l`unità d`italia e la santa sede

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l`unità d`italia e la santa sede
LA CIVILTÀ CATTOLICA
ANNO 162 - 2011 - VOLUME PRIMO
quaderno 3857, pp. 483-486
L’UNITÀ D’ITALIA E LA SANTA SEDE
GIANPAOLO SALVINI S.I.
Nel pieno delle celebrazioni dei centocinquant’anni
dell’unità d’Italia, presentiamo un volume 1 che costituisce un contributo si­gnificativo alla riflessione su
che cosa ha significato quell’evento, non solo per la
Santa Sede ma anche per i cattolici italiani.
A una lettura superficiale, sembra che questi ultimi
siano stati tutti «anti-unitaristi». Ma è davvero così?
Non possiamo trascura­re, infatti, la presenza di un cattolicesimo liberale, cui era caro il connubio tra nazione e religione, e che informò di sé, e non poco, l’intero
movimento risorgimentale. In altri termini, le teorie di
Gioberti, pur se fantasiose, avevano attecchito «prima
ancora che i Savoia sposassero pienamente la causa unitaria, indirizzandola secondo i propri interessi
particolari» (p. 20). Fu in un secondo momento che
il movimento unitario diventò anticlericale, e ciò av­
venne quando repubblicani e massoni ne assunsero la
direzione.
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Un altro interessante elemento di riflessione, proposto
dall’Auto­re, è il seguente: l’Unità d’Italia fu una «unificazione artigianale», per dirla con Alfonso Scirocco;
ma il modo in cui fu realizzata era forse l’unico possibile. È peraltro inconfutabile che molte spinte ideali
dei patrioti vennero disorientate dal realismo sabaudo,
che sembrava vo­ler procedere all’unità per somma di
annessioni, rinunciando a Ro­ma capitale, sogno degli
idealisti unitari (garibaldini e mazziniani, re­pubblicani
e monarchici). E questo non solo per necessità politica
(essendo città del Papa), ma anche perché Torino era il
centro del­l’impresa sabauda, cuore pulsante della futura Italia unita. L’Unità quindi non partiva dall’Urbe,
diffondendosi all’Italia intera, come avrebbero desiderato democratici e repubblicani, di cui il «triumvi­
rato» della Repubblica romana fu in qualche modo il
simbolo.
Questo tuttavia non deve privare di significato l’impresa sabauda, che per realizzarsi si poneva giocoforza l’obiettivo di cacciare gli au­striaci dall’Italia, e
quindi mettere in conto una guerra di liberazione che
1. Cfr G. SALE, L’Unità d’Italia e la Santa Sede, Milano, Jaca
Book 2010, 195, € 18,00. © La Civiltà Cattolica 20111483-486
quaderno 3857 (5 marzo 2011)
potesse dare linfa nuova a quell’ideale patriottico deluso dall’impostazione «sabaudo-centrica» e anticlericale data al movimento.
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La storia unitaria non può non incrociarsi con la figura di Pio IX, che vanta una letteratura storiografica
in generale non benevola. Il primo atto del successore
di Gregorio XVI (un Papa non rimpianto dai romani)
fu un’amnistia, che per i patrioti ebbe una grande va­
lenza politica. Certamente Mastai Ferretti non fu mai
un Papa di idee liberali, ma era un «progressista moderato», aperto alle idee nuove e ostile al conservatorismo poliziesco che aveva contraddi­stinto il pontificato
di Gregorio XVI. Egli pertanto avvertì la neces­sità di
avviare alcune riforme nello Stato pontificio, e lo fece
anche contro il volere della Curia.
Tutto questo può spiegare l’equivoco in cui molti caddero, ossia di considerare Pio IX un Papa «liberale»?
Per l’Autore, «tale mito non fu il risultato di un semplice fraintendimento sulle reali inten­zioni del Pontefice
- come ritengono alcuni storici anche cattolici - quanto
un’operazione studiatamente messa in opera da coloro
che speravano di trarne vantaggi politici, cioè sia da
alcuni liberali “moderati”, che in tal modo cercavano
di spingere il Pontefice ver­so più ampie riforme, sia
dai “radicali”, nemici del potere tempo­rale, che intendevano screditarlo presso i sostenitori del processo di
unificazione nazionale». Forse Pio IX non fece nulla
per poter sgomberare il campo dagli equivoci e dalle aspettative nei confron­ti della sua persona. Ma va
anche detto (e pochi lo hanno notato) che in lui «il
primato del “religioso” sul “politico” fu una costante,
mai smentita in tutto il suo lungo e travagliato pontificato» (p. 33).
Non è vero quindi che Pio IX appoggiò la causa
dell’unità ita­liana in un primo tempo, disinteressandosene in seguito; come non è vero che non ebbe una
visione della causa italiana, per la quale in­vece egli
nutriva simpatia, sostenendo l’idea dell’indipendenza
na­zionale, «soprattutto prima che questa venisse fatta
propria dai ra­dicali e condotta secondo gli interessi del
Piemonte» (p. 35).
Da dove deriva, dunque, l’equivoco sul caso Pio IX?
