Vocabolario liturgico
Transcript
Vocabolario liturgico
VOCABOLARIO LITURGICO ABACO Piccolo tavolo che deve essere collocato vicino all'altare, dalla parte dell'Epistola, discosto, se possibile, dal muro, per posarvi quanto occorre nella Messa. Bibl.: R. Aigrain, Liturgia, Enc. populaire de connaissances liturgiques, Parigi 1935, p. 223. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 3-4 ACQUA SANTA È il sacramentale più comune della liturgia cattolica. Quanto all'uso liturgico, occorre distinguere fra l'a. che oggi serve esclusivamente per conferire il battesimo, preparata alla vigilia di Pasqua e di Pentecoste con l'infusione dell'olio dei catecumeni e del crisma (a. battesimale), e l'a. semplicemente benedetta (a. santa), di cui si serve comunemente la Chiesa confezionandolo con una miscela di sale mentre di recitano apposite preghiere. AD LIBITUM Espressione che in liturgia ha diversi usi: 1. si riferisce al libero uso di certe Collette; 2. musicalmente all'uso di canti recitativi individuali (toni di Orazioni, Epistole, Vangeli) o collettivi (toni comuni dell'Ordinarium Missae) Gregorio M. Suñol da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, col. 309 AD MULTOS ANNOS Saluto e augurio di lunga vita che il vescovo consacrato rivolge al suo consacrante al termine della funzione della consacrazione. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, col. 311 AGENDA Parola latina che significa "quello che si deve fare". In principio era usata in liturgia per indicare il Canone della Messa e anche tutta la Messa. In seguito indicò il complesso dell'ufficio e delle preci dei defunti. Vennero poi chiamate così anche le raccolte di preghiere e cerimonie per l'amministrazione dei sacramenti. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, col. 445 AGNUS DEI Formola liturgica introdotta nella Messa da Sergio I papa, seguendo un antico uso dei greci, con diretta allusione all'espressione di Giovanni Battista (Gv 1, 29). Esso si doveva cantare con la risposta: Miserere nobis, ripetuta più volte durante la solenne frazione del pane consacrato. Poiché questa solennità nel secolo XI si ridusse al solo celebrante, il canto fu limitato a tre invocazioni, la terza con la risposta: Dona nobis pacem. ALBA Vedi CAMICE ALCUINO Consigliere di Carlomagno, nato in Northumbria verso il 735, morto a Tours il 19 maggio 804. Opere liturgiche principali: edizione critica del Sacramentario Gregoriano, Liber Sacramentorum, De Baptismi caeremoniis, lettere a Carlomagno sull'aggiunta delle tre settimane alla Quaresima (Ep. 80 e 81), invocatio alla S.ma Trinità. ALLELUIA Acclamazione religiosa ebraica ("Lodate il Signore"), passata nella liturgia cristiana. Nel campo strettamente liturgico l'alleluia fu scelto come espressione rituale di giubilo cristiano che prorompe nella solennità della Pasqua e da questa si riverbera su tutte le altre feste dell'anno. Nella Chiesa romana sotto san Gregorio Magno introdusse l'alleluia in tutte le messe dell'anno, 1 escluso il tempo di Quaresima e l'officiatura dei morti. ALMUZIA Forma di cappuccio unito a una mantelletta, la cui parte posteriore era più lunga dell'anteriore, che costituiva nel medioevo l'abito corale di alcuni canonici. È ancora il distintivo corale dei canonici di alcune cattedrali e collegiate, ma la sua forma è differente dalla primitiva e varia nei diversi paesi. Bibl.: J. Braun, Liturgische Gewandung in Occident und Orient, Friburgo in Br. 1907, p. 335; Id., I paramenti sacri. Loro uso, storia e simbolismo, vers. it., Torino 1914, p. 161. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 914-915 ALTARE Superficie piana orizzontale, elevata da terra, destinata al sacrificio. Nella disciplina attuale l'altare è fisso o mobile. AMA Vedi AMPOLLA AMALARIO DI METZ (Amalarius, Amalharius) Teologo e liturgista medievale, sulla cui vita si hanno pochi e discussi dati storici. Sembra sia nato a Metz tra il 770 e il 775, morto ivi il 29 aprile, tra l'850 e l'853. Opere principali: Liber Officalis, detto anche De Ecclesiasticis Officiis (ultima ed. in 4 libri verso l'832), De Ordine Antiphonarii (dopo l'844), varie Expositiones della messa, l'Epistolario. AMITTO Indumento sacro di tela (m. 0,70 X 0,80 ca.), da porsi intorno al collo e sulle spalle, munito di fettucce per legarne i capi al petto. Bibl.: G. Bona, De rebus liturgicis. Parigi 1672, p. 226; J. Braun, I paramenti sacri, Torino 1924, p. 56: M. Righetti, Storia Liturgica, I, Milano 1945, p. 474 sg. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 1076-1077 AMPOLLA Vasetto a collo sottile e corpo di varia forma, destinato a contenere il vino e l'acqua per la Messa e gli oli santi. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 1113-1114 ANELLO Non si può determinare con certezza quando l'a. assunse nella Chiesa il significato di autorità, di dignità e di preminenza che lo fece riservare ai soli prelati e vietare al semplice clero: tanto più che non è facile, dai documenti che abbiamo, distinguere sempre l'a. sigillare dall'a. di dignità. Certo è che alla fine del sec. VI già si aveva, nella .cerimonia della consacrazione dei vescovi, la formola per la benedizione e la consegna dell'a. episcopale, come leggiamo nel Pontificale di Salisburgo, ca. l'anno 600. Il can. 28 del Concilio IV di Toledo (633) enumera l'a. fra le insegne del vescovo; ed i pontificali dei secoli seguenti stabiliscono che l'a. deve portarsi nel dito anulare della mano destra, e che si deve dare al consacrando prima del pastorale. Riservato così l'a. ai soli prelati, secondo le loro varie dignità, si ebbero vari a., di cui si dà una breve enumerazione. 1. GLI A. DEL SOMMO PONTEFICE. - Il Papa ha tre a. distinti : l'a. (v. sotto) del Pescatore (piscatorio), l'a, pontificale, l'a. ordinario. A. pontificale. - È simile all'a. che prendono i vescovi quando pontificano, ma è molto più ricco. Il Pontefice lo riceve dal cardinal vescovo assistente secondo le cerimonie proprie della Messa papale. A. ordinario. - Come i vescovi, il Papa porta abitualmente l'a. alla mano destra. Il Venerdì Santo per la Messa dei presantificati il Papa si reca in cappella senza a. in dito e senza dare la benedizione: ciò deve anche osservarsi da tutti quelli che ne hanno l'uso, in segno di lutto per la morte del Signore. 2. A. CARDINALIZIO. - È quello che i cardinali ricevono nel concistoro segreto, come distintivo della loro dignità, quando il Papa assegna ad essi i titoli delle chiese. Consiste in un cerchio d'oro con uno zaffiro sotto la cui legatura vi è in smalto lo stemma del Pontefice. Non se ne conosce l'origine, ma già si trova menzionato nel sec. XII. 3. A. VESCOVILE. - I vescovi hanno due a.: quello pontificale, per le funzioni solenni; e quello ordinario, che consiste in un cerchio d'oro con pietra circondata di brillanti. Sono concessi 50 giorni di indulgenza (S. Uff., 18 apr. 1909) a chi bacia l'a. di un cardinale o di un vescovo. 4. A. DEGLI ABATI e PRELATI "NULLIUS". - Il can. 325 del CIC concede agli abati nullius il privilegio di portare ovunque un a. con unica gemma, che viene dato ad essi, come anche agli altri abati regolari, nella solenne benedizione che ricevono. Si crede che la prima concessione risalga alla fine del sec. X. 5. A. DEI PRELATI INFERIORI. - Il motu proprio Inter multiplices di Pio X (25 febbr. 1905) regola in maniera definitiva l'uso dell'a. per protonotari apostolici. Solo i protonotari partecipanti possono ovunque e sempre portare l'a. con unica gemma: i soprannumerari e quelli ad instar participantium possono usare l'a. nelle sole funzioni pontificali. I protonotari onorari non hanno l'uso dell'a. Il CIC (can. 136, § 2) vieta l'uso dell'a. a tutti i chierici che non ne abbiano per legge o per indulto apostolico il privilegio. L'indulto apostolico è, in ogni caso, necessario per portare l'a. durante la celebrazione della Messa, a meno che non si tratti di 2 un cardinale, di un vescovo o di un abate benedetto (can. 811, § 2). 6. A. DEI DOTTORI. - Eugenio III, che istituì i gradi accademici, concesse ai dottori ritualmente creati l'uso dell'a. con una sola gemma. Analoga disposizione si trova nel can. 1378 del CIC. 7. A. NUZIALE. - Si dà dallo sposo alla sposa nell'atto della celebrazione del matrimonio, e viene benedetto per la mistica significazione che deve avere: segno del mutuo amore e pegno di indissolubile unione. Il suo uso passò nella liturgia cristiana dall'antichità romana. Bibl..: F. Liceti, De annulis antiquis, II ed., Udine 1645: J.-A, Martigny, Des anneaux chez les premiers chrétiens et de l'anneau épiscopal en particulier, Mâcon 1858; M. Deloche, Le port des anneaux dans l'antiquité romaine et les premiers siécles du Moyen-âge, in Mém. Acad. Inscript, 35 (Parigi 1896). Enrico Dante A. DEL PESCATORE. - È usato come sigillo nei brevi pontifici, di cui costituisce una delle principali caratteristiche, e in altri atti redatti dai segretari apostolici, come le cedole e le sentenze concistoriali. Il nome deriva dalla figura dell'impronta, che rappresenta s. Pietro pescatore. La sua origine si ricollega con l'origine stessa dei brevi. La prima menzione si trova in due lettere di Clemente IV del 1265 e del 1266 (Potthast 19051 e 19380) come sigillo segreto usato nelle lettere di carattere privato in luogo della bolla plumbea, che era il sigillo ufficiale e solenne. Il primo esemplare è costituito da un siigillo di Niccolò III (1277-80) in cera rossa, di forma ovale, alto circa cm. 2,5, appeso ad un reliquiario del Sancta Sanctorum al Laterano, ora conservato nel Museo Sacro della biblioteca Vaticana: in esso si scorge un giovane imberbe in piedi, che sorregge una canna da pesca con un pesce all'estremità della lenza, ed intorno si legge: † SECRETUM NICOLAI PP. III. Tuttavia fino al pontificato di Niccolò V il sigillo segreto non portò sempre la figura del pescatore: l'a. d'oro dell'antipapa Clemente VII (1378-94) conservato pure al Vaticano, porta il suo stemma sormontato dalla tiara e dalle chiavi; e il sigillo di Eugenio IV (1431-47) usato in alcuni brevi presenta le teste dei Principi degli Apostoli ("anulus capitum Principum Apostolorum"). Nei brevi di Bonifacio IX (1389-1404) l'a. piscatorio c detto "anulus fluctuantis naviculae". Con Niccolò V (5447-55) il tipo divenne costante: ovale impresso su cera rossa, alto circa 2 cm., con la figura di s. Pietro chino nella navicella in atto di tirare la rete, e nel cielo il nome del Papa seguito dal numero ordinale. Intorno alla cera (tranne nella parte inferiore) era attaccata una treccia di pergamena per proteggere il sigillo dallo strofinio. Nel 1842 il sigillo di cera aderente è stato sostituito da un timbro rosso rotondo, che conserva la rappresentazione dell'a. piscatorio. Bibl.: K. A. Fink, Untersuchungen über die päpstlichen Breven des 15. Jahrhunderts, in Römische Quartalschrift, 43 (1935), p. 80 sgg., dove è riportata la bibliografia precedente, tra cui v. specialmente F. Cancellieri, Notizie sopra l'origine e l'uso dell'a. piscatorio, Roma 1828; Ed. Watterton, On the "Annulus piscatoris" or Ring of the Fisherman, in Archaeologia, 40 (1866), pp. 138-42. Giulio Battelli A. NELL'ARTE. - All'avvento del cristianesimo i simboli c le figurazioni pagane che ornavano il sigillo cedono il posto ad altre di soggetto sacro che sono in stretto rapporto con il repertorio iconografico delle catacombe; nella massima parte degli esemplari - interessante per varietà di tipi la raccolta del British Museum di Londra - l'esecuzione è piuttosto sommaria e rozza. L'a. del vescovo trae origine dalla necessità che egli aveva di apporre il proprio sigillo ad atti ufficiali; in processo di tempo acquista il significato di suggello della vera fede e diviene simbolo di unione fra il pastore e la sua diocesi. Già nel sec. VII era in Spagna un normale attributo vescovile e tale divenne in Francia nel IX e poco più tardi in tutte le altre regioni dell'Occidente. In relazione col nuovo significato e col diverso orientamento del gusto, al sigillo inciso si sostituì di regola il castone con una pietra colorata talvolta incisa; non di rado vennero usati anche cammei o pietre lavorate dell'antichità pagana. Durante il Rinascimento l'a. raggiunge un elevato grado di arte anche per l'unione di varie tecniche come il niello e lo smalto; più massiccio nel castone appare durante l'età barocca. Merita particolare menzione l'a. piscatorio la cui forma è invariata almeno dal sec. XV; è un a. generalmente di bronzo dorato con cristallo di rocca inciso con la rappresentazione della navicella e il nome del Pontefice che di esso si serve per apporre il sigillo ai brevi; subito dopo la morte viene distrutto. Bibl.: E. Molinier, Histoire générale de l'art appliqué à l'industrie, I, Parigi 1902 ; H. Leclerq, s. v. in DACL. I, coll. 2174 2223; O. M. Dalton, Catalogue of the Early Christian Antiquities in the British Museum, Londra 1911, pp. 1-33. Guglielmo Matthiae da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 1217-1220 ANNO LITURGICO È la serie delle feste e dei tempi festivi della Chiesa, e ha avuto inizio ed evoluzione indipendentemente dall'anno civile. Ha inizio la prima domenica dell'Avvento, che cade sempre negli ultimi di novembre o i primi di dicembre. Nell'anno liturgico si contano le settimane, in numero di 52, a somiglianza della settimana creatrice di Dio. Il settimo giorno si chiama "giorno del Signore", dies dominica, mentre gli altri prendono il nome dal posto che hanno nella settimana: secunda, feria tertia, quarta, quinta, sexta, sabbatum, e incominciano la sera precedente. La domenica corrisponde alla feria prima, perché presso gli ebrei il sabato era il giorno del Signore. Le settimane, a loro volta, si riuniscono per formare i tempi, che costituiscono dei cicli, intorno ai quali si raggruppano. I due principali sono quelli di Pasqua e di Natale. Nel "calendario liturgico" attuale l'anno consta del Temporale, che si sviluppa secondo il ciclo pasquale con le sue feste mobili, e del Santorale, che segue il calendario civile, con le feste nei giorni fissi. ANTEPENDIUM Vedi PALLIOTTO ANTIFONA Da Antiphoné = canto alternato fra due cori. È una breve formola, composta da una o più frasi, che mette in risalto il siginificato del salmo: è come una chiave per l'interpretazione del salmo stesso, dal quale quasi sempre è tolta, e ne indica il pensiero principale. A volte illustra il mistero che si celebra, come le antifone proprie delle feste o del Commune Sanctorum, che sono brevi preghiere, lodi od invocazioni prese da passi scritturistici o composte ex novo. ANTIFONARIO Il nome deriva etimologicamente da antifona; oggi, però, per antifonario si intende il libro liturgico che contiene tutti i canti che servono per l'ufficio divino: quindi non solo antifone, ma anche inni, versetti, ecc. 3 ANTIFONE O Il 17 dicembre nella liturgia romana incomincia al Magnificat una serie di antifone speciali in preparazione alla festa di Natale. Si chiamano Antiphonae Maiores, per ragione della particolare solennità con cui vengono cantate, oppure Antiphonae O perché tutte cominciano con questa interiezione. ANTIMENSION È l'altare portatile dei greci. La Chiesa latina col tempo adottò solamente altari portatili di pietra, mentre la Chiesa greca si servì del legno ed anche della stoffa, usando poi definitivamente solo questa. Oggi l'a. è comunemente un rettangolo (talvolta un quadrato) di m. 0,40 x 0,60, di seta o anche di tela, che porta cucita nella parte posteriore una piccola borsa con dentro reliquie, inclusevi dal vescovo nella consacrazione. Gli dette origine la necessità frequente di celebrare i divini misteri lontano dalle chiese, o nei luoghi privi di altari fissi; ma dati storici positivi si hanno soltanto nel sec. VIII e IX. Anticamente si usava solo quando l'altare non era consacrato; oggi invece si usa indifferentemente su tutti gli altari. Fuori della Messa, esso resta sull'altare piegato in quattro: il sacerdote nella celebrazione del divino sacrificio lo spiega a suo tempo secondo le prescrizioni rubricali. Ordinariamente viene consacrato durante la cerimonia della consacrazione della chiesa, quando il vescovo, lavato l'altare una seconda volta con il vino profumato o con l'acqua di rose, l'asciuga con gli a., e poi ripete la stessa azione dopo aver unto l'altare col sacro crisma. Gli a. così consacrati devono restare sull'altare finché non vi siano celebrate sette Messe. In caso di necessità possono consacrarsi anche in altri tempi dal vescovo o da un sacerdote a ciò delegato. Ai sacerdoti di altro rito è vietato celebrare la Messa sull'a. (can. 823, § 2). Bibl.: S. Pétridès, s. v. in DACL, I, ii, coll. 2319-26; Id., L'Antimension, in Echos d'Orient, 3 (1899-1900), pp. 193-202; R. Souarn, Memento de théologie morale à l'usage des missionnaires Parigi 1907, pp. 79-81. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, coll. 1451-1452 APOLOGIA nella Messa Con questo nome si designavano nella liturgia antica alcune preghiere che il sacerdote recitava per implorare il perdono delle proprie colpe. Nella liturgia odierna è rimasto il Confiteor al principio della Messa, quale avanzo di queste apologie. Bibl.: E. Martène, De antiquis Ecclesiae ritibus, I, cap. 4, art. 11, Anversa 1773; F. E. Warren, The Liturgy and Ritual of the Celtic Church, Oxford 1881, p. 230; F. Cabrol, s. v. in DACL, I, coll. 2591-2601. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano, 1948, col. 1669 ARCANO, disciplina dell' Con l'espressione disciplina arcani si suole designare, dal secolo XVII in poi, un uso vigente nella Chiesa antica, specialmente dal secolo III al V, di non parlare agli estranei dei riti sacri e dei dogmi della religione. ARREDI SACRI Sono gli oggetti che servono per il culto, specialmente quelli che più strettamente si riferiscono alla S.ma Eucaristia e servono sia per la persona del sacerdote (paramenti sacri) sia per la confezione e conservazione del S.mo Sacramento (vasi sacri), sia anche per ornare l'altare e la chiesa dove si celebra. Ad imitazione di Cristo, che istituì il Sacramento eucaristico in una qualunque stanza, con vesti ed in vasi d'uso comune, i primi cristiani solevano celebrarlo senza apparato speciale ed in luoghi privi di particolare distinzione. Solo più tardi, quando la celebrazione eucaristica incominciò a rivestire carattere solenne, l'arredamento sacro acquistò i principali elementi liturgici odierni. Con le invasioni barbariche la vita romana subì una radicale trasformazione anche nel modo di vestire. Di qui il principio di quel distacco che gradualmente venne accentuandosi fra i laici e il clero, il quale ritenne le vesti antiche nella celebrazione dei sacri riti. Altrettanto si dica dei vasi sacri, la forma e la materia dei quali fu stabilita man mano da usi e prescrizioni particolari. Col medioevo si diffuse la tendenza ad una semplificazione nella forma dell'arredamento sacro. Ma l'arte del ricamo, del cesello e dell'intarsio fu sempre largamente profusa, specialmente nelle epoche in cui i grandi geni arricchivano le chiese di tanti mirabili capolavori, a far sì che quanto era necessario direttamente e indirettamente al servizio liturgico si distaccasse per ricchezza e squisita fattura dagli oggetti di uso comune. La materia con cui si confezionano gli a. s. deve essere più o meno preziosa secondo che si trovi a più o meno diretto contatto con la S.ma Eucaristia. Così per le pianete, le tunicelle, il piviale, il velo omerale, è necessaria la seta; il lino o la canapa per il camice, il purificatoio, le palle, le tovaglie, gli amitti; l'oro e l'argento per il calice, la pisside, la patena, l'ostensorio. Per questi ultimi possono adoperarsi anche altri metalli; però la patena e l'interno della coppe del calice e della pisside devono essere dorati. Per i paramenti sacri è necessaria la benedizione, mentre per il calice e la patena occorre la consacrazione da parte del vescovo o di un altro sacerdote delegato. Per la conservazione degli a. s. esiste in ogni chiesa la sacrestia o altro luogo a ciò destinato; i più preziosi vengono talvolta custoditi in apposito tesoro. Più ampie notizie sotto le voci rispettive. Bibl.: G. Braun, I paramenti sacri, Torino 1914; E. Roulin, Linges, insignes et vêtements liturgiques, Parigi 1930. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, col. 18 ARUNDINE (dal lat. arundo "canna"). Asta ornata e sormontata da tre candele disposte a triangolo, usata nella funzione del Sabato Santo. Dopo la benedizione del fuoco alla porta della chiesa, il diacono vi entra sorreggendo con la destra l'a., e canta tre volte il Lumen Christi all'ingresso, a metà e vicino all'altare, alzando ogni volta il tono della voce e accendendo una delle tre candele. L'a. rimane poi a fianco dell'altare maggiore fino alla domenica in albis. Il rito trae forse la sua origine dall'uso esistente in Roma dove, il Giovedì Santo, verso nona, alla porta del Laterano si accendeva, con una scintilla tratta da pietra focaia, una candela posta su una canna; con essa poi si accendevano sette lampade e si iniziava la Messa (Ordo Rom. I, appendice 1, dell'evo carolino). La miniatura di un Exsultet (Cod. Vat. lat. 3784, sec. XII) fa pensare che l'a. non fosse altro in origine che l'asta munita di una o più candele, adoperata per accendere il Cero pasquale. Comunque l'attuale cerimonia del Lumen Christi compare solo nell'Ordo Rom. XII, 30 (fine sec. XII inizio sec. XIII) 4 Bibl.: Ordo Romanus I, appendice 1, n. 2 e Ordo Romanus XII, 30: PL 78, 960, 1076; M. Righetti, Storia liturgica, II, Milano 1946, p. 171. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1948, col. 71 "ASPERGES ME" Formola con cui si fanno le aspersioni rituali di acqua benedetta (v. Aspersione). Non è facile decidere se l'uso della formola coincidesse sempre con quello dell'acqua. Nel sec. IX si usava certamente per l'aspersione sugli infermi (Teodulfo di Orléans [m. nel 815], Capitulare alterum, 105, 220; Sinodo di Nantes can. 4, in Mansi, XI, 658, falsamente attribuito al 658). Probabilmente si usava anche nell'aspersione domenicale del popolo (nella quale forse ognuno si aspergeva senza essere asperso da altri), che Incmaro di Reims (Capitula Synod., I, 5: PL 125, 774) prescrive nell'852, mentre sembra che in principio l'aspersione dei luoghi e delle cose fosse fatta al canto dei salmi (S. Baluze, Capit. Regum Francor., I, Parigi 1677, p. 903) o forse solo con la recita di collette. È conosciuto con certezza l'uso dell'A. al sec. XI nell'aspersione domenicale dalle Consuetudines cassinesi dell'abate Oderisio (E. Martène, De ant. Eccl. ritibus, ed. di Anversa 1738, lib. IV, p. 134). Nel tempo pasquale in suo luogo si canta Vidi aquam, composizione ispirata ad Ez. 47, 1, con evidente allusione al Battesimo di cui la Pasqua celebra il ricordo. Nella processione pasquale vespertina dei neofiti, infatti, si cantava a Roma questa stessa antifona (Ordo Roman., I, cap. 13: PL 78, 966). Il senso battesimale, che nel medioevo subentrò al primitivo senso lustrale cd esorcistico del rito e della formola di aspersione, nonché il tradizionale uso di non cantare il salmo 50 durante il periodo pasquale, diedero forse motivo, più che la reminiscenza storica romana, all'introduzione del Vidi aquam nello stesso periodo liturgico. Bibl.: A. Franz, Die kirchlich. Benedictionen im Mittelalter, I, Friburgo in Br. 1909, p. 86 sgg. Salvatore Marsili da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, coll. 154-155 ASPERSIONE È l'atto di spruzzare sulle persone o sulle cose l'acqua benedetta, di solito usando uno strumento di metallo o ramoscelli di alcune piante (v. Aspersorio). L'acqua è stata sempre usata per la purificazione, donde il suo largo impiego nelle varie religioni (v. Rito). Nessuna meraviglia, quindi, che anche le religioni rivelate si servissero di un tal rito per significare la purificazione del corpo. Nella Legge mosaica la purificazione con l'acqua si faceva in tre modi: per abluzione, per a. e per immersione. Nel libro dei Numeri (19) abbiamo una curiosa a. dell'acqua lustrale, mischiata alle ceneri di una vacca rossa. Nella festa dei Tabernacoli le lustrazioni erano più numerose. La religione cristiana ereditò dall'ebraica l'uso dell'acqua lustrale, e scelse nei libri sacri le preghiere e i canti che accompagnano ancor oggi il rito dell'a. Esso risale alla più remota antichità, e ne vediamo tracce negli Atti di Pietro, scritti verso il 200, e negli Atti di s. Tommaso, scritti verso il 232. Nel Sacramentario di Serapione, oltre la benedizione dell'acqua battesimale, vi sono varie formole per la benedizione dell'olio, dell'acqua e del pane. In Oriente, almeno dal sec. III, si ha l'uso liturgico dell'acqua benedetta per ottenere la guarigione dalle malattie e contro le tentazioni del demonio; in Occidente, invece, dobbiamo risalire alla metà del sec. VI per avere delle notizie certe. S. Agostino, infatti, s. Gregorio di Tours e s. Cesario di Arles tacciono su tale soggetto. Se ne parla nella lettera di papa Vigilio a Profuturo di Braga (538), nelle vite di s. Emiliano, di s. Mabo e di s. Vilfrido, nel Liber Pontificalis, ove si accenna all'uso occidentale di mischiare il sale all'acqua nella benedizione. L'a. dell'acqua nelle domeniche, poi, rimonta ad Incmaro (sec. IX); e dalla liturgia gallicana è passata alla romana. Quanto al Battesimo per a. v. Battesimo. Bibl.: G. Bona, Rerum lìturgicarum libri duo, II, Torino 1749, pp. 81-84; P. M. Paciandi, De sacris christianorum balneis, Roma 1758; A. Gastoué, L'eau bénite, son origine, son histoire, son usage, Parigi 1907. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, col. 155 ASPERSORIO È uno strumento di argento, oro od altro metallo, che serve a spruzzare di acqua benedetta le persone e gli oggetti. Oltre le pile per l'acqua santa all'ingresso delle chiese, furono presto in uso dei vasi minori, portatili, per poter più facilmente eseguire le varie aspersioni richieste dalla liturgia. I primi cristiani le praticavano con ramoscelli d'issopo o di altre erbe profumate, come alloro, mirto, olivo. Nella forma oggi più usata, l'a. consiste in un'asta di metallo, terminante in una palla traforata, o in setole bianche. Il Pontificale romano prescrive l'a. d'issopo per la consacrazione o benedizione di chiese e di altari, e ciò in armonia alla formola di benedizione: Asperges me hyssopo. Bibl.: Ordo Romanus I, appendice 1, n. 2 e Ordo Romanus XII, 30: PL 78, 960, 1076; M. Righetti, Storia liturgica, II, Milano 1946, p. 171. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, col. 155 BACILE Grande piatto, per lo più in metallo, che serve per le varie abluzioni in uso nella liturgia. I vescovi usano un bacile con una brocca di argento e di metallo, anche altri prelati hanno tale privilegio. BACIO Nella liturgia cattolica è un gesto di uso frequente e riveste carattere di venerazione e omaggio, di affetto e unione fraterna, oppure di sudditanza. Si distingue il bacio delle persone (bacio di pace) e il bacio delle cose sacre. Baldeschi, Giuseppe Liturgista, della Congregazione della missione, n. a Ischia di Castro (Viterbo) il 1° luglio 1791, m. a Roma il 19 apr. 1849. 5 Maestro delle cerimonie pontificie di Leone XII, scrisse una Esposizione delle sacre cerimonie ristampata e tradotta in francese e in tedesco, pregevole per la sua chiarezza. (4 voll., Roma 1823), più volte Filippo Oppenheim da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, col. 733 BAUDRY (BAULDRY), MICHEL Liturgista, nato a Evron verso il 1585, morto nel 1660. Opere principali: Manuale sacrarum caerimoniarum iuxta ritum sanctae Romanae ecclesiae (Parigi, 1637). BENEDETTO, CANONICO Canonico di S. Pietro in Roma. Sappiamo di lui assai poco. Con il titolo di canonico e con quello di Romanae Ecclesiae cantor egli si presenta nel Liber policitus (scil. polyptycus) ad Guidonem de Castello. Il lavoro fu compiuto prima del settembre 1143 non poté essere scritto prima del 1140. BERNONE DI REICHENAU (Berno Augiensis) Da alcuni detto Bernardo; uomo politico, liturgista, musico, agiografo, oratore, poeta. Abate di Reichenau dal 1008 al 1048. Morto il 7 giugno 1048. Opere liturgiche principali: De celebratione Adventus Domini, Dialogus de ieiuniis Quatuor Temporum, De officio Missae, De varia psalmorum atque cantorum modulatione, Tonarius, De consona Tonorum diversitate. BISHOP, EDMUND Liturgista inglese nato a Totnes il 17 maggio 1846, morto a Downside il 17 febbraio 1917. Bona, Giovanni Cardinale, dottissimo scrittore ascetico e storico-liturgico, nato a Pian della Valle presso Mondovì il 28 ottobre 1674. Opere liturgiche principali: Psallentis ecclesiae harmoniae (1653), Rerum liturgicarum libri duo (1671). BORSA Per custodire con decenza e riverenza il corporale, quando fu ridotto alle dimensioni attuali, è stata introdotta la b. Anticamente il corporale si custodiva in apposite scatole-cassette, oppure si portava all'altare entro il Liber Sacramentorum. La b. è oggi formata da due cartoni uniti ed aperti da un lato. Deve essere ricoperta, almeno da una parte, di stoffa del colore e della materia dei paramenti sacri. L'interno può essere di seta o di lino. Non è necessario che vi sia sopra la croce, ma può essere ornata in vario modo. Il suo uso non è molto antico; il Gavanto la fa risalire al Concilio di Reims (sec. XI). Oggi è obbligatoria secondo le prescrizioni delle rubriche del Messale. L'uso di distribuire la comunione fuori della Messa ha portato anche l'obbligo per il sacerdote di portare da sé all'altare la b. con il corporale: essa è la stessa di quella della Messa e deve essere del colore della stola. Per portare la comunione agli infermi si usa pure un'altra borsa di seta bianca, con un fondo rotondo e forte per sostenere la pisside o la piccola teca delle particole, chiusa all'estremità superiore da un cordone da appendersi al collo. Essa non deve servire per portare l'Olio Santo, per il quale se ne usa una violacea. Va ricordato infine il divieto fatto dalla S. Congregazione dei Riti di usare le borse destinate ai corporali per raccogliere le elemosine. Bibl.: G. Braun, I paramenti sacri, Torino 1914, p. 93. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, II, Città del Vaticano, 1949, coll. 1934-1935 BRAGARENSE, LITURGIA Braga, diocesi nel nord del Portogallo, ha un suo particolare rito che si riallaccia ad antichi usi locali. Si compone del canone romano e formole indigene o desunte da altre liturgie. Nel 1919 fu approvata la nuova edizione del breviario bragarense, nel 1924 quella del messale. BREVIARIO È il libro liturgico che contiene l'ufficio divino secondo il rito della Chiesa romana. La voce breviario (breve nota, compendio) nella lingua liturgica da principio indicava un foglio o libretto posto all'inizio del salterio, che notava gli uffici divini da compiersi in un determinato tempo, e i rispettivi formulari con i loro richiami. BUGIA Vedi PALMATORIA BURCARDO, Giovanni Cerimoniere pontificio, liturgista e storico, n. a Nieder-Haslach (Alsazia) nel 1450 ca., m. a Roma il 16 maggio 1506. Venuto a Roma nel 1467 in cerca di fortuna, fu dapprima al servizio di vari cardinali, poi familiare di Sisto IV (ca. 1475), dal quale ottenne vari benefici ecclesiastici e alte cariche curiali, come quella di protonotario apostolico (1481) e di maestro delle cerimonie (1483), ufficio che tenne fino alla morte, anche dopo essere divenuto vescovo delle diocesi riunite di Civita Castellana e Orte (1503-1506). Era un valente liturgista, pratico del suo ufficio, acuto osservatore, ma anche avido di denaro. A Roma si fabbricò una casa, la Torre Argentina, detta così dalla nativa Strasburgo (Argentoratum). Fu anche rettore della chiesa nazionale tedesca di S. Maria dell'Anima a Roma; fu sepolto in S. Maria del Popolo. Pubblico, insieme con Ag. Patrizzi, il Liber Pontificalis, cioè il Pontificale romano (Roma 1485, che ristampò in seconda edizione con Giacomo De Luciis, ivi 1487). La sua opera liturgica principale è Ordo servandus per sacerdotem in celebratione Missae (Roma 1495, coi tipi di Stef. Planok [cf. L. Hain, Repert. bibl., n. 4102], pubblicata di nuovo a Roma 1502, e spessissimo ancora sotto vari titoli), opera la cui sostanza entrò nel Messale romano come Rubriche generali e Rito per celebrare la Messa. Molta materia liturgica a uso della Curia pontificia è pure sparsa nella celebre opera Diario della Curia Romana o Liber 6 notarum, che come cerimoniere scrisse giorno per giorno nell'interesse del suo ufficio, pur inserendovi però fatti e osservazioni attinenti alla Curia e agli eventi di quel tempo movimentato. Per questo lato l'opera, che va con alcune interruzioni dal 1483 al 1506, è una preziosa fonte storica, dall'autore però non destinata al pubblico. I maggiori storici odierni ammettono la veridicità dell'autore che scientemente non mente né calunnia per proposito, sebbene qualche volta accolga forse delle dicerie difficilmente controllabili. Bibl.: Edizioni complete: L. Thuasne, 3 voll., Parigi 1883-1885; E. Celani, Joannis Burckardi Liber notarum, 2 voll., in 4°, nella nuova ed. del Muratori, Rerum Ital. Script., vol. XXXII, parte 1ª, I, Città di Castello 1907-13, con abbondanti note (è la migliore edizione). Studi: oltre le prefazioni di L. Thuasne al III vol. e del Celani al I vol. e II, 44, nota 7, v. pure: D. Gnoli, La Torre Argentina in Roma, in Nuova Antologia, 43 (1908, III), pp. 596-605 ; J. Lesellier, Les méfaits du cérémoniaire Jean Burckard, in Mélanges d'archéologie et d'histoire, 44 (1927), pp. 11-34; P. Paschini, A proposito di G. B. cerimoniere pontificio, in Arch. della R. soc. romana di storia patria, 51 (1928), pp. 33-59; A. Petrignani, Il restauro della casa del B. in via del Sudario in Roma, in Capitolium, 9 (1933), pp. 191-200; L. Oliger, Der päpstliche Zeremonienmeister Johannes Burckard von Strassburg, in Archiv für elsässische Kirchengeschichte, 9 (1934), pp. 199-232. Per la parte liturgica: A. Franz, Die Messe im deutschen Mittelalter, Friburgo in Br. 1902, pp. 613-15; J. Baudot, s. v. in DACL, II, 1 (1910), col. 1350 sg. Livario Oliger da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 224-225 CALENDARIO DELLA CHIESA UNIVERSALE Di un c. della Chiesa Universale si può parlare solo dall'anno 1568 in poi, dal momento, cioè, in cui Pio V impose a tutta la Chiesa latina il Breviario riformato, con l'annesso c. L'identico c. si trova poi nel Messale romano, riformato e prescritto ugualmente da Pio V a tutta la Chiesa latina nel 1570. Il Papa permise di ritenere Breviario e Messale proprio solo a quegli Ordini e diocesi che li usavano da duecento anni. Di questa facoltà si servirono tutti i rami dell'Ordine benedettino, i Domenicani, Carmelitani, Premostratensi, Certosini, e alcune poche diocesi (Milano, Aquileia, Parigi, Lione, ecc.) le quali poi quasi tutte, in tempi successivi, adottarono il Messale e il Breviario romano, cosicché la Chiesa latina quasi al completo si serve di un c. unico, nel quale le singole chiese e Ordini inseriscono le feste proprie. Ogni cambiamento di questo c., come l'inserzione di feste nuove, variazioni di rito, spostamenti di feste ecc. spetta unicamente alla S. Sede la quale esplica questa attività attraverso la S. Congregazione dei Riti (v.). Non è qui il luogo di fare la storia del santorale (v.), o dell'origine e dello sviluppo delle feste (v.); basti dire che la base di questo c. fu costituita da quello dei libri liturgici, detti "della Curia" ossia di Roma, ma con una saggia riduzione di feste e di rito, in modo da ripristinare in gran parte la liturgia feriale. Infatti, il c. di Pio V ha soltanto 120 feste, di cui 30 semidoppi, 57 doppi, e 33 memorie. Le grandi feste erano 20 di prima e 17 di seconda classe. Clemente VIII, nel 1602, in occasione della nuova edizione del Breviario introdusse una nuova classe di feste, il doppio maggiore (16 feste). Da questo momento incominciò la prevalenza del santorale (v.) sopra il temporale (v.), e la ininterrotta inserzione di nuove feste, di aumenti di riti, di distinzioni sempre più raffinate nelle singole categorie della gradazione liturgica. Al tempo di Benedetto XIV il numero delle feste era già salito a 228. Esistevano inoltre 36 feste "ad libitum", vale a dire che una chiesa o un ordine le poteva inserire o meno nel c.; però, una volta inserite, la festa si doveva celebrare: il numero complessivo dunque di feste era 264. Leone XlII, nel 1893 e 1895, stabilì una ulteriore distinzione di grado, le feste primarie e secondarie. La riforma di Pio X del 1911 perfezionò tutto il sistema della gradazione codificandolo definitivamente; ma omise di fermare in qualche modo l'aggiunta di nuove feste. Attualmente siamo arrivati ad un complesso di 338 giorni festivi, di cui 50 mobili (compresi giorni di ottave privilegiate) e 288 feste fisse. Segue ora il c. della Chiesa Universale, allo stato attuale, con l'indicazione del rito (D1 = doppio di 1 classe, D2 = doppio di 2 classe, DM doppio maggiore, D = doppio minore, SD = semidoppio, S = semplice, C = commemorazione), OTT. = ottava (p. privilegiata; c. comune; s. semplice), e di tutte le mutazioni avvenute da s. Pio V (1568) fino all'anno 1949. Le date indicano i cambiamenti fatti: non è stata notata la data della seduta della Congregazione dei Riti, ma solo quella dell'approvazione pontificia. Genn. - 1. Circoncisione e ottava della Natività, D2. - ottava di s. Stefano, D (1568), s (1914). - 3. ottava di s. Giovanni, D (1568), s (1914). - 4. ottava degli Innocenti, D (1568), s (1914). - 5. vigilia dell'Epifania: sd; c di s. Telesforo papa (1602). 