Ol3Media Anno 01 n.02 – Settembre 2008 1 Anno 01

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Ol3Media Anno 01 n.02 – Settembre 2008 1 Anno 01
Ol3Media Anno 01 n.02 – Settembre 2008
Anno 01 n.02 Settembre 2008
Ol3Media è la rivista on-line
del Master in Produzione e Linguaggi Cinema, Video e Televisione
http://host.uniroma3.it/riviste/Ol3Media/
Direttore Responsabile: Barbara Maio
info: [email protected]
Indice
Il mockumentary. Viaggi alla ricerca dei frammenti perduti
di Francesco De Vivo
Per una analisi sartriana di Blade Runner
di Chung Chin-Yi
Buffy the Vampire Slayer. Un teen drama sotto il segno dell’horror
di Valentina Di Stefano
Tra cinema e tv. Quo Vadis, Baby? - La serie
di Monica Parissi
Intervista a Patrick Mulcahey
a cura di Giada Da Ros
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Ol3Media Anno 01 n.02 – Settembre 2008
Il mockumentary. Viaggi alla ricerca dei frammenti perduti
di Francesco De Vivo
Nato dall’unione delle parole mock (finto, simulato/ironico/deriso) e documentary (documentario), il
mockumentary è un genere audiovisivo che usa quei linguaggi che fanno della pratica
cronachistica – di qualunque matrice e obiettivo – la cifra estetica dominante. È la scelta
programmatica dell’autore di riprendere ambienti e personaggi in modo da produrre l’illusione che
ciò che viene mostrato appartenga invece a un evento realmente accaduto. In prima istanza si
potrebbe obiettare questa conclusione, adducendo che “l’effetto di realtà” teorizzato dagli studi
psicoanalitici sul cinema [1], costituisce invece una condizione imposta dalla “situazione
cinematografica” [2]. Ma in questa sede non è opportuno parlare della “fede dello spettatore”, cioè
della sua propensione a credere alla realtà di ciò che viene mostrato sullo schermo (e che
Christian Metz ha sapientemente collegato all’accezione psicoanalitica del feticismo). Sembra
invece più appropriato definire il mockumentary come una compiuta adesione ai segni e ai codici
di un qualsivoglia documentario, senza implicare per questo nessuna teoria freudiana. Se l’autore
sceglie di usare quei mezzi riproduttivi che non vengono denunciati all’interno della diegesi (e cioè
solo nei limiti della loro cornice schermica), o che finga di usarne soltanto uno, o alcuni, tra quelli
che il progresso tecnologico offre nelle varie tipologie (telecamere televisive, videocamere di
sorveglianza, videofonini, fotocamere, webcam, videocamere amatoriali e altri marchingegni di
contemporanea convergenza mediale), non ha alcuna importanza ai fini di una diversificazione o
sottoclassificazione del genere. Ciò nonostante, affinché si possa ottenere una maggiore
intensificazione dell’effetto di realtà, è essenziale piuttosto che l’autore non usi riprese oggettive
che dichiarino una presenza onnisciente che abisserebbe le precedenti palesandone le funzioni e i
meccanismi.
Contrariamente alla pratica del mockumentary, c’è chi, inversamente, sceglie di documentare la
realtà attraverso i peculiari stilemi della finzione. Ma è possibile stabilire un confine? Una frontiera
tra il vero e il falso? Tra il reale e l’irreale? A questo proposito interessanti prodotti audiovisivi
giungono ancora una volta dagli Stati Uniti, e in particolare con la firma di Gabriel Range il quale,
in Death of a President (2006), crea la scena della protesta dei cittadini montando alcune riprese di
una manifestazione reale, con quelle realizzate appositamente per la produzione del film [3].
Inoltre alcuni attori hanno partecipato alla manifestazione realmente avvenuta, e alcuni anarchici
hanno successivamente preso parte alla messa in scena della finta dimostrazione. Questa
combinazione ha confuso tra l’altro gli autori del film, che hanno avuto non poche difficoltà nel
distinguere la scena dell’evento reale da quella fittizia.
«La prima vittima di questo conflitto sarà la verità», dice McCoy, l’eroe americano disilluso che De
Palma in Redacted (2007) contrappone a chi invece vuole “filmare” la verità ventiquattro ore su
ventiquattro, ossia il soldato Salazar, al collega Gabe Blix – il quale a sua volta denuncia
l’ineluttabile menzogna del mezzo riproduttivo [4].
