorché in
tante parrocchie essa sia latitante o del tutto inesistente. La causa/colpa è da attribuirsi piuttosto alla cultura
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diffusa del nostro tempo, un’epoca che vede la fruizione passiva di molta musica - perlopiù riprodotta su
disco - mentre negli ultimi decenni è sensibilmente diminuito il fare musica in modo attivo, vuoi con il
canto, vuoi a livello strumentale. Una situazione diffusa di analfabetismo musicale - si consideri, ad
esempio, la preparazione musicale totalmente insufficiente a livello scolastico - peggiora notevolmente la
condizione della musica nella liturgia perché di fatto le assemblee, almeno in Italia, non sono capaci di
cantare. L’insufficiente cultura musicale produce inoltre un’incoscienza artistica che si esprime nella
mancanza di giudizio critico sui prodotti commercializzati. In altre parole, si canta poco o niente, e quel che
si canta spesso non è consono alla dignità della celebrazione liturgica.
Per poter programmare un repertorio liturgico-musicale appropriato, occorre tenere presente due istanze: a)
la preparazione musicale dell’assemblea sotto il profilo tecnico. A questo livello s’incontrano molte
difficoltà perché la ricordata carenza di educazione musicale non permette l’impiego di canti che superino
una soglia pur minimale di difficoltà. Ciò significa che è altamente negativo il principio caldeggiato in
maniera entusiastica da alcuni gruppi nell’immediato postconcilio, cioè di far cantare tutto da tutti. Questo
principio comporta necessariamente l’esclusione non solo delle musiche tradizionali - in primo luogo il
canto gregoriano e la polifonia classica - ma anche di una gran parte della buona musica di recente
produzione. b) Più importante tuttavia è la seconda istanza: nel programmare un repertorio liturgico, la
questione di fondo non è mai in primo luogo di ordine musicale, bensì riguarda la vita di fede. Nella scelta
dei canti non devo domandarmi per prima cosa quale pezzo l’assemblea esegua volentieri o voglia cantare,
ma piuttosto devo chiedermi quale brano e dal punto di vista testuale e sotto il profilo musicale possa aiutare
l’assemblea liturgica a pregare.
È evidente che le possibilità di scelta variano in ogni Chiesa locale e ancora diversa è la scelta del repertorio
a seconda che si tratti di piccoli gruppi omogenei per formazione culturale oppure che ci si trovi di fronte a
una comunità di vaste proporzioni. Mentre nel primo caso è possibile fare delle scelte mirate che possono
prevedere l’esecuzione di brani di una certa difficoltà tecnica, nell’ultimo caso si devono affrontare indubbi
ostacoli che tuttavia evidenziano diversi aspetti dell’esperienza spirituale legata alla musica. Se è vero che
chi canta prega due volte - ammesso che si canti la fede e, nella fede, la lode di Dio per l’edificazione della
comunità orante -, non si può negare l’incidenza di questa espressione sonora della vita nello Spirito in
quanti non sono in grado di cantare. Questi ultimi in un silenzio di adorazione si pongono tuttavia in ascolto
della Parola e l’accolgono nella semplicità del cuore: senza avere la pretesa di cantare - perché di fatto ne
sono incapaci - ma con l’ansia di non lasciarsi sfuggire nulla di quanto lo Spirito oggi detta alla Chiesa
attraverso la voce dell’angelo, cioè del cantore che proclama la parola di Dio.
L’essere-preghiera costituisce l’unico parametro valido per giudicare l’autenticità della musica nella
liturgia: un’esperienza di fede illuminata dalla gioia estetica che scuote le fibre più profonde dell’esistenza.
Non si tratta affatto di sentimentalismo e di emotività superficiale perché, di nuovo, il carattere orante della
musica - cantata o ascoltata che sia nella fede - è a sua volta autenticato unicamente da una vita che si fa
carità, che diviene nel mondo “testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace
Alla luce di quanto si è detto, la situazione della musica nella liturgia appare oggi in Italia assai precaria.
Due serie di condizioni negative incidono fortemente.
a) in primo luogo l’infimo livello di cultura musicale a cui è stato condannato il popolo italiano dalla
dissennata politica statale con la mancata e insufficiente formazione scolastica. A questo panorama triste
si aggiunge la diffusione caotica di suoni e di rumori che impediscono la formazione nei bambini della
lingua musicale materna: la struttura fondamentale della coscienza musicale, un chiaro rapporto tra i
suoni (note) in un preciso e articolato sistema (strutture modali e/o scale tonali). Il risultato è evidente: la
massima parte dei bambini, ragazzi e giovani italiani non riesce più a cantare. Non si può dire che siano
stonati perché di fatto sono amusicali: emettono lamenti animaleschi, non suoni. Si aggiunga la
popolarità di “cantanti” realmente stonati e sgradevoli che sono presi come modello di riferimento: la
catastrofe sembra inevitabile.