6. Epifania, D1 ott. p. - 7-12: giorni tra t'ottava, sd (1914); 11, c di s. Igino papa (1568). - 13. ottava dell'Epifania, D (1568), Dm (1914). - 14. s. Ilario, sd (1568), D e Dott. della Chiesa (10 genn. 1852); s. Felice sacerdote m., c (1568). - 15. s. Paolo primo eremita: sd (1568), D (18 ag. 1722); s. Mauro ab., c (1568). - 16. s. Marcello papa, sd (1568). - 17. s. Antonio ab., D (1568). - 18. Cattedra di s. Pietro a Roma, D (1568), Dm (1602); c di s. Prisca v. m. (1568). - 19. Ss. Mario, Marta, Audiface. Abaco, mm., s (1568); s. Canuto re m., sd ad lib. (10 ag. 1670), ridotto a c (1914). - 20. ss. Fabiano e Sebastiano, D (1568). 21. s. Agnese, D (1568). - 22. ss. Vincenzo ed Anastasio, sd (1568). - 23. s. Emerenziana, s (1568); s. Raimondo da Peñafort, sd (23 marzo 1671); s. Emerenziana, ridotta a c - 24. s. Timoteo, s (1568), sd (1602), D (18 maggio 1854). - 25. Conversione di s. Paolo Apostolo, D (1568), Dm (1602). - 26. s. Policarpo, s (1568), sd (1602), D (1914). 27. s. Giovanni Crisostomo, Dott. della Chiesa, D (1568). - 28. s. Agnese secondo, s (1568); s. Pietro Nolasco, D (dal 31; 25 marzo 1936); s. Agnese ridotta a c - 29. s. Pietro Nolasco, sd (22 luglio 1664); s. Francesco di Sales, sd (21 ott. 1666; s. Pietro Nolasco trasferito al 31) D (24 nov. 1691) Dott. della Chiesa (30 sett. 1877). - 30. s. Martina, sD (1635). - 31. s. Pietro Nolasco, sD (trasferito dal 29: 1666); D (13 luglio 1672); s. Giovanni Bosco, D (25 marzo 1936; s. Pietro Nolasco trasferito al 28). Febbr. - 1. s. Ignazio m., sD (1568), D (Pio IX). - 2. Purificazione di Maria S.ma, D2 (1568). - 3. S. Biagio, s (1568). - 4. s. Andrea Corsini, sD ad lib. (21 ott. i666), sD (31 ag. 1697), D (3 genn. 1731). - 5. s. Agata, sD (1568), D (26 ag. 1713). - 6. s. Dorotea, s (1568); S. Tito, D (18 magg. 1854); S. Dorotea, ridotta a c. - 7. s. Romualdo, D (1602oz), SD (1631), D (16 febb. 1669). - 8. s. Giovanni de Matha, D (31 maggio 1694). - 9. s. Apollonia, S (1568); s. Cirillo Alessandrino, Dott. della Chiesa, D (28 luglio 1882); s. Apollonia ridotta a C. - 10. s. Scolastica, D (1 febb. 1729). - 11. ss. sette Fondatori dei Servi di Maria, D (20 dic. 1888); apparizione dell'Immacolata a Lourdes, DM (1 genn. 1908; i Fondatori trasferiti al 12). - 12. ss. sette Fondatori, D (8 genn. 1908, dall'11). - 14. s. Valentino, s (1568). - 15. ss. Faustino e Giovita, s (1568). - 18. s. Simeone, s (1568). - 22. Cattedra di s. Pietro in Antiochia, D (1568), Dm (1602). - 23. s. Pier Damiani, Dott. della Chiesa, D (1 ott. 1828). - 23 o 24 (secondo se l'anno è bisestile o no) vigilia (1568) - 24 o 25. s. Mattia Ap., D2 (1568). - 27 o 28. s. Gabriele dell'Addolorata, D (13 apr. 1932). Marzo. - 4. s. Lucio papa, s (1602); S. Casimiro, sD (7 ag. 1621); s. Lucio ridotto a c. - 6. ss. Perpetua e Felicita, D (1908, dal 7). - 7. s. Tommaso d'Aquino, Dott. della Chìesa, D (1568); ss. Perpetua e Felicita, c (1568; trasferite al 6 ed elevate a D: 1908). - 8 s. Giovanni di Dio, sD (5 maggio 1714), D (25 apr. 1722). - 9. ss. Quaranta martiri, sD (1568); s. Francesca romana, senza rito determinato (1 giugno 1606), D (26 febbr. 1649); trasferimento dei Quaranta al giorno seguente (21 ag. 1649). - 10. ss. Quaranta martiri, sD (1649, dal giorno precedente). - 12. S. Gregorio Magno, Dott. della Chiesa, D (1568). 17. s. Patrizio, c (1631), sD (7 sett. 1685), D (12 maggio 1859). - 18. s. Cirillo di Gerusalemme, Dott. della Chiesa, D (28 luglio 1882). - 19. s. Giuseppe, D (1568), D2 (6 dic. 1670), D1 (8 dic. 1870); festa mobile, assegnata alla domenica dopo il 19 marzo, D1 ott. c. (2 luglio 1911); restìtuito al 19: D1 senza ott. (24 luglio 1911); D2 (28 ott. 1913); D1 (12 dic. 1917). - 20. s. Gioacchino, sD (1584), D (18 maggio 1623); trasferito alla domenica dopo l'ottava dell'Assunta (1738). - 21. s. Benedetto, D (1568), Dm (5 luglio 1883). - 24. s. Gabriele arcangelo, Dm (26 ott. 1921). - 25. Annunciazione di Maria S.ma, D2 (1568), D1 (27 maggio 1895). - 27. s. Giovanni Damasceno, Dott. della Chiesa, D (19 ag. 1890). - 28. s. Giovanni da Capistrano, sD (19 ag. 1890). Apr. - 2. s. Francesco da Paola, D (1585), sD (1602), D (4 maggio 1613). - 4. s. Isidoro, Dott. della Chiesa, D (25 apr. 1722). - 7 5. s. Vincenzo Ferreri, sD ad lib. (29 nov. 1667), sD (25 marzo 1706), D (5 apr. 1726). - 11. s. Leone Magno, D (1568), Dott. (15 ott. 1754). - 13. s. Ermenegildo, sD (1631). - 14. ss. Tiburzio, Valeriano, e Massimio, s (1568); s. Giustino m., D (28 luglio 1882); i martiri ridotti a c. - 17. s. Aniceto, papa, s (1568). - 21. s. Anselmo (un tentativo sotto Innocenzo XI, 1688, non riuscì), sD (con la Messa dei Dottori: 21 genn. 1690), D (8 febbr. 1720). - 22. ss. Sotero e Caio, papi, sD (1568). - 23. s. Giorgio, sD (1568). - 24. s. Fedele da Sigmaringa, D (16 febbr. 1771). - 25. s. Marco, D2 (1568). - 26. ss. Cleto e Marcellino, papi, D2 (1568). - 27. s. Pietro Canisio, Dott. della Chiesa, D (24 nov. 1926). - 28. s. Vitale, s (1568); s. Paolo della Croce, D2 (14 genn. 1869); s.Vitale ridotto a c. - 29. s. Pietro m., D (13 apr. 1586), sD (1602), D (26 luglio 1670); s. Caterina da Siena, c (8 maggio 1597); trasferita al (1628). - 30. s. Caterina da Siena, sD (7 ag. 1628, dal giorno precedente), D (9 ott. 1670). Maggio. - 1. ss. Filippo e Giacomo App., D2 (1568). - 2. s. Atanasio, Dott. della Chiesa, D (1568). - 3. Invenzione della S. Croce, D (1568); D2 (1602); ss. Alessandro, Evenzio, Teodulo e Giovenale, c (1568). - 4. s. Monica, s (1568), sD (14 luglio 1669), D (26 ag. 1730). - 5. s. Pio V, papa, sD (17 febbr. 1713), D (26 apr. 1775). - 6. s. Giovanni a porta Latina, D (1568), Dm (1602). - 7. s. Stanislao vesc. m., sD (22 nov. 1594; il 21 febbr. 1595, fu elevato a D ma rimase in vigore il sD), D (13 marzo 1736). - 8. Apparizione dell'arcangelo s. Michele, D (1568), Dm (1602). - 9. s. Gregorio Nazianzeno, Dott. della Chiesa, D (1568). - 10. ss. Gordiano ed Epimaco mm., s (1568); s. Antonino, sD ad lib. (17 ag. 1683), sD (16 apr. 1707; i martiri sono ridotti a c), D (12 sett. 1845). - 12. ss. Nereo, Achilleo e Pancrazio, s (1568); con l'aggiunta di Domitilla (1597) in seguito all'invenzione e traslazione dei corpi nella chiesa titolare del Baronjo sD (1602). - 13. s. Roberto Bellarmino, Dott. della Chiesa, D (6 genn. 1932). - 14. 5, Bonifacio, m., s (1568). - 15. s. Giovanni Batt. de la Salle, D (1904). - 16. s. Ubaldo, s (17 dic. 1605), sD ad lib. (18 febbr. 1696), sD (10 dic. 1713). - 17. s. Pasquale Baylon, D (13 marzo 1784). - 18. s. Venanzio m. sD ( 11 nov. 1670); D (23 luglio 1774). - 19. s. Pudenziana, s (1568); s. Pietro Celestino, sD (21 luglio 1668; s. Pudenziana ridotta a c), D (10 marzo 1681). - 20. s. Bernardino da Siena, sD (15 nov. 1657). - 25. s. Urbano, papa, s (1568); s. M. Maddalena dei Pazzi, sD (29 nov. 1690; s. Urbano ridotto a c); s. Gregorio VII, D (25 nov. 1728; trasferendo s. Maria Maddalena al 27). 26. s. Eleuterio, papa, s (1568); s. Filippo Neri, sD ad lib. (6 nov. 1625), sD (sotto Aless. VII; s. Eleuterio ridotto a c), D (8 giugno 1669). - 27. s. Giovanni, papa m., s (1568); s. Maria Maddalena dei Pazzi, sD (dal 25 nov. 1728); s. Beda, venerabile, Dott. della Chiesa, D (1899; trasferendo s. Maria Maddalena al 29); s. Giovanni ridotto a c. - 28. s. Agostino di Canterbury, D (28 giugno 1882). - 29. s. Maria Maddalena dei Pazzi, sD (1899, dal 27). - 30. s. Felice, papa, m., s (1568). - 31. s. Petronilla, s (1568); s. Angela Merici, D (11 giugno 1861, con c di s. Petronilla). Giugno. - 2. Ss. Marcellino, Pietro ed Erasmo, s (1568). - 4. s. Francesco Caracciolo, D (5 ag. 1807). - 5. s. Bonifacio vesc. m., D (11 giugno 1874). - 6. s. Norberto, sD (16 nov. 1620), trasferito all'11 (1625), riportato al 6(1631 o 5634), D (7 nov. 1677). - 9. ss. Primo e Feliciano, s (1568). - 10. s. Margherita ved, regina di Scozia, sD ad lib. (2 dic. 1673), trasferita all'8 luglio (9 febbr. 1678), restituita al 10 (4 marzo 1693). - 11. s. Barnaba, D (1568), Dm (1602). - 12. ss. Basilide, Cirino, Nabore e Nazario, s (1568); s. Giovanni da S. Facondo, D (19 nov. 1729), c dei ss. Martiri. - 13. s. Antonio di Padova, D (14 genn. 1586), sD (1602), D (18 giugno 1670), Dott. della Chiesa (16 genn. 1946). - 14. s. Basilio Magno, Dott. della Chiesa, D (1568). - 15 ss. Vito, Modesto, Crescenzia, s (1568). 18. ss. Marco, Marcelliano, s (1568); s. Efrem Siro, Dott. della Chiesa, D (14 ott. 1920, con c dei martiri). - 19. ss. Gervasio e Protasio, s (1568); s. Giuliana dei Falconieri, sD (15 marzo 1738, con c dei martiri), D (11 dic. 1762). - 20. s. Silverio, papa, s (1568). - 21. s. Luigi Gonzaga, (23 luglio 1842). - 22. s. Paolino, s (1568), D (18 sett. 1908). - 23. vigilia (1568). - 24. natività di s. Giovanni Batt., D1 ott. com. (1568), trasferita alla domenica precedente la festa degli App. Pietro e Paolo (28 luglio 1911), restituita al suo giorno (28 ott. 1913). - 25. giorno fra l'ottava (1568); s. Guglielmo ab., D (24 ag. 1785). - 26. ss. Giovanni e Paolo, sD (1568), D (21 maggio 1728). - 28. s. Leone II, sD (1568); s. Ireneo, D (26 ott. 1921, trasferendo s. Leone al 3 luglio). - 29. ss. Pietro e Paolo, D1 ott. c. (1568). - 30. commemorazione di s. Paolo Ap., D (1568), Dm (1602). Luglio. - 1. ottava di s. Giovanni Batt., D (1568); festa del Preziosissimo Sangue di Gesù, D2 (1914), D1 (25 apr. 1934). - 2. Visitazione di Maria S.ma, D (1568), D2 (1602), D2 (31 maggio 1850), c dei ss. Processo e Martiniano (1568). - 3. giorno fra l'ottava dei ss. App. Pietro e Paolo (1568); s. Leone II, sD (26 ott. 1925, trasferito dal 28 giugno). - 4. giorno fra l'ottava dei ss. App. Pietro e Paolo (1568); s. Elisabetta reg. ved., sD ad lib. (1631), trasferita all'8 (19 genn. 1695). - 5. giorno fra l'ottava dei ss. App. Pietro e Paolo (1568); ss. Cirillo e Metodio, D (25 ott. 1880); s. Antonio Maria Zaccaria, D (1 dic. 1897, trasferendo i ss. Cirillo e Metodio al 7). - 6. ottava dei ss. App. Pietro e Paolo, D (1568), Dm (1914). - 7. ss. Cirillo e Metodio, D (11 dic. 1897, dal 5). - 8. s. Margherita reg. di Scozia, sD ad lib. (9 febbr. 1678, dal 10 giugno), sD (16 nov. 1691), restituita al 11 giugno (4 marzo 1693); s. Elisabetta reg. ved., sD (19 genn. 1695, trasferita dal 4). - 10. ss. sette fratelli, Rufina e Secondina mm., sD (1568). - 11. s. Pio I, papa, s (1568). - 12. ss. Nabore e Felice mm., s (1568); s. Giovanni Gualberto, c (21 febbr. 1595), sD ad lib. (21 febbr. 1671), sD (10 dic. 1679) e c dei martiri, D (18 genn. 1680). - 13. s. Anacleto papa, sD (1568) maggio 1753. - 20. s. Margherita s (1568); s. Girolamo Emiliani, D (1769, s. Margherita ridotta a c). - 21. s. Prassede, s (1568). - 22. s. Maria Maddalena, D (1568). - 23. s. Apollinare, sD (1568), D (25 maggio 1675); s. Liborio, c (15 luglio 1702). - 24. vigilia (1568); s. Cristina, c (1568). - 25. s. Giacomo Ap., D2 (1568); s. Cristoforo, c (1568). - 26. s. Anna, D (28 apr. 1584), Dm (3 dic. 1738), D2 (1 ag. 1879). - 27. s. Pantaleone m., s (1568). - 28. ss. Nazario, Celso, Vittore ed Innocenzo I, papa, sD (1568). - 29. s. Marta, sD (1568); ss. Felice II, Simplicio, Faustino, Beatrice mm., s (1568). - 30. ss. Abdon e Sennen, s (1568). - 31. s. Ignazio di Loyola, sD ad lib. (1623), sD (Innocenzo X), D (27 nov. 1667), Dm (1922). Ag. - 1. s. Pietro in Vincoli, D (1568), Dm (1602); c dei Maccabei (1568). - 2. s. Stefano papa, s (1568); s. Alfonso Marìa de' Liguori, D (18 nov. 1839, s. Stefano ridotto a c), Dott. della Chiesa (7 luglio 1871). - 3. Invenzione di s. Stefano protom., Dm (1568). - 4. s. Domenico, D (1568), Dm (1914). - 5. dedicazione di Maria S.ma ad Nives, D (1568), Dm (1602). - 6. Trasfigurazione di N. S. G. C., D (1568), Dm (1602), D2 (1914); ss. Sisto II papa, Felicissimo, Agapito mm., c (1568). - 7. s. Donato m., s (1568); s. Gaetano Thiene, sD (8 marzo 1673, c di s. Donato), D (4 ag. 1685). - 8. ss. Ciriaco, Largo, Smaragdo, sD (1568). - 9. vigilia (1568); s. Romano m., c (1568); s. Giovanni Maria Vianney, D (9 maggio 1928). - 10. s. Lorenzo, D2 ott. c. (1568), D2 ott. s. (1914). - 11. giorno fra l'ottava di s. Lorenzo; ss. Tiburzio e Susanna, c (1568), s (1914). - 12. giorno fra l'ottava di s. Lorenzo, c s. Chiara (1568); S. Chiara sD ad lib. (Innocenzo X), D (27 maggio 1670). - 13. giorno fra l'ottava di s. Lorenzo; ss. Ippolito e Cassiano, c (1568), s (1914). - 14. giorno fra l'ottava di s. Lorenzo; vigilia c, e s. Eusebio, c (xs68); Vigilia, c s. Eusebio (1914). - Assunzione di Maria S.ma, D1 ott. c. (1568). - 16. giorno fra l'ottava dell'Assunta e di s. Lorenzo, c (1568); s. Giacinto, D (1 febbr. 1625; c delle due ottave); s. Gioacchino, D2 (1914, trasferendo s. Giacinto al 17). 17. ottava di s. Lorenzo, D (1568); c ottava dell'Assunta (1568); s. Giacinto, D (1914, dal 16, con c delle ottave). - 18. giorno fra l'ottava; c di s. Agapito m. (1568). - 19. giorno fra l'ottava dell'Assunta (1568); s. Giovanni Eudes, D (9 maggio 1928, con c dell'ottava). - 20. s. Bernardo, D (1568), c dell'ottava; Dott. della Chiesa (20 ag. 1830); s. Stefano re, c (1631), trasferito al 2 sett. (19 apr. 1687). - 21. giorno fra l'ottava (1568); s. Giovanna Francesca Frémiot di Chantal, D (2 sett. 1769, con c dell'ottava). - 22. ottava dell'Assunta, D (1568), Dm (1914); S. Timoteo e comp. mm., c (1568); festa dell'Immacolato Cuore di Maria, D2 (4 maggio 1944; c dei ss. mm.). - 23. vigilia (1568); s. Filippo Benizi, sD ad lib. (1690), sD (26 ag. 1693), D (2 ott. 1694). - 24. s. Bartolomeo Ap., D2 (1568). - 25. s. Luigi re, s (1568), sD (29 nov. 1618). - 26. s. Zefirino papa, s (1568). - 27. s. Giuseppe Calasanzio, D (19 ag. 1769). — 18. s. Agostino, Dott. della Chiesa, D (1568), s. Ermete, c (1568). - 29. Decollazione di s. Giovanni Batt., D (1568), Dm (Pio VI); c di s. Sabina (1568). - 30. ss. Felice ed Adauto mm., s (1568); s. Rosa da Lima, D (28 luglio 1727; c dei Ss. mm.). - 35. s. Raimondo Nonnato, sD ad lib. (13 ag. 1669), sD (7 dic. 1676), D (10 marzo 1681). Sett. - 1. s. Egidio ab., s (1568); ss. dodici fratelli mm., c (1568). - 2. s. Stefano re, sD (1 apr. 1687, trasferito dal 20 ag. ed elevato a sD). - 5. s. Lorenzo Giustiniani, sD ad lib. (16 dic. 1690), sD (12 sett. 1759). - 8. Natività di Maria S.ma, D2 ott. c. (1568), ott. s. (1914); s. Adriano m., c (1568). - 9. giorno fra l'ottava della Natività; c di s. Gorgonio (1568); s. Gorgonio, s (1914). - 10. giorno fra l'ottava (1568); s. Nicola da Tolentino, D (22 dic. 1585), sD (1602), D (Clemente IX). - 11. giorno fra l'ottava; c dei ss. Proto e Giacinto (1568); ss. Proto e Giacinto, s (1914). - 12. giorno fra l'ottava (1568); Nome di Maria, Dm (1914). - 13. giorno fra l'ottava (1568); feria (1914). - 14. Esaltazione della S. Croce, D (1568), Dm (1602). - 15. ottava della Natività di Maria; c di s. Nicomede m. (1568); i sette Dolori di Maria S.ma, D2 (1914). - 16. ss. Cornelio e Cipriano, sD (1568); ss. Eufemia, Lucia e Geminiano c (1568). - 17. Impressione delle Stimmate di s. Francesco (festa tolta dal calendario da Pio V), D (Sisto V), tolto (1602), senza determinazione di rito, (28 ag. 1615), sD ad lib. (2 ott. 1627), sD (13 ag. 1669), D (11 ag. 1770). - 18. s. Tommaso da Villanova, sD ad lib. (17 giugno 1659), sD (11 sett. 1694), D (9 ott. 1694); s. Giuseppe da Copertino, D (8 ag. 1769; trasferito s. Tommaso al 22). - 19. ss. Gennaro e comp. mm., s (1 febbr. 1586), sD (1602), D (7 dic. 1676). - 20. vigilia; c di s. Eustachio e comp. mm. (1568); ss. Eustachio e comp., sD (24 nov. 1625, con c della vigilia) D 8 (26 genn. 1671). 21. s. Matteo Ap. s2 (1568). - 22. ss. Maurizio e comp. mm., s (1568); s. Tommaso da Villanova, sD (8 ag. 1769, dal 18, con c dei ss. mm.), D (4 dic. 1801). - 23. s. Lino papa, sD (1568); c di s. Tecla (1568). - 24. festa di Maria S.ma della Mercede, D (18 febbr. 1696), Dm (22 marzo 1727). - 26. ss. Cipriano e Giustina, s (1568). - 27. ss. Cosma e Damiano, sD (1568). - 28. s. Venceslao, sD ad lib., (6 luglio 1670), sD (14 marzo 1729). - 29. dedicazione di s. Michele Arcangelo, D2 (1568), D1 (1917). - 30. s. Girolamo, Dott. della Chiesa, D (1568). Ott. - . s. Remigio, s (1568), sD ad lib. (26 nov. 1668), sD ad lib. o s di prec. (1884), s (1914). - 2. ss. Angeli Custodi, D (20 sett. 1670), Dm (5 luglio 1883). - 3. s. Teresa del Bambino Gesù, D (13 luglio 1927). - 4. s. Francesco d'Assisi, D (1568), Dm (5 luglio 1883). - 5. ss. Placido e comp. mm., s (13 nov. 1588). - 6. s. Brunone, sD ad lib. (17 febbr. 1623), D (14 marzo 1674). - 7. s. Marco papa, s (1568); ss. Sergio e comp. mm., c (1568); s. Brigida, sD (8 apr. 1623, con c di s. Marco e dei ss. Martiri); (1628 ripristino come al tempo di Pio V, s. Brigida trasferita all'8); Rosario di Maria S.ma, D2 (1914, con c di s. Marco e dei ss. mm.). - 8. s. Brigida, sD (1628, dal 7), D (2 sett. 1724). - 9. ss. Dionigi, Rustico, Eleuterio mm., s (1568); s. Edoardo re conf., sD (29 maggio 1679; 6 apr. 1680, trasferito al 13); s. Giovanni Leonardi, D (3 apr. 1940, con c dei ss. mm). - 10. s. Francesco Borgia, sD (1 sett. 1688). - 11. Maternità di Maria S.ma, D2 (6 genn. 1932). - 13. s. Edoardo re conf., sD (dal 9, 6 apr. 1680). - 14. s. Callisto papa, sD (1568), D (2 sett. 1808). - 15. s. Teresa, sD ad lib. (25 ag. 1636), sD (29 ott. 1644), D (11 sett. 1668). 16. s. Edvige, sD (26 apr. 1929, dal 17). - 17. s. Edvige, sD ad lib. (17 sett. 1680), sD (20 marzo 1706); s. Margherita Maria Alacoque, D (26 apr. 1929, trasferendo s. Edvige al 16). - 18. s. Luca, D2 (1568). - 19. s. Pietro d'Alcantara, sD (9 ag. 1670), D (20 apr. 1701) - 20. s. Giovanni Canzio, sD (8 sett. 1770), D (23 febbr. 1782).- 21. s. Ilarione ab., s (1568); c di s. Orsola e comp. mm. (1568). - 24. s. Raffaele Arcangelo, Dm (26 ott. 1921). - 25. ss. Crisanto e Daria, s (1568). - 26. s. Evaristo papa, s (1568). - 27. vigilia (1568). - 28. ss. Simone e Giuda App., D2 (1568). - 31. vigilia (1568). Nov. - i. Tutti i Santi, D1 ott. c. (1568). - 2. commemorazione dei Defunti, c dell'ottava dei Santi (1568); officio proprio per la celebrazione della Commemorazione dei Defunti (1914). - 4. giorno fra l'ottava, c dei ss. mm. Vitale ed Agricola (1568); s. Carlo Borromeo, sD ad lib. (6 dic. 1613), sD (10 sett. 1652, con c dei ss. mm.), D (3 ag. 1659). - 3, 5, 6, 7: giorni fra l'ottava (1568). - 8. ottava di Tutti i Santi,sD (1568), Dm (1914); ss. Quattro Coronati, c (1568). - 9. dedicazione della basilica Lateranense, D2 (1568); c di s. Teodoro m. (1568). 10. ss. Trifone, Respicio, Ninfa mm., s (1568); s. Andrea Avellino, sD (18 ag. 1725 c dei ss. mm.), D (1 febbr. 1864). - 11. s. Martino, D (1568); c di s. Menna m. (1568). - 12. s. Martino papa, sD (1568); s. Diego, senza designazione di rito (7 luglio 1588), sD (1602; c di s. Martino); restituzione di s. Martino, sD, trasferendo s. Diego al 13 (27 febbr. 1671). - 13. s. Diego, sD (dal 12; 27 febbr. 1671). - 14. s. Giosafat, D (28 luglio 1882). 15. s. Geltrude, D (19 maggio 1739); s. Alberto Magno, Dott. della Chiesa, D (6 genn. 1932, trasferendo s. Geltrude al 16). 16. s. Geltrude, sD (6 genn. 1932, dal 15). - 17. s. Gregorio Taumaturgo, sD (1568). - 18. dedicazione delle basiliche di s. Pietro e s. Paolo, D (1568), Dm (1954). - 19. s. Ponziano, s (1568); s. Elisabetta, sD ad lib. (1 sett. 1670), D(29 marzo 1671 ; c di s. Ponziano). - 20. s. Felice di Valois, sD (31 maggio 1694). - 21. Presentazione di Maria S.ma (festa tolta da Pio V), D (1 sett. 1585), Dm (1602). - 22. s. Cecilia, sD (1568), D (6 dic. 1670). - 23. s. Clemente papa, sD (1568), D (1 sett. 1804); c di s. Felicita m. (1568). - 24. s. Crisogono, s (1568); s. Giovanni della Croce, sD 5 ott. 1738; c di s. Crisogono, D (9 sett. 1769), Dottore della Chiesa (24 nov. 1926). - 25. s. Caterina, D (1568). - 26. s. Pietro Alessandrino, s (1568); s. Silvestro ab., D (19 ag. 1890, con c di s. Pietro). - 29. vigilia; c di s. Saturnino m. (1568). - 30. s. Andrea Ap., D2 (1569). Dic. - 2. s. Bibiana, s (1568), sD (1628). - 3. s. Francesco Saverio, sD (6 sett. 1663), D (4 giugno 1670), Dm (1914). - 4. s. Barbara, s (1568); s. Pietro Crisologo, Dott. della Chiesa, D (10 febbr. 1729; c di s. Barbara). - 5. s. Saba ab., s (1568). - 6. s. Nicola, sD (1568), D (6 dic. 1670). - 7. s. Ambrogio, Dott. della Chiesa, D (1568); vigilia dell'Immacolata (30 nov. 1879). - 8. Concezione di Maria S.ma, D (1568), Dm (1602), D2 ott. c. (15 maggio 1693); festa di precetto (6 dic. 1708); Concezione Immacolata di Maria Ss.ma (1855, con nuovo ufficio, dovuto al gesuita p. Passaglia; altro nuovo ufficio, l'attuale, 25 sett. 1863), D1 con vig. (30 nov. 1879). - 9, 12, 14: giorni fra l'Ottava (1693). - 10. s. Melchiade papa, c (1568). - 11. s. Damaso papa, sD (1568). - 13. s. Lucia, D (1568). - 15. s. Eusebio, s (1602); ottava della Concezione di Maria, D (1693, con c di s. Eusebio); s. Eus. trasferito al giorno seguente (1728); l'ottava Dm (1914). - 16. s. Eusebio, sD (1728, dal giorno precedente). 20. vigilia (1568). - 21. s. Tommaso Ap., D2 (1568). - 24. vigilia (1568). - 25. Natale di N.S.G.C., D1 ott. (1568, l'ottava di fatto era privilegiata); ott. p. (1914) - 26. s. Stefano, D (1568; le tre feste dopo il Natale erano definite da Pio V semplicemente "doppio"; i liturgisti disputarono a lungo sulla qualità e convennero quasi tutti a definirla D2, come fu poi espresso nei c.; esse avevano l'ottava comune); D2 ott. s. (1914). - 27. s. Giovanni Ap., D2 ott. s. (1914). - 28. Ss. Innocenti, D2 ott. s. (1914). - 29. a. Tommaso vesc. m., sd (1568), D (1914). - 31. s. Silvestro papa, D (1568). Indichiamo ora brevemente alcune date interessanti le feste mobili (attualmente o per un certo periodo) più note. - Angeli Custodi, D ad. lib. (27 sett. 1608), per il primo giorno libero dopo la festa di s. Michele, D (20 sett. 1670), fissata la festa al 2 ott. - Sacro Cuore di Gesù, Dm (26 ag. 1856), il venerdì dopo l'ottava del Corpus Domini, D1 (28 giugno 1889), D1 ott. p. (26 giugno 1929). - Corpus Domini, D1 ott. c. (1568), giovedì dopo la festa della Trinità; fissato alla domenica dopo la Trinità (2 luglio 1911); riportato al giovedì (24 luglio 1911); l'ottava è equiparata a quella dell'Epifania (priv. 2) (28 ott. 1913). - Sacra Famiglia, Dm (26 ott. 1921), per la domenica dopo l'Epifania. — s. Gioacchino, Dm (3 ott. 1738), fissato alla domenica dopo l'ottava dell'Assunta, dalla data fissa del 20 marzo; D2 (1 ag. 1879); trasferito al 16 ag. (28 ott. 1913). - s. Giuseppe, D1 ott. c. (2 luglio 1911), dal 19 marzo fissato alla domenica seguente, provvedimento revocato subito (24 luglio 1911). - Patrocinio di s. Giuseppe, D2 (10 sett. 1847), la domenica terza dopo Pasqua; D1 (8 dic. 1870, quando s. Giuseppe fu dichiarato Protettore della Chiesa); D1 ott. c. (24 luglio 1911); assegnato al mercoledì dopo la II domenica di Pasqua (28 ott. 1913). Nome di Gesù, D2 (20 dic. 1721), per la II domenica dopo l'Epifania; assegnato alla domenica occorrente tra il 2 e il 5 genn., ovvero al 2 genn., mancando la domenica (1913). - Nome di Maria, Dm (5 febbr. 1694), per la domenica fra l'ottava della Natività di Maria S.ma; fissato al 12 sett. (1913). - Cristo Re, D1 (12 dic. 1925) per l'ultima domenica di ott. - Rosario di Maria S.ma, Dm (13 ott. 1716), per la prima domenica di ott., D2 (11 sett. 1887), fissato al 7 ott. (1913). - Preziosissimo Sangue di Gesù, D2 (10 ag. 1849), per la prima domenica di luglio; fissato al 1 luglio (1913). - Sette Dolori di Maria, Dm (22 ag. 1727), per il venerdì della settimana di Passione. - Sette Dolori di Maria (autunno), Dm (18 sett. 1814), per la terza domenica di sett.; D2 (13 maggio 1908); fissati al 15 sett. (1913). - S.ma Trinità, D2 (1568), D1 (28 luglio 1911). Chi percorre attentamente questi elenchi, con i continui aumenti di feste, di grado, o rito, si persuaderà facilmente che l'anno liturgico, nelle sue grandi linee fondamentali, è ormai quasi completamente occupato dalle feste dei santi. L'aumento delle canonizzazioni nei nostri tempi rende ancora più difficile la situazione. Apparisce da quanto abbiamo scritto che al tempo di Pio V, tra la parte santorale e quella temporale o feriale, regnava un bell'equilibrio. Clemente VIII apriva la via all'ingresso senza limiti delle feste dei santi. Al tempo di Clemente X la S. Congregazione dei Riti era preoccupata di questo Stato di cose; così ebbe origine il decreto del 20 giugno 1671 con il quale si proibiva di trattare, per i successivi 50 anni, l'introduzione di alcuna festa. Il decreto fu rinnovato per altri 50 anni da Clemente XI (4 maggio 1714); però non fu possibile mantenerlo in vigore. Da una parte le continue canonizzazioni, specialmente di fondatori di Ordini religiosi, le pressioni per l'inserzione di feste da parte dei principi cattolici, o altre circostanze particolari condussero fatalmente alla mancata osservanza del decreto. Benedetto XIV riconobbe dannoso per la disciplina il continuo aumento delle feste dei santi, e la riforma del Breviario da lui vagheggiata vi avrebbe posto un argine. Ma fu specialmente dalla seconda metà del secolo passato che son venuti nuovi aumenti e variazioni di rito. Da ciò è nato il vivo desiderio di una riforma liturgica definitiva, iniziata già da Pio X, che anela anche ad una revisione del c. Bibl.: Il c. di s. Pio V del 1568 si trova nell'edizione originale romana, dal titolo: Breviarium Romanum, ex decreto sacrosanctj Concilii Tridentini restitutum, Pii V Pont. Max. jussu editum, Cum privilegio Pii V. Pont. Max., Roma 1568 apud Paulum Manutium, e nelle successive edizioni romane e extraromane. Una edizione del c. piano con note critiche in G. Schober, Explanatio critica editionis Breviarii Romani quae a S. R. C. uti typica declarata est, Ratisbona 1891, pp. 26-38. J. B. Pittonius, Constitutiones Pontificiae et Romanarum Congregationum Decisiones ad sacros Ritus spectantes, Venezia 1730; B. Gavantis C. M. Merati, Thesaurus Sacrorum Rituum, ivi 1752; G. G. Novara, Elementi della storia de' Sommi Pontefici, Roma 1821-22: R. Aigrain, Liturgia, Encyclopédie populaire dei connaissances liturgiques, Parigi 1935, porta a pp. 646-50 un elenco molto sommario delle feste introdotte dopo s. Pio V. - Tutte le indicazioni riportate sono state controllate e completate direttamente su documenti dell'archivio della S. Congregazione dei Riti. Giuseppe Löw 9 da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 364-372 CALICE È quello, tra i vasi sacri, nel quale è consacrato il vino eucaristico nella Messa. La coppa dev'essere d'oro o d'argento, dorato internamente. Deve avere una forma tale da non suscitare meraviglia nei fedeli. CALZARI Sotto il nome di c. si suole comunemente intendere tutto ciò che copre il piede e la gamba, sia scarpa o calza; ma liturgicamente parlando si distinguono i c. dai sandali: questi sono le calzature esterne, quelli le calze propriamente dette che avvolgono tutto il piede e la gamba fino al ginocchio. Da principio il clero, anche per le calzature, usò quelle stesse della vita civile. Ma poi fin dal sec. V i c. (caligae, tibialia, campagi, udones) usati dai senatori e dai dignitari imperiali passarono in uso all'alto clero, non solamente a Roma, ma a Milano e a Ravenna: segno manifesto della crescente influenza delle autorità ecclesiastiche, soprattutto nelle città imperiali. Al sec. VI il Papa ed i suoi diaconi avevano dei c. (campagi) di forma speciale, come risulta da una lettera di s. Gregorio Magno a Giovanni vescovo di Siracusa. Nel sec. VIII la falsa donazione di Costantino accorda a tutto il clero romano il diritto di usare, come il Senato, delle calzature "cum udonibus, id est candido linteamine": questi udones sarebbero i nostri c. Nei musaici di Roma e Ravenna si possono vedere dei c. vari di forma e di colore. Poi man mano questo uso generale si restringe, e dal sec. X in poi i c. furono riservati ai soli vescovi. Nel sec. XII li ebbero anche i cardinali preti. La concessione agli abati fu generale a partire dal sec. XI. Nella disciplina odierna dobbiamo distinguere le calze dai c. propriamente detti. Le calze fanno parte dell'abbigliamento ecclesiastico e seguono per il loro colore le regole delle vesti dei chierici. Il Sommo Pontefice porta le calze bianche sopra le quali nei pontificali indossa i c. bianchi o rossi secondo il rito. I cardinali hanno le calze rosse, eccetto il Venerdì Santo e durante la vacanza della Sede Apostolica, quando prendono quelle paonazze. I cardinali appartenenti ad ordini monastici o mendicanti non portano le calzature rosse, ma ritengono il colore dell'abito religioso. I patriarchi, arcivescovi, vescovi, hanno l'uso delle calze di seta paonazza, ma con quella medesima distinzione che si è detta dei cardinali religiosi. Nel tempo di Sede vacante e il Venerdì Santo portano le calze nere. Tutti i prelati della S. Sede portano le calze paonazze con le eccezioni sopra riferite. I monsignori di mantellone usano le calze nere. I c. invece hanno uso esclusivamente liturgico e sono adoprati nelle messe pontificali dai cardinali, vescovi, abati e dai prelati che ne hanno il privilegio. Non si portano nelle messe funebri, e il Venerdì Santo. La loro forma è quella di una calza un poco più ampia, e sono di seta, oppure di lama d'oro e d'argento, in tutti i colori liturgici, salvo il nero. Bibl.: Ch. de Linos, Anciens vetements sacerdotaux et ancien, tissus, Parigi 1877, p. 55 sg.; J. Braun : Die liturg. Gewandung, Friburgo in Br. 1907, pp. 394-424. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 418-419 CAMAURO È una specie di berretto che copre tutta la testa ed anche le orecchie, che si adoprava fuori delle funzioni sacre. Nella forma attuale è privilegio esclusivo del Sommo Pontefice, che lo porta di velluto rosso filettato di ermellino nell'inverno, e di raso rosso in estate, come la mozzetta da lui indossata. L'origine non è certa. Alcuni autori, dalla parola latina camelaucium vogliono si chiami così perché è un copricapo fatto di peli di cammello. Altri vi vedono la definizione dell'effetto che doveva produrre il c. quella cioè di conservare il calore. Altri infine lo ritengono un ornamento femminile, che è passato poi, come la mitra e la tiara, ai prelati ecclesiastici. Nella sua forma primitiva era composto di quattro pezzi di stoffa, cuciti in forma di croce, abbastanza ampio sì da coprire anche le orecchie, come lo si trova in una medaglia di Alessandro VI. Non è certa l'epoca nella quale i papi cominciarono a portarlo. Nei medaglioni dei papi esistenti nella basilica di S. Paolo in Roma, vediamo che i primi papi che portano il c. sono i papi di Avignone Clemente V e Giovanni XXII. Il tipo variò secondo il gusto dell'epoca, ed anche secondo i desideri dei pontefici. Da Pio VI in poi i papi non lo portano quasi mai, ma usano lo zucchetto bianco. Il c. viene posto sul capo del pontefice defunto prima di essere vestito dei paramenti sacri per essere esposto al pubblico. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, col. 421 CAMICE Veste di lino bianca (detta perciò in linguaggio liturgico alba), lunga fino ai piedi, usata dagli ecclesiastici nelle funzioni liturgiche. Deriva dalla tunica che i Greci e i Romani portavano sola, o sotto le altre vesti. Era senza maniche e giungeva alle ginocchia, quella muliebre discendeva sino ai piedi, donde il suo nome di talare. Nel sec. III, sotto l'influsso dei costumi orientali, furono aggiunte le maniche. Semplice e senza ornato da principio, ebbe in seguito delle lunghe strisce di porpora o di altro colore, che scendevano, dalle spalle ai piedi, tanto di dietro che davanti. È precisamente questa tunica talare, bianca, senza ornato, con le maniche lunghe e strette ai polsi, che i chierici usarono per compiere i sacri ministeri. Il Concilio di Cartagine del 398 stabilì che il diacono indossasse la tunica solamente nel tempo dell'oblazione o delle lezioni. Nel sec. VI anche i suddiaconi cominciarono a portarla. Nell'830 Leone IV prescrisse per le funzioni sacre un c. diverso dall'ordinario; così quando i civili cessarono di portare la tunica, questa fu conservata nella liturgia e divenne indumento sacro. Nell'Ordo Romanus I la tunica di lino è già certamente una veste liturgica. L'antica tunica era abbastanza ampia, e vi furono applicati ornamenti di seta o di oro, non solo alla estremità e alle maniche, ma anche sul petto, sulle spalle, alle falde. Con l'andar del tempo questi ornamenti scompaiono, per dar luogo, specialmente dal sec. XVI, a merletti e trine di vario genere. Oggi il c., secondo le prescrizioni canoniche, deve essere di tela bianca, di taglio abbastanza ampio e scendere fino ai talloni, stretto con il cingolo, intorno ai fianchi. Nessun ornato è prescritto; si può quindi seguire l'uso invalso di applicarvi dei merletti intorno al collo, alle estremità delle maniche, e dell'orlo inferiore. I c. fatti di soli merletti non sono permessi; sono invece tollerati i fondi di vario colore da sottoporsi al merletto delle maniche e della frangia; rappresentando essi il colore della sottana del celebrante. L'uso del c. è riservato dal sec. XII-XIII ai soli ministri in sacris per la Santa Messa, e tutte le volte che si indossa la dalmatica o la tunicella. Il sacerdote non l'usa nei vespri, matutino e lodi, e nelle esequie. Il c. deve essere benedetto dal vescovo o da chi ne ha la facoltà. Bibl.: J. Braun, I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 70-77; V. Casagrande, L'arte a servizio della Chiesa, ivi 1938, pp. 194-97. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 436-437 CAMPANELLO Quando nel sec. XII s'introdusse nella Messa l'elevazione delle sacre Specie, cominciarono ad usarsi c. o tintinnaboli, noti già presso gli antichi popoli, per richiamare l'attenzione dei fedeli. L'uso divenne comune con l'introduzione del Messale romano sotto s. Pio V. Il Ritus celebrandi prescrive un segno di c. al Sanctus ed all'Elevazione. Nelle Messe solenni delle basiliche 10 patriarcali romane non si danno i segni col c. Secondo il monito del Rituale romano, nel portare il S.mo Sacramento ad un ammalato, il chierico "campanulam iugiter pulset", per richiamar l'attenzione dei fedeli. Bibl..: G. Durando, Rationale div. off., Napoli 1839, pp. 4, 42, 53; R. de Fleury, La Messe, Parigi 1883-89, VI, pp. 154-64 e tavv. cdxcvii-di; Schellen, in Kirchenlexikon, Friburgo in Br. 1897, coll. 773-74; P. Lavedan, Clochette, in Dict. illustré de la mythologie et des antiquités grecques et romaines, p. 250; H. Leclercq, Clochette, in DACL, III, coll. 1954-91. Filippo Oppenheim da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, col. 456 CANDELE Sono il mezzo più comune e obbligatorio dell'illuminazione liturgica nelle funzioni religiose. Secondo le prescrizioni le candele devono essere di cera, e cioè fatte in tutto o in massima parte con l'omonimo prodotto delle api. CANDELIERE Il candeliere liturgico trae la sua origine dal mobilio solito delle case romane, e per questo nella sua forma non ha nulla di tipicamente sacrale. La legislazione ecclesiastica vuole che i candelieri siano posti sul piano dell'altare. È permesso che stiano sul piccolo piano rialzato che completa la parte posteriore dell'altare, rimanendo proibito l'infiggerli alla parete. CANONE DELLA MESSA La parola canone entrata nel lessico ecclesiastico dal VI secolo la si impiega per indicare la parte più solenne e la formula essenziale del rito eucaristico. CANONE INNODICO Indica la regola che deve seguirsi nella poesia liturgica. Il ritmo, in tale caso, presenta una forma o un modulo già fissato, al quale deve adattarsi il compositore. Fu già osservata una regola o c. nella poesia classica greca, sia nel numero dei piede che delle strofe. La tendenza, però, alla libertà artistica, dava occasione a molte eccezioni o sostituzioni, chiamate "licenze poetiche". In un certo tempo le composizioni poetiche che meno seguivano il detto c. furono chiamate "irmos" (ε̉ιρμός). La poesia liturgica ebbe e ha ancora i suoi c., benché alcuni siano diversi da quelli della poesia classica. In Oriente da s. Efrem, poi in Occidente, specialmente per opera di s. Ilario e di s. Ambrogio, la poesia o inno fu adoperata per scopo popolare. S. Ambrogio se ne servì per istruire il popolo circa il dogma cattolico, e per combattere gli errori degli eretici; per adattarsi meglio allo stile popolare egli sostituì la quantità dei piedi classici con la tonicità o accento delle parole. Diversi generi di composizione sono stati adattati nel corso dei tempi per la innodia liturgica: ma il tipo classico è il verso di otto sillabe, con strofe di quattro versi, a somiglianza del "giambico-metrico". Di tutti i c. i. resta soltanto, di fatto, il numero delle sillabe. Non si sa se in principio la melodia fosse assolutamente e sempre sillabica: il fatto però è certo che inni di tipo molto antico hanno già melodie più o meno ornate, e quindi l'effetto armonico cadenzale degli otto tempi è meno sensibile. In ogni modo, almeno nella recita, è osservata la "elisione" quando ci sono più di otto sillabe; e anche nel canto è preferita tale pratica. Gregorio M. Suñol da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 549-550 CAPPA In origine era un ampio mantello senza maniche, spesso fornito di un cappuccio, e copriva tutta la persona; fu usato dall'antichità sino a tutto il medioevo come abito contro le intemperie e per viaggio, sia dai laici che dagli ecclesiastici. Per i laici infatti divenne quasi contrassegno delle persone gravi, quando i giovani usarono vesti succinte, particolarmente in tempo di guerra. Quando sorsero gli Ordini mendicanti la usarono aperta sul davanti con ampio cappuccio che scendeva tutt'intorno alle spalle sino a formare una specie di mantellina. Laici ed ecclesiastici la portarono guarnita di pelli intorno alla testa ed alle spalle. Mentre i monaci come abito corale usarono la cocolla, gli altri religiosi usarono o la cotta o la c., o semplicemente la veste del loro Ordine. I papi, prima che in Avignone s'introducesse l'uso della mozzetta con cappuccio sopra il rocchetto, usarono nel medioevo una c. di saia rossa guarnita di ermellini, cha da ultimo sino a Pio VI si portò soltanto nelle funzioni dei Matutini del triduo della Settimana Santa e del Venerdì Santo; mentre nelle circostanze solenni indossavano il grande manto, più ampio e prezioso del semplice pluviale. I cardinali portano la c. di cerimonia in tutto eguale a quella dei vescovi: essa consiste in un lungo mantello a strascico con cappuccio ampio che scende attorno alle spalle a forma di mantellina chiusa sul davanti; nel tempo invernale alla mantellina è sovrapposta un'altra mantellina di pelliccia bianca che guarnisce anche il cappuccio. Il mantello è tutto chiuso con una sola apertura longitudinale sul davanti del petto attraverso cui passare le mani; perciò per usare più liberamente le braccia, la c. si arrovescia sugli avambracci. Per distinguere i cardinali dagli altri prelati fu concesso loro di usare c. di colore rosso-porpora; ciò avvenne sotto Paolo II (o, secondo altri, sino dal tempo di Bonifacio VIII); però nell'Avvento, Quaresima, vigilie, il colore della c. è pavonazzo. Il tessuto è sempre di seta ondata (amoerro); di lana pure pavonazza nel Venerdì Santo e nei giorni di stretta penitenza. I cardinali eletti dagli ordini monastici o mendicanti portano c. di lana del colore del loro ordine; quelli provenienti dai chierici regolari cappe purpuree e pavonazze come i loro colleghi, ma sempre di lana. I vescovi nelle loro diocesi portano la c. pavonazza di forma eguale, come s'è detto a quella dei cardinali, di lana o di seta, mentre la parte superiore quando non è coperta dalla pelliccia è sempre di seta cremisi; in Curia portano o la c. a modo dei prelati o la mantelletta. I religiosi portano la c., come la sottana, la mantelletta, del colore del loro Ordine; sino a non molto tempo fa non usavano rocchetto se non per concessione particolare, ma ora tale concessione è largamente diffusa. I prelati vestono anch'essi la c. sopra la veste pavonazza ed il rocchetto; ma essa non è mai portata distesa, bensì attorcigliata in modo da passare sotto il braccio sinistro dov'è tenuta aderente alla persona da una fettuccia pendente dalle spalle sotto la mantellina. Così la portano i prelati della corte e della curia: vice-camerlengo, uditore e tesoriere della Camera Apostolica (prelati di fiocchetto), i protonotari di numero e soprannumerari, i chierici di Camera, i prelati domestici, i canonici delle basiliche patriarcali, i votanti e referendari di segnatura e gli stessi vescovi presenti in curia. Per concessione papale portano pure nella loro diocesi tale c. i canonici di alcune chiese metropolitane o cattedrali, particolarmente quelli che sono assomigliati ai protonotari, e i canonici di alcune delle basiliche romane minori. Non ne hanno invece diritto i camerieri e i cappellani segreti per i quali la veste solenne di cerimonia è la croccia. Bibl.: G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-eccles., VIII, Venezia, 1842, p. 80 ss. XCVI, ivi 1859, p. 265; J. Braun, I 11 paramenti sacri, trad. it., Torino, 1914, p. 160; E. Roulin, Linges, insignes et vêtements liturgiques, Parigi, 1930, p. 143; L. Eisenhofer, Handbuch der katholischen Liturgie, I, Friburgo in Br., 1932, p. 435; L. Mattei Cerasoli, s.v. in Enc. Ital. VIII, 1930, p. 880. Pio Paschini da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 695-696 CARTEGLORIA Sono tre tabelle che si pongono al centro e ai due lati dell'altare per aiutare la memoria del celebrante nella recita di alcune formule della messa. La tabella di mezzo, che è l'unica prescritta, contiene preghiere del Canone e dell'Offertorio (tabella secretarum o del Canone). Per aiutare la memoria del celebrante, fin dal sec. XVI si soleva mettere nel mezzo dell'altare una tabella, contenente alcune orazioni della Messa; s. Carlo, nel sinodo del 1576 ricorda per la prima volta le 3 tabellae. La tabella di mezzo, che è l'unica prescritta, contiene preghiere del Canone e dell'Offertorio (Canon minor): per questo fu chiamata tabella secretarum o del Canone. Generalmente si aggiungono anche altri testi, come quelli del Gloria in excelsis, del Credo, del Munda cor, del Supplices te rogamus e del Placeat tibi, e ciò per la difficoltà di usare il messale durante la loro recitazione, in quanto il sacerdote deve stare chinato sull'altare. La tabella al lato dell'Epistola contiene il salmo Lavabo e l'orazione Deus qui humanae substantiae; quella al lato del Vangelo l'inizio del Vangelo secondo Giovanni. Per i vescovi invece si usa il cosiddetto Canon episcopalis, cioè il libro contenente il Canone. Durante l'esposizione del S.mo Sacramento devono essere rimosse (S. Congr. dei Riti, decr. 3130 ad 3). Da principio contenevano probabilmente i soli toni dell'intonazione del Gloria, e da qui forse trassero nome. È essenziale che il contenuto delle c. sia facilmente leggibile. Bibl.: L. Eisenhofer, Handbuch der kathol. Liturgie, I, Friburgo in Br. 1932, pp. 364-365; P. Bayart, in R. Aigrain, Liturgia, Parigi 1935, p. 215. Filippo Oppenheim da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, coll. 956-957 CATALANI, GIUSEPPE Celebre liturgista, nato a Paola (Cosenza) il 14 giugno 1698, morto a Roma il 10 agosto 1764. Opere liturgiche principali: Pontificale Romanum prolegomenis et commentariis illustratum (3 voll., Roma 1738-1740), Caeremoniale episcoporum commentariis illustratum (2 voll., Roma 1744), Sacrarum caeremoniarum sive rituum ecclesiasticorum S. R. Ecclesiae libri tres (2 voll., Roma 1750-1751) CENERI, MERCOLEDÌ delle Negli ultimi anni di san Gregorio Magno si cominciò il digiuno quaresimale con il mercoledì precedente la domenica I di Quaresima, che perciò fu chiamato caput ieiunii o anche caput Quadragesimae. La penitenza al principio della Quaresima era inculcata ai fedeli con l'espulsione dei pubblici penitenti da parte del vescovo. Il rito ne è conservato nel Pontificale romano. CERIMONIA Nel senso liturgico la c. è un gesto, un'azione, un movimento o un complesso di essi, istituito dalla competente autorità, per accompagnare la preghiera o l'esercizio pubblico del culto divino. L'insieme e l'ordine delle varie c. è ciò che costituisce un rito. L'etimologia della parola risulta incerta. L'origine delle c. è fondata nella stessa natura umana, poiché i gesti che accompagnano la parola manifestano naturalmente i sentimenti e i movimenti dell'animo. Non vi è infatti religione, che non abbia tutto un corredo di riti e di c. Questa intima connessione tra religione e c., la si trova ampiamente illustrata nel Vecchio Testamento: i quattro ultimi libri del Pentateuco, specialmente il Levitico, espongono le diverse pratiche rituali del popolo ebraico. Nella religione cristiana le c. sono antiche quanto il cristianesimo. Gesù stesso ne è l'iniziatore; e quindi gli Apostoli, e poi la Chiesa hanno costituito il primo nucleo del rituale liturgico, che completato, modificato, ampliato con l'andare dei secoli, costituisce oggi il cerimoniale della Chiesa che concorre sì mirabilmente a farne apprezzare e venerare dai fedeli la santità e la dignità. Per le origini delle varie c. basterà accennare alle diverse cause che ne determinarono l'inizio o la scomparsa; perché alle volte solo così ci si può rendere ragione di esse. Come cause storiche si ricorderanno l'influsso della religione mosaica sul culto cristiano; l'assunzione da parte della Chiesa di alcuni riti pagani, trasformati e santificati; ed infine il fatto che molte c. e riti sono comuni a tutte le religioni, essendo di loro natura atti ad esprimere i sensi intimi dell'anima umana. Il fine inteso dalla Chiesa nelle sacre c. è primieramente di rendere degno il culto tributato a Dio con lo splendore dei sacri riti, e attrarre gli uomini alle cose celesti sollevandone lo spirito, favorendone la pietà. Si rende così sensibile l'azione intrinseca e spirituale del sacrificio della Messa, e dei Sacramenti, per mezzo delle c. e dei riti, facilmente percepibili nel loro significato. reale. Ma oltre questo senso morale, un altro mistico senso possiamo e dobbiamo trovare in molte c. L'interpretazione simbolica dei riti, come non è da trascurare, così non deve essere spinta all'eccesso. Purtroppo non mancarono abusi e, durante tutto il medioevo fino al sec. XVII, l'interpretazione mistica fu estesa oltre ogni convenienza e ragione. Bibl.: Desloge, Etudes sur la signification des choses liturgiques, Parigi 1906; G. B. Menghini, Elementa iuris liturgici, Roma 1907. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica,III, Città del Vaticano, 1949, coll. 1316-1317 CERIMONIALE DEI VESCOVI È il complesso di regole e di direttive sacre che disciplinano la preparazione e gli atteggiamenti, movimenti e gesti da osservarsi nella celebrazione solenne della Messa e dell'Ufficio corale presente il vescovo, e il comportarsi di questi nelle manifestazioni della sua personalità. CEROFERARIO Colui che nelle funzioni solenni porta il cero acceso sul candelabro. CERO PASQUALE Cero di grandi dimensioni, artisticamente decorato, benedetto nel Sabato Santo, e posto sopra un candelabro dal lato del Vangelo dell'altare maggiore fino alla festa dell'Ascensione. 12 CHIROTECA Vedi GUANTI CINGOLO Dall'uso profano di una cintura per tenere fissa intorno ai fianchi la tunica, è sorto l'indumento sacro in forma di cordone, con due fiocchi alle estremità, che serve per stringere il camice. I primi accenni al c. si hanno in una lettera di papa Celestino nel 430 ai vescovi di Narbona e Vienna nelle Gallie. Poi i monaci, memori della parola del Signore: "siano cinti i vostri lombi", ritennero incompatibile per il loro stato la tunica discinta, e concorsero così a generalizzare, l'uso del c. Dalla semplice cinta di cuoio o di corda dei monaci, si passò nella liturgia alla fascia di seta riccamente ornata, con pietre preziose e borchie d'oro, specialmente durante il medioevo. Poi si tornò alla semplicità primitiva, ed eliminata la fascia si riprese il cordone. La Chiesa non ha determinato né la forma né il colore del cingolo; se ne possono quindi fare di seta, lino, lana, cotone; il loro colore può essere sempre bianco oppure simile a quello dei paramenti. Vario ne è il significato simbolico secondo gli autori, ma quasi tutti convengono nel ritenerlo il simbolo della castità, come indica la preghiera liturgica che il sacerdote deve recitare quando lo cinge. Bibl.: J. Braun,Die liturgische Gewandung im Occident und Orient, Friburgo in Br. 1907, pp. 102-15; id., I paramenti sacri, vers. it., Torino 1924, pp. 77-84. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, III, Città del Vaticano, 1949, col. 1678 COLLETTA Indica: 1) il luogo di convegno che negli antichi Ordini romani viene indicato regolarmente nei singoli giorni di Quaresima. 2) L'orazione del giorno che anticamente si diceva sopra il popolo adunato per la celebrazione della Messa. 3) Fin dal secolo IX, è il nome della prima orazione della messa. COLLETTARIO Chiamato talvolta orazionario, deriva dal sacramentario in quanto anticamente solo questo libro conteneva le orazioni recitate dal vescovo o dal sacerdote a nome della collettività. COLORI LITURGICI Secondo il carattere del giorno o dell'occasione della funzione sacra, sono prescritti diversi colori per i paramenti sacri, e cioè bianco, rosso, verde, violaceo e nero. Inoltre nelle domeniche Gaudete (3ª di Avvento) e Laetare (4ª di Quaresima) è permesso il rosaceo. Il c. oro può essere usato in luogo del bianco, del rosso e del verde, a causa della preziosità o della solennità (S. Rit. Congr., n. 3646 ad 2), l'argenteo solo al posto del bianco (ibid., ad 3). I primi cristiani non conobbero un c. l. determinato per le vesti che indossavano nel culto; presto, però, si hanno notizie di una veste bianca, richiesta specialmente per i sacerdoti (Constitutiones Apostolorum, VIII, 12; Canones Ps. Athanasii, can. 28; Canones Ps. Basilii, can. 99). Tracce dei suddetti c. si trovano nell'evo carolingio, e anche prima negli Ordines Romani; nel sec. XII esisteva però a Roma un canone preciso per i c. dei paramenti, a seconda del tempo, come è attestato e spiegato da papa Innocenzo III (De Sacro altaris mysterio, I, 65: PL 217, 199 sg.; cf. Durando, Rationale, 3, 18). Non vi era però uniformità, e i c. continuavano a differire a seconda dei luoghi e dei tempi. Inoltre erano usati il giallo, bruno, azzurro, grigio e, non essendovi un apposito precetto, in molti luoghi serviva di regola l'uso o la tradizione o anche il gusto del celébrante. L'uniformità fu raggiunta solo dopo la promulgazione del Messale di s. Pio V, ma soltanto presso i Latini; gli orientali continuarono ad usarne differenti; la liturgia ambrosiana conservava i suoi e la Spagna otteneva il privilegio dell'azzurro nelle feste mariane. Altre norme complementari che riguardano i c. l. per l'amministrazione dei Sacramenti o Sacramentali si trovano nel Rituale romano e nei decreti della S. Congregazione dei Riti. La scelta di un dato c. per determinati giorni proviene da considerazioni simboliche, volendosi anche con esso esprimere il carattere e il senso di una solennità. Secondo Innocenzo III, il bianco, nelle feste di vergini e confessori, simboleggia la purezza e l'innocenza; a Pasqua e all'Ascensione ricorda le bianche vesti degli angeli; dovunque è simbolo della gioia. Il rosso, prescritto per le feste degli Apostoli e dei martiri, simboleggia il sangue da essi versato; alla Pentecoste, la carità e l'ardore dello Spirito Santo. Il nero è segno di lutto nella Messa per i morti, e di penitenza, come, anticamente, nei giorni dell'Avvento e della Quaresima. Il verde, sempre secondo il detto Papa, è un c. intermedio tra il bianco il rosso, ed è usato nelle domeniche, salvo quelle dell'Avvento e della Quaresima. Il violaceo è una specie temperata di nero, perciò un tempo era usato nelle domeniche Gaudete e Laetare, nelle quali oggidì si usa il rosaceo. Bibl.: J. Braun. Die liturgische Gewandung in Occident und Orient, Friburgo 1907, pp. 728-60; J. Braun. I paramenti sacri, Torino 1914. pp. 38-46; L. R. Barin, Catechismo liturgico, I, V ed., Rovigo 1927, pp. 388-91; L. Eisenhofer, Compendio di liturgia, Torino 1940, p. 60 sgg. Filippo Oppenheim da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 22-23 COMMEMORAZIONE Quando di uno o più santi o di una feria, vigilia od ottava non si può recitare l'ufficio o la messa per l'occorrenza di una festa di rito più elevato, allora di essi si fa spesso la commemorazione o memoria nell'ufficio e nella messa del giorno. I cicli del Temporale e del Santorale infatti corrono simultaneamente ed il Martirologio riporta molti santi che nello stesso giorno ascesero alla gloria del cielo. Non è raro quindi il caso di un conflitto nel calendario tra una festa, una domenica, una feria, una vigilia o una ottava. Le regole liturgiche tendono ad eliminare od attenuare questi conflitti, sia sopprimendo le feste meno importanti, sia trasportando quelle più nobili, oppure commemorandone semplicemente alcune. Questa commemorazione consta di un'antifona col relativo versetto ed orazione ai Vespri e alle Lodi, e della orazione nella Messa. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 50 COMMUNE SANCTORUM È la terza delle grandi parti in cui si dividono il Messale e il Breviario romano, e comprende una raccolta di formole liturgiche (messe e uffici) per le feste di quei santi che mancano in tutto o in parte di formulari propri. 13 COMMUNIO È l'antifona che nella Messa solenne viene cantata dal coro dopo la Comunione del celebrante; in tutte le Messe è letta semplicemente dal celebrante stesso. Anticamente si cantava durante la distribuzione della Comunione dei fedeli, intercalandola con i versi di un salmo. A poco a poco, il salmo fu abbreviato fino a scomparire totalmente, sicché rimase la sola antifona, nella quale è riassunto qualche pensiero del giono o della festa che si celebra; un vestigio dell'antico uso è rimasto nella sola Messa per i defunti. Nella liturgia ambrosiana è detta transitorium. Bibl.: I. Schuster, Liber Sacramentorum, 3ª ed., Torino 1932, p. 100; III, ivi 1933, p. 70; G. Destefani, La messa nella liturgia romana, ivi 1935, pp. 307, 751 sg. Filippo Oppenheim da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 70-71 COMPIETA Ultima ora dell'ufficio divino. "CONSORS PATERNI LUMINIS" Inno del Mattutino del martedì, composto da s. Ambrogio. "COR ARCA LEGEM CONTINENS" Inno delle Lodi nella festa del Cuore di Gesù. L'inno data dal 1847, e solo 10 anni dopo Pio IX lo incluse nel Breviario romano. CORPORALE Quadrato di lino su cui si posano le specie eucaristiche e i vasi sacri. Il suo nome deriva dall'ufficio di raccogliere il Corpo di Cristo. Il suo nome deriva dall'ufficio di raccogliere il Corpo di Cristo. Nei primi secoli non si stendevano tovaglie sull'altare; solo alla Messa, prima dell'offerta, i diaconi stendevano un panno di lino per posarvi il pane e il vino destinati al sacrificio eucaristico, e con un lembo si copriva il calice. Introdottasi l'abitudine di coprire l'altare con due, tre tovaglie e diminuite d'altra parte le offerte, il c. fu accorciato così che sino dal medioevo appare già ridotto alla forma presente. Il calice venne allora coperto con un altro piccolo c. detto palla. A determinare la materia fu il richiamo alla Sindone nella quale era stato avvolto il corpo esanime di Gesù: perciò il sacrificio della Messa deve essere offerto sopra un panno di lino. Nella liturgia ambrosiana si tiene vivo questo raffronto con l'orazione precedente l'Offerta, chiamata: "sopra la Sindone". Si conservano tuttavia antichi c. di seta. Anticamente, dopo la consumazione, il c. veniva piegato tre volte, ponendo verso l'interno le due estremità in modo che "né l'un capo né l'altro apparissero fuori". I liturgisti medievali videro simboleggiata la divinità di Cristo che non ha principio né fine, ma il motivo stava piuttosto nella preoccupazione che i minuti frammenti eucaristici ivi rimasti non avessero a cadere in luogo profano; per questo motivo la conservazione e lavatura del c. impose sempre religiosa attenzione; e nel sec. IX esiste già la prescrizione di non mandare al bucato c. prima che siano stati lavati almeno una volta da un sacerdote, un diacono o suddiacono. Le prescrizioni di Cluny in proposito sono minuziose e curiosissime. Si conoscono c. molto ornati, ma l'odierna legislazione permette soltanto i lini damascati, qualche ricamo agli angoli, una piccola croce al centro senza rilievo; gli orli possono essere ornati di pizzi. Viene portato all'altare entro una borsa che segue le regole dei colori. liturgici. Bibl.: G. Braun. I paramenti sacri, trad. it., Torino 1914, p. 184-88; C. Callewaert, De Missalis Romani liturgia, sez. 1ª, Bruges 1937, nn. 433. 437, 438. Enrico Cattaneo da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 598 "CORPUS DOMAS JEJUNIIS" Inno del Mattutino per l'ufficio di s. Giovanni Canzio, di autore ignoto, composto per la sua canonizzazione avvenuta nel 1757. CORPUS DOMINI, Festa del Solennità del S.mo Corpo di Cristo, celebrata il giovedì dopo la 1ª domenica di Pentecoste, per commemorare in modo tutto speciale la Eucaristia: sacrificio e Sacramento. COTTA Tunica bianca usata dai sacerdoti nei riti non uniti alla messa, e dai chierici. La liturgia cristiana volle sempre gli ecclesiastici indistintamente rivestiti di un abito-base bianco a somiglianza dei 24 Seniori e della turba innumere che, in cielo, sta attorno al trono dell'Agnello (Apoc. 4, 4). Nella forma originaria si è conservato nel camice dal quale derivò la c. Appare nel sec. XI in Inghilterra, nella Francia del nord e nella Spagna, sul finire del sec. XI in Italia, e, costituendo per sé una novità, solo più tardi a Roma. Venne pure chiamata soprapelliccia (superpelliceum) perché messa sopra gli abiti fatti di pelli di animali (Durando) richiesti dal freddo intenso dei paesi nordici: il camice, con le sue maniche strette e la necessità di recingerlo ai fianchi, mal si adattava; se ne allargarono pertanto le maniche e se ne accorciò un poco la lunghezza risultandone la c. Anche laddove non si usavano pellicce, la praticità suggerì egualmente d'accorciare la tunica dei fanciulli cantori e si ebbe il camisium (c. a maniche strette) attestato a Milano nel sec. XII. All'inizio le caratteristiche della c. sono: maniche molto larghe, foro circolare per introdurvi il capo, misura lunga e ampia senza alcun ornamento, fino quasi ai piedi. Dopo il sec. XIII venne accorciata sino allo stinco; nel sec. XV-XVI, al di sopra dei ginocchi. Su ciò influì l'uso, sviluppatosi nel sec. XVI, di pieghettarla: poiché infatti la larghezza delle maniche era diminuita in proporzione della lunghezza della c., si volle dare un aspetto meno goffo alla tunica, conservata solo nel nome, creandosi così le c. ricce usate oggi principalmente nelle cattedrali e chiese collegiate. Solo con il sec. XVII diventa uso generale ornare la c. con pizzi. La c. deve essere di lino o di cotone bianco; il taglio sul petto non è d'uso generale. Il suo simbolismo è vario. A chi la riveste ufficialmente la prima volta accedendo alla tonsura il Pontificale ro mano dice: "Ti rivesta il Signore dell'uomo nuovo, quello che per volere di Dio fu creato giusto e veramente santo". Ed il candore richiama infatti lo stato di Grazia. Bibl.: M. Magistretti, Delle vesti ecclesiastiche in Milano, II ed., Milano 1905, pp. 30-34: G. Braun, I paramenti sacri, trad. ital., 14 Torino 1914, pp. 81-84; E. Roulin, Linges. insignes et vêtements liturgiques, Parigi 1930, pp. 28-34. Enrico Cattaneo da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 784-785 CREPITACOLO Dal latino crepitaculum, crepitacillum: giocattolo di legno che agitato produce rumore. È detto anche bàttola, tabella o raganella. Si usa nella liturgia dal Giovedì al Sabato Santo in sostituzione delle campane. CROCE NELLA LITURGIA 1. Le feste della S. Croce. I libri liturgici attuali ne hanno due: In Inventione S. Crucis (3 maggio) e In Exaltatione S. Crucis (14 sett.). Le feste seguirono lo sviluppo della devozione alla reliquia della S. C., che ebbe origine col suo ritrovamento. L'anno di questo avvenimento resta incerto. La Cronaca alessandrina lo assegna al 320, il Lib. Pont. al 310 (I, p. 167), la Dottrina d'Addai la riporta addirittura al tempo di Tiberio (14-37). La Peregrinatio Aetheriae (ca. 394) la suppone avvenuta prima del 335, ma Eusebio nella Vita Constantini, scritta nel 337 non ne parla affatto. Il primo documento sicuro è la testimonianza di s. Cirillo di Gerusalemme nella Cathech., XIII, 4: PG 33, 775; scritta nel 347. Meno informati ancora si è sul giorno della Inventio. Da notarsi però che la Cronaca e la Peregrinatio danno il 14 sett. e questo è stato causa di non poca confusione per l'individuazione delle due feste nei documenti. Storicamente la festa liturgica dell'Exaltatio precede quella della Inventio. L'origine è palestinese, anzi locale di Gerusalemme e deve ricercarsi nell'annuale celebrazione della dedicazione (avvenuta il 13 e 14 sett. 335) delle due basiliche costantiniane dell'Anastasis e del Martyrion. La festa giunse a grande celebrità. Alla fine del sec. IV la Peregrinatio parla di moltitudini di monachi, episcopi (fino a 40 e 50), clerici, saeculares, tam viri quam feminae, che per otto giorni continui accorrevano da tutte le parti dell'Oriente per prendervi parte. Essa non cedeva in nulla alle feste di Pasqua c dell'Epifania (Peregrinatio ad loca sacra, cap. 48, in Itinera, ed. Geyer, p. 100). Con il tempo s'incominciò a fare una solenne ostensione delle reliquie della vera C., sicché a poco a poco questo rito diventò l'oggetto principale della solennità, facendo dimenticare quasi del tutto la dedicazione. Alessandro di Cipro (sec. VI) la designa esattamente con il nome poi rimasto: Exaltatio praeclarae Crucis (PG 86, 2176). Da Gerusalemme la solennità si diffuse in molte chiese orièntali, specie dove si possedeva una reliquia della vera C., come a Costantinopoli, ad Apamea e ad Alessandria. Per l'Occidente la prima testimonianza d'una festa liturgica della S. C. si trova nella biografia di Sergio I (687-701), nella quale si legge: Qui etiam ex die illo pro salute humani generis ab omni populo christiano die Exhaltationis Sanctae Crucis in basilicam Salvatoris, quae appellatur Constantiniana, osculatur et adoratur (Lib. Pont., I p. 374). Il testo lascia intendere che la festa era già celebrata prima di Sergio; probabilmente dapprima nell'oratorio della S. C. al Laterano, poi nella basilica Sessoriana Sanctae Crucis in Hierusalem. Ma non si deve andare molto indietro, come mostra l'incertezza dei documenti nel segnalarla: p. es., si trova nel Sacramentario gelasiano (metà sec. VIII; cf. ed. Wilson, p. 198), ma manca nel manoscritto di Epternach del Martirologio geronimiano, eseguito da un vescovo consacrato da Sergio I (cf. Lib. Pont., I, p. 387, nota 29). Alla festa Sergio dovette aggiungere la solenne ostensione e adorazione della C. conservata nel Sancta Sanctorum del Laterano di cui parla il testo riferito, cerimonia attestata ancora nell'Ordo di Cencio Camerario al principio del sec. XIII. Mentre a Roma s'affermava la festa dell'Exaltatio, fissata al 14 sett., nelle Gallie s'era introdotta, e con successo, una festa Inventionis Sanctae Crucis stabilita al 3 maggio. Pare che essa entrasse nelle chiese gallicane nella prima metà del sec. VIII: non si trova nei Sacramentari leoniano (sec. VI) e gregoriano (sec. VII), non ne fa cenno Gregorio di Tours (593-94), così abbondante in simile materia, manca nel Lezionario di Luxeuil (fine sec. VII). La riportano invece i manoscritti del Martirologio geronimiano di Wolfenbüttel (772) e di Berna (di poco posteriore), i calendari mozarabici, i Sacramentari gelasiani del sec. VIII (cf. P. de Puniet, Le Sacramentaire romaine de Cellone, Roma [1938], pp. 92*-93*; Sacramentarium Pragense, ed. A. Dolci, Beuron 1949, p. 71). La data del 3 maggio fu suggerita, a quanto sembra, dalla leggenda di Giuda Ciriaco, vescovo di Gerusalemme (BHL, 7022). Il Missale Gothicum (secc. VII-VIII) e quello di Bobbio (sec. VIII) mettono la festa tra l'ottava di Pasqua e le Rogazioni, senz'altra indicazione. Il Reg. 316 e il Pragense hanno già la data del 3 maggio. In sostanza i due calendari, il romano e il gallicano, avevano una propria festa della S. C. in date diverse e ambedue sono rimaste nei libri liturgici quando questi, emigrati in Gallia, ritornarono a Roma con le note aggiunte c trasformazioni. Anche il formolario liturgico delle due feste ha risentito delle loro vicende. L'ufficiatura della Exaltatio è di evidente fattura romana: lo mostra tra l'altro l'antifona: O magnum pietatis opus, tratta dall'epigrafe metrica di papa Simmaco (498-514) per l'oratorio della S. C. in S. Pietro, e l'altra Salva nos, Christe, che ricorda lo stemma della medesima basilica (cf. U. Mannucci, Per la storia dell'ufficio della S. C., in Rass. Gregor., 1910, col. 249). Le lezioni narrano il recupero della S. C. dalle mani dei Persiani, avvenuto nel 665 sotto Eraclio. L'ufficiatura dell'Inventio, invece, è gallicana. Le antifone del sec. XII accennavano alla leggenda di Giuda Ciriaco e furono soppresse da Clemente VIII (1592-1605) "quia historiam continebant dubiam" e sostituite dalle attuali (v. l'antico formolario in Tommasi, Opera, t. IV, p. 250). Le lezioni rimaste raccontano il ritrovamento della C. fatto da s. Elena. La Messa è di classico tipo gallicano (cf. G. Manz, Ist die Messe de Inventione S. Crucis im Sacram. Gelas. gallischen Ursprungs?, in Ephem. lit., 47 [1938], pp. 192-96). Nel 1741 la Commissione nominata da Benedetto XIV per la riforma del Breviario stabili di sopprimere la festa del 3 maggio, ma l'intero progetto, com'è noto, fallì e anche le due feste della S. C. sono rimaste finora al loro posto. Bibl.: A. Holder, Inventio S. Crucis, Lipsia 1889; P. Bernadakis, Le culte de la Croix chez les grecs, in Echos d'Orient, 5 (1902), pp. 193 sgg., 257 sgg.: L. De Combes, La vraie Croix perdue et retrouvée, Parigi 1902, p. 265-73; id., De l'invention à l'exaltation de la S. Croix, Parigi 1903; J. Straubinger, Die Kreuzauffindungslegende, Paderborn 1912; K. A. H. Kellner, L'Anno ecclesiastico, Roma 1914, p. 285 sgg.; H. Leclercq, Croix (invention de la), in DACL, III, coll. 3131-39; A. Kleinclausz, Eginhard, Parigi 1942, pp. 175-99, 249-55. Annibale Bugnini 2. La Croce dell'altare. Nei primi secoli, soltanto la materia del sacrificio poteva essere posta sull'altare. La C. e i candelieri, portati in testa alla processione, venivano collocati o dietro l'altare o ai suoi lati. Talvolta la C. era pendente sotto il ciborio o scolpita sul frontone dello stesso: tuttavia nessun testo ci dice la ragione precisa della sua presenza. Con il sec. XI viene ornata del Crocifisso fiancheggiato talvolta dalla Madonna e s. Giovanni Evangelista; un foro nell'altare od apposito piedistallo permette di fissarla sull'altare stesso durante la celebrazione del S. Sacrificio. L'introduzione e il propagarsi delle Messe private non è escluso abbiano influito a porla definitivamente sull'altare. Il Cerimoniale dei vescovi, ordinando che la "Crux Domini" sia sull'altare, stabilisce il suo basamento alto quanto il più vicino dei candelieri voluti d'altezza varia, perché, con il loro ascendere, maggiormente siano d'ornamento alla C. La sua presenza sull'altare, come i ripetuti inchini e gli sguardi ad essa rivolti dal sacerdote celebrante la S. Messa, vogliono inculcare essere 15 questa la reale rappresentazione del sacrificio della C. Pertanto è sempre necessaria, salvo durante l'esposizione del S.mo Sacramento, perché l'immagine cede alla realtà. Bibl.: J. Braun, Das christliche Altargerät, Friburgo in Br. 1932, pp. 466-92; C. Callewaert, De Missalis Romani liturgia, I, Bruges 1937, n. 442. Enrico Cattaneo 3. La Croce pettorale. È una piccola croce d'oro o di altro metallo dorato, che i vescovi portano appesa al collo come proprio distintivo. Vi sono due specie di Croce pettorale: una è appesa ad una catena d'oro od altro metallo dorato, che si usa con le vesti ordinarie, l' altra pende da un cordone di seta rossa per i cardinali e verde per i vescovi, e si porta nelle funzioni sacre e sulla mozzetta. Il Cerimoniale dei vescovi fa cenno solo di questa seconda, e la considera come ornamento pontificale, mentre della prima non parla affatto. L'origine della C. pettorale si riallaccia molto probabilmente agli encolpi ed a quegli oggetti sacri che i cristiani portavano sul petto. Gli scrittori antichi non ne parlano: ciò significa che in origine si trattava solo di una devozione personale. Più tardi i papi fecero di essa un ornamento sacro, imitati successivamente dai vescovi e dagli abati. I primi esempi risalgono ca. al sec. IX. Alla C. pettorale, come ornamento liturgico del papa, accenna Innocenzo III nel De sacro altaris sacrificio, I, cap. 2. Un Pontificale del sec. XII enumera fra i paramenti liturgici del vescovo la "Crux pectoralis, si quis ea uti velit" (E. Martène, De ant. Eccl. rit., 1, Anversa 1736, cap. 4, art. 12, ordo 23). Bibl..: A. Du Saussay, Panoplia episcopalis, seu de sacro episcoborum ornatu, VII, Parigi 1646, pp. 294-329; L. Thomassinus, Vetus et nova Ecclesiae disciplina, II, Napoli 1769, cap. 58, nn. 4-5; J. L. Ferraris, Cruz, in Prompta bibliotheca canonica, Parigi 1858, nn. 51-55: A. Fivizzani, De ritu S. Crucis, Roma 1892, cap. 7, p. 53; F. Eygen, in Liturgia, Parigi 1935, p. 342; M. Righetti, Storia liturgica, Milano 1945, pp. 519-20. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 960-964 CROCIFERO Secondo un antico uso cristiano la croce, come vessillo di Cristo, precede tutte le sacre processioni dei fedeli, e l'ufficio di portarla è specialmente affidato al suddiacono. CROTALO (krotalon, crotalum) Strumento a percussione, corrispondente alle nacchere o castagnette. Non entrò mai nell'uso della liturgia, ma la parola crotalum è usata per designare i crepitacoli che negli ultimi giorni della Settimana Santa sostituiscono le campane. "CRUDELIS HERODES DEUM" Inno dei Vespri nella festa dell'Epifania, composto delle strofe 8, 9, 11 e 13 del celebre inno di Sedulio, che celebrano i tre misteri ricorrenti nella festa dell'Epifania: l'adorazione dei Magi, il Battesimo nel Giordano e il miracolo delle nozze di Cana. La prima strofa è una significativa interrogazione ad Erode sul suo infondato timore per la nascita del nuovo re, che non usurpa domini terreni, ma che anzi dà in premio il regno dei cieli ai suoi seguaci. Tutta la composizione è ispirata ad un parallelo fra la divina e la umana natura del nato Messia. Bibl.: G. G. Belli, Gli inni del Breviario tradotti, Roma 1857, p. 128; S. G. Pimont, Les hymnes du Bréviaire romain, II, Parigi 1884, pp. 88-95; C. Albini, La poesie du Bréviaire, I, Lione s. a., p. 135. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 1025-1026 "CUSTODES HOMINUM PSALLIMUS ANGELOS" Inno del Vespro nella festa degli Angeli Custodi (2 ott.). Sono tre strofe asclepiadee ispirate al bisogno dell'aiuto celeste nelle lotte continue che si debbono sostenere con le forze del male. La terza strofa è una preghiera all'Angelo Custode. Si trova per la prima volta in un breviario cistercense nel 1570. Bibl.: G. G. Belli, Gli inni del Breviario tradotti, Roma 1857, p. 312; C. Albini, La poesie du Bréviaire, I, Lione s. d., p. 115; G. Bossi, Gli inni del Breviario romano, versione ritmica, Roma 1919, p. 192; A. Mirra, Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 1095 DALMATICA Veste liturgica propria del diacono. Era un abito bianco, talare, riservato alle classi più elevate (imperatori, nobili romani) di lino o di lana, spesso anche di seta, ornato con due striscie di porpora (clavi) più o meno lunghe secondo la dignità della persona che l'indossava. Questo costume passò nell'uso romano e la d. del sec. II era una tunica ampia, che arrivava fin sotto al ginocchio, munita di larghe maniche scendenti fino al polso. Tale veste era portata dai vescovi del sec. IlI anche nella vita civile, come si sa da s. Cipriano il quale si spogliò della d. prima del martirio. Dopo varie vicissitudini, in ultimo rimase esclusiva del clero. Del suo uso antico ci parlano gli scrittori, però non è dato riconoscere con precisione di chi fosse propria. L'opinione più comune è che fosse veste propria dei sommi pontefici e da essi concessa ai diaconi di Roma, e non per tutti i giorni, ma per le solennità. Secondo il Lib. Pont., s. Silvestro papa (314-35) permise "ut diaconi dalmaticis in ecclesia uterentur". Già verso la fine del sec. IV l'autore romano delle Quaestiones ex Vetere Testamento, 46 (ca. 370-75) suppone che l'indossassero anche altri vescovi e diaconi : "hodie diaconi induuntur dalmaticis sicut episcopi". Come appare dai musaici dell'epoca, nel sec. V si portava a Milano, nel sec. VI a Ravenna; ad altri Roma la concesse espressamente (ad es., Simmaco [498-514] la diede ai diaconi di s. Cesario di Arles [Vita s. Cesarii Arel., I, 4], s. Gregorio Magno [590-604] ai diaconi della 16 chiesa di Gap, Stefano II [752-57] all'abate di S. Dionigi di Parigi). Nel sec. IX invalse l'uso che molti sacerdoti la portassero sotto la pianeta (Walafridus Strabo, De rerum ecclesiasticarum exordio et incremento, 24) al quale abuso però resistette la Sede Apostolica, che finalmente (prima ancora del sec. XII) la concesse ai cardinali preti, agli abati ed ad alcuni altri. Dal sec. XII la d. è de iure la veste propria dei diaconi che la ricevono nella ordinazione e la portano come veste superiore, e dei vescovi, cardinali preti ed altri prelati che la indossano sotto la penula. Nel sec. XII si fece la d. del medesimo colore dei paramenti e scomparvero i clavi, distintivo caratteristico, che non avevano più senso quando fu abbandonato l'uso esclusivo del bianco per far luogo a più ampie strisce. Fuori d'Italia già nel sec. IX si cominciò ad accorciare la veste talare fino ai ginocchi, ed anche le maniche. Più tardi, per la speditezza dei movimenti, la d. fu aperta sui fianchi e ampliata nella parte :inferiore, rimanendo tuttavia le due parti congiumte fin quasi alle anche. Nel sec. XVI, per poterla più facilmente indossare, fu un po' aperta sopra le spalle, e per chiudere i due sparati furono introdotti i cordoni con nappe (fiocchi) spesso duplicate o triplicate, pendenti sul dorso; costume riprodotto nelle illustrazioni delle prime edizioni del Pontificale e del Cerimoniale dei vescovi. Secondo le prescrizioni odierne i diaconi indossano la d. nella Messa solenne, nelle processioni, nelle benedizioni e nella solenne benedizione con il S.mo Sacramento, ma non è lecito portarla anche per i Vespri (S. Rit. Congr., decrr. 3526, 3719, 4179). Dato il carattere festivo di essa, da antico tempo la d. non si usa in giorni di penitenza o di digiuno, ma si sostituisce con le pianete piegate (Messale, Rubr. gen., XIX). Secondo la formola della S. Ordinazione e la preghiera che si dice nell'indossarla, la d. significa "indumento salutare, veste di allegrezza e di giustizia", simbolismo che facilmente deriva dal suo antico uso. Bibl: D. Giorgi, De liturgia Romani pontificis, I, Roma 1731, pp. 176-90; Ch. Rohault de Fleury, La Messe. Etudes archéologiques, VII, Parigi 1888, pp. 71-109; Wilpert, Pitture, p. 82; H. Leclercq, s.v. in DACL, IV, III, col. 119; J. Braun, I paramenti sacri, trad. it., Torino 1914, p. 85 sgg.; P. Batiffol, Le costume liturgique romain, in Etudes de liturgie et de archéologie chrétienne, Parigi 1919, pp. 32-83; L. R. Barin, Catechismo liturgico, IV ed., Rovigo 1928, pp. 406-409; C. Callewaert, De dalmatica, in Sacris erudiri, Bruges 1940, pp. 219-22. 234 sgg. Filippo Oppenheim ARTE. - La d. è un tipo di veste originariamente proprio della Dalmazia, donde il nome, e quindi entrato nell'uso comune in ogni parte dell'Impero durante il II sec. Consisteva in una lunga veste con maniche che si indossava sulla tunica e su di essa poteva portarsi anche il mantello. Dal V sec. ca. usata come veste liturgica se ne possono indicare esempi numerosi nelle pitture delle catacombe, nei musaici e negli affreschi dell'alto medioevo. Aveva allora l'aspetto di una lunga tunica bianca adorna, lungo i bordi del collo, del fondo e delle maniche, con fregi e ricami. Dal IX sec. come appare nelle miniature carolinge vi erano d. anche colorate, così nella miniatura iniziale della Bibbia di Vivian nella biblioteca Nazionale di Parigi (ms. lat. I f. 423); tuttavia in Italia continuarono ad usarsi in prevalenza d. bianche. Nel XIII sec. oltralpe le d. divengono più corte e anche le maniche vengono ridotte di lunghezza così nelle due belle d. del duomo di Halberstadt di stoffa figurata con animali ed esseri antropomorfi e l'altra del XIV sec. dell'Alte Kapelle di Regensburg. Le altre due d. invece di Castel S. Elia ugualmente del XIV sec. sono simili a quelle che si vedono indossare dagli officianti negli affreschi del XIII sec. della cappella di S. Silvestro presso la chiesa dei SS. Quattro Coronati a Roma. Ma sulla fine del XIII sec. anche in Italia spesso le maniche vennero ridotte, così in quella di Bonifacio VIII conservata nel Tesoro di Anagni. Bellissima, opera bizantina del XIV sec., è la d. di stoffa ricamata detta di Carlomagno nel Tesoro di S. Pietro a Roma. Dal Rinascimento la d., ormai confusa con la tonacella, assume il carattere che ancora oggi conserva e il suo pregio particolare dipende dalla stoffa con cui è stata confezionata o dai ricami che l'adornano. Bibl.: J. Braun, Die liturgische Gewandung, Friburgo in Br. 1907, pp. 247-305; P. Romanelli e G. de Luca, s. v. in Enc. Ital., XII (1931), pp. 242-43. Emilio Lavagnino da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 1118-1121 "DECORA LUX AETERNITATIS, AUREAM" È l'inno dei Vespri della festa dei ss. apostoli Pietro e Paolo, composto della prima e sesta strofa dell'inno attribuito ad Elpidia in onore del Principe degli Apostoli, che incomincia: Aurea luce et decore roseo, rimaneggiato poi dai correttori di Urbano VIII. Bibl.: G. Belli, Gli inni del Breviario, Roma 1856, p. 274; V. Terreno, Gli inni dell'Ufficio divino, Mondovì 1932, p. 218; A. Mirra, Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947, p. 219. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 1276 DECRETA AUTHENTICA S. RITUUM CONGREGATIONIS Viene sotto questo nome la raccolta dei decreti e delle altre decisioni della S. Congregazione dei Riti in materia liturgica. La liturgia infatti, che costituisce il culto pubblico e sociale che la Chiesa cattolica rende ufficialmente a Dio, ha il suo fondamento nella istituzione divina. Per il Sacrificio eucaristico quindi e per gli altri sacramenti, che sono i principali elementi della liturgia, la Chiesa ebbe cura di determinare ben presto la forma che doveva adornarli, per far sempre meglio comprendere ai fedeli la loro dignità ed efficacia, con preghiere, riti e cerimonie che dessero loro maggiore risalto. Diede vita anche ad altri atti di culto, quali il divino Ufficio ed i sacramentali ed alla edificazione dei fedeli ha sempre proposto le virtù eroiche dei più perfetti suoi membri. Essendo quindi oggetto della sacra liturgia il culto di Dio e dei santi, ne deriva che la relativa legislazione deve procedere dal capo supremo della Chiesa, il romano pontefice, il quale, per il rito latino, prima della istituzione della S. Congregazione dei Riti, emanava, con speciali costituzioni od altri atti, siffatte leggi, come, ad es., le Rubriche dei libri liturgici, convalidate da bolle pontifice. In seguito poi quasi tutte le leggi sono state emanate dalla stessa S. Congregazione, costituita dal sommo pontefice come l'organo competente in materia, ed alle sue decisioni fu dato tanto valore che "decreta ab ea emanata et responsiones quaecumque ab ipsa propositis dubiis [formiter] editae, eandem habeant auctoritatem ac si immediate ab ipso summo pontifice promanarent, quamvis nulla facta fuerit de iisdem relatio Sanctitati Suae" (Dubbio proposto dall'Ordine dei Frati Predicatori, con risposta affermativa della S. Congregazione dei Riti, 1846, fol. 109. Nei Decreta authent., II, Roma 1898, n. 2996, la parola "formiter" non appartiene all'originale). Questi decreti si distinguono in generali c particolari. I generali, con forza di legge in tutta la Chiesa, hanno per titolo: Decretum o Decretum generale, oppure Urbis et Orbis, mentre i particolari han forza di legge per luoghi, ceti di persone o casi singoli. È da notare tuttavia che se qualche decreto, emanato in risposta ad un quesito particolare, dichiara il senso di una legge generale, di una Rubrica, ecc., questa dichiarazione costituisce una interpretazione autentica della legge stessa, ed ha forza di legge. Questo si ricava non solo dall'oggetto del decreto, ma anche dalle clausole finali, le quali son varie. Il Respondit o Rescripsit è formola generale, e significa solo che la Congregazione risponde ad una domanda fattale. La clausola Indulsit o simile indica la concessione di un privilegio, la conferma di una consuetudine, ecc.; che, se per quest'indulto fosse occorsa la grazia sovrana, allora si userebbe Facto verbo cum Sanctissimo. La clausola Declaravit, dice che il decreto interpreta autenticamente la legge. Finalmente la clausola Servari mandavit rafforza l'antecedente risposta, imponendo il precetto di 17 osservarla rigorosamente. La S. Congregazione non ha pubblicato le molte migliaia dei suoi decreti, ma solo i generali per la Chiesa universale. Essi formano la collezione pubblicata negli aa. 1898-99 con i tipi della S. Congregazione di Propaganda Fide, che contiene quelli emanati dal 1588, anno in cui fu istituita la S. Congregazione dei Riti, fino al 15 dic. 1899, sub auspiciis Leonis Papae XIII, con i tipi della Vaticana, poi, negli aa. 1912 1927, sub auspiciis Pii Papae X e Pii Papae XI, fino al 14 maggio 1926, con il n. 4403. Il titolo è: Decreta authentica Congregationis Sacrorum Rituum, ex actis eiusdem collecta eiusque auctoritate promulgata. Dopo questa data la collezione non è stata proseguita; però i più importanti decreti sono stati pubblicati in AAS. I singoli decreti, prescindendo dalla loro inserzione nella collezione, sono autentici, ma la loro esistenza sarebbe rimasta ignota ai più. La pubblicazione pertanto non solo li ha resi noti, ma, come espressamente dice il decreto di approvazione pontificia, fa sì che i decreti che non concordano con quelli della collezione "veluti abrogata esse censenda, exceptis tantum quae pro particularibus ecclesiis indulti seu privilegii rationem habeant". Questi decreti dunque con le Rubriche contenute nei libri liturgici formano la giurisprudenza della S. Congregazione dei Riti. È da osservare però che, con la riforma delle Rubriche introdotta da Pio X nel Messale e nel Breviario e con il CIC, molti decreti hanno perduto del loro valore. Alfonso Carinci da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 1280-1281 DEO GRATIAS Formola di saluto e di ringraziamento. Nel culto liturgico i fedeli la dicono in risposta al Benedicamus Domino, nella Messa dopo l'Ite Missa est. "DIES IRAE" Sequenza per la Messa dei defunti, che consta di diciassette strofe ternarie di ottonari piani monorimi, più sei di chiusa, di altro sistema strofico: in tutto 57 versi. Assai controversi il tempo della composizione e l'autore dell'inno. DIURNO (Diurnale) È il libro liturgico che contiene le sole ore diurne del divino ufficio, cioè le Laudi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespero e Compieta, con tutte le antifone, responsori, inni, lezioni, orazioni, ecc., proprie del tempo, dei santi e del comune. "DOMARE CORDIS IMPETUS, ELISABETH" Inno del Matutino per la festa di s. Elisabetta di Portogallo, composto probabilmente da Urbano VIII e da lui introdotto nel Breviario. Il metro trimetro giambico acatalettico si stacca dai soliti metri degli inni ecclesiastici, e la sua forma risente molto della ispirazione classica allora in voga. Il poeta esalta la saggezza della santa regina, che ha preferito vincere i moti del cuore per unirsi a Dio, cui servire è veramente regnare. Bibl.: G. Belli, Gli inni del Breviario, Roma 1856, p. 276; V. Terreno, Gli inni dell'Ufficio divino, Mondovì 1932, p. 236; A. Mirra, Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947, p. 224. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 1817 "DUM, NOCTE PULSA, LUCIFER" Inno delle lodi nell'Ufficio di san Venanzio martire, scritto dal card. Bona e da Clemente X inserito nel Breviario. Come l'alba è foriera del giorno vicino, così il martirio del giovane camerinese portò la luce dello spirito ai suoi concittadini. Il suo sangue lavò le loro colpe e fu semenza di nuovi cristiani. L'inno fa parte dei due altri della medesima festa, e sono certamente, dello stesso autore, da essi però si stacca per più alta ispirazione e robustezza di forma. Bibl.: G. Belli, Gli inni del Breviario, Roma 1856, p. 258; V. Terreno, Gli inni dell'Ufficio divino, Mondovì 1932, p. 208; A. Mirra, Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947, p. 212. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, col. 1980 DURAND, GUILLAUME (Durandus, Durando) vescovo di Mende. Canonista e liturgista, n. a Puimission, a nord di Béziers (Francia) ca. il 1230. Studiò diritto in Italia e ne fu professore a Bologna e poi a Modena. A Roma gli furono affidati molti e delicati incarichi. Nel 1286 fu nominato vescovo di Mende, e nel 1295 governatore della Romagna e della Marca d'Ancona. M. a Roma il 1 nov. 1296: il suo corpo riposa a S. Maria sopra Minerva. Occupa un posto importante nella storia del diritto. Fu autore di Commentarii alle Novelle di Gregorio X, di un Breviarium seu Repertorium alle Decretali, lavori molto utili per la teoria e per la pratica. Ma l'opera più notevole del D. è lo Speculum iudiciale, felice tentativo di esposizione dell'intero sistema del diritto, attraverso la specie procedurale. In esso, accanto alle formole degli atti che si organizzano pure sotto l'influsso romanistico nuovo delle scuole giuridiche, vi è una larga elaborazione dottrinale, sostenuta da passi di teorici e pratici italiani riportati talora letteralmente, come appare dalle note, che il grande canonista e storico del diritto Giovanni Andrea appose allo Speculum di D. L'opera, di così larga influenza nel mondo giuridico del diritto comune, può pertanto ritenersi figlia diretta dell'elaborazione dommatica italiana. Oltre gli elencati trattati di diritto, ha scritto anche due opere di liturgia: Rationale divinorum officiorum e Pontificalis ordinis liber. La prima ebbe importanza grandissima nel medioevo, sì da esser la prima stampata a Magonza con caratteri metallici nel 1459. Della sacra liturgia fa una esposizione mistica, allegorica e morale, e tratta della chiesa, del suo ornato, dei Sacramenti, dei ministri sacri, degli uffici divini, della Messa, delle feste del calendario. Un simbolismo esagerato la pervade, vi abbondano citazioni bibliche non sempre controllate. Altra opera che ebbe una singolare fortuna è il suo Pontificale, che è poi stato adottato dalla Chiesa romana. Il suo lavoro risale agli ultimi anni della sua vita. Egli vi espone la liturgia romana, introducendovi elementi nuovi provenienti da tradizioni locali. Di questo Pontificale si ha oggi una accurata edizione critica accompagnata da una dotta introduzione per opera di M. Andrieu (Le Pontifical romain au moyen âge, III: Le Pontifical de G. D. [Studi e Testi, 88], Roma 1940). Non deve confondersi con D. Guillaume iunior, pure canonista e teologo, ma dì minor momento e vissuto poco dopo di lui (cf. 18 su quest'ultimo J. F. Schulte, Gesch. der Quellen und Lit. des Kan. Rechts, II, Stoccarda 1876, p. 195 e P. Viollet, Guillaume D. le jeune, évéque de Mende, in Hist. litt. de la France, XXXV, Parigi 1921, pp.1-139). Bibl.: J. F. Schulte, Gesch. der Quellen u. Lit., II, Stoccarda 1878, p. 152 sgg.; J. Berthelé et M. Valmery, Instructions et constitutions de D. le Spéculateur, in Archives da département de l'Hérault V, 1 (Montpellier 1900). Antonio Rota da Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 2004-2005 ELEVAZIONE Rito della messa, con cui il celebrante innalza le specie sacramentali per esporle all'adorazione dei fedeli. EPISTOLA Il brano delle Lettere degli Apostoli o di qualche altro libro della S. Scrittura che il sacerdote legge nella messa prima del Vangelo. ESEQUIE L'antichissima tradizione di suffragare con particolari preghiere l'anima dei morti è stata ininterrottamente sostenuta dalla Chiesa e osservata quasi istintivamente dalla pietà dei parenti dei defunti. Il Rituale Romano parla delle esequie al titolo VI. Le esequie strettamente parlando cominciano con le preghiere stabilite per l'ingresso del cadavere in chiesa e finiscono con quelle che ne accompagnano l'uscita dalla medesima. Nello svolgimento delle esequie, pur avendo un posto di preminenza la celebrazione della messa e la recita dell'Ufficio divino che ne sono la parte principale, non mancano altre preghiere tra le quali quelle che accompagnano l'ingresso del cadavere in chiesa e la sua uscita. ESPOSIZIONE DEL S.MO SACRAMENTO Rito, con il quale si espone all'adorazione dei fedeli l'Ostia consacrata, o scoperta nell'ostensorio o racchiusa nella pisside. L'esposizione, che è sempre seguita dalla benedizione, si distingue in pubblica e privata, secondo che si fa con l'ostensorio o con la pisside. La pubblica è solenne o solennissima. La prima ha una certa durata, mentre la seconda è quella propria delle Quarantore. EVANGELIARIO Il libro liturgico che contiene i brani del Vangelo da leggersi durante l'anno nella messa solenne "EXULTET" È il preconio pasquale, il solenne Lucernarium proprio alla notte di Pasqua; in sostanza è l'offerta solenne del cero pasquale inserita nella proclamazione e nell'esaltazione dei misteri della stessa notte, cioè della risurrezione e della nostra redenzione. L'elevazione della forma e del contenuto fa di esso un autentico capolavoro Già sant'Agostino (De civit. Dei xv, 22) parla di una "lode del cero pasquale"; san Girolamo (Epist. 18: PL 30, 182 sgg.) rimprovera il diacono Presidio di Piacenza per la eccessiva descrizione della natura, in specie delle api, nell'E. (CSEL, 6, p. 415). Ennodio di Pavia (opuscc. 9 e 10) e il Gelasianum (80) ce ne hanno conservato il testo. In Roma non c'era uso né della benedizione, né del cero pasquale, né dell'E. prima del sec. VIII (nel cosiddetto Gregoriano non si trova la formola); ai diaconi delle chiese suburbicarie fu data licenza di benedire il cero dal sec. VI. Il formolario attuale dell'E., cantato dal diacono nell'ambone, si trova per la prima volta nel Sacramentario di Bobbio (sec. VII) sotto il titolo: Benedictio cerei s. Augustini episcopi (quam) cum adhuc diaconus esset, cecinit, poi nel Missale Gallicum vetus (L. Muratori, Liturgia Romana vetus II, Venezia 1748, pp. 783 e 845) e nel Missale Gothicum (ibid., 581 sgg.), onde entrò nel supplemento del Sacramentario Adriano e così nella liturgia romana (per la critica del testo cf. L. Dichesne, Origines du culte chrétien, V ed., Parigi 1925, p. 254), Alla lode unisce la preghiera per le autorità ecclesiastiche e civili. Anticamente i singoli passi erano ben illustrati. Alcuni brani dell'E. un tempo erano oggetto di acuta discussione, come quello della "felix culpa", delle api come simbolo della verginità e maternità di Maria S.ma, ed altri, e perciò in molti manoscritti mancano o sono cancellati. Bibl.: J. Braun, Osterpräkonium und Osterkorzenweike, in Stimmen aus Maria Laach, 56 (1899), p. 273 sgg.; anon., Le miniature dei rotoli dell'E., Montecassino 1899; P. Latil, De praeconio paschali, in Ephemerides liturgicae, 16 (1902), p. 123 sgg.; A. Mercati, Paralipomena Ambrosiana (Studi e Testi, 12), Roma 1904, pp. 24-43; F. Di Capua, Il ritmo della prosa liturgica e il Praeconium Paschale, in Didaskaleion, nuova serie, 5 (1927), pp. 1-23; R. Buchwald, Osterkeze un E., in Theologisch-praktische Quartalschrift, 80 (1927), pp. 240-49; B. Ebel, Zum Verständnis des E., in Liturgische Zeitschrift, 3 (1930-31), pp. 165-73; O. Casel, Der österliche Lichtgesang der Kirche, ibid., 4 (1931-32), pp. 179-191; B. Capelle, La procession du Lumen Christi au Samedi Saint, in Revue bénédict., 44 (1932), pp. 105-19; id., L'Exultet pascal oeuvre de st Ambroise, in Miscellanea Mercati, III, Città del Vaticano 1946, pp. 219-46. Filippo Oppenheim da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, coll. 920-921 "EXULTET ORBIS GAUDIIS" Inno dei Vespri nelle feste degli apostoli, di autore ignoto. Inno dei Vespri nelle feste degli Apostoli, d'autore ignoto. Il cielo e la terra son chiamati a celebrare le lodi di questi primi seguaci di Gesù. Costituiti giudici di tutte le genti nel giudizio universale (Mt. 19, 28), gli Apostoli sono la luce del mondo (ibid. 5, 14), coloro che hanno la facoltà di aprire e chiudere le porte del cielo (Io. 20, 23) e che guariranno i malati con la imposizione delle mani (Mt. 16, 18). Bella e ispirata è la preghiera, perché vi esala come un misterioso profumo dalle parole di Gesù agli Apostoli; altrettanto però non si può dire della poesia. Bibl.: G. G. Belli, Gli inni del Breviario tradotti, Roma 1856, p. 346; C. Blume, Die Hymnen des Thesaurus hymnologicus H. A. Daniel, Lipsia 1908, p. 126; V. Terreno, Gli inni dell'Ufficio divino, Mondovì 1932, p. 300; A. Mirra, Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947, p. 245. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, coll. 921-922 19 FALDA Veste di seta bianca tendente al crema, lunga coda che il papa cinge ai fianchi, e si trascina per terra. Poco o nulla si sa delle sue origini e dell'epoca della sua assunzione a ornamento pontificale: ora esclusivamente riservato al papa. I diari di Alessandro VI (sul finire del sec. XV) ne parlano come di veste già esistente, e solo ne regolano l'uso. Anticamente si aveva anche una f. di lana che il pontefice portava nei giorni feriali e nelle domeniche di Avvento e di Quaresima; ma al presente la f. è solamente di seta. Essa è di due specie: una più corta, usata nei concistori segreti, nei quali il santo padre interviene in mozzetta e stola; l'altra, molto più grande, indossata dal papa tutte le volte che è vestito pontificalmente. Viene assunta dopo il rocchetto, nella camera detta "della f." presso la Sala dei Paramenti nel Palazzo Apostolico. Siccome l'una e l'altra sono molto più lunghe dell'altezza della persona e terminano con una lunga coda o strascico, è necessario sollevarla perché il papa possa camminare. Due protonotari di numero, o due uditori di Rota, secondo il cerimoniale, hanno l'ufficio di sollevare i lembi anteriori alla f., mentre due camerieri segreti sorreggono l'estremità laterali ed il principe assistente al Soglio l'estremità posteriore insieme al manto pontificale. La f. è usata dal papa tutte le volte che assiste o celebra solennemente la Messa o i Vespri, sia nella cappella del Palazzo Apostolico, che, una volta, nelle diverse chiese di Roma; cioè in tutte le funzioni sacre, in cui indossa i paramenti pontifici, come nella processione del Corpus Domini, lavanda dei piedi, apertura e chiusura della Porta Santa, concistoro, ecc. Bibl: G. Moroni, s. v. in Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica; A. Battandier, Annuaire pontifical catholique, 23 (1907), pp. 7-11. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, col. 962 FALDISTORIO Dal tedesco Faltstuhl (sedia piegata). È una sedia con bracciuoli ma senza spalliera, che si pone ai gradini dell'altare nel lato dell'Epistola per il vescovo o abate quando non può servirsi del trono, come nel Venerdì Santo e nelle Messe pontificali per i defunti o in presenza di un legato apostolico o di un cardinale, o nelle sacre ordinazioni. Gli altri vescovi l'usano quando dal vescovo diocesano non hanno ottenuto il permesso del trono; gli ausiliari e coadiutori devono servirsene sempre (S. Congregazione dei Riti, decr. 4023); i protonotari apostolici di numero e soprannumerari quando celebrano pontificalmente secondo il motu proprio Inter multiplices di Pio X (1905). Lo ricorda già l'Ordo Romanus XIV del sec. XIV (PL 78, 1159). Non ha i gradini, ma semplicemente un podio o uno sgabello. Secondo il Caeremoniale Episcoporum deve essere coperto con seta (prima con tela: Paciano, sec. IV, Epist. 2 ad Sympronianum lo chiama "linteatam sedem"). Secondo l'uso tradizionale lo si copre con stoffa del colore dell'ufficio del giorno ed ha un cuscino dello stesso colore. L'origine del f. è da ricercarsi probabilmente nella praticità di avere vicino all'altare un comodo sedile, dato che il trono, o cattedra vescovile, era in fondo all'abside dietro l'altare. Nelle chiese abbaziali accanto all'altare era la sedia dell'abate. Bibl.: L. Eisenhofer, Handbuch der kath. Liturgik, I, Friburgo in Br. 1932, pp. 377-79: Ph. Oppenheim, Bemerkungen zum Messbuch der Kluniazensermönche, 2. Die Abtsmesse, in Bibel und Liturgie, 11 (1935-37), pp. 421-31; P. Bayart, in Liturgia, Parigi 1947, pp. 229-30. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, coll. 962-963 FANONE Nella sua forma attuale è un ornamento proprio del solo Sommo Pontefice, che lo assume quando celebra solennemente, dopo l'ora canonica di terza. Consiste in una doppia mozzetta di seta finissima e oro, tessuta in strisce perpendicolari, una bianca, l'altra d'oro, congiunte fra loro da una terza più piccola di colore amaranto: un palloncino d'oro ne borda l'estremo sia superiore che inferiore: la mozzetta esterna ha inoltre ricamata una croce d'oro con raggi. Queste due mozzette sono cucite nella parte che circonda il collo, allacciandosi con un bottone le aperture corrispondenti alle spalle; ora non più, perché Pio X per comodità le fece separare. Nelle Messe pontificali, quando il papa ha preso il succintorio e la croce pettorale, il cardinale diacono ministrante gli impone la prima mozzetta del f., poi la stola, le dalmatiche, la pianeta, e sopra di essa la seconda mozzetta: in ultimo il pallio. È molto difficile rimontare alle origini di questo ornamento. Confuso forse in principio con il manipolo, o con l'amitto (anabolagio), o con gli oralia, specie di fazzoletti o tovaglioli, che servivano ad asciugare il sudore del capo e perciò portati intorno al collo, passò nella forma attuale verso il sec. XIII. Precedentemente serviva a coprire il capo a guisa di cappuccio e vi si metteva sopra la mitra. Usava non solo nelle funzioni liturgiche, ma anche in circostanze profane, come in occasione di pranzi solenni, nella distribuzione del presbiterio. In un antico messale, di cui si ignora la data, della chiesa di S. Damiano in Assisi è detto che il papa mette sul capo il f. senza la mitra per la lavanda dei piedi il Giovedì Santo; e che il Venerdì Santo non usa il f. Pietro Aurelio, sacrista di Urbano V nel 1362, nel suo Cerimoniale romano dice che il papa mangiava in pubblico con il manto rosso e con il f. o orale sul capo sotto la mitra. Di Bonifacio VIII sappiamo che portava il f. sotto la mitra, e che fu sepolto con esso; lo stesso dicasi di Clemente IV morto nel 1268. Innocenzo III (nel De mysteriis Missae, l. I, cap. 13) parla esplicitamente di questo ornamento che chiama orale: si è dunque al principio del sec. XIII. Qualche autore vorrebbe vedere il f. nella figura scolpita nella porta di bronzo nella cappella di S. Giovanni Evangelista al Laterano rappresentante Celestino III. Vari autori vogliono che l'uso dei vescovi greci di coprirsi la testa con un velo, quando hanno assunto gli ornamenti principali, abbia dato origine al f. del papa; ma è cosa incerta. Altri, invece, e con essi lo stesso Innocenzo III, intendono far derivare il f. dall'ephod del sommo sacerdote ebreo, anch'esso tessuto di strisce d'oro e colorate, ma di diversa forma. Con questa parola si designava anticamente un velo pendente da un'asta a guisa di bandiera, chiamato appunto gonfalone, stendardo, vessillo; oppure, secondo l'etimologia ecclesiastica, il velo pendente dal braccio dei ministri sacri detto manipolo, sudario, orale. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, coll. 1024-1025 FERULA Nel medioevo era il pastorale del vescovo, del quale si ha notizia nel sec. X (PL 132, 970; 136, 907). Costituiva il simbolo della potestà spirituale e temporale del papa (signum regiminis et coercitionis, Ordo Romanus, xiv, cap. 44: PL 78, 1143). Gli era consegnato insieme alle chiavi quando, dopo l'incoronazione ed il possesso della Basilica Lateranense, si recava alla chiesa di S. Silvestro. Somigliava agli sceptra imperialia, dovuti ai papi dopo la cosiddetta donazione di Costantino. 