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Ebbene, detto ciò non si può escludere a priori che un documentario non possa raccontare almeno
una delle verità che si dispiegano tra le infinite connessioni di un evento storico di portata
mondiale, o tra le incommensurabili increspature del più trascurabile episodio quotidiano. È ovvio
che le immagini non possono restituire quel visibile così come si presenta davanti ai nostri occhi,
né possono – secondo una consuetudinaria opinione – costituire la manifestazione fenomenica
della realtà oggettiva delle cose. Anche la proiezione del percepibile e del percepito, ripreso
attraverso un qualsivoglia apparato riproduttivo – impressionato direttamente su pellicola o
riprodotto digitalmente – non si trasforma, a ragione di ciò, nel duplicato effettivo della realtà. Se
fosse così avremmo due corpi identici, e non un corpo e una rappresentazione dello stesso.
Il paradosso della contiguità e della differenza tra un’immagine e il suo oggetto, è stato
radicalizzato da cineasti del calibro di David Lynch, il quale costruisce rapporti non tra immagini e
figure, ma tra le stesse immagini, che si moltiplicano, si sovrappongono e si dividono, specie come
nell’ultimo INLAND EMPIRE (INLAND EMPIRE. L’impero della mente, 2007), in cui la duplicità
dell’immagine non raffigura il suo clone, bensì una differenziazione dell’oggetto reale [5]. Tuttavia
anche la tecnologia del digitale ci porta a queste considerazioni, specie se viene usata per creare
mostri di ogni specie e dimensione. Queste creature sintetiche vengono immesse in mondi ripresi
dal reale, come avviene ad esempio in Men in Black (1997) di Barry Sonnenfeld, o amalgamate in
universi creati (parzialmente) con l’intervento matematico degli algoritmi, come nella trilogia di The
lord of the Rings (Il signore degli anelli, 2001-2003) di Peter Jackson.
Che il digitale aumenti esponenzialmente l’esperienza sensoriale dello spettatore è un dato
innegabile, anche in quei linguaggi che fanno dell’iperrealismo della visione, l’inconscio dogma di
uno stile che non poteva che confluire in un genere sempre più codificato – leggibile come tale –,
cioè appunto quello del mockumentary. Quindi è evidente che se vogliamo parlare di questa
species postmoderna non ci si può esimere dall’affermare che il digitale ha introdotto nel
linguaggio audiovisivo delle profonde innovazioni. Senza di esso infatti non si sarebbero potute
creare opere dal forte impianto falso-documentaristico, e che hanno potuto giovarsi di un ricca
serie di modelli che fanno della ricerca dell’immagine nitida e precisa la loro “irrisoluzione finale”.
Chi costruisce un documentario, anche quello più scarno di risorse tecniche e umane, non può che
intervenire sul profilmico e sulla messa in scena. Per questo non avalliamo l’ipotesi di chi,
anonimamente, in siti internet come Wikipedia, elenca tra le voci del mockumentary alcuni titoli
come La sortie des usines Lumière (L’uscita dalle officine Lumière, 1895) di Auguste e Louis
Lumière o Nanook of the north (Nanuk l’eschimese, 1922) di Robert J. Flaherty. Anche se gli
operai delle fabbriche francesi hanno indossato i loro vestiti migliori per posare davanti ai primi
occhi del cinema, o se l’eschimese ha eseguito le direttive e le istruzioni del documentarista
statunitense, non possiamo annoverare questi film tra quelli che invece hanno fatto della pratica
suddetta un genere che – per forma e stile – si serve palesemente dei codici del documentario.