In realtà il risultato finale di tutta questa serie difatti negativi è che la musica è qualcosa di estraneo, non
è più il linguaggio quotidiano per esprimere le emozioni profonde. Fino a pochi decenni or sono era
possibile sentire cantare - al limite fischiare - per le strade, nelle botteghe artigianali. In riferimento alla
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liturgia la domanda di fondo risulta disperata: una persona -cioè la quasi totalità di quanti costituiscono le
assemblee liturgiche - che non canta mai, che non esprime mai con il canto la propria gioia e il proprio
dramma sofferto nell’intimo del cuore, come potrà pregare cantando, come potrà esprimere la propria
fede con un linguaggio sconosciuto e totalmente estraneo, come se le fosse imposto di “recitare” le
preghiere in cinese o in arabo? Si assiste cioè impotenti a un appiattimento barbarico della società dove si
lascia che tutti i valori spirituali e culturali siano distrutti da mille consumismi alienanti, dove la persona
scompare inghiottita dal deserto del vuoto che lascia indifferenti, senz’anima, dove ciò che riesce a fare
ancora presa è soltanto il miraggio della droga e del mondo spettrale che essa sa alimentare. Certo, questa
prospettiva è un caso limite, purtroppo relativamente diffuso specie nel mondo giovanile, ma fiorisce e si
diffonde sull’onda di una diffusa insensibilità che oscilla tra l’amoralità e l’amusicalità. Distrutta la
poesia che c’è nella persona umana, rimane solo un animale selvaggio in balia dei burattinai di turno.
b) A questa situazione oltremodo penosa che si riflette sullo squallore di tante, troppe celebrazioni, si
aggiunge la mancanza di sensibilità dei pastori. Sembra a volte che si possa applicare a vescovi e preti
ciò che Abraham Joshua Heschel diceva di rabbini statunitensi: si preoccupano di riempire le sinagoghe
(= chiese) di fedeli, ma non pensano a riempire il cuore delle persone con l’unico nutrimento che sostenta
nella vita: la Parola di Dio. Se si osservano tante Messe domenicali ci si accorge che molte “intenzioni”
si sovrappongono e ipotecano la partecipazione dei fedeli; si tratta spesso di “intenzioni” nobili quali
possono essere gli interventi di solidarietà. Purtroppo non ci si accorge che si finisce per distrarre il
popolo di Dio dall’ascolto della sua Parola dimenticando che chi l’ascolta diventa anche facitore della
Parola e sacramento del Verbo, mentre tante iniziative sociali e culturali possono risolversi in meri
atteggiamenti di aggregazione e di sintonia psicologica senza un reale atto di fede.
Si ha pertanto l’impressione che la Messa domenicale serva talora a tanti scopi fuorché alla costruzione
della comunità di fede. La deficitaria attenzione al problema musicale è strettamente correlata alla
sottovalutazione della centralità della Parola di Dio che, sola, fa divampare il fuoco della carità, accende la
speranza e vivifica la fede. Nella misura in cui prevale l’efficientismo umano che tutto confida nelle
strategie persuasive che si fondano sulle scienze umane, si assiste alla corsa verso mezzi ritenuti “efficaci”,
di gusto “popolare”, che abbiano facile presa. Non c’è da meravigliarsi allora di entrare in chiese rumorose
ridotte a discoteche o, al contrario, in obitori affollati da persone musone e annoiate in un silenzio glaciale.
Casi estremi, che vanno da tante Messe dei giovani e quelle frequentate da soli adulti, riflettono la mancanza
di una seria pastorale che si fondi su un’assidua catechesi biblica e liturgica mirata a spezzare il pane della
Parola per rendere i cuori accoglienti del Pane di vita eucaristico, nella piena disponibilità a farsi carico dei
fratelli e delle sorelle più poveri e sfortunati.
La preoccupazione primaria nei confronti della Parola renderà i pastori attenti a quei linguaggi che la
possono meglio mediare in modo tale che Dio possa far giungere la propria voce al cuore dei suoi figli e che
questi ultimi abbiano i mezzi più adeguati ad alzare al Padre dei cieli il proprio cuore. La storia della musica
liturgica di circa 4000 anni, dalle prime esperienze di Israele a oggi, mostra l’importanza della musica quale
mezzo pedagogico e strumento di comunicazione che permette di esprimere la totalità di sé in quei momenti
nei quali la semplice parola parlata ammutolisce.
A fronte di una situazione precaria che si avvicina all’abisso della disperazione, è necessario promuovere
con tutte le forze e con ogni sforzo possibile ogni iniziativa che permetta di ricuperare la dimensione poetica
e musicale della persona umana. Occorre un largo movimento di opinione pubblica che scuota dal torpore le
autorità civili affinché intervengano a livello scolastico, dagli asili alle università e ai conservatori. Nella
Chiesa è necessario ricostituire le scuole diocesane e zonali di musica sacra con un serio impegno di
formazione - cioè un impegno faticoso e costante, lungo nel tempo - di quanti possono assumersi la
responsabilità di aiutare la comunità orante sapendo che per cantori e strumentisti vale ancora oggi la
formula espressa dalla Chiesa molti secoli or sono: “Sforzati di cantare con le labbra ciò che nel cuore vivi
nella fede e traduci canto e fede in carità operosa”. Occorre cioè bandire soluzioni facili e immediate
solleticate da una vana demagogia, mentre urge costruire tutto dalle fondamenta, a partire da una
formazione biblico-liturgica sino all’istruzione tecnica musicale a servizio della liturgia, facendo
comprendere che tutto ha senso se si svolge in un clima orante: di ascolto della Parola per trasmetterla alle
comunità, di ascolto di queste ultime per esprimere con la musica a Dio la preghiera della Chiesa.
Giacomo Baroffio
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