20 Attualmente è un'asta sormontata da una Croce a braccia uguali, che il papa usa principalmente nella funzione della apertura e chiusura della Porta santa. Filippo Oppenheim da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, col. 1209 FORMALE Chiamato anche razionale o pettorale, è una lamina di metallo, d'oro o d'argento, gemmata, della grandezza di una mano, che si porta sul petto dove si ferma ed affibia il piviale dei vescovi nella propria diocesi. Molti autori lo vogliono derivare dal razionale del sommo sacerdote ebraico, il quale portava sul petto un ornamento chiamato appunto razionale con dodici diverse pietre preziose rappresentanti le dodici tribù d'Israele. Altri invece lo fanno derivare dalla parola di bassa latinità firmaculum, specie di fermaglio, fibbia che serviva per allacciare le vesti. Nulla è prescritto riguardo alla forma, così che gli orafi possono esercitare il loro talento nel cesellarvi sopra figure o simboli, intrecciarvi smalti e pietre preziose. Nei f. odierni è prevalso l'uso di rappresentarvi lo Spirito Santo sotto forma di colomba dalle ali spiegate: simbolo della sua assistenza al vescovo nel governo della diocesi: Il f. perché è esclusivo ornamento, come si è detto di vescovi nella loro diocesi, è dal cerimoniale dei vescovi vietato prete assistente, e ai vescovi non diocesani. Solo i cardinali vescovi suburbicari hanno il privilegio di portare il f. dappertutto, anche a Roma, sia che assistano al pontificale celebrato dal sommo pontefice; sia che essi stessi solennemente celebrino le funzioni liturgiche. Il loro f., secondo un uso molto antico, è costituito da una lamina di argento dorato sulla quale sono incastonate in linea perpendicolare tre nodi e pigne di perle. Anche il sommo pontefice usa il f. La più antica memoria di quello usato dai romani pontefici come ornamento liturgico l'abbiamo sotto Martino V, il quale se ne fece fare uno d'oro con figure su rilievo e gioie di grande valore da Lorenzo Ghiberti. Celebre tra gli altri f. papali quello che Benvenuto Cellini fece per ordine di Clemente VII. Rappresentava, come narra il Cancellieri, il Padre Eterno sedente, sopra un diamante di fondo di 136 grani sostenuto da vari angeletti e cherubini fra due zaffiri orientali di rara purezza e due balasci orientali con varie gioie. Di esso esiste solo una copia nella sacrestia pontificia, l'originale fu preso da Napoleone. Al presente il papa ha tre f. diversi: uno di perle che usa quando porta la mitra a lama d'argento, ossia nei funerali e nelle domeniche di Avvento e Quaresima. (Da notare che le pigne di perle sanò disposte in triangolo). Il secondo, comune, che usa in tutte le funzioni, eccettuati i Vespri e le Messe pontificali, quando cioè il papa usa la mitra di lama d'oro; ed infine il prezioso che usa in tutte le funzioni più solenni e in tutti i Vespri e Messe pontificali, quando cioè mette la mitra preziosa. Questi due hanno la stessa forma: la lamina di forma ovale rappresenta lo Spirito Santo sotto forma di colomba raggiante, decorata di perle e di una guida di frondi di vite con grappoli d'uva, tra cui sono disposte in giro dodici pietre preziose: differiscono tra loro solo per la ricchezza e la varietà delle pietre. Da notarsi infine il f. che si mette al piviale della statua di s. Pietro nella Basilica Vaticana il giorno della sua festa: è una lamina di argento dorato avente al centro una colomba dalle ali spiegate con raggi, rappresentanti lo Spirito Santo. Enrico Dante da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, col. 1520 FUNZIONI SACRE (Funzione, da fungor, cioè esercizio, esecuzione) sono le funzioni della potestà di Ordine, che per istituzione di Cristo o della Chiesa sono ordinate al culto divino e che si possono compiere dai soli chierici. GAVANTI, BARTOLOMEO Liturgista, della Congregazione dei Barnabiti, n. a Monza nel 1559, m. a Milano il 14 agosto 1638. Chiamato a Roma, lavorò sotto Clemente VIII e Urbano VIII alla revisione del Breviario e del Messale. Fu una delle massime autorità liturgiche del tempo. Le sue principali opere sono: Thesaurus sacrorum rituum, sive commentarios in rubricas Missalis et Breviarii (Milano 1628); Praxis visitationis episcopalis et synodis dioecesanae celebrandae (Roma 1628). Preparò anche l'Octavarium Romanum, più volte ristampato. Bibl.: Una buona biografia e bibliogr. è riportata nell'ed. veneta del Thesaurus, I, Venezia 1762, pp. x-xiii; O. Premoli, Storia dei Barnabiti nel '600, Roma 1922, pp. 178-82; G. Boffito, Scrittori barnabiti, II, Firenze 1933, pp. 132-48 (con ampia bibl.).> Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano, 1950, col. 1967 GRADUALE 1. Il libro. L'attuale Liber gradualis di cui un estratto riunito poi con parti dell'Antifonario, costituisce il diffusissimo Liber usualis, approvato dalla Chiesa come raccolta dei canti della messa, nell'edizione vaticana del 1907. Contiene in più del fondo antico tutte le aggiunte posteriori, dovute all'introduzione di nuove feste nel calendario. 2. Il canto. È il canto eseguito durante la messa dopo la lettura dell'Epistola. GRASSI, PARIDE Cerimoniere pontificio e liturgista, vescovo di Pesaro, nato a Bologna il 1450-1460, morto a Roma il 10 giugno 1528. Opere principali: Diarium Curiae Romanae, commentario al Cerimoniale di Agostino Patrizi Piccolomini: Caeremonialium regularum supplementum et additiones, Tractatulus de consecratione electorum in episcopos, Brevis ordo Romanus, Tractatus de funeribus et exequiis in Romana Curia peragendis, De caeremoniis papalibus, De caeremoniis cardinalium, et episcoporum in eorum dioecesibus, De tonis sive tenoribus orationum et aliorum omnium quae intra totum annum solemniter cantanda sunt. GUANTI L'introduzione dei g. (chiroteca) nella liturgia si deve al desiderio di rendere l'abbigliamento episcopale sempre più distinto e solenne. Amalario, all'inizio del sec. IX, nulla ci dice sull'uso dei g. da parte dei vescovi, tuttavia un inventario dell'abbazia di St-Riquier dell'831 ne attesta l'uso "Wanti castanei auro parati". Il Magani (L'antica liturgia romana, III, Milano 1899, p. 170) cita altri documenti del sec. X ed una precisa attestazione liturgica nel Sacramentario di Ratolfo di Corbie (m. nel 986): "Tunc ministrentur ei (= al vescovo che sta parandosi per la Messa) manicae... postea detur ei anulus in dextra manu, desuper manica". L'uso pertanto appare introdotto in Francia e passa ben presto a Roma: nel 1070 Alessandro II ne concedeva il privilegio all'abate di S. Pietro in Ciel d'oro di Pavia. Ai termini wantus e manica, presto si sostituì quello bizantino di chiroteca, 21 oggi usato. Nella consacrazione del vescovo vengono consegnati al termine della Messa, e sono usati soltanto dai vescovi ed altri prelati aventi il privilegio, nella Messa pontificale dall'inizio al Lavabo (nel rito ambrosiano sino all'Offertorio) e quando, alla fine, danno la benedizione papale (S. Congregazione dei Riti, 3605, 9). In origine erano bianchi, generalmente di seta: dal sec. XIII vennero confezionati anche negli altri colori liturgici, eccettuato il nero, essendo proibiti nella Messa per i defunti e nel Venerdì Santo. Nella parte superiore hanno ricami con simboli di Gesù Cristo. L'orazione con la quale vengono consegnati al neo-eletto indica che non hanno lo scopo di riparare dal freddo, bensì quello di conservare pulite le mani. Bibl.:X. Barbier de Montault, Les gants pontificaux, Tours 1877; G. Braun,I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 137-41; P. Batiffol, Rites et insignes pontificaux, in Revue des jeunes, 19 (1925), p. 135 sgg. Enrico Cattaneo da Enciclopedia Cattolica, VI, Città del Vaticano, 1951, coll. 1200-1201 GUÉRANGER, PROSPER-LOUIS-PASCAL Restauratore dell'Ordine benedettino in Francia, nato a Sablé-sur-Sarthe (Francia) il 4 aprile 1805, morto a Solesmes il 30 gennaio 1875. Il 21 dicembre 2005 il vescovo di Mans ha aperto il processo diocesano di beatificazione di dom Guéranger. Opere principali: Les institutions liturgiques, 3 voll., Paris 1840-1842, 1851 (II ed. 1878), L'année liturgique, 9 voll., Le Mans 1841-1866 (a parte le prime 168 pagine del decimo volume, dovute alla penna del Guéranger, l'opera è stata terminata in 15 voll. dal suo discepolo dom L. Fromage). INCENSO Sostanza resinosa, che bruciata emette un gradito odore aromatico e fumo. L'uso dell'i. nel culto è attestato dalla più remota antichità presso tutti i popoli orientali. Probabilmente entrò nell'uso liturgico cristiano a partire dalla seconda metà del secolo IV. INTROITO Nella liturgia romana canto eseguito mentre il celebrante, nella messa solenne, si reca all'altare, interpreta ed esprime i sentimenti propri del mistero o della festa del giorno. "ITE, MISSA EST" ("Andatevene, c'è il congedo") Il congedo della Messa romana, proferito dal celebrante (nella Messa solenne dal diacono). "KYRIE ELEISON" "Signore, abbi pietà!", è una implorazione greca di lingua e di origine. A Roma fu introdotto verso la fine del secolo V, e al tempo di san Gregorio Magno (morto nel 604), forse già da san Benedetto (morto nel 547) si recitava alternativamente con "Christe eleison". LIBRI LITURGICI I libri che contengono le formole ufficiali, con le relative prescrizioni rituali o rubriche, per la celebrazione della messa, l'amministrazione dei sacramenti e dei sacramentali, e l'ufficiatura divina. LINGUA LITURGICA Idioma ammesso ufficialmente in un determinato rito liturgico. LITANIE Il vocabolo (da litaneia "preghiera") ha il senso generale di preghiera e ancor più quello di supplica o preghiera di intercessione. Stilisticamente appare come una formola concisa mediante la quale l'assemblea cristiana si unisce alla preghiera del ministro sacro partecipandone intimamente le sante intenzioni. LITURGIA Da leiton ergon = publicum opus. Presso i greci implica il concetto di un'opera pubblica, il cui compimento gravava come onere sui cittadini più ricchi. In seguito il significato venne ristretto a opera pubblica di culto agli dei, e da allora fu a carico della comunità. Nella religione cattolica nell'accezione di culto prestato alla divinità il termine venne introdotto nella Bibbia dei Settanta, così lo usarono pure gli scrittori del Nuovo Testamento, anche per designare gli atti di Gesù sacerdote eterno; espressioni analoghe nella Didaché e in Clemente Romano: Più tardi significò soltanto l'atto di culto per eccellenza, la messa. LODI (Laudes matutinae) Preghiera solenne allo spuntar del sole, in uso già nei primi secoli cristiani. Le Lodi chiudono festosamente l'orazione notturna, perciò nell'officiatura corale non si staccano queste due ore canoniche. Fin dal secolo XII l'ufficio mattinale, lasciando il nome di Matutinae all'orazione notturna, fu chiamato semplicemente Laudes. 22 MANIPOLO (manipulum, mappula, fano, sudarium, mantile, manuale, sestace) Indumento liturgico, portato sull'avambraccio sinistro in modo che le due bande pendano da ambedue le parti, confezionato della stessa stoffa della pianeta. Il m. è proprio di tutti gli ordini maggiori, specialmente del suddiaconato, da quando questo cominciò ad essere annoverato fra i maggiori (secc. XI e XII). Si usa, oltre che nella Messa, soltanto all'Epistola e Vangelo nella benedizione delle palme, ed all'Exultet del Sabato Santo; non si usa mai col piviale. Il vescovo mette il m. all'altare dopo aver recitato il Confiteor; il sacerdote dopo il cingolo, prima della stola; i ministri dopo la tunicella o dalmatica. Il m., d'origine romana, deriva dalla mappa o mappula, una specie di fazzoletto da tasca usalo dai nobili romani in certi costumi di gala (le alte cariche dello Stato, p. es., consoli in tenuta di cerimonia come risulta dai dittici consolari), tenuto in mano come oggetto di etichetta e solamente ad ornamento. Questa mappula decorativa venne da quella d'uso comune (Amalario, De eccl. off., II, cap. 24). Non si sa precisamente quando il m. sia entrato a far parte della suppellettile sacra. La prima notizia del m. diaconale si trova nella vita dei papi Silvestro I (314-24) e Zosimo (417-18) del Liber Pontificalis; si chiama "pallium linostimum" un tessuto di pregio, fatto di lana o di seta su trama di filo, dato a titolo di onore, da portarsi sulla mano sinistra. Il m. del Papa occorre nell'Ord. Romanus I (la cui consegna serve a dare segno d'incominciare il canto dell'Introito); il m. del suddiacono nell'Ordo Romanus VI; talvolta anche gli accoliti (Ordo Romanus V) usavano il m. ma non in mano, "in sinistro latere ad cingulum"; ed i monaci cluniacensi nelle feste; ma in seguito l'uso venne riservato ai monaci d'ordine maggiore (suddiaconi ecc.). Il m. era la prerogativa del clero romano, ma da s. Gregorio Magno, per le insistenze di Ravenna, fu concesso anche al solo primo diacono di quella Cattedrale. Nel sec. IX il m. si trova in uso dappertutto nell'Occidente, A Roma è chiamato mappula, fuori di Roma "m." : quest'ultima denominazione divenne di regola; ricorrono altri nomi: fano (phanopanno) e mantile in Rabano Mauro, sudario in Amalario, sestace a S. Gallo. XIII Fin oltre il 1100 (v. affresco del sec. XI di S. Clemente a Roma) si porta il m. nella mano sinistra; verso il sec. XII s'incominciò a fissare il m. sull'avambraccio. Il m. ritenne la forma antica di fazzoletto oltre il sec. IX; in seguito, ripiegato su se stesso, venne prendendo a poco a poco la forma di striscia o fascia; sul finire del sec. XIV diviene corrente la forma odierna. Al tempo d'Amalario, era fatto di lana; venne poi usata la seta; alle estremità si mettono frange, talvolta campanelli, ricami o trame in oro. La rubrica del Messale prescrive soltanto l'ornamento con un segno di croce in mezzo. Nel rito greco si trova un indumento corrispondente al m., chiamato encheirion, proprio del solo vescovo, portato a destra nel cingolo, non nella o sulla mano; in seguito trasformato nell'epigonation romboidale (J. Braun [v. bibl.], pp. 550-54). Bibl: J. Braun, Die liturgische Gewandung im Occident und Orient nach Ursprung und Entwicklung, Verwendung und Symbolik, Friburgo in Br. 1907, pp. 515-61; L. Eisenhofer, Handuoch der kath. Liturgik, I, ivi 1932, pp. 449-52; M. Righetti, Manuale di storia liturgica, I, Milano 1945, pp. 498-500; T. Klauser, Der Ursprung der bischöflichen Insignien und Ehrenrechte (Bonner akadem. Reden, I), Krefeld 1949, pp. 17-22; A. Alföldi, Insignien und Tracht der römischen Kaiser, in Mitteilungen des deutschen archäologischen Instituts, Röm. Abt., 50 (1935), pp. 1-171. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, VII, Città del Vaticano, 1951, coll. 1969-1970 MANTELLETTA (mantellum) Veste ecclesiastica, ma non liturgica, specie di mantello ridotto, di forma ampia che scende fino alle ginocchia, aperta davanti, senza maniche, con due larghe aperture laterali per introdurvi le braccia. Distintivo di dignità, è l'abito della prelatura romana. La portano i cardinali, i patriarchi, i vescovi, gli abati regolari, i protonotari apostolici ed i prelati domestici; si usa sempre con il rocchetto. Nelle loro diocesi, tutti i vescovi usano la mozzetta senza la m. Nella Curia romana tutti, deposta la mozzetta, indossano la m. In presenza del papa, i cardinali portano il rocchetto, la m. e la mozzetta; in sede vacante, come nei loro luoghi di giurisdizione, essi procedono con il rocchetto senza m. Nella loro diocesi, alla presenza di un cardinale o del proprio metropolita, i vescovi usano la m. e la mozzetta; se poi il cardinale è legato a latere, la sola m. Il colore della m. dipende dalla persona che la porta: i cardinali l'hanno di tre colori, rosso di solito, violaceo nei giorni di penitenza e di lutto, rosaceo nelle domeniche Gaudete e Laetare; gli altri prelati e vescovi usano di regola il violaceo. I cardinali, i vescovi e gli abati regolari sono generalmente tenuti ad usare l'abito del colore del loro ordine. Da quando la m. sia in uso, non è certo; forse mantellum dell'Ordo Roman. XIII (Caeremoniale Romanum, ed. iussu Gregorii X, dopo il 1274) o dell'Ordo Roman. XV (Liber de caeremoniis S. R. E. "auctore Petro Amelio, Ep. Senegalliensi", m. nel 1401) si riferisce alla m. (Braun); G. Catalani cita nel Caeremoniale episcoporum (I, Roma 1744, pp. 14-15) il can. II del Concilio Budense (1279) ed i decreti del Concilio provinciale II Mediolanense di s. Carlo (sec. XVI) "in usu fuisse saec. XV". Bibl.: Motu proprio di Pio X, Inter multiplices; del 21 febbr. 1905, in Decr. auth. Congreg. Sacr. Rit., n. 4154 ad 7.16.26. (31); Decreto S. Congreg. Caerem. 24 giugno 1933, in AAS, 25 (1933), pp. 341-42. Studi : G. Moroni, s. v. in Diz. di erud. stor. eccl., XLII, pp. 150-54; P. Hinschius, System des kath. Kirchenrechts, I, Berlino 1869, p. 358, n. 5, 390; II, ivi 1878, p. 47, n. 11; P. Hofmeister, Mitra und Stab der wirklichen Prälaten ohne bischöflichen Charakter, Stoccarda 1928, p. 58; J. Braun, s. v. in Cath. Enc., IX, p. 611. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, VII, Città del Vaticano, 1951, coll. 1985-1986 MANUTERGIO (manutergium, estersorium) È l'asciugamano usato nelle abluzioni liturgiche. Secondo Cirillo Alessandrino (Catechesi mistagogica, V, 2) il diacono porge al vescovo ed ai sacerdoti concelebranti l'acqua per purificarsi le mani; secondo le Costituzioni Apostoliche (VIII, 11, 12) invece quest'ufficio è compiuto dal suddiacono. Negli Statuta antiqua di Arles (del 500) l'arcidiacono consegna al suddiacono, come segni del suo ufficio, "urceolum cum aqua... ac manutergium", cerimonia questa che si trova tuttora nella ordinazione del suddiacono. A Roma, fin dal sec. VIII, l'acqua ed il m. sono presentati al celebrante dagli accoliti. Attualmente il m. è di tre forme: 1) uno grande in sacrestia, o in locale vicino, per l'abluzione delle mani prima che il sacerdote si vesta per la celebrazione della Messa. Quest'uso rimonta al sec. VIII, ed i m. son prescritti in vari Sinodi (p. es., di Luttich [1287]) ed istruzioni (s. Carlo Borromeo). Le rubriche ne indicano l'uso soltanto prima della Messa; dopo la Messa è raccomandato. 2) Uno piccolo da usarsi al Lavabo nell'Offertorio. È proibito (decr. S. Congr. Rit. n. 2118) di portarlo sul calice nell'andare e tornare dall'altare. Si usa anche dopo la Comunione distribuita fuori della Messa. Il citato Sinodo di Luttich tiene questo m. in molta considerazione. 3) Di forma più grande, si adopra nella Messa e nelle altre funzioni pontificali. Serve anche all'offerta dei pani dopo la consacrazione del vescovo. Nella degradazione di un suddiacono gli vien tolto anche il m. 23 Bibl: J. Braun, Handbuch der Paramentik, Friburgo in Br. 1912, pp. 260-62; L. Fischer, Bernardi card. et Lat. Eccl. prioris Ordo Oficinrum Eccl. Later., Monaco 1916, passim; M. Andrieu, Le Pontifical romain au moyen âge, 3 voll., Roma 1938, passim. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, VII, Città del Vaticano, 1951, col. 1994 MARTIROLOGIO Catalogo dei martiri e dei santi disposto secondo l'ordine delle loro feste. MATTUTINO (Matutinum, Laudes matutinae, Officium nocturnum). Nel senso più antico (fino al secolo XI) è la preghiera o l'ora canonica del mattino che aveva luogo allo spuntar del sole. Nel senso moderno (dal secolo XII) è l'ufficio notturno. MEMORIALE RITUUM (Parvum caeremoniale, Parvum rituale) Libro moderno del rito romano, composto a uso delle parrocchie minori di Roma, contenente le cerimonie della benedizione delle candele il 2 febbraio, delle ceneri all'inizio della Quaresima, delle Palme nella Domenica delle Palme, e degli ultimi tre giorni della Settimana Santa, in modo da potersi eseguire da un solo sacerdote con l'assistenza di un piccolo numero di accoliti, invece che secondo le prescrizioni del Messale. MESSA Il sacrificio della Nuova Legge, nel quale, sotto le specie sacramentali, è offerta la stessa vittima del Calvario, Gesù Cristo, per riconoscere il dominio supremo di Dio e per applicare ai fedeli i meriti acquistati sulla Croce. Messale Dal latino ecclesiastico missa, onde Missale o Liber Missalis, è un libro liturgico che contiene le formole eucologiche (letture, canti, orazioni) e le prescrizioni rituali per la celebrazione della Messa. MITRA Copricapo liturgico, insegna distintiva del papa, dei cardinali e vescovi, ai quali compete per diritto; e anche di abati, prelati e canonici, ma in forza di un privilegio particolare. La forma attuale è di un copricapo a soffietto, con le due parti terminanti in punta (cornua), tenute dritte da una fodera di rinforzo e collegate da un tessuto frammezzato, e con la parte posteriore ornata di due appendici a striscia (fasciae, vittae, penduli, fanones, infulae). Intorno all'origine e all'antichità si discute; la prima testimonianza sicura risale al sec. XI e a Roma. Leone IX (1049-54) concesse la m. romana all'arcivescovo Everardo di Treviri, che l'aveva accompagnato a Roma, pro investitura ipsius primatus (della Chiesa di Treviri), affinché egli e i suoi successori se ne servissero pro ecclesiastico officio, a ricordo della loro dipendenza da Roma (Jaffé-Wattenbach, II, 4158). Due anni dopo (1051) Leone IX la concesse ai cardinali della Chiesa di Besançon e Bamberga per determinate occasioni. A poco a poco l'uso si estese e nella seconda metà del sec. XII la m. è di uso generale presso tutti i vescovi, con o senza il permesso esplicito del papa. La prima concessione certa ad abati è del 1063. Talvolta la m. fu concessa anche a prìncipi laici, ad es., da Nicolò II (1059-60 al Duca di Boemia, da Lucio II (1144-45) al Re di Sicilia. Incoronando l'imperatore, il papa gli metteva dapprima la m. clericalis, poscia il diadema imperiale (Ordo Rom., XIV, 105: PL 78, 1241). A seconda della ricchezza e dell'uso, si distinguono tre sorti di m.: la m. semplice di seta bianca (o di tela di lino bianca) con frange rosse (usata nelle benedizioni, nelle funzioni dei morti, nel Venerdì Santo); la m. aurifregiata (auriphrygiata) di tela d'oro senza altro ornamento (usata nell'Avvento, nella Quaresima, eccetto le domeniche Gaudete e Laetare, nelle vigilie; ed anche nella Messa e nei Vespri al trono o alla cattedra); la terza, preziosa, ornata di ricami d'oro, seta e pietre preziose (nelle feste più grandi, andando all'altare e ritornando in sacrestia, nell'impartire la benedizione solenne, nelle processioni solenni). La m. non segue i colori liturgici. La m. viene sempre deposta, quando il vescovo recita un'orazione (I Cor. 11, 4), o quando il diacono canta il Vangelo, e al canto del Benedictus e del Magnificat. Presso i Greci e nei riti orientali, la m. non ha la forma latina, ma quella di una corona regale sormontata da una croce; usata dal sec. XV, prima dai patriarchi e metropolitani, poi anche dagli altri vescovi; soltanto i patriarchi d'Alessandria usavano già dal sec. X un copricapo liturgico a forma di turbante. Bibl: J.Braun, Die liturg. Gewandung im Occident und Orient, Friburgo in Br. 1907, pp. 424-98 (trad. it., Torino 1914), pp. 147 157; M. Righetti, Man. di stor. liturg., I, Milano 1950, pp. 531-36; Th. Klauser, Der Ursprung der bischöfl. Insignien und Ehrenrechte, Krefeld 1950, pp. 17 22. Pietro Siffrin LA M. NELL'ARTE. - La forma della m. ha subito trasformazioni nei secoli. Delle prime, a foggia di berretti conici terminanti a punta, si ha forse l'esempio più antico nel rotulo dell'Exultet dell'Archivio del duomo di Bari, degli inizi del sec. XI. Dalla forma conica si passa a quella rotonda, successivamente schiacciata nel mezzo in alto, così da formare due rigonfiature laterali (v. la figura dell'arcivescovo Federico di Colonia [1100 1131] nel codice miniato delle lettere di s. Girolamo, del duomo di Colonia). Dalle rigonfiature laterali derivano, con ulteriore trasformazione, i cornua rigidi che si mantengono tali sempre, anche quando la m. viene disposta sul capo non più con le punta sulle tempie, ma sulla fronte e la nuca e le appendici vengono attaccate in fondo al corno posteriore, anziché nell'avvallamento. È così che si ritorna alla forma a cono primitiva, ma divenuta a soffietto. Le proporzioni sono tuttavia cambiate; fin dal sec. XIV la m. si allunga notevolmente e dal sec. XVI in poi i lati dei corni si vanno inarcuando sempre più, fino a formare, come si vede anche nella m. attuale, un vero arco acuto. Si conservano esempi di m. che. risalgono ai secc. XII-XIV: in Italia, quelle di lino bianco della chiesa della S.ma Trinità di Firenze, della cattedrale di Anagni, della parrocchiale di Castel S. Elia, di Ferentino, quest'ultima ritenuta di Celestino V, e, in stoffa damascata, quella di Giovanni XXII, nel Museo sacro della Bibl. Vaticana e nella collez. Abbey di Torino, e m. con decorazioni o lungo il bordo attorno all'orlo (in circulo) o alla punta del corno fino al bordo (in titulo). Dapprima le ornamentazioni si facevano con galloni; dal sec. XIII in poi, sia il circulus che il titulus e le appendici sono sovente ornate con figure in ricamo. Si conservano bellissimi esempi di m. ricamate (v.. Stoffe) dei secc. XII e XIII nel Tesoro della cattedrale di Anagni, in S. Zeno a Verona, nel duomo di Cividale, e, del sec. XIV, nel duomo di Fiesole, nel Museo nazionale di Ravenna, nel duomo di Urbino, in S. Pietro in Vincoli a Roma. Il ricamo si estende talvolta tanto da coprire tutta la parte anteriore della m., così che il "titolo" è interamente ricamato a figure o a decorazioni. Esempio del sec. XIV di m. interamente ricamata è quella del Museo di Cluny a Parigi, in seta bianca lavorata in nero con rappresentazioni finissime della sepoltura di Cristo e il bordo con mezze figure di Apostoli entro cornici architettoniche. Alla fine del '500 e in età barocca la m. non è più decorata con ricami a figure o con pietre preziose, ma con 24 ricami applicati e ricchi, a carattere ornamentale: p. es., la fastosa m. della cattedrale di Friburgo. Bibl: H. Bergner. Handbuch der kirclil. Kunstaltertümer, in Deutschland, Lipsia 1905, pp. 377-78; J. Braun, Die liturgische Gewandung in Occident u. Orient, Friburgo in Br. 1907, p. 468; P. Toesca, Storia dell'arte ital., Torino 1927, pp. 1139 n.31 e sgg.;V F. Volbach, I tesssuti det Museo sacro Vaticano, Roma 1942. Luisa Mortari da Enciclopedia Cattolica, VIII, Città del Vaticano, 1952, coll. 1154-1156 MOZARABICA, LITURGIA Liturgia usata ufficialmente in Spagna fino alla seconda metà del secolo XI, in cui si impose la liturgia romana, ma conservata nei secoli seguenti, dal XII al XV, in alcune parrocchie di Toledo e, dal secolo XVI ai nostri giorni, nella cappella del "corpus Christi" della primaziale di Toledo. MOZZETTA Sopravveste usata dai dignitari ecclesiastici fuori delle funzioni liturgiche; è una mantellina che copre le spalle e buona parte delle braccia; nella parte anteriore si abbottona sul petto, alla parte posteriore, sull'alto, è cucito un piccolissimo cappuccio. È propria del papa, dei cardinali, dei vescovi, degli abati regolari e di quelli che la godono per consuetudine o privilegio pontificio (p. es., i capitolari di molte cattedrali). È portata sul rocchetto scoperto, oltre che dal papa, dai prelati rivestiti di giurisdizione. L'origine della m. è incerta; forse è un accorciamento della cappa magna; di qui suo nome. Il cappuccio venne diminuito quando fu usata la berretta. La m. era in uso a Roma nella seconda metà del sec. XV. La m. dei cardinali e di seta rossa o porpora, di seta violacea o paonazza secondo i diversi tempi dell'anno; alla presenza del papa si porta sopra la mantelletta. I cardinali appartenenti a Ordini monastici e mendicanti usano sempre la m. di lana, saia o panno e del colore dell'abito dell'Ordine a cui appartengono; p. es., i Benedettini nera, i Carmelitani bianca, i Francescani grigia. I vescovi usano il solo colore paonazzo o violaceo; i vescovi religiosi quello del loro Ordine, così gli abati regolari. Una m. senza cappuccio viene data come privilegio ai parroci in alcune diocesi. Bibl.: Moroni, XLVII, pp. 27-36; X. M. J. Barbier de Montault, Le costume et les usages ecclésiast., I, Parigi s. a., pp. 332-50; J. Braun, Die liturgische Gewandung im Occid. und Orient, Friburgo in Br. 1907, pp. 357-58; trad. it., Torino 1914, p. 162; M. Righetti, Man. di stor. liturg., I, Milano 1950, p. 512. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, VIII, Città del Vaticano, 1952, coll. 1505-1506 NONA È quella parte dell'ufficio divino che si recita all'ora nona (= ore 15), secondo la divisione greco-romana del giorno. È composta dall'inno, di tre salmi, di una lezione seguita da un responsorio, un versetto e l'orazione finale. NOTTURNO (Vigiliae nocturnae, Nocturna laus) Era l'ora canonica della notte in uso già nei primi secoli cristiani. Fin dal secolo XII il notturno viene detto mattutino, perché si faceva prima dello spuntar del sole. "NUNC DIMITTIS" Cantico pronunciato dal vecchio Simeone in occasione della presentazione di Gesù al Tempio (Lc 2, 29-32). Attualmente si recita a compieta. OCTAVARIUM ROMANUM Libro liturgico della Chiesa romana, di uso facoltativo, che contiene le lezioni del secondo e terzo Notturno da leggersi durante i giorni delle ottave particolari delle feste dei patroni e dei titolari delle chiese. Stabilite definitivamente da s. Pio V, con la pubblicazione del Breviario (1568) e del Messale (1570) riformato, le norme per la celebrazione delle ottave particolari dei patroni e dei titolari delle chiese, si fece sentire la deficienza di lezioni proprie per i giorni correnti di queste ottave, poiché nel corpo del Breviario tali lezioni mancano. Per ovviare a questo difetto, il noto liturgista Gavanto, consultore della S. Congregazione dei Riti, si mise al lavoro e compose una collezione di letture patristiche, distribuite appositamente per i giorni di queste ottave particolari. Nacque allora il dubbio se tale raccolta dovesse entrare direttamente nel Breviario, o formare un libro liturgico a parte. La S. Congregazione venne nella determinazione di pubblicare un libro separato dal Breviario, e confermò questa deliberazione col decreto del 19 febbr. 1622, premesso al libro che ebbe il nome: O. R., uscito nel 1623 a Roma e quasi subito anche fuori in varie edizioni. Il Gavanto vi premise un'erudita introduzione, nella quale si trattiene lungamente sulla storia e sul significato delle ottave, introduzione rimasta nelle edizioni moderne. Le due ultime edizioni dell'O. R. sono quelle del Pustet, curate dalla stessa S. Congregazione dei Riti, nel 1882 e nel 1902, con ampia appendice. L'O. R. non è strettamente obbligatorio, ma, a un dubbio propostole, la S. Congregazione dei Riti ha risposto che le lezioni mancanti per le ottave particolari "desumantur ex O. R." (Decr. auth. n. 2735; 8 ag. 1835). Bibl: Ph. Oppenheim, De libris liturgicis, Torino, 1940. Giuseppe Löw da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 62-63 OFFERTORIO Il nome deriva dal verbo offerre (offrire, recare) il cui participio oblatum diede origine al vocabolo "oblazione", "oblata" con cui 25 è indicata la cosa offerta. Ben presto designò la parte della messa compresa tra la presentazione delle offerte e il Prefazio, e poiché un canto accompagna tale parte della messa, anch'esso prese il nome di "offertorio". OMBRELLINO (umbrella, umbraculum) Piccolo ombrello, ripiegabile, di seta damascata bianca (rossa nel rito ambrosiano), guarnito di frange d'oro o di seta, che si sostiene per riverenza sopra il sacerdote che porta il S.mo Sacramento nelle processioni (prima di entrare sotto il baldacchino grande e uscendone) e quando reca il Viatico in forma solenne. OMBRELLONE (conopaeum, padiglione, sinnicchio) È un'insegna in forma di grande ombrello detta "conopeo" (nei decreti = padiglione), propria delle basiliche romane maggiori e minori e di quelle fuori Roma che hanno il privilegio e il titolo di "basilica minore". "O NIMIS FELIX MERITIQUE CELSI" La terza parte dell'inno dell'Ufficio nella festa della nascita di s. Giovanni Battista, composto da Paolo Diacono. Si canta alle Lodi. ORAZIONE Nella liturgia il termine orazione è preso nel significato preciso di preghiera recitata dall'officiante (vescovo o sacerdote) come interprete presso Dio dei sentimenti di lode, di supplica, di adorazione, comuni a tutti i fedeli, indirizzati a lui in loro nome. Qui il termine o. è preso nel significato preciso, che assume nella liturgia la preghiera recitata dall'officiante (vescovo o sacerdote) come interprete presso Dio dei sentimenti di lode, di supplica, di adorazione, comuni a tutti i fedeli, indirizzati a lui in loro nome. Prima, queste o. erano composte dall'officiante stesso (Giustino, Apol. I, 67); ma già nei primi secoli se ne notarono, raccolsero e ripeterono parecchie, ben composte (p. es., Didaché, Eucologion di Serapione, Sacramentari romani). In seguito, l'o. si specificò nelle 4 o. della Messa: 1ª, detta Colletta, prima delle letture; la 2ª, all'Offerta dei doni (Super oblata, Secreta), la 3ª, dopo la Comunione (Postcommunío, Ad complendum) la 4ª, recitata sul popolo (Super populum), e infine il termine o. si restrinse specialmente alla prima, l'oratio per eccellenza. I caratteri specifici dell'o., specialmente nella Colletta, sono: 1) di essere una supplica, riserbando la lode e il ringraziamento alle altre o. eucaristiche; questa supplica si tiene sulle generali e non discende mai troppo al minuto e quando si accenna all'intercessione dei santi od a qualche mistero, ciò avviene unicamente per appoggiare la nostra preghiera; 2) una supplica universale: cioè o. di tutti e per tutti, per un bene di tutta la comunità; il che si manifesta nel soggetto "noi" ("quaesumus", "preces nostras"), nell'oggetto ("ut... serviamus", "ut... vivere valeamus"); 3) una supplica assolutamente spirituale nelle sue domande; si domandano sempre beni spirituali e soprannaturali ("sic transeamus per bona temporalia, ut non amittamus aeterna", domenica 3ª di Pentecoste). Secondo un principio liturgico tutte le o. vengono indirizzate a Dio, cioè al Padre, interponendo la mediazione di Cristo (I Pt. 4, 11; I Clem., 61; Tertulliano, Adv. Marcion., IV, 9). Il Concilio di Ippona, nel 393, precisa che "cum altari assistitur, semper ad Patrem dirigatur oratio". Nella liturgia romana sono rivolte a Dio Padre quasi tutte le o., provenienti dal periodo classico dei Sacramentari cosiddetti leoniano, gelasiano e gregoriano (e in origine anche le o. dell'Avvento); mentre nella liturgia gallicana le o. si rivolgono sovente al Figlio, facendo precedere alla finale la clausola "Salvator mundi". Nel Messale, Breviario, Pontificale e Rituale romano si trovano ca. 50 o. rivolte al Figlio, una sola allo Spirito Santo (nella benedizione dell'abate), ma sono tutte di origine medievale o moderna, posteriori, cioè al sec. XVI; mentre la Colletta ed il Postcommunio della Messa del "Corpus Domini", del sec. XIII, costituiscono le prime eccezioni. Nella conclusione caratteristica romana "Per Dominum... " furono aggiunte più tardi le due apposizioni "Filium tuum" e "Deus", per accentuare la divinità di Cristo. Nella forma letteraria delle Collette si distinguono un tipo semplice e un tipo più complesso. Il tipo più semplice, ed anche più antico, esprime l'oggetto sostanziale o con forme verbali Concede... , Da nobis... , Exaudi... , Praesta... , o con un sostantivo designante la grazia richiesta Auxilium..., Gratiam... Questo tipo occorre anche nelle Secreta e nei Postcommunio. Caratteristico della Secreta è di cominciare la formola con una parola allusiva all'offerta dei doni. Accepta... , Accipe..., Haec hostia... , Haec oblatio... , Haec sacrificia... , Munera... Similmente i Postcommunio riferiscono il frasario della Comunione. Haec communio... , Refecerunt... , Sacramenta... , Sumpta. Lo schema del tipo più complesso comprende quattro parti o suddivisioni: a) un'allocuzione a Dio, apponendovi attributi (omnipotens, sempiterne, Deus) o un'intera proposizione predicativa (Deus qui abundantia pietatis tuae); b) un'invocazione (Concede... , Praesta... , Respice... ), con aggiunto quaesumus; c) una domanda (ut... ); d) la motivazione della domanda (Per Dominum... ). Questo tipo più complesso è proprio delle Collette, non occorre mai nelle Secreta o nei Postcommunio. L'invocazione a Dio con l'aggiunta predicativa qui... viene usata specialmente nei giorni commemorativi o festivi sia del Signore, sia dei Santi. Si può dividere l'o. anche in due parti: preludio e tema, o invocazione e petizione, più o meno ampiamente o brevemente svolte. Il preludio comprende l'indirizzo con l'ampliamento, cioè il fondamento della nostra domanda; il tema contiene la domanda stessa (Preludio: Deus qui nos in tantis periculis... non posse substinere, tema: da nobis... ut... vincamus). L'invocazione può precedere la petizione, ma anche seguirla (Excita... Largire... ). Altre particolarità delle antiche o. classiche sono la conveniente disposizione dei vari membri, ben proporzionati fra loro e arricchiti di complementi, di parallelismi e di antitesi, e l'eufonia basata sull'euritmia delle clausole, sia incidentali che finali, sulle successioni armoniche di parole e di sillabe, cioè nell'uso del "cursus", In tal modo, le Collette romane mostrano in generale un carattere di sobrietà e d'eleganza. Bibl: J. A. Jungmann, Die Stellung Christi im liturg. Gebet, Münster 1925, pp. 102-107, 186-87; J. Cochez, La structure rythmique des oraisons (Cours... Semaines liturg., VI), Lovanio 1927, pp. 139-50; P. Alfonso, L'Eucologia rom. antica. Lineamenti stilistici e storici, Subiaco 1931; P. Salmon, Les protocolles des oraisons du Missel romain, in Eph. lit., 45 (1931), pp. 140-47; H. Rheinfelder, Zum Stil der latein. Orationen, in Jahrb. für Liturgiewissensch., 11 (1931), pp. 20-34; O. Casel, Beiträge zu röm. Orationen, ibid., pp. 35-45; G. De Stefani, La S. Messa nella lit. rom., Torino 1935, pp. 429-42; M. G. Haessly, Rhetoric in the Sunday Collects of the Roman Missal, Saint Louis 1938; P. Alfonso, I riti della Chiesa, III, Roma 1945, pp. 40-44; G. Brinktrine, La S. Messa, ivi 1945, pp. 75-81; J. A. Jungmann, Missarum Sollemnia, I, Vienna 1949, pp. 460-74; M. Righetti, Man. di st. lit., I, Milano 1950, pp. 202-209; F. Di Capua, Cursus, in Enc. Catt., IV, coll. 1083-92. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 212-214 ORDINES ROMANI Gli Ordines Romani sono "libelli" elaborati nel secc. VIII-XIV, contenenti la descrizione e le regole per lo svolgimento delle principali cerimonie sacre: battesimo, messa, ordinazioni, dedicazione delle chiese, uffici della Settimana Santa e le principali feste dell'anno liturgico. 26 OREMUS (PREGHIAMO) Invito generico nel rito romano dell'officiante ai fedeli prima delle preghiere nella messa (Collette, Secreta, Postcommunio, Pater noster), nell'ufficio e in altre occasioni. OSTENSORIO È un vaso sacro (monstrantia, tabernaculum [mobile o portatile], custodia) che si adopera per la solenne esposizione del S.mo Sacramento o per recarlo in processione, in uso soltanto nella Chiesa latina. OTTAVA Prolungamento di una festa liturgica per otto giorni. PACE, strumento Strumento liturgico per portare la "pace", cioè per il bacio prima della Comunione, al coro e a determinate persone assistenti alla messa. PALIOTTO (pallium, pannus; antealtare, frontale antependium) Rivestimento della mensa dell'altare, anticamente detto vestis o pallium, dopo il sec. XV p. (da palliare = ricoprire). Nella Chiesa antica, per la venerazione in cui era tenuto, l'altare veniva circondato di una certa ricchezza e, dove possibile, rivestito di lamine d'oro e d'argento, o almeno di stoffe preziose, come si sa per l'Oriente da s. Efrem (m. nel 373), dal Chronicon Paschale, da s. Giovanni Crisostomo. Per l'Occidente i famosi musaici di Ravenna (S. Vitale c S. Apollinare) ne danno un bel saggio; nel Liber Pontificalis si legge di molti ricchi rivestimenti, offerti dai papi, ad es., da papa Zaccaria (74152) per la basilica di S. Pietro e da altri che rivestivano l'altare in ogni parte, o almeno nei due lati principali. Ma dopo il sec. XI, con l'accostamento dell'altare alla parete della chiesa, cioè in fondo dell'abside, se ne rivestiva la sola parte anteriore, donde i nomi di ante-altare, frontale, antependium. Il Caerimoniale episcoporum (l. I, cap. 12, n. 2) non lo prescrive, ma ne raccomanda l'uso; nel Messale (Rubr. gen. tit. XX) si dice di fare i p. nei colori, se possibile, delle feste e dell'Ufficio. Bibl.: J. Braun, Handbuch der Paramentik, Frihurgo in Br. 1912, pp. 218-24; trad. it., I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 17176; id., Der christl. Altar, Monaco 1924, pp. 9-132; G. Destefani, La S. Messa nella liturgia romana, Torino 1935, pp. 121-26; M. Righetti, Man. di storia liturgica, I, II ed.. Milano 1950, pp. 430-33. Pietro Siffrin ARTE. - Appartengono ai secoli, dei quali non si conservano p. in stoffa, alcuni preziosissimi rivestimenti di altare in oreficeria, avori e marmi. Tra i più antichi esempi, metà del sec. VIII, è il p. in marmo dell'altare del duca Rachis nella chiesa di S. Martino a Cividale, proveniente da S. Giovanni, capolavoro di un'arte ingenua e primitiva; e, tra i più cospicui, il p. in oro e argento dell'altare della basilica di S. Ambrogio a Milano, ove il Magister Vuolvinus (835) usò tutte le varietà di tecnica dell'oreficeria (sbalzo, niello, smalto) con finezza incomparabile, seguendo modelli propri all'arte carolingia e tecnica prevalentemente bizantina. Al sec. XI risalgono il p. in oro, ritenuto dono di Enrico II (1014-24), già del duomo di Basilea, ora a Parigi nel Museo di Cluny, e gli altari del Tesoro di Conques. Più numerosi gli esempi del sec. XII: il p.. bizantineggiante, a scomparti in avorio con Storie dell'Antico e del Nuovo Testamento, ora scomposto, ma conservato quasi integralmente nella sacrestia della cattedrale di Salerno, il p. argenteo con il Redentore e Storie della sua vita nella cattedrale di Città di Castello, quello del patriarca Pellegrino II (1195-1204) con caratteri veneti e bizantineggianti nella collegiata di S. Maria Assunta a Cividale. Del sec. XIII si ha un esempio di p. a tarsie marmoree bianche e verdi con tasselli a triangolo e losanga, diviso in tre scomparti da arcatelle trilobate nella badia di Fiesole, già all'altare di S. Romolo, del maestro Costantino, come risulta dall'iscrizione del 1273, e nella badia di Sesto al Reghena in Friuli è un p. ricomposto, di scultore bizantineggiante, forse lombardo. A Pistoia, nella Chiesa di S. Jacopo bell'antependium argenteo, le cui parti più antiche (1287) presentano le figure della Vergine e degli Apostoli entro architetture gotiche; del 1316 è, ancora a Pistoia, l'altare cesellato del pistoiese Andrea d'Ognabene. Nella sacrestia del duomo di Ascoli Piceno si conserva un p. d'argento della seconda metà del '300, di arte più rozza, con Storie della vita del Redentore; altrettanta imperizia tecnica mostra il p. della collegiata di Monza, opera del milanese Borgino del Pozzo (1350-57). Degli inizi del sec. XV è a Firenze il p. del Battistero, dei fiorentini Betto di Geri e Leonardo di ser Giovanni (1366); a Venezia, nel Tesoro di S. Marco è il p. di Gregorio XII (1408) di cui sono originarie solo le decorazioni architettoniche e le figure. Fra i rari esempi di p. in legno, è quello valdostano, conservato nel Museo civico di Torino, con elementi romanici e gotici e infiltrazioni francesi. Molti sono i p. in stoffa attribuibili al sec. XIII; un magnifico esemplare è nel Museo cinquantenario di Bruxelles, due nel duomo di Anagni, uno nel duomo di Salisburgo, due nel Museo storico di Berna, uno nel Museo storico di Dresda, uno dell'ornamento da Messa dell'Ordine del Toson d'Oro nel Museo della Corte di Vienna, tutte opere pregevolissime e ben conservate, legate strettamente ad elementi della pittura dell'epoca, veri capolavori del dipinto ad ago (v. Ricamo). In Italia, importanti i due p. del Tesoro della cattedrale di Anagni, ricordati tra i doni di Bonifacio VIII; raro esemplare di scuola nordica il primo, con l'Albero della Vita; il secondo, di ispirazione cavalliniana, opera dell'Italia centrale, con le Storie di Gesù, della Vergine e di Santi. Un p. importato dall'Oriente è nelle Gallerie di Genova, donato alla città dall'imperatore Michele Paleologo (1271-76), che vi è raffigurato in atto di venir introdotto nella cattedrale da S. Lorenzo. Lavori del principio del sec. XIV sono nel Museo provinciale di Hannover e nel duomo di Halberstadt; in Italia, notevolissimo l'antependio, di incerta provenienza, della chiesa di S. Maria a Zara, che il Toesca ritiene disegnato da un seguace di Duccio, il Cecchelli lavoro monastico locale, il Coletti di un seguace di Paolo Veneziano. A Pitti, nel. Museo degli argenti, è un p. ricamato da Jacopo di Cambio, già in S. Maria Novella; e sempre ad opus florentinum, con ricami in parte a rilievo e con pitture nelle ombreggiature degli incarnati (Toesca), del celebre ricamatore Geri di Lapo è il grande p. della chiesa di S. Maria a Manresa in Catalogna. Del sec. XV si conservano pure bellissimi p. istoriati: nella basilica di S. Francesco ad Assisi il p. di Sisto IV in seta ricamata, forse su disegno del Pollaiolo, a Siena nel Museo delll'Opera del Duomo altro p. con Storie di Cristo e figure di Santi, alla Madonna del Monte di Varese p. donato da Beatrice d'Este e Lodovico il Moro (1491), al Museo Poldi Pezzoli di Milano p. con l'emblema sforzesco, a Cortona nella chiesa di S. Francesco il p. Passerini; nella collegiata di S. Gemignano il p. delle colombe d'oro intorno alla sigla di Gesù (1449), a Firenze in S. Maria Novella importante p. in broccato con ricami raffiguranti quattordici Storiette della Vita della Vergine. Di p. in tessuto Gobelin d'arazzo conservano 27 magnifici esemplari il Museo nazionale bavarese e Bruges (Ospedale civile). Predominano i motivi puramente ornamentali nei p. più tardi; a Roma, è importante la raccolta della chiesa di S. Maria della Vallicella. Ma nel '500 s'incontrano anche p. istoriati nel centro e ai bordi, fra decorazioni floreali: al museo sacro del Vaticano il p. disegnato da A. Allori con la Deposizione; a Firenze in un p. del Museo nazionale, del 1580 ca., sono medaglioni con figure di Santi e nel centro la Deposizione; a Siena in altro p. del Museo dell'Opera del Duomo trionfa il tanto diffuso motivo a melograno entro un fregio con le figure di Cristo risorto, la Vergine e la Maddalena. Oppure motivi decorativi incorniciano i motti e gli emblemi dei donatori (v., p. es., a Torino nel Museo civico e a Siena nel Seminario vescovile i due p. con gli stemmi della famiglia Borromeo). In Italia, del sec. XVII si conservano p.: v. gli esemplari del Tesoro della basilica di S. Francesco ad Assisi, di Milano nel Castello Sforzesco, già a Lorico in Valtellina, di Siena nel Museo dell'Opera del Duomo, recante lo stemma di Alessandro VII, di Brescia nel Duomo nuovo con quello del vescovo Ottoboni. Eccezionali per il '600 e il '700 i p. ancora ricchi di figure come quelli della chiesa dei Gesuiti a Colonia e quelli di Neuburg e del Museo nazionale di Baviera. Bibl.: Venturi, II, p. 658,; V, p. 1057; G. Braun, I paramenti sacri, vers. it., Torino 1914, pp. 171-77; M. Salmi, Arte romanica fiorentina, in L'arte, 17 (1914), p. 378; C. Cecchelli, Catalogo di Zara, Roma s.d., pp. 91-98; J: Braun, Der christl. Altar, II, Monaco 1924, pp. 9-132; P. Toesca, Stor. dell'arte, I, Firenze 1927, pp. 111, 279, 454, 1092, 1141; II, ivi 1951, pp. 879, 892, 904, 906; P. Podreider, Storia dei tessuti d'arte in Italia, Bergamo 1928, pp. 147, 199; A. Santangelo, Catalogo di Cividale, Roma 1936, p. 86; L. Serra, Mostra del tessile nazionale, ivi 1937 1938, pp. 27, 30-32, 35; L. Mortari, Il Tesoro di Anagni, in Mostra di Bonifacio VIII, ivi 1950, p. 104. Luisa Mortari da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 635-637 PALLA Nel senso liturgico attuale è un piccolo quadrato di lino di ca. 20-25 cm. per coprire il calice, specialmente dall'Offertorio alla Comunione. Fino al sec. XI il calice veniva coperto con la parte posteriore ripiegata del corporale, detto palla grande; quest'uso franco-italiano è seguito ancora dai Certosini. Per comodità nelle Messe private senza diacono il calice si copriva dapprima con un altro corporale piegato ("panno complicato instar sudarii"), poi con una pezzuola di lino quasi staccata dal corporale "corporale minus" o "p. corporalis" o semplicemente p. Questa pezza di lino ornata d'intorno da un pizzo, anticamente floscia, è ora rigida o inamidata; in Belgio e in Germania raddoppiata e retta in mezzo da cartone. La p. deve essere sempre di puro lino, come il corporale donde fu staccata (Decr. auth., 4174); se doppia, la parte superiore può essere fatta anche di seta e variamente ornata o ricamata (ibid., 3882, 4). S. Carlo Borromeo chiama la p. "animetta", perché si racchiude nel corporale come l'anima nel corpo; nel rito mozarabico è detta "filiola", perché derivata dalla p. grande. La p. viene benedetta con la stessa formola del corporale, da cui deriva; la prima lavanda, come quella del corporale, deve farsi da un sacerdote o da un suddiacono. L'allegorismo medievale vede simboleggiata nel corporale la sindone nella quale fu avvolto il Cristo e nella p. specialmente il sudario (Jo. 20, 7). In senso più largo e originale, p. venne detta la tovaglia dell'altare: se ne distinguono due: "p. altaris" e "p. corporalis", cioè il corporale odierno, donde si staccava la p. Talvolta anzi si dice p. il velo del calice. Nella preparazione del calice la p. si mette sopra la patena. I Teatini usano una seconda p. per coprire la patena. Bibl.: J. Braun, Handbuch der Paramentik, Friburgo in Br. 1912, pp. 239-41 (trad. it., I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 18490); G. Destefani, La S. Messa nella liturgia romana, ivi 1935, pp. 118-21: C. Callewaert, Liturgicae institutiones, vol. III, 1, De Missalis Romani liturgia, II ed., Bruges 1937, pp. 37-39; M. Righetti, Manuale di storia liturgica, I, II ed., Milano 1950, pp. 443-44. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 637-638 PALLIO È una benda di lana bianca larga 4-6 cm., contraddistinta da 6 croci di seta nera, girata intorno alle spalle, con i due lembi pendenti l'uno sul petto; l'altro sul dorso, ornata da 3 spille gemmate (aciculae) sul petto, sul dorso e sulla spalla sinistra. È insegna liturgica d'onore e di giurisdizione, riservata al papa e agli arcivescovi metropoliti. Entra 3 mesi dalla sua consacrazione o conferma, il metropolita deve domandare al papa il p.; questo obbligo data dalla seconda metà del sec. IX. La consegna o l'imposizione del p. si fa a. Roma dal primo cardinale diacono; fuori di Roma, nella sede metropolitana, dal vescovo incaricato, dopo la Messa solenne e dopo che l'arcivescovo metropolita ha emesso il giuramento di fedeltà (fino dal sec. XI, invece, dopo la professione di fede). Il metropolita porta il p. soltanto nelle Messe pontificali della sua chiesa e in quelle della sua provincia nei giorni fissati dal Pontificale Romanum (l. I, tit. XIV, n. 10), nelle feste della Immacolata e di s. Giuseppe, aggiunte da Leone XIII, e nella ordinazione, consacrazione, ecc. È un'insegna personale, e non si può prestare ad un altro; se un arcivescovo è trasferito ad un'altra sede metropolitana ne deve domandare uno nuovo. Il papa, rivestito di supremo potere e piena giurisdizione, lo porta sempre nelle Messe solenni e dappertutto. E fatto con la lana di 2 agnelli bianchi benedetti il 21 genn. nella basilica di S. Agnese (v. Benedizione degli Agnelli). Ai primi Vespri dei ss. Pietro e Paolo i nuovi p. vengono benedetti dal papa e sono conservati in una cassetta d'argento dorata presso la Confessione e tomba di S. Pietro, onde consegnarli ai metropoliti. Già le più antiche rappresentazioni del p. nel famoso avorio di Treviri, in una processione con reliquie (metà del sec. V) e più chiaramente nella figura del vescovo Massimiano nel musaico di S. Vitale di Ravenna (prima metà del sec. VI) lo mostrano in forma di sciarpa intorno alle spalle, le due parti pendenti dalla spalla sinistra. Dalla metà del sec. IX i due capi cominciano a pendere, fermati con due spille, esattamente nel mezzo del petto e del dorso; una terza spilla lo fissa sulla spalla sinistra. In seguito invece delle spille v'è una cucitura fissa; le 3 spille rimasero decorative. I due capi, prima di una considerevole lunghezza fino al ginocchio, vengono accorciati dopo il sec. XV alla forma attuale (del sec. XVII). L'ornato del p. con la croce, già iniziato nel musaico ravennate, aumenta nell'epoca carolingia; nel medioevo (Innocenzo III) è di colore rosso. Il p. dell'arcivescovo di Colonia Clemente Augusto (m. nel 1761) aveva 2 croci nere e 6 rosse. Da principio il p. venne considerato proprio del papa; i vescovi e gli arcivescovi lo portavano solo per sua concessione. Questa concessione data dal sec. VI; il papa Simmaco ne diede il privilegio a s. Cesario d'Arles nel 513. Sull'origine del p., recentemente T. Klauser segue la tesi del Duchesne, e cioè che si tratta di un indulto imperiale; altri lo fanno derivare dall'antico mantello dei filosofi simile alla toga contabulata ripiegata (lorum). Braun invece vi vede una imitazione del greco omophorion, divenuto nell'Occidente insegna propria del solo papa, mentre per tutti i vescovi dell'Oriente è una insegna liturgica. Bibl.: H. Grisar, Das römische Pallium, in Festschr. zur 1100-jähr. Jubelfeier des Campo Santo, Friburgo in Br. 1897; J. Braun, Die liturg. Gewandung im Occident und Orient nach Ursprung und Entwicklung, Verwendung und Symbolik, ivi 1907, p. 656 sg.; id., Handbuch der Paramentik, ivi 1912, pp. 164-72, vers. it., I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 129-35; L. Duchesne, Origines du culte chrétien, V ed., Parigi 1925, pp. 404-10; M. Righetti, Man. di stor. liturgica, I. II ed., Milano 1950, pp. 52430; T. Klauser, Der Ursprung der bischöfl. Insignien und Ehrenrechte, Krefeld s. a., pp. 17-19, 25 (n. 23-36). 28 Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 646-647 PALMATORIA (Bugia, cerarium) Candeliere basso portato in palma di mano (donde il nome), o piattellino di metallo o altra materia, con manico e nel mezzo un bocciolo per infilarvi una candela. Serve nelle funzioni pontificali, praticamente per vedere chiaro nel leggere, ma più in segno d'onore, perché si tiene quando anche "è tanto chiaro da non aver bisogno d'una luce nel leggere" (Catalani, Caerem. episc., l. I [v. bibl.], cap. 11, 1-4; cap. 20, 1). Si chiama anche "bugia" (francese bougie, dalla città algerina di Bugia, centro di cererie nel medioevo). Prima del sec. XIV nessun liturgista ne fa menzione. Con un altro nome si dice scotula (dal greco skoton elauno = scaccio via le tenebre). È distintivo dei cardinali, dei vescovi, degli abati e altri prelati che ne hanno il privilegio (p. es. i provinciali domenicani, i canonici di alcune basiliche; i parroci di Roma). È portata da un accolito ("minister de candela", "bugiarius"), con cotta e, in alcune funzioni, anche con piviale, sempre assistito dall'accolito del libro. Nelle funzioni papali solenni si usa solo la candeletta accesa senza p., perché si dice che la luce del papa non ha bisogno di un sostegno terreno. Bibl: S. Congr. dei Riti, Decr. auth. (v. bugia, palmatoria); I. Catalani, Pontificale Romanum, I, Parigi 1850, p. 39 a; Id., Caeremoniale Episcoporum, I, Parigi 1860, pp. 143, 212-18, 402; Moroni, Bugia, VI, pp. 155-56; P., LI, p. 72; J. Baudot, Bougeoir, in DACL, II, coll. 1099-1100. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, col. 654 PASTORALE (baculus, sottinteso pastoralis; cambuta, ferula) Insegna liturgica propria del vescovo e degli abati nelle funzioni pontificali, eccettuate quelle del Venerdì Santo e dei defunti. Consta di un'asta dell'altezza di un uomo, munita al di sopra di una curvatura a spirale. PATENA Dal greco patane = piatto. È un piatto rotondo di metallo, usato già anticamente nella messa, come complemento indispensabile del calice e fatto dello stesso metallo. Nella parte superiore è oggi priva di ornamento, ha il diametro di 15-20 cm. ed è leggermente concava nel mezzo, secondo la larghezza degli orli del calice. Nella Messa si pone l'Ostia sulla p. fino all'Offertorio (su di essa è fatta l'offerta), e, dopo il Pater noster, l'Ostia consacrata spezzata vi si ricolloca fino alla S. Comunione; nel frattempo, nella Messa solenne, la p. è tenuta nascosta con un velo dal suddiacono (anticamente dall'accolito) detto patenarius; nelle Messe lette si mette invece sotto il corporale. La p. deve essere consacrata dal vescovo ed avere la parte interna dorata. La consacrazione non si perde, qualora si debba rinnovare la doratura (CIC, can. 1305). Diventata con la consacrazione oggetto sacro, in immediato contatto con il Corpo di Gesù, la p. non può essere toccata che dai chierici o da chi l'ha in custodia (can. 1306). Simbolicamente la p. viene considerata come una nuova pietra del sepolcro, su cui giacque il corpo del Signore (cfr. Rabano Mauro, De instit. cleric., I, 33: PL 107, 324). Bibl.: J. Braun, Das christl. Altargerät in seinem Sein und in seiner Entwicklung, Monaco 1932, pp. 197-242; L. Eisenhofer, Lehrbuch der kathol. Liturgie, I, Friburgo in Br. 1932, pp. 396-401; M. Righetti, Man. di stor. liturgica, I, Milano 1950, pp. 46871; H. Leclercq, s. v. in DACL, XIII, coll. 2392-2414. Pietro Siffrin ARTE. - Nell'antichità e nel medioevo la p. ebbe notevoli dimensioni e peso, perché doveva servire a raccogliervi sopra il pane offerto dai fedeli per la consacrazione (p. ministerialis), che veniva poi diviso in parte per la Comunione dei fedeli. Papi e imperatori andarono a gara nel farle confezionare, adoperandovi grande quantità di oro e ricchezza di gemme. Esemplari eccezionali possono vedersi a Città di Castello, nei piatti argentei ageminati del Tesoro di Canoscio (secc. V-VI), al Louvre (in serpentino con zaffiri, smeraldi e perle, donati da un imperatore carolingio all'abbazia di St-Denis), nella collezione Wiss a Washington, nella collezione Stoclet a Bruxelles, nel Tesoro di S. Marco a Venezia. In epoca gotica (sec. XIV) le p. vengono ornate da rilievi o da smalti translucidi, come la p. della Pinacoteca nazionale di Perugia con smalto racchiuso in un contorno ad archetti, rappresentante la scena della Crocifissione e altri sei tondi a smalto sul bordo con fatti della Passione alternati a motivi incisi, opera di Cataluzio da Todi che influenzò quella di Ciccarello di Francesco con la rappresentazione dell'Annunciazione e l'iscrizione attorno (Sulmona, cattedrale di S. Panfilo) e l'altra con smalti rappresentanti la Crocifissione, a Ravello (Duomo). Ebbero anche decorazioni incise, rappresentanti al centro la mano benedicente, che si vede aggiunta, nel sec. XII, nella p. di epoca ottoniana, nella chiesa della Collegiata dell'Assunta a Cividale, con iscrizione sul bordo, paragonata a quello, detta di s. Bernardo, nel duomo di Braunschweig e nella p. del calice, ritenuto di s. Francesco, nella basilica di Assisi, opera di Cuccio del Mannaia. Notevole, anche la p. del calice di Wiltener (Austria), del 1180 ca. In epoca posteriore le decorazioni si vanno facendo sempre più rare; le proporzioni diminuiscono e il rapporto tra l'orlo rialzato e il centro si stabilizza, adattandosi alle proporzioni dei calici, la cui base perde il contorno polilobato o mistilineo, diventando nel '500 e nel '600 quasi sempre circolare. Bibl.: V. Pasini. Il Tesoro di S. Marco in Venezia, Venezia 1886; Venturi, II, p. 213, fig. 177; IV, p. 905; A. Santangelo, La Cattedr. di Cividale, Roma 1930, p. 39; E. Zocca, La catted. di Assisi, Roma 1935. p. 79; A. Morassi, Antica oreficeria ital., Milano 1936, pp. 32-42. Maria Accascina da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 939-940 PIANETA (Planeta, casula, amphibolus) Sovravveste sacra, propria dei sacerdoti nella celebrazione della Messa. Nell'uso attuale, da due o tre secoli, è formata da uno scapolare a due lembi (posteriore largo 65-75 cm., lungo 1,05-1,15 m., anteriore più breve). Si distinguono 4 tipi di p.: a) romana: cucitura dei due lembi sul petto; apertura, per il capo, in forma di trapezio; ornamento posteriore: una striscia verticale "colonna"; quello anteriore a forma di T (croce commissa); b) tedesca: cucitura sulle spalle; apertura rotonda; ornamento posteriore una croce, quello anteriore una semplice "colonna"; c) francese: cucitura sulle spalle, apertura come quella romana, meno profonda; ornamento simile a quello tedesco; d) spagnola: cucitura sulle spalle; ornamento anteriore e posteriore solo a "colonna"; la larghezza aumenta verso il basso. Dalla metà del sec. XIX si ripristinò una forma simile a quella dei secc. XIV e XV, detta poco esattamente p. gotica, di s. Bernardo o di s. Carlo Borromeo. La pianeta deriva dall'antica paenula, usata in tutto il mondo greco-romano. Il nome p. (l'etimologia di s. Isidoro (Etym. xix, 247) dal greco planasthai non è chiara), invece della voce paenula, occorre nel sec. V ed è nell'uso liturgico già nello stesso 29 secolo; in Spagna prima del IV Sinodo di Toledo del 633 (can. 28). Si portava fuori di Roma soltanto dai vescovi e sacerdoti, a Roma da tutti i chierici (anche dai diaconi, suddiaconi e dagli accoliti). Dal sec. XII è una veste propria dei sacerdoti nella celebrazione della Messa; nelle altre funzioni si usava il piviale. La forma ampia e lunga fin quasi ai piedi dell'antica paenula si conservò fino al sec. XIII, senza cappuccio, sollevata ai lati sopra le braccia per muovere liberamente le mani, cosiddetta "a campana", assai ampia ed egualmente pendente, interamente chiusa. Poi (sec. XIII-XV), per maggiore comodità ed anche per economia, si raccordò tagliando i lembi laterali, lasciando solo quello anteriore e posteriore, tagliati anche essi a semicerchio o a punta, finché si è arrivati al sec. XVIII alla forma attuale. Il ritorno all'uso della p. medievale non si può fare di proprio arbitrio, ma occorre uno speciale indulto apostolico (S. Rit. Congr., 11 febbr. 1863 e 9 dic. 1927). In antico le paenulae profane erano ornate da due clavi purpurei verticali. Come decorazione delle p. liturgiche si vede sui monumenti un semplice fregio gallonato intorno all'apertura del collo. A partire dal se. XI venne in uso una fascia verticale divisa all'altezza delle spalle in due braccia oblique (in forma di Y; talvolta la verticale si prolungava fino al collo) per unirsi sul petto e scendere sino all'orlo inferiore; tutta con ricami di ornato o figurazioni di santi. Questo motivo puramente ornamentale venne poi interpretato come una croce; infatti dal sec. XIII in Inghilterra, Francia e Germania si mise sulla parte posteriore la croce a braccia orizzontali (nel lembo anteriore una semplice "colonna"). Oggi i tipi ornamentali variano, ispirati talvolta a temi o simboli dell'anno ecclesiastico. Soltanto dall'ultimo secolo data la prescrizione, ma per fissare un uso secolare, di usare la seta per la p.; le stoffe di mezzaseta non sono più permesse. Sono conservate nei musei e nelle sagrestie delle cattedrali p. fatte di lana, di tela, di cotone, e durante la guerra dei Trent'anni quelle di cuoio, o tessute di paglia. Ma di regola furono usate stoffe preziose, talvolta provenienti dall'Oriente (nell'antichità rinomate le fabbriche d'Alessandria, Damasco, Bisanzio; nel medioevo le fabbriche dei Saraceni in Sicilia e in Spagna; preziosi damaschi, broccati e velluti provenienti da Genova, Lucca, Milano e Venezia). Fino al sec. XII prevalsero stoffe di unico colore o disegno, in seguito furono usate di preferenza stoffe con qualche disegno geometrico o floreale, specialmente il melograno (forse in riferimento a Es. 28, 33) o con figure di animali veri o fantastici. Questi disegni non erano specificamente cristiani, ma provenivano dall'Oriente. La p., perché si mette sulle spalle. viene considerata come simbolo del giogo del Signore, e nell'indossarla il sacerdote dice: "Domine, qui dixisti iugum meum suave est". 2. Piegata (Planeta plicata). - Nei giorni di lutto e di penitenza i ministri sacri, invece della dalmatica o della tunicella, usano la p. piegata; cioè la parte anteriore della p. vien avvolta davanti al petto. o addirittura tagliata poco prima della metà. Il suddiacono, prima della lettura, depone la p. piegata, per riassumerla dopo; il diacono, invece, dal Vangelo alla Comunione, deposta la p., indossa il cosiddetto stolone, per esser più libero nel servire all'altare. Bibl.: J. Braun, Die liturgische Gewandung im Occident und Orient, Friburgo in Br. 1907; id., Handbuch der Paramentik, ivi 1912, pp. 119-40; (ed. it., I. paramenti sacri, Torino 1914, pp. 93-109); J. Roulin, Vêtements liturg., Parigi 1930; G. Destefani, La S. Messa nella liturgia romana, Torino 1935, pp. 209-21; C. Callewaert, Liturg. Institut., III, 1, Bruges 193'7, pp. 66-69, 73; M. Righetti, Man. di stor. liturg., I, Milano 1950, II ed., pp. 499-507. Pietro Siffrin ARTE. - Musaici e affreschi dei secc. V, VI e VII (cappella di S. Satiro in S. Ambrogio a Milano, S. Apollinare in Classe a Ravenna, S. Agnese fuori le Mura a Roma, catacombe di S. Ponziano, ecc.) già documentano l'esistenza della p. come parte essenziale dei vestimenti liturgici. Di p. a campana se ne conservano una ventina in Germania, fra cui a Magonza, Monaco, Erfurt, Iburg, Würzburg, Niederaltaich, Deutz, Xanten, Brauweiler e in Italia a Castel S. Elia. Il processo di accorciamento si può seguire nella raccolta di p. del Tesoro del duomo di Halberstadt, mentre Castel S. Elia, nella campagna romana, offre una serie completa di p. nelle diverse fasi di sviluppo. Tra le p. medioevali, le più antiche, appartenenti al sec. XI, sono due nel Tesoro del duomo di Bamberga c quella famosa di S. Stefano del Tesoro della Corona di Ungheria a Presburgo, tutte e tre lavorate in oro su fondo di seta. Altre notevoli p. dei secc. XII-XIII sono quelle di S. Paolo in Carinzia: del duomo di Erfurt; del duomo Fermo (ritenuta di s. Tommaso Becket) del b. Bernardo degli Uberti (1133); di Firenze in S. Trinita, affine a quella del duomo di Pistoia; del Tesoro di Anagni, di lavoro inglese, anche essa come le precedenti completamente ricamata. Sempre ad Anagni, trovasi altra p. di lavoro ciprense, forse palermitana, in diaspro rosso ricamato in oro, col consueto motivo bizantino delle coppie di pappagalli affrontati. Ricami di scuola romana ha la p. di Benedetto XI (m. nel 1304) del duomo di Velletri e dell'Italia centrale sono le figure degli Apostoli nella p. di S. Corona a Vicenza. La p. di S. Domenico nel Tesoro del duomo di Tolosa presenta didascalie gotiche tra tralci orientali e figure di fenici e pavoni, di tipo palermitano. Sono strettamente legati alla pittura umbra e toscana del Quattrocento i motivi sacri della p. del Seminario vescovile di Montalcino con la scena dell'Adorazione e gli Angeli che sorreggono un'iscrizione sul baldacchino. Appartengono al sec. XIV parecchie p. in broccato e in damasco della chiesa di S. Maria in Danzica. Sul finire del Quattrocento si ha un esempio di esuberanza decorativa nella p. del duomo di Orvieto. Al sec. XV risalgono le p. del duomo di Montefiascone, della pieve di Prosto di Piuro (Chiavenna), della parrocchiale di Busto Arsizio e quella stupenda con figure di angeli in scompartimenti ad esagono e le rappresentazioni del Battesimo e della Trasfigurazione del Museo di corte di Vienna. Al sec. XVI, attribuita per il disegno a Raffaello ed eseguita da Antonio Peregrino appartiene la p. con i simboli degli Evangelisti nel Museo dell'opera di Siena e inoltre la p. di Giulio II nel duomo di Savona, cui si ricollega per il disegno dell'ornato la p. del Museo dell'opera di Perugia del card. Armellini. Moltissimi sono ancor oggi gli esempi di p. ben conservate dei secc. XVI-XVII-XVIII (ad es., la p. Passerini con gli emblemi degli Evangelisti c lo stemma Borgia nella cattedrale di S. Francesco a Cortona, che si dice indossata da Leone X nel 1515; quella della fine del '500 della cattedrale di Recanati con il consueto motivo a melograno e rami di quercia stilizzati. Motivi a rami fioriti in rosso e oro sono nella p. della chiesa di S. Donato a Siena, come altre variazioni del genere mostra la p. detta dell'arcivescovo Giuliano de' Medici nella cattedrale di Pisa). Altri disegni del pieno '600 sono quelli dei ricchi velluti della p. della chiesa di S. Francesco a Castiglione Fiorentino e del duomo di Aosta. A Roma notevole è la raccolta della chiesa di S. Maria della Vallicella. Sembra imitare le meravigliose trine del Settecento la finezza di disegno di una p. della collezione dei Musei d'arte nel Castello Sforzesco e di altra della chiesa di S. Antonio Abate a Monreale, così come la finissima p. di S. Raimondo al Rifugio a Siena. Preannunciano lo stile Impero p. con decorazioni a righe orizzontali della fine del sec. XVIII (chiesa del Purgatorio a Venosa). Di indubbia influenza orientale è il broccato della p. settecentesca della chiesa di S. Andrea a Siena. Bibl.: oltre ai trattati di storia dell'arte (ad es., Venturi, Toesca, Springer-Ricci), cf. A. Lessing, Die Gewerbesammlung des Kunstgewerbe-Museum, Berlino 1905; O. Falke, Kunstgesch. der Seidenweberei, ivi 1921 ; F. Podreider, Storia dei tessuti d'arte in Italia, Bergamo 1928; L. Serra, Mostra del tessuto italiano, Roma 1932; J. Mannowsky, Der Danziger Paramentenschatz, Danzica 1932. Luisa Mortari da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 1328-1331 PISSIDE Vaso liturgico per la conservazione dell'eucaristia per la comunione, da pyxis, pyzos, lat. pyxis, scatola, vasetto rotondo poligonale per medicine, unguenti, profumi, ecc. in bosso, in altro legno, in metallo, ma più specialmente in avorio. Dal secolo XII si dette alla patena un piede con nodo; la sua forma si assimilò a quella del calice. Questa forma si conserva tuttora; ma dopo il Concilio Tridentino, quando aumentò l'uso della Comunione privata fuori della messa, la coppa divenne più ampia. 