Viceversa, ci sono autori che documentano la realtà mettendo in atto i caratteristici procedimenti
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della finzione, banditi in quei documentari, che per definizione, sono mossi da uno spirito
deontologico. Allora ci si chiede come sia possibile poter raccontare la verità attraverso l’eccessivo
inganno delle immagini. Emblematici in tal senso sono Bowling a Colombine (2002), Fahrenheit
9/11 (2004) e Sicko (2006) di Michael Moore, documentari che possiedono la stessa tensione di
un film di azione, e in cui l’autore dichiara apertamente la propria opinione su avvenimenti di
interesse planetario. Ma si vuole realmente raccontare una verità? Oppure si vuole descrivere
un’esperienza, un sentimento, un ricordo? È il caso di quei diari cinematografici dell’autore tedesco
Wim Wenders, nella cui filmografia non mancano esempi: Tokio-Ga (1985), Appunti di viaggio su
moda e città (1989), Buena Vista Social Club (1999) e The Soul of a Man (2003). C’è poi tutta una
produzione documentaristica di marchio statunitense (e di distribuzione televisiva) che usa i
procedimenti narrativi tipici del thriller investigation, e che poi ha ispirato autori del vecchio
continente. Ci riferiamo a La Sombra dell’Iceberg [6] (2007) di Riebenbauer Raul e Doménech
Hugo, che mira a svelare il mistero che aleggia intorno alla fotografia Morte di un Miliziano (1936),
che riproduce per la prima volta l’istante del decesso di un essere umano. Però la composizione
della fotografia ci induce a credere che il suo autore – quel Robert Capa di fama internazionale, il
quale fondò a New York la Magnum Photos, una delle più importanti agenzie fotografiche del
mondo – abbia ricostruito artificiosamente la scena del combattente che, dopo aver ricevuto il
colpo, viene “arrestato chimicamente” mentre cade a terra esanime. Infine, senza escludere
ulteriori esempi, si ricordi il video esperimento italiano della giovane autrice Alina Marrazzi che nel
suo Un ora sola ti vorrei (2002), combina tra loro materiali di repertorio (filmati amatoriali realizzati
dai familiari), uniti da una voice over di commento, eliminando quei confini così rigidamente
delineati tra il documentario e il film di finzione [7]; oppure My Architect (2003) di Nathaniel Kahn,
in cui la ricerca dei segni e delle testimonianze di un padre perduto, si accompagna a uno studio
compositivo delle inquadrature, finalizzate ad esaltare quei valori plastici e volumetrici delle
paradisiache opere architettoniche di Luis Kahn. Prodotti artistici come questi forse sono debitori di
quei viaggi temporali del regista e filosofo francese Chris Marker il quale, in Sans Soleil (1982),
alterna scene riprese dal reale con parti di finzione, creando così le atmosfere di un sogno ormai
perduto e senza più sognatore.
In occasione della rassegna stampa per la presentazione di Redacted alla Mostra Internazionale
d’Arte Cinematografica di Venezia (Edizione 2007), la critica ha rievocato tra le gesta del regista
americano sia Casualties of War [8] (1989), sia alcuni titoli degli esordi, quando l’autore era un
membro attivo della Students for a Democratic Society [9]. Tra i titoli menzionati ci sono Greetings
(Ciao America, 1968), The Wedding Party (1969) e Hi, Mom! (1970), opere che riportano quei
primi punti di vista brutali – immagini amatoriali in Super 8 – attraverso cui l’attivista politico
attaccava l’american way of life, discutendo le questioni insolute del paese, il doppio omicidio
Kennedy, l’invasione nel Vietnam, il razzismo, lo sfruttamento operaio e così via [10]. In particolare
in Hi, Mom!, il video Be Black Baby – performance teatrale che include anche gli spettatori come
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partecipanti attivi della messa in scena – è costruito sul modello del finto documentario, e supera il
sottile confine che viene a porsi tra ciò che è simulato e ciò che al contrario può avvenire senza
nessun disegno autoriale prestabilito.
Appena dopo che la voice over recita la didascalia iniziale [11], il titolo del film, Redacted appunto,
va a formarsi con le uniche lettere che non vengono cancellate dal pennarello censorio della
pratica governativa statunitense; quello stesso correttore che Michael Moore denuncia in
Fahrenheit 9/11, quando confronta due versioni di uno stesso documento, evidenziando come la
politica della Casa Bianca sia volta unicamente a proteggere gli interessi delle corporation e delle
industrie degli armamenti, e a far aumentare la ricchezza economica di quei pochi eletti che
beneficiano degli investimenti dei sceicchi sauditi [12].
Con il termine “redacted” si indica la redazione di un documento o di un’immagine in cui vengono
oscurate o cancellate informazioni personali o contestabili dall’opinione pubblica. In un primo
momento De Palma pensa di unire tra loro i video e le immagini esaminati nei siti web, ma appena
scopre di non poterli usare a causa di cavilli legali, decide di realizzare un «reality show sulla
guerra trasformando la realtà in finzione» [13].
Amareggiato per non aver potuto rispettare la dignità delle persone coinvolte, il regista ha dovuto
occultare i volti dei bambini e degli adulti, vittime autentiche del conflitto iracheno.
Significativamente intitolate Danno collaterale, Foto autentiche della guerra in Iraq, queste
immagini accompagnate dal brano operistico E lucevan le stelle [14]– e che si concludono con la
rappresentazione pittorica di una donna brutalmente assassinata – costituiscono appunto il
momento finale e non finzionale del film, anche se, a ben guardare, una di queste ha come
soggetto l’immagine di una donna incinta, un personaggio del film ucciso dai soldati americani per
aver superato l’ultima linea di un presidio armato.