L’Autore lo ravvisa nell’allocuzione del 29 aprile
1848, che ebbe due versioni. Nella prima si menzionavano le simpatie del Papa per l’indipendenza della
penisola, e, pur proclamando la neutralità della Santa
Sede nella guer­ra italo-austriaca, non si condannava
la guerra contro l’Austria. Ma nel­la seconda stesura,
che era opera del Segretario di Stato Antonelli, restò soltanto l’accenno alla neutralità, mentre il resto
scomparve. I patrioti interpretarono quindi l’allocuzione papale come un vulnus inferto alla loro causa.
«Con questo atto - scrive l’Autore - il papato rinunciava a esercitare una funzione direttamente politica per
consacrarsi intera­mente alla missione religiosa: esso
rappresenta una tappa fondamenta­le nel processo di
“purificazione spirituale” della Chiesa» (p. 39).
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Interessanti sono anche i cenni su alcuni documenti
di Pio IX, che aiutano a comprendere la posizione di
Mastai Ferretti dopo l’unità: il Sillabo e l’enciclica
Quanta cura. Le ricerche dell’Autore consentono di
rilevare i limiti testuali e concettuali di questi due documenti, che si rifacevano a testi pontifici precedenti, e che risultarono di difficile interpretazione per gli
stessi cattolici, circa gli errori moderni che vi erano
condannati, e per giunta offrirono ai radicali la conferma delle loro tesi su Pio IX, Papa «retrivo» alla pari
dei predecessori (cfr p. 45 s). Il Sillabo, tuttavia, ebbe
«il merito di aver riaffermato con forza e coraggio il
principio della libertà della Chiesa contro le indebite
pre­tese e le invadenze in materia religiosa dello Stato
laico», assertore sol­tanto a parole del principio Libera
Chiesa in libero Stato. Anzi, prose­gue l’Autore, «forse
dobbiamo anche a questo documento, tanto vi­tuperato
dalla storiografia laicista, se la Chiesa, soprattutto nella per­sona dei suoi Pastori, ha potuto alzare la voce
in tempi non troppo lontani dai nostri, in difesa della
pace e della dignità della persona umana davanti alle
prepotenze dei regimi totalitari» (p. 51).
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L’unità d’Italia, proclamata il 17 marzo 1861, fu certamente un motivo di frizione tra Vittorio Emanuele II
(il sovrano aveva conser­vato la numerazione ordinale
dei regnanti dello Stato sabaudo) e íl Papa, a causa
della «spoliazione» dei territori pontifici. Fra l’altro,
non pochi cattolici liberali avevano visto nel processo unitario un’o­perazione tutta piemontese, e lo stesso pensava Napoleone III, men­tore delle aspirazioni
italiane. Ecco perché l’Imperatore francese, pri­ma che
l’unità di realizzasse, aveva cercato di frenare il dinamismo sabaudo, avanzando una «proposta filoguelfa»
di unità italiana, che Pio IX accettò con entusiasmo,
ma che Cavour riuscì a far fallire.
Ma lo stesso Cavour sapeva che la Santa Sede non poteva essere messa da parte, e alla fine del 1860 aveva avviato di sua iniziativa trat­tative segrete per una
conciliazione ante litteram basata sul Libera Chiesa
in libero Stato, con proposte (ricostruite dall’Autore
sulla ba­se di fonti vaticane) che sarebbero state poi la
base per la Legge del­le Guarentigie del maggio 1871.
La proposta di Cavour partiva dal concetto che il potere temporale era soltanto di ostacolo alla missio­ne
spirituale del Papa, e che questi doveva riconciliarsi
con la mo­dernità e giungere a un accordo con gli Stati
liberali. Era un propo­sta che ovviamente non condusse
da nessuna parte, presupponendo la rinuncia del Papa
alla sovranità temporale (e Pio IX non poteva farlo,
avendo giurato, all’inizio del suo pontificato, di preservarla).
Da qui l’intransigenza del Papa, che l’Autore attribuisce al fatto che la sovranità temporale era segno tangibile e concreto dell’autonomia della Chiesa dalle interferenze dello Stato laico; e anche perché privar­sene
significava impoverire anche la sua missione religiosa
dinanzi al materializzarsi di uno Stato irreligioso. «Le
paure di Pio IX sull’irreli­giosità dello Stato costituzionale - nota l’Autore - in linea di princi­pio, non erano
del tutto infondate»; anche se Pio IX, al pari dei suoi
contemporanei, difettava «di sensibilità storica o semplicemente della capacità di vedere oltre la contingenza del momento» (p. 80).
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La presa di Roma non fece che aggravare i rapporti fra
la Chiesa e lo Stato italiano, anche per l’affermarsi di
quella nuova «religiosità laica» che la conquista della Città Eterna rappresentava. La breccia di Porta Pia
e il 20 settembre assunsero per gli italiani un grande
valore simboli­co. Su questo grande evento l’Autore ci
offre in «presa diretta» i pro­dromi, con un promemoria del conte Ponza di San Martino su una mis­sione
presso il Papa per conto del Re, alla vigilia della presa
di Roma.
Il Papa ordinò di non resistere all’occupazione italiana, ormai inevita­bile, e lo fece anche contro il parere della sua gendarmeria: la reazione do­veva essere
«una protesta atta a constatare la violenza, e nulla più»
(p. 97).
La capitolazione, il 20 settembre 1870, fu immediata; ma da lì sarebbe iniziata una controversia «sulla
natura e gli attributi del­la potestà pontificia», durata
sessant’anni: di cui anche la nostra rivista (come ci
raccontano l’ultimo capitolo e pure le appendici) fu
importante testimone e protagonista culturale.