30 PIVIALE (Pluviale, cappa, mantus) Manto liturgico di forma semicircolare, lungo fin quasi ai piedi, aperto davanti e fermato sul petto da un fermaglio. La parte posteriore è ornata dal cosiddetto "scudo". Non trae origine dall'antica lacerna, e neppure dall'antica paenula, essendo esse da lungo tempo fuori dell'uso civile quando il p. venne adoperato nel culto liturgico. Sembra derivi piuttosto dalla cappa corale chiericale o monastica dei secc. VIII e IX, distinta dalla pianeta a campana della stessa forma perché aperta davanti (o almeno con aperture per passarvi le mani) e munita di cappuccio, che si portava in coro e alle processioni, di panno nell'uso quotidiano, di seta nelle feste. Nel sec. IX non si trova ancora annoverato tra le vesti liturgiche (Amalario designa ancora la pianeta come veste liturgica comune a tutto il clero). Dal sec. X i cantori cominciavano ad usare la cappa festiva invece della pianeta, seguivano i sacerdoti nelle funzioni fuori della S. Messa, specialmente all'incensazione nelle Lodi e nei Vespri (donde il nome tedesco Rauchmantel = manto dell' incensazione; Vespermantel = manto del Vespro). Alla fine del sec. XI la cappa finisce per diventare una veste liturgica in tutte le funzioni fuori della S. Messa, restando la pianeta esclusivamente propria della S. Messa; c vien portata non soltanto dai sacerdoti o vescovi, ma da tutto il clero, dai cantori e dai ministri inferiori. In Italia si preferisce il nome di p. perché ha la forma di un manto che protegge dalla pioggia e dalle intemperie, mentre fuori d'Italia si chiama cappa, in Spagna anche mantus. Vien fatta, di regola, di seta e segue le regole dei colori liturgici. Bibl.: E. Bishop, The origin of the cupe as a church vestment in Dublin Review, genn. 1897, p. 1 sgg.; J. Braun, Die liturg. Gewandung im Occid. und im Orient, Friburgo in Br. 1907, pp. 306 358; id., Die liturg. Paramente, ivi 1912 (trad. it., I paramenti sacri, Torino 1914. pp. 110-16); E. Bishop, Liturgica historica, Oxford 1918. pp. 260-75; C. Callewaert, De pluviali, in Collat. Brugenses, 26 (1926), pp. 166-71; id., Sacris erudiri, Steenbrugge 1940, pp. 227-30; M. Righetti, Man. di st. liturg., I, II ed.,. Milano 1950, pp. 510-11. Pietro Siffrin ARTE. - Quanto alla forma, in origine il p. non si distingueva dalla pianeta a campana se non per essere provvisto di cappuccio; non sempre era aperto davanti, mentre dal sec. XI in poi prevalse definitivamente la cappa aperta e la sua forma non mutò fino ad oggi. Varie trasformazioni subirono invece le guarnizioni e il cappuccio; le prime, da molto semplici e strette si andarono via via allargando e ornando di ricami, specialmente a figure; il secondo, dal sec. XI in poi, perse la sue funzioni di copricapo e nella seconda metà del sec. XII divenne un puro ornamento, diminuì le sue dimensioni si ridusse ad un cappuccio in miniatura. Rimangono esempi di questo tipo di transizione nel duomo di Halbestadt (sec. XII) e in S. Paolo in Carinzia (sec. XIII). Già nei sec. XIII il minuscolo. cappuccio si è tramutato in un pezzo di stoffa piccolo e triangolare, che ricorda ancora il cappuccio solo per la sua forma. Con i secc. XIV e XV il triangolo si trasforma lentamente in uno scudo (clipeus) di proporzioni sempre più ampie e nella seconda metà del Quattrocento prende la forma di un arco ogivale; poi di un mezzo cerchio; nel barocco diventa ovale, giungendo in ampiezza fin oltre al mezzo del vestito. Molta importanza hanno nel medioevo i fermagli dei p.; gli inventari danno un'idea della loro ricchezza e meglio ancora qualche bellissimo esempio rimasto. Più numerosi quelli ornati di figure (duomo di Aachen, Museo d'arti e mestieri a Berlino); più rari quelli ornati di pietre preziose e di perle (S. Pietro a Salisburgo, duomo di Aosta). Lungo l'orlo del p. si trova talvolta una frangia, un gallone o anche dei campanelli in guisa di ciondoli (duomo di Aachen). L'uso del p. dovette crescere con i secoli, secondo quanto documentano gli inventari; nei secc. XIV, XV, XVI si trovano elencati sempre più numerosi, preziosi p. fatti di splendide stoffe (cf. l'inventano del duomo di Praga del 1387 e quello della cattedrale di Lincoln del 1536). Del medioevo si conservano p. interamente ricamati a figure, inscritte in campi rotondi o quadrilateri, disposti in serie parallele al lato retto del p. o in zone concentriche. La maggior parte di questo tipo, di cui si hanno esemplari magnifici anche in Italia, proviene dall'Inghilterra, particolarmente rinomata per questo genere di lavoro ad ago, che prese nei secc. XIII e XIV la denominazione di opus Anglicanum. Fra i più antichi di questi p. istoriati (sec. XIII) si ricordano quello di S. Paolo in Carinzia con le Storie dei ss. Biagio e Vincenzo, quello del Museo Vittoria e Alberto di Londra; in Italia quelli di Ascoli Piceno, di Anagni e del Museo civico di Bologna. Ricami di tipo ciprense palermitano, in oro su diaspro rosso, con pappagalli affrontati sono nel p. di Bonifacio VIII ad Anagni in quello di S. Corona a Vicenza. Del sec. XIV sono gli stupendi esemplari del duomo di Pienza, di S. Giovanni in Laterano, di Toledo, Comminges, Salisburgo. Eccezionali nel sec. XV i tre p. dell'Ordine del Toson d'oro nel Museo di Corte di Vienna, tanto più che dopo il sec. XIII è assai più comune il tipo di p. con ricami soltanto nello scudo e nella guarnizione. Esempi notevoli di questo tipo sono in S. Maria in Danzica, nella cattedrale di Xanten, nel Museo di Berna. In tempi posteriori l'intero p. è ornato di ricami a motivi ornamentali e soltanto lo scudo e la guarnizione sono ricamati con figure; bell'esempio il p. in teletta d'oro nella chiesa di Gandino, il p. detto di Urbano V a Montefiascone e altro nel Tesoro della cattedrale di Aosta. Internamente ornati di motivi floreali sono i p. della chiesa di S. Donato a Siena e della pieve di S. Lorenzo a Montefiesole. Esempi di sontuosa colorazione a giardino sono i p. di scuola veneziana del principio del sec. XVI di S. Tomà a Venezia e della collezione Larcade a St-Germain en Laye; sempre opera veneziana il p. in velluto broccato con Annunciazione e otto figure di santi nel Museo nazionale di Firenze e quello del duomo di Recanati. Notevolissimo quello del duomo di Genova, i cui disegni si riferiscono a Pierin del Vaga. Motivi fantastici ispirati all'arte orientale sono nel p. settecentesco del duomo di Ancona, e capolavoro dei tessuti di ganzo è il p. del sec. XVIII della basilica di Gandino, analogo ad un parato della basilica di Alzano Maggiore e ad un altro della chiesa dell'ospedale maggiore di Bergamo. Bibl.: J. Dreger, Europäische Weberei und Stickerei, Vienna 1904; I. Evrera, Un tesoro di stoffe ricamate, in Rassegna d'arte, 1912, pp. 171-74; A. Christie, A reconstructed embroidered copie of Anagni, in Burlington magazine, 48 (1926), pp. 65-77; E. Podreider, Storie dei tessuti d'arte in Italia, Bergamo 1928; J. Kendrick, English embroidery, Londra 1933. Luisa Mortari da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 1591-1594 "PLACARE CHRISTE SERVULIS" Inno dei vespri della festa di Ognissanti, di autore sconosciuto; lo si ritrova nei manoscritti fino al secolo X. È una successione di invocazioni alle varie categorie di santi perché impetrino la Grazia della salvezza. I correttori sotto Urbano VIII hanno rifatto quasi completamente quest'inno, che nell'originale incominciava: Christe, Redemptor omnium. Bibl: J. Wackernagel, Das deutsche Kirchenlied, I, Lipsia 1864, pp. 321-34; U. Chevalier, Poésie liturgique. Rytme et histoire, Parigi 1893, p. 247; C. Albin, La poésie du Bréviaire, Lione a. a., pp. 369-73; A. Mirra, Gli inni del Breviario romano, Napoli 1947, p. 241. Silverio Mattei da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, col. 1596 Plain chant musical Nel 1669 Henri Du Mont pubblicò cinque messe che son divenute universalmente celebri. Sembra che egli sia stato anche l'inventore del termine con cui si designano quelle composizioni religiose dei secc. XVII e XVIII che sono in opposizione alla polifonia perché monodiche, benché non derivanti dal gregoriano. L'origine del p. c. m. si presenta come un compromesso tra il canto gregoriano e il gusto moderno, ed ha l'intento di offrire pezzi facili per tutti. Pretende inoltre di essere più semplice del gregoriano. Dalla tonalità moderna prende i toni maggiori e minori, le modulazioni, la fraseologia, e 31 le cadenze ed i cromatismi; dalla notazione figurata le lunghe, le brevi e le semibrevi. Coltivato in Francia da Bourgoing (1634), da Cl. Chastelain, J.-B. de Contes, Du Mont, Nivers, il figlio di Lulli, Poisson, Leboeuf, trovò il suo migliore teorico in La Faillée (1748) e fu usato nelle neoliturgie gallicane. Suo capolavoro è la famosa Messa Trompette. Bibl: notizie sparse in J. d'Ortigue, Dict. de p. c., Parigi 1857; J. Combarieu, Histoire de la musique, I, ivi 1924, pp. 201-203; II, ivi 1925, p. 249; M. Brenet, Dict. de la musique, ivi 1926, p. 357 Eugenio Cardine da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, col. 1598 PLICATA Vedi PIANETA Pianeta plicata e stolone I diaconi e suddiaconi non usano la pianeta che nei giorni in cui, secondo un'antica consuetudine, non devono portare la dalmatica e la tunicella, però, come nota espressamente il Messale, solo nelle Cattedrali ed altre Chiese principali, non nelle piccole dove in tali giorni essi devono fare le funzioni senza la veste esteriore. Essi devono anche per distinguersi dal sacerdote portare la planeta plicata cioè o arrotolare o ripiegare la parte anteriore fin sul petto, o come si fa ora a Roma, raccorciarla in modo che arrivi solo al petto. Il suddiacono la porta così tutto il tempo della Messa, tranne mentre canta l'epistola, ché allora la depone. Il diacono ritiene la planeta plicata fino al vangelo; allora se la toglie, la ripiega su se stessa a forma di striscia, se la mette a mo' di sciarpa e continua così nel suo uffizio fin dopo la comunione, ed allora se la rimette come in principio della Messa. Perché il ripiegare la pianeta moderna a forma di striscia non è cosa commoda, si permette che dal Vangelo in poi si sostituisca con una semplice benda, la quale per la sua somiglianza colla stola, è detta nel Messale stola latior (stolone); ma non è per niente una vera stola e perciò non deve avere la croce come la stola (1). ln Allemagna la planeta plicata non si usa più. da G. Braun, Paramenti sacri. Loro uso storia e simbolismo, trad. it., Torino, 1914, p. 96. POSTCOMMUNIO Nel rito latino (romano, ambrosiano, gallicano e mozarabico) è l'orazione che si dice dal sacerdote dopo la Comunione e il canto alla communio del popolo, introdotta con Dominus vobiscum; detta perciò Postcommunio (talvolta anche ad Communionem) già nei libri cosiddetti Gelasiani, mentre nel Gregoriano si legge Ad complendum o Ad completa, cioè per compiere la messa. Il P. si recita, terminato il sacrificio, "in cornu Epistolae", non più nel mezzo dell'altare. Con la Colletta e la Secreta ("Super Oblata" del Gregoriano) il P. si trova negli antichissimi testi del rito latino del sec. V-VI; ha la stessa struttura di queste orazioni, varia secondo le feste e collega la Comunione con esse o con il periodo dell'anno ecclesiastico. Nel rito latino il P. non è tanto un ringraziamento della Comunione, come nella liturgia orientale, ma piuttosto una supplica affinché la Comunione abbia la sua piena efficacia, sia purificaz9ione delle colpe (remedium, subsidium, munimen, medicina caelestis), pegno della vita eterna ("redemptionis nostrae pignus", "immortalitatis alimonia"), l'unità con Cristo ("inter eius membra numeramur, cuius corporis communicamur et sanguini"). Bibl. H. Batiffol, Leçons sur la Messe, Parini 1923, 296-99; G. Brinktrine, La S. Messa, Roma 1945, pp. 263; M. Righetti, Manuale di storia liturgica, III, Milano 1949, pp. 436-37; I. A. Jungmann, Missarum sollemnia, II, Vienna 1949, pp. 509-16. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, col. 1839 PREFAZIO È la preghiera solenne di lode e di ringraziamento cantata o recitata, finito l'Offertorio, all'inizio dell'azione del sacrificio. La voce "prefazio" deriva dall'antico uso di una formola o preghiera solennemente proferita davanti un'assemblea. PRESBITERIO (sacrarium, santuario) Lo spazio destinato al vescovo e ai sacerdoti nelle funzioni sacre. Si trovava di fronte all'entrata, un po' elevato con uno o più gradini, corrispondente così alla parte detta "pretorio" dell'antica basilica pagana, e terminava di regola con un'abside semicircolare, rettangolare o poligonale. In fondo all'abside si metteva la cattedra del vescovo, a destra e a sinistra semplici banchi di pietra per i sacerdoti (i diaconi non si sedevano mai, ma assistevano in piedi). L'altare si innalzava dinanzi alla cattedra sotto l'arco detto "trionfale" della basilica. Dal medioevo, quando l'altare maggiore si avvicinò al muro tenendo così il posto della cattedra, il luogo immediatamente prima dell'altare, lo spazio cioè dove si svolgevano i servizi sacri, si chiamò p. Alla sinistra, detta in cornu Evangelii nelle cattedrali si metta la cattedra o il trono del vescovo; di fronte, alla parte dell'epistola, si trovano i banchi o i sedili per i ministri sacri parati. Verso il popolo un basso parapetto divisorio, detto "pergola", lettorio, iconostasi (oggi balaustra), serviva a separare il p. dalla navata, riservata ai fedeli, onde assicurare all'altare una sufficiente zona di rispetto, entro la quale nessun laico doveva entrare, specialmente durante la celebrazione delle funzioni sacre; alle donne era vietato l'accesso al santuario. Bibl.: Moroni, LV, coll. 160-70; I. Sauer, in LThK, VIII, p. 452; G. Perardi, La dottrina cattolica. Il culto, I, Torino 1938, pp. 223-26; M. Righetti, Manuale di storia liturgica, I, Milano 1950, pp. 351-62, 438-39. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano, 1952, coll. 1960-1961 PRIMA Ora canonica che si recita all'inizio del giorno. Si compone di due parti distinte, prima propriamente detta (ufficio del coro) e ufficio del capitolo; l'una si diceva in coro, l'altra invece nella sala del capitolo. PONTIFICALE È il libro liturgico che contiene la descrizione (rubriche) e le formole delle funzioni riservate normalmente al vescovo (pontifex). PURIFICATORIO (abstensorium, extersorium) Piccolo rettangolo di lino (cm. 25/30 x 40/50) che serve nella messa per asciugare le dita, le labbra e il calice dopo la seconda abluzione, per purificare la patena prima di deporvi l'ostia consacrata dopo il "Pater noster"; e il calice prima di infondervi il vino e l'acqua all'Offertorio. 32 QUARANTORE Per onorare Gesù Cristo durante le 40 ore in cui giacque morto nel sepolcro, in un tempo non bene determinato invalse la pratica liturgica di deporre l'Ostia consacrata nascosta in apposito altare sotto forma di sepolcro. Il passaggio da questa forma all'attuale forma di esporre il S.mo Sacramento per 40 ore continue all'adorazione dei fedeli per propiziarsi la clemenza del Signore, avvenne nel 1527 nella chiesa di S. Sepolcro a Milano per iniziativa dell'agostiniano Antonio Bellotto di Ravenna. QUIÑONES, FRANCISCO DE Cardinale, nato a León nel 1450, morto a Veroli il 27 ottobre 1540. Il suo nome resta legato a uno dei tentativi più audaci di riforma del Breviario. RAZIONALE (Liturgia) 1. Ornamento liturgico, usato nel medioevo, detto superhumerale, Logion, che si portava dai vescovi sulla pianeta nella messa, come un pallio ma senza il significato che questo aveva. 2. Variante del razionale era una placca d'argento o d'oro (in luogo di quella di stoffa) con catenelle o fibule, attaccato all'amitto. RITO (Nella liturgia cattolica) Nel senso proprio, il modo o l'ordine con cui si eseguiscono le varie funzioni sacre, cioè le cerimonie della messa, dell'ufficio, dell'amministrazione dei sacramenti e sacramentali: così si parla del "ritus celebrandi missam", del "ritus baptizandi", del "ritus consecrationis altaris". RITUALE ROMANO Libro liturgico della Chiesa latina per i sacerdoti, contenente le cerimonie per l'amministrazione dei sacramenti, per l'assistenza agli infermi e i formulari delle numerose benedizioni. ROCCHETTO (camisia, alba romana, succa, saroth, sarcotium, satcos, rocchettum, diminutivo del basso latino roccus "abito"). È una veste di lino bianco portata dal papa, dai cardinali, dai vescovi e dai prelati come distintivo della loro dignità. È una forma di camice ridotto con le maniche lunghe e strette ornate di pizzo sovrapposto alla seta bianca, rossa o violacea, a differenza della cotta che ha le maniche larghe e corte. Il r. non si porta da solo, ma con la mozzetta, la mantelletta o la cappa nel coro, nelle processioni, nelle prediche ecc: Per la celebrazione della Messa e per l'amministrazione dei Sacramenti è necessario sovrapporre al r. il camice o la cotta. La prima notizia di un "camice et cingulum", prima di indossare l'alba propriamente detta, si trova nell'Ordo Romanus VIII, I, 1 e II, 2. 4 del sec. IX. (M. Andrieu, Les Ordines Romani, II, Lovanio 1948, pp. 310-17, 321). Era in uso presso i Franchi indossare fra le profane e le sacre una veste intermedia ("une sorte d'écran"), una manica, per coprire gli indumenti profani; già nel sec. VII, anche lo pseudo-Germano (Ep., II) accenna alle "manicae" della liturgia gallicana "ne appareat vile vestimentum" (M. Andrieu, loc. cit., 313 n. i). L'uso gallicano o franco si propagò dappertutto; in Inghilterra (can. 46), sotto Edgario (m. 975), fu sancito nei Sinodi di Treviri del 1238 e di Colonia di 1260 (can. 7). Questa) camicia si portava da tutti i chierici, persino dai campanari. A Roma il r. venne in uso con la recezione del Messale e Pontificale germanico, ma vi divenne ben presto una prerogativa del clero superiore; già il Concilio Lateranense IV (del 1215) raccomandò ai vescovi secolari di portare anche fuori della chiesa "superindumenta linea"; il neoeletto papa (cf. Ordo Gregorii X [1271-76]: M. Andrieu, Le Pontifical, II, Città del Vaticano 1940, p. 527; Ordo Romanus XIII, 3 e XIV, 10: PL 78, 1106 e 1127) portava quest'indumento. Il r. è consegnato al neovescovo, se presente a Roma, dal papa stesso (Caerem. episc., l. I, cap. 1, n. 2). Nel medioevo, fino al sec. XIII, il r. era una tunica senza ornamenti scendente fino ai talloni e legato alla cintura; dal sec. XIV e XV s'incominciò ad accorciarlo per arrivare nel sec. XVI-XVII fin sopra le ginocchia omettendo la cintura, nel sec. XVIII poi arrivò a coprire appena le anche ma era riccamente guarnito di merletti o pieghettato. Il nome "r." occorre già a Roma nel sec. XIV. Bibl. I. Braun, Handbuch der Paramentik, Friburgo 1912, pp. 201-203; M. Righetti, Man. di stor. liturg., vol. I. II ed., Milano 1950, pp. 498-99. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, X, Città del Vaticano, 1953, coll. 1055-1056 RUBRICHE I. NOZIONE. Per r., in senso liturgico, s'intendono le prescrizioni che regolano lo svolgimento del culto della Chiesa. Esse si trovano o riunite in appositi libri (p. es., il Caeremoniale episcoporum e il Memoriale rituum) o raggruppate all'inizio dei libri liturgici (come nel Messale, nel Breviario e nel Martirologio), o all'inizio delle singole parti o titoli (come nel Rituale, prima del rito di ogni Sacramento e delle benedizioni), o, infine, inserite tra una formola e l'altra. Per distinguere meglio i testi dalle norme che ne regolavano l'uso, nei codici si co minciò a scrivere le norme in rosso; di qui rubricae. Nella Roma classica, r. si chiamò una terra che, stemperata nell'acqua, serviva ai falegnami per tracciare le righe o fare i segni, nel punto in cui bisognava fare il taglio del legno con la sega (cf. Orazio, Sat., 2, 7, 98). Gli amanuensi delle raccolte legislative se ne servirono per scrivere in rosso i titoli delle leggi. Dai titoli il nome passò a designare la legge stessa. Lo ricorda Giovenale quando scrive: Perlege rubras maiorum leges (Sat. 14). Anche nel campo giuridico ecclesiastico, r. indicò poi il titolo e il breve sommario premesso ai singoli canoni. Dal diritto canonico il termine passò alla liturgia, probabilmente quando, per maggiore praticità, si riunirono in uno stesso volume le formole dei Sacramentari, Lezionari, Graduali, ecc. le norme direttive furono scritte in rosso e il testo in nero, e il nome r. finì per indicare le leggi liturgiche in genere, anche quando esse furono regolarmente scritte in nero. II. FORMAZIONE. Le prime r. (o piuttosto norme rituali) semplicissime, come semplicissimi erano i riti, dovettero essere trasmesse oralmente. I Sacramentari racchiudono già embrionalmente qualche indicazione rubricale. Difatti il Gelasiano ne ha 67, il Gregoriano, nel fondo primitivo, 26, mentre il Leoniano nessuna. Gli Ordines romani, che sono le prime raccolte 33 sistematiche rubricali della Chiesa latina, costituiscono veri e propri cerimoniali. Nell'Ordo di Aimone da Faversham (m. nel 1244), generale dei Francescani, ben noto nella storia liturgica, si legge sei volte l'espressione rubrica Ordinarii. La parola era allora passata dal campo giuridico a quello liturgico. Più frequente è l'uso di rubrica per Ordo o Ordinarium: ad es., Incipit Rubrica sive Ordo per circulum anni secundum consuetudinem Ecclesiae civitatis Austriae... E ancora: Hec Rubrica sive Ordo est qualiter et quo tempore episcopi... I Minori adoperarono il termine in questo senso. Così la Rubrica Parisiensis è un vero Ordo per le antifone speciali prima di Natale, pubblicato nel 1263 per ordine del Capitolo generale di Pisa (Arch. franc. hist., 4 [1911], p. 69). Tre anni dopo il Capitolo di Parigi raccomandò l'osservanza dell'Ordo di Aimone: Uniformiter se habeant (fratres) secundum Ordinationem et rubricane illam... Indutu planeta. Questo senso si mantenne fin dopo la metà del Trecento, quando si è informati che Aimone fecit illam rubricam de agendis in missa (Anal. Franc., 3 [1887], p. 247). Ma certi statuti francescani d'Aquitania alla fine del '200 ancora più genericamente dicono: In divino officio servetur rubrica et cantus Ecclesiae Romanae (Arch. franc. hist. 7 [1914], p. 475). Sicché i due significati generico e specifico nella seconda metà del '300 sono promiscuamente usati (contro l'opinione del Vykoukal, s. v. Rubriken, in LThK, VIII, coll. 1032-33, secondo il quale il termine r. non apparirebbe prima del '300). Si può aggiungere che s. Bonaventura, generale dei Francescani, dal 1260 al 1272, rimanda varie volte alle r., intese nel duplice senso. Lo stesso Aimone nell'Ordo Breviarii conosce il termine nel senso moderno. In conclusione la doppia, terminologia risale almeno alla prima metà del sec. XIII. Errata è pure l'opinione, frequente negli autori moderni, di assegnare a s. Pio V le raccolte generali delle r. (rubricae generales). Già cod. di Oxford (Bibl. Bodley, segn. Can. miscell. 75) nella seconda metà del sec. XIV chiama le Ordinationes francescane: Rubricae de modo officii ecclesiastici. Nel 1481 Filippo di Rotingo pubblicò le Rubricae ad informandos pusillos. Nello stesso anno, a Venezia, Francesco Ranner stampò, un Breviario romano con la Rubricae declaratoriae seu correctoriae. Senza parlare delle Rubricae novae, segnalate d G. Mercati (v. op. cit. in bibl.). Da questo periodo si celermente verso il significato, poi rimasto, del termine e verso le ufficiali raccolte generali e particolari della liturgia unificata. Le edizioni tipiche dei libri rituali della liturgia latina, cioè Breviario (1568), Messale (1570), Martirologio (1583), Pontificale (1598), Cerimoniale d vescovi (1600), Rituale (1614), furono corredati da abbondanti r. generali e particolari. L'interpretazione e l'aggiornamento furono affidati da Sisto V alla S. Congr. dei Riti (1587). Nei secc.XVI-XVIII le r. dei libri liturgici furono oggetto di accurati ed ampi studi da parte di buoni liturgisti come il Gavanti, Merati, Quarti, Cavalieri, Bauldry (poi A Carpo, de Herdt, Martinucci, Menghini, Baldeschi, Moretti, Le Vasasseur-Haegy), che hanno posto le basi del diritto liturgico. III. DIVISIONE. 1. In base al loro oggetto le r. si dividono in: a) essenziali, e sono quelle che appartengono all'essenza di un rito e dalla loro osservanza dipende la validità dell'atto che si pone; b) accidentali sono le r. riguardanti cerimonie introdotte dalla Chiesa, generalmente non richieste per la validità, ma per la liceità dell'atto, come nel Battesimo gli esorcismi, le rinunce, la veste candida, la lampada ardente. 2. Secondo l'estensione le r. sono: a) generali e costituiscono come i principi fondamentali, da applicarsi a tutte le cerimonie, contenute in quel dato libro liturgico; b) speciali, quelle che regolano il compimento di una cerimonia o rito particolare. 3. In base alla loro obbligatorietà le r. sono: a) precettive, se prescrivono tassativamente qualcosa o sono indispensabili per il compimento di un rito; b) direttive, se propongono qualche cosa per modum consilii o lasciano facoltà di scegliere tra due modi di agire o tra il compier o non compiere un'azione. Le r. direttive sono dette anche facoltative. IV. OBBLIGATORIETÀ. Per secoli si è disputata fra moralisti e liturgisti (rubricisti) la questione, se tutte le r. obbligano in coscienza, e fino a qual punto. Per un esame oggettivo della questione va premesso: le r. sono leggi vere e proprie e come tali obbligano (CIC, can. 818), per conseguenza rientrano necessariamente nell'ambito della morale, come ogni atto umano, e ammettono una gradazione di bontà e di responsabilità. La questione può perciò proporsi in questi termini: a) le r. essenziali evidentemente sono precettive. Si tratta dell'essenza e quindi della validità dell'atto liturgico, che non si può frustrare (la gravità va computata secondo i principi morali, circa la materia, l'imputabilità morale della colpa, ecc.). Quando la r. accidentale non dice apertamente se è o non è facoltativa, né ciò si può desumere da altri elementi, allora la presunzione sta dalla parte della legge e deve ritenersi che la r. obblighi in coscienza. Si prova: a) dal pensiero della Chiesa: il Concilio di Trento (sess. VII, c. 13) dice: "Si quis dixerit, receptos et approbatos Ecclesiac Catholicae ritus... sine peccato a ministro pro libito suo omitti, aut contemni, aut in novos alios per quemcumque ecclesiarum pastorem mutari posse: ananathema sit" (cf. Rituale romanum, tit. I, 1, 2). Le costituzioni pontifificie poste all'inizio dei libri liturgici: "districte ", "in virtute sanctae obedientiae praecipiunt", "auctoritate apostolica decernunt", "iubent", "mandant", ecc. sono espressioni che manifestano l'evidente volontà della Chiesa che quelle norme e quelle formole siano osservate per l'unità e la purezza del culto. La stessa S. Congr. Riti ha ribadito e ribadisce continuamente lo stesso pensiero, serventur rubricae, iuxta Caeremoniale [Episcoporum], standum Rituali, mandat... in omnibus et per omnia servari rubricas Missalis. Il Cathechismus ad parochos (II, 1, 18) afferma: "Caeremoniae... praetermitti sine peccato non possunt"; e il Conc. Romano del 1725 (tit. 15, c. 1): "Ritus qui in minimis etiam sine peccato negligi, omitti vel mutari haud possunt, peculiari studio ac diligentia serventur"; b) dalla natura delle r., fissate perché non possa restare dubbio sulla validità del Sacramento e perché non si apra la porta all'arbitrio e al lassismo. Solo se si osserva il rito (cerimonie e formole) della Chiesa la liturgia costituisce il suo culto ufficiale; c) dalla comune sentenza dei Dottori, che con s. Alfonso dicono precettive le r. Queste ragioni inducono a ritenere che le r., anche accidentali, prese nel loro insieme sono precettive ed obbligano; ma non si può affermare che prese singolarmente abbiano la stessa forza; anzi talune non possono ammettere in nessuna maniera la colpa (come la r. del Messale Rit. serv. I, 3 che prescrive al celebrante di infilare prima il braccio destro e poi il sinistro nell'indossare il camice). Può darsi anzi, che nelle cose di minor conto con l'andar del tempo si sia introdotta qualche consuetudine, che l'autorità o direttamente o indirettamente approva, e così il fatto nuovo, diventato legittimo, muta l'obbligatorietà della r. V. INTERPRETAZIONE. Per conoscere se una r. sia precettiva o no è necessario esaminare: a) i termini, con cui è formulata; b) la materia, se cioè appartiene all'essenza o integrità del Sacramento o della funzione, se tocca i principi fondamentali della liturgia o è basilare per il senso dottrinale o il significato simbolico; c) le dichiarazioni, se ve ne sono, date dalla S. Congr. dei Riti; d) Le opinioni dei probati auctores di liturgia e di morale. Bibl.: trattati generali: P. Piacenza, Expositto noviss. rubric. Brev. rom., in Ephem. lit., 1 (1887), p. 21 sgg.; G. B. Menghini, Elemen. iuris liturgici, Roma 1907, pp. 106-23; C. Callewaert, Liturgia universim, Bruges 1925. pp. 106-11; L. Eisenhofer, Handb. der kathol. Liturgik, I, Friburgo in Br. 1932, 50-51; F. Oppenheim, Instit. systematico-histor. in sacram liturgiam, t. III, parte 2, Torino 1939, pp. 68-99; M. Righetti, Man: di stor. liturg., I, Milano 1950, pp. 18-21. Studi particolari: G. Mercati, Appunti per la stor. del Brev. rom. nei secc. XIV-XV, tratti dalle "Rubricae novae", in Rass. gregor., 2 (1903), pp. 398-444: A. Van Dijk, Il carattere della correz. liturg. di fra Aimone da Faversham O.F.M. (1241-44), in Ephem. liturg., 59 (1945), pp. 177223; 60 (1946), pp. 309-67. Annibale Bugnini da Enciclopedia Cattolica, X, Città del Vaticano, 1953, coll. 1427-1429 SANDALI Vedi CALZARI 34 SANTORALE È quella parte del Messale e del Breviario, chiamata anche Proprium de sanctis, che contiene i formulari propri per la messa e l'ufficio di alcune messe a data fissa di Nostro Signore, non inserite nel Temporale, delle feste della Croce, di Maria S.ma, degli Angeli, dei Santi, degli anniversari della dedicazione delle chiese e della Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Parte integrante del Santorale è il Commune Sanctorum, in cui sono raccolti i formulari liturgici comuni a determinate categorie di santi. SECRETA (sottinteso oratio; Super oblata; Sacra) L'orazione della Messa che si recita sulle offerte prima del Prefazio, detta Super oblata nei libri del tipo gregoriano. Il titolo S. ricorre nel Gelasiano antico (cod. Vat. Reg. lat. 316, della metà del sec. VIII) e già un mezzo secolo prima nel cosiddetto Messale di Bobbio (Parigi, Bibl. naz., lat. 13246) si ha collectio secreta, forse un segno della provenienza gallicana. Lo Jungmann spiega il nome dall'uso gallicano di recitare questa orazione a voce bassa, mentre nel rito romano primitivo e tuttora nel rito ambrosiano l'orazione viene detta ad alta voce. La differenza tra l'antico uso romano e quello nuovo gallicanofranco si vede nell0avviso dell'Ordo XV, 35 (Andrieu, 102): "... dicit orationem super oblationes" (oppure oblatas secrete; cf Ordo V, 58) "ita ut nullus praeter Deum et ipsum audiat"; similmente nell'Ordo XVII, 46 (Andrieu, 181); ciò si faceva a cagione di un silenzio rigoroso, imposto a questo punto nella liturgia gallicana, sotto influsso orientale. Dell'uso di recitare a voce bassa la S. si ha una testimonianza del sec. VII-VIII in un graffito del cimitero di Commodilla (v.). Il Righetti invece lo spiega per mezzo di due azioni liturgiche concomitanti - anch'esse nel rito orientale - l'una compiuta dal celebrante in segreto, l'altra dal diacono ad alta voce (il diacono recita i nomi degli offerenti, mentre il sacerdote dice, per economia di tempo, l'orazione sulle offerte). Altre derivazioni, p. es., da secernere o secretio (i fedeli dai catecumeni, le offerte per la consacrazione da quelle per la sola benedizione) o da un equivalente di benedictio o di consecratio (Batiffol) o da una orazione preparatoria al Prefazio o all'azione di consacrazione, detta S. (Brinktrine), sono meno verosimili. La S. entrava nell'ordinario della Messa assieme con le Collecta, Postcommunio, Super populum. Al tempo della lettera di Innocenzo I a Decenzio, nel 416, non vi si trovano. Come la Colletta, s'indirizza di solito al Padre ed è una formola di oblazione: "Accepta sint..."; "Offerimus... "; domanda la consacrazione delle offerte ed implora le grazie sacramentali; spesso in relazione con la festa relativa. L'ultima parte della conclusione si canta ad alta voce. Bibl. H. Leclercq, Secrète, in DACL, XV, 1, coll. 1129-1132; G. Brinktrine, La S. Messa, Roma 1945, pp. 155-58; M. Righetti, Man. di stor. liturg., III, Milano 1949, pp. 287-90; I. A. Jungmann, Missarum sollemnia, II, Vienna 1949, pp. 108-117. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano, 1953, coll. 222-223 SESTA Ora canonica da recitarsi all'ora sesta del giorno (secondo la divisione greco-romana), cioè sul mezzogiorno. L'inno richiama il peso del lavoro e il caldo del giorno per pregare la pace dell'anima nei pericoli della lotta e della passione. Gli scrittori antichi (Ippolito, Constit. Apostol.) mettono la Crocifissione del Signore appunto in quell'ora del giorno. La S. ha la stessa origine e struttura come le altre ore minori del giorno, Terza e Nona. Bibl.: H. Leclercq, Sexte et Tierce, in DACL, XV, 1 coll. 1396-99. C. Callewaert, De Brev. rom. liturgia, Bruges 1939, nn. 212,226, 317, 318; P. Albrigi, Sacra liturg. L'oraz. pubblica, Vicenza 1942, pp. 88-90, 439-41; M. Righetti, Man. di stor. litur., Milano 1946, pp. 421-23, 584-86. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano, 1953, col. 429 SETTIMANA SANTA (Major hebdomada, Hebdomada sancta, Hebdomada authentica) È la settimana antecedente la Pasqua, detta anche "maggiore" o "autentica", perché commemora la Passione, Morte, sepoltura e Risurrezione di Cristo. Oggi i tre ultimi giorni (Giovedì, Venerdì e Sabato) sono detti il triduo sacro e hanno uffici propri. STAZIONE LITURGICA Chiesa in cui si celebrano, in determinate circostanze, le funzioni liturgiche. STOLA (più anticamente orarium) È una insegna liturgica, comune ai diaconi, ai sacerdoti e ai vescovi, ma diversamente portata: dai diaconi sulla spalla sinistra a tracolla e annodata sotto il braccio destro, dai sacerdoti pendente dal collo e incrociata sul petto se sopra il camice o semplicemente pendente con i due lembi paralleli; dai vescovi i quali mai la incrociano perché già portano la croce pettorale. Al diacono e al sacerdote vien consegnata nella ordinazione. È una striscia di seta lunga cm. 200-50, larga cm. 8-10; quella che si porta con la pianeta ha una croce, in mezzo e in fondo a ciascun lembo (sec. XVI), quella che si usa sopra la cotta spesso è più ornata e più ricca. Segue le regole dei colori liturgici. La s. si trova in Oriente fin dal sec. IV come insegna del clero di grado minore (Concilio di Laodicea), con la distinzione: il diacono porta la s. detta "orario" sulla spalla sinistra visibile (non sotto la veste superiore) e svolazzante, il sacerdote invece porta quella detta "epitrakelion" pendente dal collo. I gradi superiori portano il pallio. Tutte e due le insegne sono della stessa origine, non di istituzione ecclesiastica, ma di privilegio imperiale; il pallio fatto di lana, la s. di lino o seta. Nell'Occidente, fuori di Roma, nella Spagna, la s. è propria dei vescovi, dei sacerdoti e dei diaconi. I diaconi la portano sulla spalla sinistra pendente davanti e di dietro sopra la dalmatica, sempre di colore bianco in tela o lana; dal sec. XII a tracolla e a sciarpa e dal sec. XV di colore della dalmatica e sotto di essa. Nel rito ambrosiano anche oggi sopra la dalmatica. I preti della Spagna la portavano attorno al collo come i vescovi, ma fin dal Concilio di Praga del 675 incrociata sul petto; questo modo s'introduce dappertutto dal sec. XIV e venne prescritto per i preti dal messale pianum. In Gallia si trova la s. come insegna dei vescovi, detta "pallio" da pseudo Germano; la s. diaconale si portava sul camice; la s. sacerdotale è nel sec. IX cosi propria dei preti che la portavano anche nei viaggi. A Roma invece non era un'insegna speciale c la portavano anche i suddiaconi e gli accoliti sotto la pianeta; si diceva "orario" ed era più che altro un'insegna distintiva del clero dai laici. Verso il sec. X, quando il suddiacono e l'accolito non portano più la pianeta, la s. diviene insegna propria del diacono, del prete e del vescovo. E da questo tempo l'uso e il significato della s. è uniforme nell'Occidente. L'origine della s. e del nome è ancora oscura. Il nome di orarium (lat. os = bocca, volto) proviene dal latino, mentre la voce "s." 35 deriva dal greco. Il Wilpert fa derivare la voce orarium dei diaconi dalla mappa usata nel servire a tavola, portata sulla spalla sinistra; i diaconi erano ministri alla tavola eucaristica e agapica. I ministri dei sacrifici pagani come gli inservienti a tavola erano provvisti di una tale mappula. Questa mappula diviene mediante la contabulatio, una striscia o fascia. L'orario sacerdotale, un vero orario o sudario da proteggere il volto dal freddo nell'inverno, dal sudore nell'estate, anch'essa passa dalla forma contabulata a quella d'una striscia. Ma tutte queste spiegazioni ne lasciano l'origine oscura, e si preferisce la derivazione di L. Duchesne da un'insegna imperiale, come recentemente ha sostenuto Klauser. La voce "s." proviene dalla denominazione usata in Gallia e derivata dal greco per designare non una veste femminile, ma una veste distintiva in senso scritturale (Apoc. 6, 11; 7, 9, 14). Bibl.: J. Braun. Die liturgische Gewandung, Friburgo 1907, pp. 562-620; id., I paramenti sacri, loro uso, storia e simbolismo, vers. it., Torino 1914, pp. 121-29; L. Duchesne, Les origines du culte chrétien, Parigi 1925, pp. 410, 415; M. Righetti, Man. di stor. liturg., I, Milano 1950, pp. 520-24; T. Klauser, Der Ursprung der bischöfl. Insignien und Ehrenrechte, Krefeld 1950, pp. 17-20. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano, 1953, coll. 1371-1372 STOLONE (stola latior) Striscia di seta del colore liturgico portata dal diacono dal Vangelo a dopo la comunione nelle messe penitenziali, in cui i sacri ministri non portano dalmatica e tunicella. SUCCINTORIO (subcinctorium, subcingulum, perizoma; balteus, praecinctorium, semicinctium) Ornamento del Papa nella Messa solenne. È una striscia di stoffa simile al manipolo ripiegata in mezzo, del colore della pianeta, ornata da una parte con un agnello d'oro, dall'altra con una croce d'oro; viene attaccata alla parte sinistra del cingolo. A Roma il s. non si usava prima del sec. XI. Bruno di Segni (m. nel 1123) e Sicardo da Cremona (m. nel 1215) sono tra i primi a nominarlo. Non viene menzionato negli Ordines Romani primi né dagli scrittori dei seco. VIII-X (Amalario, Rabano, Strabone, Pseudo Alcuino). Però a Ravenna era già in uso nel sec. VII-VIII; venne poi chiamato: balteus (nel Sacramentario di Ratoldo di Corbie), praecinctorium (nella Messa detta Illyrica), semicinctorium (nell'Italia del sud). È proprio dei vescovi (Ordo XIV, 48. 53) dato in privilegio anche agli altri prelati; a Milano portato anche dai preti-cardinali del Capitolo metropolitano. Il caeremoniale Episcoporum Romanum non lo nomina più. Serviva in origine per assicurare la stola, come dicono Durando ("quo stola pontificis cum ipso cingulo colligatur", Rat., III, 1, 3) e s. Carlo Borromeo ("subcinctorium, quo stola cum cingulo connectitur", Braun, op. cit. in bibl., p. 120, n. 5), perché la stola era ancora abbastanza lunga. La stola venne poi accorciata e assicurata col cingolo stesso; il s. divenne un semplice ornamento. Secondo Durando simboleggia la castità del corpo come il cingolo quella dell'anima. Il s. non aveva mai relazione né traeva origine dall'epigonation greco che si portava sempre alla destra ed era in origine un enchirion, un sudario.. Bibl.: J. Braun, Die liturgische Gewandung im Occident und Orient, Friburgo 1907, pp. 117-24; id., I paramenti sacri, vers. it., Torino .1914, pp. 80-81; L. Eisenhofer, Handbuch der kath. Liturgik, I, Friburgo 1932, pp. 423-24; M. Righetti, Man. di stor. liturg., I, Milano 1950. pp. 497-98. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano, 1953, coll. 1478-1479 TABELLA SECRETARUM Vedi CARTEGLORIA TABERNACOLO Dal latino taberna (= baracca costruita con tavole di legno), indica l'attendamento da campo dell'esercito romano; corrisponde a casetta di legno a doppio spiovente con chiusura a tendaggi. Nella bassa latinità equivale a anche a edicola sacra in forma di casa. Nella liturgia cattolica è un'edicola chiusa ed elevata, posta nel centro dell'altare ove si conserva l'eucaristia. TEMPORALE Nella Chiesa latina quella parte dell'anno liturgico che nei libri ufficiali della Chiesa latina porta il titolo Proprium de tempore. TERZA L'ora canonica della terza ora del giorno, che corrisponde alle 9. È la più solenne delle ore minori e precede la Messa solenne nei giorni festivi. L'inno accenna alla discesa dello Spirito Santo; nella festa e nell'ottava di Pentecoste è sostituito con il Veni Creator Spiritus. Nell'antichità, come si sa da Ippolito e dalle Cost. ap., si metteva la terza ora della preghiera in relazione con la condanna del Signore davanti a Pilato. L'ora canonica era dapprima un atto di pietà privata, poi orazione pubblica e canonica dei monaci e, dal sec. V-VI, anche del clero secolare, e la sua struttura è comune a quella delle altre ore minori, la Sesta (v.) e la Nona (v.). Bibl.: C. Callewaert, De Breviarii Rom. Liturgia, Brugge 1930, nn. 212, 226, 317, 318; P. Albrigi, Sacra liturgia. L'Orazione pubblica, Vicenza 1941, pp. 88-90, 439-41; M. Righetti, Man. di st. liturg., Milano 1946, pp. 421-23, 584-86; A. Leclercq, Sexte et Tierce, in DACL, XV, coll. 1396-99. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XI, Città del Vaticano, 1953, col. 2035 TINTINNABOLO Vedi OMBRELLONE TOMMASI, GIUSEPPE MARIA, santo Cardinale, liturgista, storico e teologo teatino, nato a Licata (Sicilia) il 12 settembre 1649, morto a Roma il 1° gennaio 1713. 36 TOVAGLIA (tobalea) Sin dal sec. VI, ma più frequenti dopo il sec. X sono le figurazioni di t. da tavola e da altare in musaici e pitture dell'epoca; anche negli inventari si trovano sovente citazioni di t. dette per lo più ad "opus theutonicum" o "de Alemannia". Sembra si tratti di ricami in bianco su bianco, se non tutte di importazione nordica, certo di imitazione del tipo originario tedesco. Secondo il p. Braun la più antica t. d'altare pervenutaci e ancora conservata è quella rinvenuta nel reliquario di s. Eriberto a Deutz, che precede l'esemplare del "Sancta Sanctorum" del sec. XII, attualmente nel Museo Sacro Vaticano. Altro importante esempio è nel Metropolitan Museum di Nuova York, proveniente da Altenberg. Tutte queste t. presentano un disegno ampio di linee a rete, la maggior parte in forma di rombi, con foglie stilizzate, palmette, aquile, motivi che indicano provenienza varia. Frammento, che si direbbe più tardo, è nel Museo di Schnütgen di Colonia e, della fine del '200, è il mirabile lavoro ad ago detto opera della b. Benvenuta Boiani (1251-92), conservato nel Museo di Cividale, esso pure in bianco su bianco, ma completamente figurato con straordinaria finezza disegnativa, degna di una preziosa opera di pittura. Altri esempi si trovano nel Museo di Hannover, nella chiesa di S. Maria a Danzica c del duomo di Halberstadt: in quest'ultimo, al ricamo in bianco si as socia la presenza di fili in seta a vari colori. In tessuto di lana su lino in verde e porpora è una t. egiziana del Museo Sacro Vaticano, che proviene da Achmin; sebbene la tecnica ricordi ancora l'epoca copta, l'ornato a grande croce centrale e quattro piccole angolari, nettamente stilizzato, indica un'età non anteriore al sec. XIII, tecnica che il Volbach connette a quella di una tunica del Museo di Magonza. Particolare diffusione ha in Italia un tipo di t. che dal medioevo si estende fino a tutto il '300 e '400, fabbricato secondo la tradizione, specialmente a Perugia dalla Confraternita della Mercanzia. Larga documentazione di questo tipo è anche nella pittura (Simone Martini, S. Martino in atto di celebrare la Messa, Assisi, basilica di S. Francesco, riprodotta alla voce Elevazione; Ghirlandaio, Cena, Convento di S. Marco, Firenze, ecc.). Questi tessuti sono in bianco ad opera turchina e raffigurano animali affrontati, castelli, cavalieri, sirene, centauri, scritte o figurazioni sacre, quali l'albero della vita, l'agnello portacroce, cervi, teste di cherubini, colombe, ecc. Si ritengono derivati da più antichi tessuti senesi e cronologicamente è possibile classificarli in base ad un progressivo predominio delle figure sulle più antiche forme geometriche stilizzate, un addolcirsi delle linee, dapprima taglienti e crude, un infittirsi e impreziosirsi del punto che negli esemplari più remoti appare lungo e irregolare. Dal sec. XVI in poi diminuisce l'uso di t. ricamate e subentra quello di ornarle di bordi, di galloni, trine o merletti che seguono lo sviluppo e la fioritura di questi preziosi lavori ad ago e a fusello (v. Merletto; Stoffe). BIBL.: L. De Farcy, La broderie du Xle siècle jusqu'à nos jours, Angers 1890; P. Perari, T. e mantili di Perugia (sec. XIII-XVI), in Augusta Perusia, 1907, fasc. 56; W. Bombe, Studi sulle t. perugine, in Rass. d'arte, 1914, pp. 108-20; G. Fogolari, La t. della b. Benvenuta Boiani a Cividale, in Dedalo, 1 (1920), pp, 7-16; J. Braun, Die liturgischen Paramente in Gegenwart und Vergangenheit, Friburgo in Br. 1924; F. Podreider, Storie dei tessuti d'arte in Italia, Bergamo 1928; A. Santangelo, Cividale (Catalogo delle cose d'arte e d'antichità d'Italia), Roma 1936; L. Serra, L'antico tessuto d'arte ital., ivi 1938; I. De Claricini Dornpacher, La t. longobarda del Sancta Sanctorum, Milano 1945; W. F. Volbach, I tessuti del Museo Sacro Vaticano, Città del Vaticano 1942. Luisa Mortari Prescrizioni liturgiche circa le t. - Le rubriche del Messale prescrivono che l'altare per la celebrazione della s. Messa sia ricoperto da tre t.: due (o una ma ripiegata) per coprire tutta la sacra mensa, almeno la pietra sacra negli altari mobili; la terza, superiore, per ricadere anche ai due lati dell'altare fino all'ultimo gradino. La terza serviva nel medioevo anche per coprire il calice, donde deriva il corporale. Debbono essere di lino puro in memoria della Sindone in cui fu avvolto il corpo di Gesù Cristo per la sepoltura, e vengono benedette. Sotto le tre t., immediatamente sulla mensa, si mette una forte tela incerata, detta crismale, per proteggere le t. dall'umidità; è prescritta dal Pontificale per proteggere dall'Olio dopo la consacrazione dell'altare. La t. è uno dei paramenti più antichi, e si conviene all'altare per la nettezza, la devozione e riverenza. Si vede nel musaico di S. Vitale di Ravenna l'altare coperto da un'ampia t. bianca, orlata con frangia, decorata al centro di un rosone e ai fianchi con riquadri a ricamo. Anticamente si copriva l'altare soltanto al momento della celebrazione della s. Messa, come si fa anche oggi per le funzioni del Venerdì Santo. In origine era un'unica t., ma dal sec. VIII s'incominciò ad usarne di più. A Roma al tempo di Burcardo, cerimoniere papale (m. nel 1506), se ne usavano tre. Per proteggerla dalla polvere o da altre impurità, prima e dopo le sacre funzioni la t. superiore viene coperta da un panno, detto vesperale o coprialtare, di qualunque materia e colore. Non si rimuove nei Vespri, neppure nei pontificali; basta ripiegarlo all'incensazione (Caer. Episc., II, cap. 1, n. 13). Bibl.: J. Braun, Handbuch der Paramentik. Friburgo 1912, 210-17; M. Righetti, Mati. di stor. liturg., I, Milano 5950, 442-45. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 390-392 TRATTO (Tractus) Canto che segue il Graduale e fa le veci dell'Alleluia, nei tempi penitenziali da Settuagesima a Pasqua, nelle messe dei defunti e in alcuni altri giorni (vigilie, ecc.). Consta di due, tre, quattro e anche più versetti che si cantavano nell'antichità cristiana da un solo cantore, più tardi da due all'ambone, di seguito (tractim) ossia senza interruzioni antifoniche o responsoriali da parte del coro. TRONO (thronus, cathedra, sedes) È il seggio riservato al vescovo nella sua chiesa cattedrale per le funzioni pontificali. Era anticamente sul tipo della cattedra dei senatori, e divenne poi da semplice cattedra dottrinale un trono di onore sopra un alto podio di scalini con baldacchino sul tipo del trono imperiale bizantino concesso ai magistrati statali imperiali; fatto di pietra o di marmo, si trovava in fondo all'abside della basilica, fino ai secc. XI e XII. Già al tempo carolingio, specialmente da quando l'altare maggiore venne spostato nell'abside, il t. si metteva davanti all'altare al lato del Vangelo (Ordo Rom. II, 2, 3; V, 21 [ed. Andrieu: II, 115, 231]). Tutti e due i posti, all'abside e al lato destro dell'altare, sono previsti anche oggidì nel Caeremoniale Episcoporum (lib. I, cap. 13, 1 e 2). Quello al lato (nel medioevo movibile e sprovvisto di baldacchino: Durandus, Rationale, lib. II, cap. 11,2) oggidì rimane eretto in permanenza. Il seggio (di legno di pietra o di metallo) sta elevato su tre gradini, coperti da tappeti, e sormontato da un baldacchino; ha la forma di una sedia a braccioli con postergale e vien vestito di panno (o di seta) del colore della funzione pontificale; il postergale si decori con lo stemma del titolare. Perché simbolo della potestà suprema sacerdotale e giuridica della diocesi, il t. conviene soltanto al vescovo della diocesi; il coadiutore e l'ausiliare e gli altri vescovi debbono servirsi del faldistorio da mettere al lato sinistro dell'altare, detto dell'Epistola; fanno eccezione l'arcivescovo nell'ambito del suo territorio metropolitano al quale nella Cattedrale suffraganea si alza il t. al lato dell'Epistola, riservato quello del Vangelo al vescovo diocesano, i cardinali in tutte le chiese fuori Roma (alla loro presenza per riverenza l'Ordinario usa il faldistorio), i nunzi nelle chiese del territorio, nella Cattedrale con consenso del vescovo. Con la concessione delle funzioni pontificali il vescovo può accordare anche l'uso del trono con il baldacchino (CIC, can. 337, 3) ai vescovi di regime, nella Cattedrale stessa, mai al vescovo coadiutore o all'ausiliare. Anche gli abati hanno nelle loro chiese abbaziali l'uso del t. (a due scalini) col baldacchino (CIC, can. 325). 37 L'atto di presa di possesso della diocesi si dice "intronizzazione" del vescovo; l'intronizzazione liturgica fa parte, fino dall'alta antichità, del rituale della consacrazione; quella giuridica, della "canonica provisio seu institutio" (CIC, cann. 332, 1; 334, 3), si fa con la presentazione delle lettere apostoliche al Capitolo della chiesa cattedrale. Nel rito greco si usa un doppio t.: quello più antico nel fondo dell'abside simile alla cattedra antica; e quello recente con alto postergale e baldacchino nella navata della chiesa, simile al t. vescovile nell'Occidente. Il tronetto con baldacchino, detto anche tempietto o residenza, prescritto per l'esposizione pubblica del S.mo Sacramento, consiste di una base o piedistallo, del postergale di stoffa o di seta bianca e del baldacchino, sorretto talvolta da colonne; è mobile, cioè vien usato c collocato soltanto per l'esposizione eucaristica (Decr. auth. 4268 ad 4 del 27 maggio 1911). Non è permesso, fuori dell'esposizione, mettervi la Croce; non conviene collocare il tronetto sopra il tabernacolo. Bibl.: Caeremoniale Episcoporum, lib. I, cap. 13; P. De Puniet, Le pontificat romain, t. II, Lovanio-Parigi 1931, p. 56: Th. Klauser, Der Ursprung der bischöfl. Insignien und Ehrenrechte, Krefeld 1949, pp. 18-22, 35-36, n. 32 (cf. le opere citate di R. Delbrueck - A. Alfüldi, ibid., p. 31); M. Righetti, Manuale di storia liturgica, I, Milano 1950, pp. 383-86. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, col. 570 TUNICELLA (tunica, tunica linea, tunica scriscia; subtile; dalmatica minor, dalmatica subdiaconalis) Sopravveste liturgica del suddiacono, di forma e stoffa uguale alla dalmatica del diacono. Usata a Roma nel sec. VI, venne abolita da Gregorio M., ma ritornò nel sec. IX e si propagò anche fuori di Roma. In quel frattempo (secc. VI-IX) i suddiaconi portavano, come gli altri chierici, la pianeta; oggi è rimasta la pianeta (piegata) soltanto nei tempi liturgici di penitenza dell'Avvento e della Quaresima. Da quando il suddiaconato venne annoverato tra gli Ordini maggiori, si dava ai suddiaconi, per distinzione dagli altri Ordini, un abito ordinario di servizio simile a quello diaconale: una tunica discinta, di ampiezza minore, a maniche strette, senza clavi. In seguito si assomigliava a poco a poco alla dalmatica e ne seguiva l'accorciamento e la deformazione. La consegna ai neosuddiaconi s'introdusse nel sec. XIII. Da questo tempo occorre anche il nome "t."; dapprima, specialmente fuori di Roma, si diceva subtile. La t. appartiene all'ornato pontificale del papa già nel sec. VIII. I vescovi portano sotto la pianeta fino al sec. XII o la dalmatica diaconale a maniche lunghe, o la t. suddiaconale a maniche strette: poco a poco tutte e due, ma soltanto nella Messa pontificale e in quella dell'Ordinazione. Agli abati fino al sec. XIII fu concesso di rado l'uso della t., di regola soltanto quello della dalmatica diaconale. Bibl.: J. Braun, Die liturg. Gewandung im Occident und in Orient, Friburgo 1907, pp. 247-302; id., I param. sacri, Torino 1914; M. Righetti, Man. di stor. liturg., I. Milano 1950, p. 509. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 608-609 TURIBOLO Dal lat. thus, thuris "incenso" è un recipiente di metallo per bruciare profumi, il cui uso religioso è attestato,in Occidente come in Oriente, da rinvenimenti archeologici e da figurazioni glittiche, pittoriche, relative anche alle più antiche civiltà (Egizi, Etruschi, Celti, ecc.). Si chiama anche thymiaterium, incensorium, fumigatorium. Nella liturgia cattolica il suo impiego è documentabile fin dalla 2ª metà del sec. IV (v. INCENSO), però solo al sec. XI si può far risalire il generalizzarsi della tipica struttura che il t. conservò fino ai nostri giorni, pur adattandosi, negli accessori formali e nei dettagli della decorazione, alle variazioni di gusto e stile, determinate dal mutare delle stagioni artistiche. La forma liturgica attuale è quella di un recipiente a forma di coppa con base o piede, d'argento o altro metallo idoneo a contenere un piccolo braciere, su cui si depongono i granelli di incenso. Sopra ha un coperchio con aperture sufficienti a far circolare l'aria e ad emettere il fumo profumato. La sospensione e la manovra dell'ondulazione rituale sono rese possibili da un sistema di quattro catenelle : tre laterali servono a congiungere la coppa con un'impugnatura e a trattenere, mediante appositi scorritori, il coperchio; la quarta, centrale, è collegata con un largo anello che emerge dall'impugnatura e serve a sollevare il coperchio per l'immissione dell'incenso. Gli antichi t. erano aperti, più da portare o appendere o tenere in piedi, che non da agitare; nella liturgia ambrosiana sono tuttora aperti, come in quella orientale. L'apparecchiatura è completata da un piccolo recipiente, che serve ad accogliere la riserva d'incenso, detto "busta", "pixis", e "scrinium", "capsula", e dal sec. XIII "navicella" dalla sua forma specifica. Per mettere l'incenso si usa (dal sec. XI) un cucchiaino. I t. primitivi, in uso presso i Greci e i Romani e accolti dalla Chiesa antica, avevano forma di semplici scatole o coppe, sostenute a mano, appoggiate a tripodi, o sorrette da catenelle (come si vede, ad es., nel musaico di S. Apollinare e in una miniatura del Sacramentario di Gellone, sec. VIII). Forme semplici, seppure talvolta geometricamente più articolate, presentano anche i manufatti dell'alto medioevo, adorni con decorazioni geometriche e incisione a sbalzo, compatibilmente con il metallo usato, che è prevalentemente il bronzo. Nel periodo romanico si fa più frequente l'uso di materie nobili (oro, argento) e di decorazioni complesse, anche al cesello. Si diffonde il tipo a quattro catenelle, che poi prevarrà nel gotico. A quest'ultimo periodo appartengono i più preziosi esemplari artistici che si conservino nei tesori delle basiliche e nelle raccolte italiane (Anagni, Cattedrale; Mozzanello, Parrocchiale; Francavilla a Mare, S. Franco; Mercatello, S. Francesco; Mileto, Cattedrale; Padova, S. Antonio; Siena, Duomo). L'estro degli orafi gotici si sbizzarrì nell'architettare guglie, pinnacoli, loggette, che simulano tabernacoli, torri, fronti di chiese e palazzi. I manufatti del sec. XVI testimoniano invece l'accostamento alle forme tardo-rinascimentali, come il t. di S. Giovanni Peresti a Stilo, o l'altro, che può essere considerato il capolavoro del tipo a tabernacolo, della cattedrale di Borgo S. Donnino: la sua finissima esecuzione lo ha fatto assegnare alla bottega del Cellini. Fra gli innumerevoli esemplari dell'argenteria barocca si elevano, per sicurezza di gusto e grazia di ornati, i t. della chiesa arcipretale di S. Pietro a Magisano e della cattedrale di Rossano, entrambi del sec. XVII; e quelli di S. Maria Maggiore a Taverna; di S. Maria Maddalena a Norano Calabro, delle parrocchiali di Monchio e Bivongi, di S. Petronio a Bologna, tutti del sec. XVIII. Pregevoli, nel sec. XIX, i t. delle cattedrali di Caulonia e Gerace. I migliori esemplari del nostro secolo appartengono all'arte delle mis sioni. Strettamente connessa al t. è la navicella, vaso a forma di piccola nave di metallo, raramente di legno o di cristallo, che contiene l'incenso. Fra le navicelle artistiche sono da ricordare, ad es., quella del Tesoro del Santo a Padova, che reca nell'interno dello sportello una fine incisione con la pietà, di autore veneto del sec. XV, quella della cattedrale di Bologna del sec. XVIII e quelle del Tesoro di S. Marco a Venezia. Bibl.: Moroni, XXXIII, pp. 152-56; D. M. Dalton, Byzantine art and archaeology, Oxford 1911, pp. 534-76; H. Leclercq, Encensoir, in DACL, V (1922), coll. 21-33; J. Braun, Das christl. Altargerät in seinem Sein und in seiner Entwicklung, Monaco 1932, pp. 598-642; anon., Incensiere, in Enc. It., XVIII, pp. 693-64. Riccardo Averini da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 639-641 38 UFFICIO DIVINO L'officiatura divina (escluso il sacrificio), con la quale la Chiesa, ministra del culto pubblico, intende onorare Dio ogni giorno in determinate ore diurne e notturne. Di sua matura pubblico, questo compito è affidato in diverso grado ai chierici e ai religiosi: essi pregando in nome e nella forma prescritta dalla Chiesa compione un Ufficio divino pubblico. VELO OMERALE Lunga striscia di seta o di lino che si poggia sulle spalle con i due lembi pendenti sul petto e che serve per coprire le mani tenendo oggetti sacri. Si distinguono: a) il v. o. del suddiacono, di seta del colore prescritto per la s. Messa, di regola senz'ornamento, a) per portare il calice preparato all'altare per l'Offertorio, b) per tenere la patena dall'Offertorio fino al "Pater noster"; 2) quello dell'accolito che porta la mitra o il pastorale nelle funzioni pontificali (di lino o di seta senza ornamento, bianco o del colore prescritto per la funzione pontificale); 3) quello del sacerdote nella benedizione eucaristica, nelle processioni eucaristiche ed anche nel recare l'Eucaristia o il viatico agli ammalati (di seta sempre bianca e riccamente ornato). Dapprima l'accolito "patenarius" teneva con la "sindone" la patena dall'Offertorio fino al "Pater noster" (Ordo roman., I [Andrieu], 91). Questa "sindone" era un panno d'etichetta per non toccare la patena direttamente con la mano, forse a forma dell'attuale v. o. ("sub humero habens sindonem in collo ligatam"). Il funzionario dell'accolito "paternarius" (rimane in Francia ed in Inghilterra fino al sec. XVIII), fu sostituito nel sec. XI XII dal suddiacono, il quale tenne la patena dapprima con la stessa "mappula" che, detta "offertorio" (Ord. Rom. [Andrieu], I, 84; V, 55; VI, 50), copriva le oblate dopo la loro preparazione. Dal sec. XIII-XIV (Ord. Rom. [Mabillon], XVI, 53, dell'anno 1311) cambiò il modo di portare il velo: il lembo, che non serviva per tenere la patena, pendeva sul dorso dalla spalla destra ("cuius extremitas defluere debet post dextrum humerum"). La forma attuale del v. o. venne in uso a Roma non prima del sec. XV (Ordo Rom., XV [Mabillon]). Al velo dell'accolito di mitra, detto "tobalea", ancora assente al tempo di Durando (m. nel 1296), accenna già l'Ordo di Giulio Cajetano (XIV, 53 [Mabillon]) del 1311. Il velo della benedizione eucaristica venne in uso nel sec. XIV (Ord. Rom., XIV [Mabillon], 77); era di seta e si portava dapprima come il velo suddiaconale (il lembo pendeva sulla spalla sinistra "sibi pendet super humerum sinistrum"), poi come il v. o. Bibl.: J. Braun, Handbuch der Paramentik, Frihurgo 1912, pp. 662-65. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 1174-1175 VESPRI (vesperae, agenda vespertina, synaxis vespertina, solemnitas vespertina, gratia vespertina, duodecima) Ora canonica al tramonto del sole; forse la più antica delle ore di preghiera. VESTI SACRE Sono gli indumenti portati dai ministri sacri nelle funzioni liturgiche. Per rendere più augusto il culto e per maggiore riverenza verso Dio la Chiesa ha voluto che speciali v. s. fossero usate durante le funzioni sacre. Esse non sono derivate da quelle in uso nel culto del Vecchio Testamento, né da quelle dei culti pagani dell'età classica, ma furono scelte fra quelle che si usavano nella vita civile (escluse quelle di carattere militare) del mondo romano dalle persone più serie e qualificate. I chierici usavano una lunga tunica talare, di color bianco, alla quale i chierici maggiori sovrapponevano la casula o pianeta senza maniche che copriva tutta la persona; nel sec. VI è già in uso la dalmatica che doveva ben presto essere la sopravveste propria dei diaconi. Le altre vesti od ornamenti sacri si introdussero man mano nell'uso liturgico. Questo rimase costante anche di fronte all'uso di vesti più o meno succinte che si introdussero con le invasioni barbariche; la Chiesa restò fedele all'uso antico delle classi superiori. Prescindendo dal rocchetto, che non è considerato come v. s., si ha la cotta, della quale il nome superpelliceum indica lo scopo, che era la sopravveste ampia bianca di lino che ricopriva nei chierici inferiori l'abito d'uso quotidiano (i cardinali vescovi la portano sul rocchetto quando indossano il piviale). Vesti inferiori o sottovesti liturgiche sono oggi nel rito latino: l'amitto, l'alba o camice con il cingolo; quelle superiori sono: la pianeta, per il celebrante la Messa, la dalmatica e la tunicella per i ministri sacri, e il piviale per le funzioni fuori della Messa. Come insegne liturgiche maggiori sono: il manipolo, per tutti i chierici maggiori compreso il vescovo; la stola, per il diacono (che la porta a tracolla), il sacerdote ed il vescovo; il pallio per l'arcivescovo metropolita e il Papa; il razionale, portato sopra la pianeta soltanto da 5 vescovi di Germania, Francia e Polonia. Insegne pontificali sono: la mitra, il pastorale, l' anello e la croce pettorale. Altri accessori vescovili sono i guanti, i sandali ed i calzari. Il Papa usa la falda, sottoveste ampia che copre la persona dalla cintura in giù sin oltre i piedi; il fanone, sopra la pianeta, a strisce bianche e oro, il succintorio da attaccarsi alla parte destra del cingolo. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 1329-1330 "VICTIMAE PASCHALI" Sequenza di Pasqua rivestita d'una splendida melodia gregoriana che mette in notevole rilievo il concitato dialogo su Cristo Risorto tra Maria Maddalena e la comunità dei fedeli, dialogo che servì di spunto ai vari drammi liturgici pasquali medievali. In origine essa comprendeva nove strofe; ma dalla riforma di s. Pio V (1570) non ne conta più che otto, essendo stata cancellata la quinta che ricordava incredulità degli Ebrei. Vi si trova adoperata la rima e l'assonanza; ciò ha fatto pensare che il suo autore, Vipone (morto dopo il 1046), poeta e musico, cappellano degli imperatori Corrado II ed Enrico III, si sia ispirato ad un testo preesistente. Bibl.: U. Chevalier, Repertorium hymnologicum, II, Lovanio 1897, n. 21505 (v. anche supplemento); H. Bresslau, Die Werke Wipos, III ed., Lipsia 1915; J. Handschin, Gesungene Apologetik, in Miscellanea M. G. Mohlberg, II, Roma 1949, pp. 75-90; J. A. Jungmann, Missarum sollemnia, vers. it., Torini 1953, pp. 352-53 39 A. Pietro Frutaz da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, col. 1387 "VIDI AQUAM" Vedi "ASPERGES ME" VIGILIA È il giorno che precede come preparazione le grandi feste del Signore (Natale, Epifania, Pasqua, Pentecoste) e quelle dei santi (della Madonna, di s. Giovanni, degli Apostoli, di s. Lorenzo ecc.). Si distinguono in privilegiate e comuni; le privilegiate sono di I e II classe; le prime, Pasqua e Pentecoste, non cedono ad alcuna festa; le seconde, Epifania, cedono solo ad una festa di rito superiore od uguale e ad una festa del Signore; quelle comuni vengono soltanto commemorate in occorrenza di una festa di rito doppio. Se cadono nella domenica, vengono celebrate o commemorate al sabato precedente. Hanno un proprio nell'Ufficio e nella Messa. Il CIC prescrive il digiuno, oltre al Sabato Santo (fino allo scioglimento delle campane), alle v. di Natale, di Pentecoste, dell'Assunzione di Maria S.ma e di Tutti i Santi. Ha origine dalla v. pasquale, "la madre di tutte le vigilie" (s. Agostino, Serm., 219), anticamente una pannuchia, celebrazione per tutta la notte in letture tratte dai Libri Santi, alternate con il canto responsoriale dei salmi, cantici e relative collette; seguiva la Messa. Una tale v. si svolgeva anche a Pentecoste, nelle domeniche delle Quattro Tempora e si estendeva alle feste dei martiri principali: degli apostoli Pietro e Paolo, di s. Lorenzo ecc. A Milano una simile v. precedeva la festa dei ss. Pietro e Paolo, la traslazione delle reliquie dei ss. Gervasio e Protasio e la dedicazione della Basilica Ambrosiana (s. Ambrogio, De virginitate, XIX, 124; Ep., 22, 2). Similmente a Cartagine precedeva la festa di s. Cipriano (s. Agostino, Enarr. in ps., 32, XI, 1, 5; 85, 24). a Tolosa si faceva alla tomba di s. Saturnino. Da questa v. pubblica con partecipazione del clero e dei fedeli si distingue la privata, quella che, p. es., i fedeli facevano presso la tomba di qualche martire, ma senza la celebrazione eucaristica. Più tardi, forse già al principio del sec. V, le v. cimiteriali, fuori della città alle tombe dei martiri, si facevano al tramonto della sera precedente (cf., ad es., la messa I di s. Lorenzo nel Leoniano: "praevenientes natalem"). Le altre v. della Pasqua, di Pentecoste, delle domeniche delle Quattro Tempora vennero portate alla sera del sabato nel sec. VII. Distintivo per queste v. era che si iniziavano la sera precedente la festa o la domenica e finivano prima di mezzanotte. Poi furono di nuovo anticipate al tempo di Nona e ricevettero un Ufficio proprio per il coro e per la Messa. La liturgia originale si conserva nella veglia del Sabato Santo, della Pentecoste e dei Sabati delle Quattro Tempora. L'ORA NOTTURNA DELL'UFFICIO. - Questa V. trae origine non dalla v. come pannuchìa, ma dalla preghiera privata dei fedeli a mezzanotte, fatta in comune dai monaci e di conseguenza anche dalle Chiese (V. Mattutino; Notturno; Ufficio). Alle ferie si faceva con un Notturno di 9 salmi e 3 lezioni (nell'Ufficio monastico in 2 Notturni con 6 salmi ciascuno e con 3 lezioni nel primo Notturno). Alle domeniche aumentavano il numero delle lezioni (9 nell'Ufficio delle Chiese, 12 in quello monastico), divisi i salmi c le lezioni per 3 Notturni. Il numero di 3 Notturni non deriva dalle veglie militari, ma da necessità pratica: si faceva una pausa, un respiro tra o dopo 3 o 4 lezioni; non si consideravano tre distinte veglie, perché le singole v. non si chiudevano con una relativa Colletta, ma terminavano come se fossero una sola v., con un'unica colletta. Da notare che questa v. si faceva sempre dopo mezzanotte (in contrapposto all'altra v. di cui sopra), "a primo gallo" (verso le tre) e combinava con quell'Ufficio mattutinale, detto oggi le Lodi. L'anticipazione prima della mezzanotte o alla sera precedente incomincia dal sec. XII. Recentemente J. M. Hanssens ha affermato che la v. non ha origine dalla preghiera di mezzanotte, ma è considerata come un'amplificazione dell'Ufficio propriamente mattutinale delle Lodi, premettendo da parte dei monaci la recita consueta del Salterio da sola o intercalata da lezioni, come si faceva per passare devotamente una veglia notturna totale o parziale in preparazione di quella mattutinale. Bibl.: C. Callewaert, De vigiliarum origine, in Sacris Erudiri, Steenbrugge 1940, pp. 329-33; M. Righetti, Man. di stor. liturg., II, Milano 1946, pp. 416-21 ; I. A. Jungmann, Die Entstehung der Matutin, in Zeitschr. für kath. Theol., 72 (1950), pp. 66-79; J. M. Hanssens, Aux origines de la prière liturg. Nature et genèse de l'Office des Matines (Anal. Gregor., 57), Roma 1952, pp. 33-40. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 1414-1415 ZUCCHETTO (biretum, submitrale, subbirretum, pileolus, calotta, Soli-Deo) Un copricapo a forma di mezza sfera, usato di colore bianco dal papa, rosso dai cardinali (concesso nel 1464 da Paolo II, ai cardinali regolari nel 1591 da Gregorio XIV), paonazzo dai vescovi (1867 da Pio IX), nero dagli abati e da chi ne ha privilegio o indulto (CIC 325; 625; 811, 2). Era in uso nel corso del sec. XIV, perché si vede sotto la tiara del papa Clemente VI (m. nel 1352) nel monumento sepolcrale a La Chaise-Dieu. L'uso si propagò nel corso del secolo XV (cf. Ordo Romanus XIV, 118; XV, 144: PL 78, 1272, 1351) e divenne generale nel XVI e XVII. Nel sec. XIV e XV copriva tutto l'occipite, per ridursi poco a poco alla forma piccola attuale. È permesso di portarlo durante la s. Messa, fuori del canone, ma non è permesso nelle processioni eucaristiche e all'esposizione pubblica del S.mo Sacramento. Si usa anche sotto la mitra, detto perciò submitrale. Bibl.: J. Braun, Die liturg. Gewandung im Occident und im Orient, Friburgo 1907, pp. 509-10; Id., I paramenti sacri, Torino 1914, pp. 163-64. Pietro Siffrin da Enciclopedia Cattolica, XII, Città del Vaticano, 1954, coll. 1826-1827 ultimo aggiornamento: 07/02/2014 40