A differenza di opere precedenti, che analizzano minuziosamente la medesima scena attraverso
punti di vista differenti – da Akira Kurosawa con il topico Rashōmon (1950), fino all’emblematico
approdo di Elephant (2003) di Gus Van Sant [15], la lista è piuttosto lunga e annovera opere meno
fortunate come Jackie Brown (1998) di Quentin Tarantino –, Redacted invece usa diversi mezzi
riproduttivi, idonei a catturare frammentariamente eventi e discorsi collegati alla guerra in Iraq, e in
particolare allo stupro ideato dai soldati americani. Ebbene, se a moltiplicarsi in precedenza erano
gli infiniti sguardi (e le posizioni) della macchina da presa rispetto all’allestimento di un medesimo
set, viceversa, con il film di De Palma a rendersi più numerosi sono gli apparati della riproduzione.
Il film ne propone un ricco campionario: le handycam di Salazar e del caporale McCoy, le
macchine da presa di Marc e François Clément (autori di un documentario che mostra le
operazioni dei militari americani durante i posti di blocco), le telecamere di fittizie testate
giornalistiche, le videocamere di sorveglianza della base militare USA e infine le webcam,
utilizzate per le chat online (come nel caso della conversazione tra McCoy e il padre, i cui sguardi
non si incrociano mai), per esprimere timori personali (come nel blog ideato da Judy McCoy, e
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rivolto alle mogli dei soldati in missione), per rilasciare anonime dichiarazioni (Lawyer infatti è
costretto a mascherarsi e modificare la propria voce per denunciare lo stupro) e infine per
manifestare le proprie opinioni (come nel caso di una ventenne americana ostile alla della politica
del suo paese). Tra l’altro nel web vengono caricati i video degli iracheni: il primo (in ordine
cronologico) riporta la morte del sergente maggiore Jim Sweet (che perisce a causa di una mina)
[16], il secondo riguarda il ritrovamento del corpo di Salazar, e il terzo mostra la sua terribile
esecuzione. Così il soldato latinoamericano diventa il capro espiatorio della strage compiuta dai
colleghi – da lui documentata con una microcamera collocata sul casco – e i supercattivi Reno
Flake e B.B. Rush possono concludere il suo diario con sarcastici ossequi alla sua memoria.
I vari frammenti che compongono Redacted non sono incorporati da una ripresa (s)oggettiva (e
per questo onnisciente) che rischierebbe di tramutare il film in un mero prodotto di denuncia
sociale; effetto (o obiettivo) tuttavia presente, ma che in taluni casi si presta a strategie linguistiche
che porterebbero a comprensibili deduzioni teoriche, come quella di una rintracciabile mise en
abîme di cotanta scelta autoriale. Singolare in tal senso è la convergenza operata con la
sovrapposizione delle immagini del video di Salazar con quelle di Barrage, il documentario degli
autori francesi. Infatti, a un certo punto, il film di Marc e François Clément mostra uno scorpione
assalito da migliaia di formiche, appena in tempo che anche Salazar riprende a sua volta
l’uccisione dell’animale. Così la cornice dell’inquadratura del videomaker (manifestata attraverso
l’uso dello zoom), va a coincidere perfettamente con quella del documentario, assumendone il
regime del disegno numerico patinato. Barrage inoltre, fin dalla prima immagine, palesa un uso
calligrafico della composizione dell’inquadratura, che privilegia il grandangolo a favore dello spazio
aereo, entro cui (e in controluce) si staglia la “fissità instabile”
– e in taluni casi fatalmente
esilarante – dei soldati americani [17]. Ma questo preziosismo stilistico si scontrerà con
l’immediatezza del filmato sporco, nel momento in cui Flake, assopito durante le operazioni di
presidio, uccide una donna incinta, passeggera di un’autovettura che supera l’ultima linea del
posto di blocco. Ebbene, subito dopo la sparatoria, l’operatore alla macchina cade, e il
documentario francese dovrà impiastricciarsi e rendersi più instabile, come nelle immagini girate a
livello amatoriale o televisivo.
In ragione della mutevolezza dei vari frammenti del film – che si diversificano tra di loro anche per
un uso dissonante della fotografia – comprendiamo la scelta del regista di nominarli di volta in
volta per evidenziarne l’origine e/o il contenuto narrativo. Indicativi in tal senso sono il Diario di
guerra del soldato semplice Angel Salazar, che riporta il sottotitolo Non dirmi bugie, o i frammenti
catturati con le videocamere di sorveglianza che chiariscono le azioni dei militari statunitensi:
Esame psicologico del soldato Angel Salazar, Interrogatorio del Caporale McCoy, Deposizioni del
soldati B.B. Rush e Reno Flake.
A parte il flashback suddetto [18], Redacted si serve di una linea narrativa lineare che rispetta le
convenzioni di causa ed effetto del racconto classico. Inoltre il tempo della storia – che parte dal 9
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aprile 2006 fino al 12 ottobre dello stesso anno – è confermato di volta in volta dalle indicazioni
delle videocamere amatoriali e di quelle di sorveglianza.
Si parlava di manie, di ossessioni. Quella del filmare è diventata infatti un’esperienza che ha
invaso le nostre abitudini quotidiane. A pensarci bene in Redacted mancherebbero i videofonini
che continuerebbero (in)definitivamente quel campionario suddetto, ma che invece non si fanno
attendere sia in Cloverfield (2007) di Matt Reeves, che nel già ricordato Death of a President, per
la cui realizzazione – specie per la scena della dimostrazione politica – sono state utilizzate
differenti fonti digitali, tra cui quella di un videocellulare, punto di vista aggiuntivo che restituisce
una visione più incerta e sommaria delle altre [19]. Invece in Cloverfield tale strumento è
denunciato esclusivamente all’interno della diegesi – quando alcuni ragazzi fotografano la testa
della Statua della Libertà – e il film si serve esclusivamente del punto di vista univoco e delimitante
di una videocamera amatoriale. Infatti, nel momento in cui la testa della statua viene scaraventata
sulle strade di Manhattan, si intravede l’artefice del disastro: un mostro gigantesco la cui fattezza è
ancora oscurata a causa dell’impossibilità della visione [20]. Fortemente voluto dal genio
produttore di Lost, J.J. Abrams, il film comincia con l’indicazione degli algoritmi, attraverso cui
successivamente si comporrà l’immagine amatoriale.
Bibliografia
B.Maio e C.Uva, L’estetica dell’ibrido. Il cinema contemporaneo tra reale e digitale, Roma, Bulzoni,
2004.
E.Menduni, I media digitali. Tecnologie, linguaggi, usi digitali, Bari, Laterza, 2007.
V.Zagarrio, L’anello mancante. Storia e teoria del rapporto cinema-televisione, Torino, Lindau,
2004.
V.Zagarrio, (a cura di) Cine ma tv. Film, televisione, video nel nuovo millennio, Torino, Lindau,
2005.
Siti internet
www.articolo11.org
Note
[1] In particolare Jean-Louis Baudry – stabilendo una importante analogia tra il mito della caverna
di Platone e il dispositivo cinematografico – afferma che l’impressione di realtà che si ha al cinema
non è dovuta soltanto alle facoltà dello spettatore, il quale riesce, grazie al montaggio, a dare
unità, continuità e movimento a immagini fisse e discontinue, ma anche al fatto che il dispositivo
(la sala buia, il proiettore e lo schermo) crea un effetto sul soggetto, quello che lo studioso
francese definisce «l’effet cinéma», e che risulta paragonabile all’impressione di realtà che si ha
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durante il sogno. Lucilla Albano, Il dispositivo, «Voce per l’Enciclopedia del Cinema Treccani»,
Roma 2003, che riprende le teorie di Jean-Louis Baudry nel suo Le dispositif: approches
métapsychologiques de l’impression de réalité, in «Comunications», 1975, pp. 70-71, entrambi
pubblicati in J.-L. Baudry, L’effet cinéma, Paris 1978. Pisa, Edizioni Cineforum - Edizioni ETS,
2004, pp. 36-37.
[2] Definita così dallo psichiatra e psicologo infantile Henry Wallon il quale, verso la fine degli anni
quaranta, e insieme al collega Albert Michotte van den Berck, si soffermò sull’analisi degli effetti
del cinema sugli spettatori. L. Albano, Il dispositivo, «Voce per l’Enciclopedia del Cinema
Treccani».
[3] Il corteo ha luogo in un incrocio stradale nei pressi dell’Economic Club di Chicago in cui,
contemporaneamente, si tiene un discorso di George W. Bush, il quale ammonisce la politica della
Corea del nord e lo sviluppo del suo programma nucleare.
[4] Del resto anche De Palma, in diverse occasioni, ha dichiarato che la cinepresa mente
ventiquattro volte al secondo.
[5] Tra l’altro INLAND EMPIRE è il primo film di Lynch girato con macchine digitali.
[6] Presentato alla Festa del cinema di Roma (Edizione 2007), il documentario non è stato
distribuito nelle sale cinematografiche italiane.
[7] Il film è la rievocazione personale della madre di Alina, morta suicida a causa di una forte
depressione.
[8] Film di guerra incentrato sullo stupro messo in atto da alcuni soldati americani ai danni di una
giovane vietnamita.
[9] Associazione politica che rappresentò quella New Left di radice sindacalista sviluppatasi negli
anni sessanta a partire dal Regno Unito.
[10] Roberto Silvestri , «Redacted», la guerra insostenibile, Il Manifesto, 1 settembre 2007.
[11] «Il film è una storia di fantasia ispirata a un fatto realmente accaduto in Iraq, di cui la stampa
ha molto parlato. Alcuni degli eventi raccontati rispondono alla realtà, ma i personaggi sono del
tutto immaginari e le loro parole e azioni non devono essere confuse con parole e azioni di
persone reali. Redacted documenta attraverso le immagini gli eventi avvenuti nel 2006, prima,
durante e dopo lo stupro e l’eccidio in Samarra».
[12] In Fahrenheit 9/11, l’autore confronta la versione di un documento del 2000 con quella
pubblicata nel 2004 dalla Casa Bianca, e in cui viene cancellato il nome di Maj James R Bath,
presidente di una società di servizi aerei e gestore degli interessi economici dei Bin Laden in
Texas.
[13] La Parola a Brian De Palma: «La foto di un morto, scattata in guerra da un fotografo per una
grande multinazionale la puoi pubblicare in prima pagina su un quotidiano perché sei difeso dal
diritto di cronaca. Ma se vuoi utilizzare quella stessa immagine in un film devi chiedere una
liberatoria piena di clausole. La conclusione è che in realtà non potevo usare niente, gli avvocati
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delle multinazionali detentrici dei diritti mi minacciavano di cause per miliardi di dollari». Roberta
Ronconi, “Redacted”, pornografia di guerra – Reality show firmato Brian De Palma, Liberazione 1
settembre 2007.
[14] Giacomo Puccini, La Tosca, Terzo atto.
[15] In Elephant la macchina da presa segue i personaggi in lunghi piani sequenza, montati (con
pochissime eccezioni) senza stacchi. Gus Van Sant pedina i suoi studenti ponendo la cinepresa
appena dietro le loro spalle per seguirne meglio le azioni. Le medesime situazioni tornano più
volte, da differenti punti di vista, tanto che è difficile distinguere il flashback dal flashforward.
[16] L’evento è ripreso contemporaneamente dalla videocamera di Salazar.
[17] Le operazioni militari dei soldati statunitensi sono scandite dal ritmo solenne della Suite per
violoncello di Johann Sebastian Bach, melodia presente anche in Barry Lyndon (1975) di Stanley
Kubrick.
[18] Nel film si assiste prima al ritrovamento del cadavere di Salazar e poi al video della sua
esecuzione.
[19] Come avviene tra l’altro in The Valley Of Elah (Nella Valle di Elah, 2007) di Paul Haggis, in cui
i filmini girati in Iraq dal soldato Deerfield raccontano a sprazzi l’abisso dell’abiezione umana.
[20] La prospettiva totalizzante della creatura porterà inevitabilmente alla morte dell’operatore,
divorato (e respinto) con la sua stessa videocamera.
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Per una analisi sartriana di Blade Runner
di Chung Chin-Yi
Essere in sé stessi” (L’entre-en-soi) può essere distinto da “essere per sé stessi” (L’etre pour soi)
nel suo essere uno stato statico dell’esistenza e la sua definizione risiede in una concreta, eterna e
invariabile essenza, non possiede una potenzialità per negare sé stesso e progettare future
possibilità di azione o concepire una definizione alternativa per sé stesso e la sua piena positività;
essere in sé stessi è quello che è, totalmente autocomprensivo.
Essere per sé stessi, al contrario, è un processo dinamico in divenire, la sua esistenza precede la
sua essenza nella quale risiede la sua libertà, potenzialità e capacità di essere in uno stato fattivo
in ogni momento, così diviene ciò che sarà trascendendo l’in sé stesso dell’ego esistente, è
caratterizzato dalla sua fluidità e mancanza di una rigida essenza.
Questo introdurre il “non essere”, la negatività e la negazione nel mondo peculiare della coscienza
umana è, in termini sartriani “l’essere attraverso cui il nulla approda nel mondo deve essere la sua
propria nullità”.
Proietta sé stesso nel futuro immaginando uno spettro di possibilità che non sono ancora, e nega
possibilità di scontro attraverso scelte e azioni.
La nullità o la mancanza che risiede nel cuore dell’essere crea un desiderio di appagamento e
porta l’umano a cercare di definire il solo agente responsabile per la sua definizione ed il suo
essere.
Essere per sé stessi possiede la capacità di trascendere la fattività in ogni momento grazie alla
capacità di ricostituire sé stesso e le sue situazioni, e quindi è ciò che non è e non è ciò che è
grazie alla sua sempre presente capacità di fluire, reinventarsi, trasformarsi, evolversi, ed è
“condannato alla libertà ed alla scelta”.
In Blade Runner la distinzione tra l’essere in sé stesso e l’essere per sé stesso è problematica e
ambigua grazie all’enigmatico e ambivalente fenomeno dei replicanti, a metà tra l’umano e la
macchina, o a metà tra soggetto e oggetto, specialmente con lo sviluppo del prototipo Nexus-six
con la sua capacità di sviluppare emozioni molto complesse rispetto alle generazioni precedenti di
replicanti.
Essi sono programmati dalla Tyrell Corporation per “essere più umani degli umani” poiché
possiedono una possibilità di provare sentimenti abbastanza avanzata e sofisticata tale da
percepire una coscienza profonda anche del loro obbligato modo di essere. Ciò prende la forma di
una secondaria e soggiogata condizione di schiavitù mentre praticano degradanti e spiacevoli
azioni, come il lavoro in miniera e la prostituzione in colonie fuori dal mondo; oltre alla morte allo
scadere del quarto anno, periodo nel quale hanno appreso la necessaria esperienza per
sviluppare le proprie facoltà emozionali, come gli umani.
Il possedere l’intelletto e le capacità emotive che appartengono alla condizione umana li porta ad
agonizzare sul rischio che vivono ed in costante attesa della morte, e li porta a ribellarsi contro i
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loro schiavisti, cercando di prolungare la loro transitoria esistenza confrontando il creatore,
Dr.Tyrell, al fine di farsi rivelare l’antidoto alla loro mortalità.
Il replicante esemplifica l’essere in sé stessi possedendo una predeterminata e concreta essenza
che risiede nella programmazione che condiziona l’intelletto, le sue funzioni e la capacità di
provare emozioni. Il test Voight Kamff serve ad identificare un replicante e a distinguerlo
dall’umano funziona sull’osservazione dell’abilità di mostrare un adeguato e appropriato riflesso
emozionale su domande disturbanti, in particolare su questioni che si suppone stimolino l’empatia
umana.
L’androide manca di questa facoltà proprio per il tratto che lo contraddistingue dall’umano, cioè
l’assenza di memorie, di un passato e di una infanzia. Nella scena iniziale, ad esempio, Leon
reagisce violentemente ad una domanda che riguarda sua madre – una ovvia non-esperienza.
Ogni replicante è programmato per uno scopo specifico (ed in questo senso è determinato in sé
stesso funzionalmente e concettualmente come un essere che precede la sua esistenza): Roy
Batty, per esempio, è un prototipo combattente, Pris è un prototipo del piacere, e così via. Dopo un
certo periodo di esistenza e di accumulo di esperienza che li abilita all’acquisizione di memorie,
allo sviluppo di facoltà emozionali e alla capacità per una auto-riflessività sulla loro condizione, i
replicanti assomigliano sempre più all’essere per sé stessi con una insoddisfazione dovuta alla
rigidità della loro esistenza, alla programmazione delle loro capacità e per l’ineluttabile fine già
programmata. Questo li porta ad aspirare ad una condizione migliore attraverso la ribellione contro
ciò che li ha determinati. Ma significa anche una scommessa per il raggiungimento dell’autonomia
morale.
Effettivamente la ricerca dei replicanti per autenticarsi uscendo dai ruoli sociali prescritti e la morte
predeterminata dalla Tyrell Corporation rappresenta una angosciosa esperienza che segue la
realizzazione del nulla che risiede “concentrica nel cuore dell’essere”.
Essere per sé stessi è caratterizzato dalla mancanza di sé o della propria essenza, la sua realtà è
tangibilmente delineata da una trascendenza verso la sua mancanza. Citando Sartre, il sé
sorpassa sé stesso attraverso il mondo concepito come “totalità degli esseri nell’ambito
dell’individuo”. [1]
Questo porta ad una affermazione di scelta e potenzialità nell’essere per sé stessi mentre i
replicanti cercano di progettare una possibilità alternativa per il loro futuro, e li porta
all’emancipazione dal loro ruolo di schiavi.
Questo segue il riconoscimento della responsabilità per le proprie azioni che fluisce dall’esperienza
dell’angoscia. E significa anche un coinvolgimento contro la “cattiva fede” nella opposizione al
predeterminato corso degli eventi stabilito dalla Tyrrel attraverso la programmazione biologica e il
rinforzamento di leggi come il “pensionamento” dei replicanti. Ne è un esempio illuminate la
domanda posta dal replicante Rachel a Deckard se ha “mai ‘pensionato’ un umano per sbaglio”
come se avesse anche lui provato il test Voight Kamff. Infatti, la tenacia con cui i replicanti si
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attaccano alle loro vite e l’intensità della coscienza della loro situazione, che è paragonabile a
quella degli umani (che non sono meno mortali) in una forma meravigliosa perché la loro breve vita
li qualifica come perfetti candidati per gli essere per sé stessi poiché in costante ricerca di
diventare qualcosa di più grande; il tutto in opposizione con la maggior parte delle loro controparti
umane nel film che senza riflettere accettano il ruolo assegnato dalla società, senza mettere in
dubbio le implicazioni morali, lo scopo e la legittimità delle loro azioni.
Non mostrano segno della intensa rabbia esistenziale che possiedono i replicanti che si
impegnano costantemente nella sopravvivenza, valutando costantemente la loro situazione,
apprendendo nuove possibilità, e intraprendendo azioni volte alla loro sopravvivenza.
Esempi del tipo umano semi-cosciente è Deckard (inizialmente) e il suo compiaciuto superiore
Bryant che si riferisce ai replicanti definendoli ‘skin-jobs’.
Non mette mai in dubbio la legittimità della sua posizione o gli ordini impartiti dall’organizzazione.
Ironicamente, esso è un umano che meglio dei replicanti rappresenta l’essere in sé stesso.
Rachael, il prototipo più avanzato di Nexus-Six, è ciò che più si avvicina alla somiglianza umana
poiché, a differenza degli altri replicanti, possiede delle memorie appartenenti alla nipote del
Dr.Tyrell. Questo le consente di sostenere il test Voight Kamff molto più a lungo degli altri
replicanti. Ironicamente, è proprio la sua precisa rassomiglianza ad un essere umano che la porta
a mostrare caratteristiche maggiormente legate all’essere in sé stesso che per sé stesso. Cerca
rifugio nell’oggettivazione della sua identità nelle foto dell’infanzia e nelle memorie per rassicurare
se stessa e dimostrare agli altri la sua autenticità.
Paradossalmente è la realizzazione, attraverso Deckard, del suo status di replicante che la porta
ad una dolorosa coscienza della sua situazione, ad un senso di angoscia, e a cercare di
trascendere questa condizione incrementando gli esercizi di volontà e responsabilità, portandola
autonomamente a sviluppare un piano per sfuggire dalla Tyrell Corporation, e gradualmente ad
imparare ad interpretare le sue emozioni nella relazione con Deckard. Essa dunque trascende la
semplice esistenza attraverso il riconoscimento di scelte e possibilità, esercitandosi ad autenticare
sé stessa per scolpire una identità originale, una essenza per diventare altro rispetto a ciò per la
quale è stata programmata; questa auto-determinazione è esplicitata nella sua decisione di salvare
la vita a Deckard uccidendo il replicante Leon, e nel suo piano di fuga per sfuggire agli altri
replicanti. Il momento focale nel quale l’essere in sé stesso si trasforma nell’essere per sé stesso è
la scena di intimità tra lei e Deckard, nella quale chiede di essere abbracciata in un primo esercizio
di volontà e alterità.
La figura di Deckard serve anche a mettere in evidenza una crescita dall’essere in sé stessi a per
sé stessi. La messa in scena della società nel film è de-umanizzata nell’ambiente distopico di una
Los Angeles futuristica (la quintessenza di una società postmoderna), dove la tecnologia permea
ogni aspetto dell’esistenza e la popolazione sembra vivere meccanicamente e senza riflessione,
fondendosi perfettamente con lo sfondo cittadino. Si percepisce uno schiacciante senso di stati,
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inerzia e accondiscendenza con la società dove la folla è indifferenziata, senza scopo e
rassegnata allo status quo, ciecamente conformista o impegnata in un edonismo superficiale; uno
scenario che richiama la “nausea” sartriana nell’esistenza del protagonista. Deckard segue
semplicemente la sua vita ed i suoi impegni così come la maggior parte della popolazione, puro
organo passivo nella società (come, ad esempio, Chew che si occupa di costruire gli occhi dei
replicanti, ignorando il progetto complessivo). Deckard fa parte indubbiamente di questa categoria,
almeno inizialmente. L’intera società di Los Angeles sembra essere stata ridotta allo stato di
“essere” piuttosto che di “esistere”, con una assenza di valori, coscienza o riflessività che
accompagna l’invasione della tecnologia e del capitalismo. E’ ironico l’incontro di Deckard con i
replicanti che lo rende conscio della condizione umana e della sua transitorietà nel momento in cui
termina Zhora e mostra segni di dispiacere, e poi si scontra con Leon che lo informa sul “dolore di
vivere nella paura”; in questo momento comprende l’angoscia che accompagna una vita predeterminata. Anche la relazione con Rachael e il suo ironico salvataggio da parte di un morente
Roy Batty, portano Deckard ad interrogarsi sulla legittimità morale delle sue azioni e sul significato
del suo ruolo mentre empatizza con i replicanti e con il loro amore per la vita.
Alla fine del film lo troviamo ormai aver abdicato all’eticamente oscuro ruolo di cacciatore di
replicanti, dopo aver realizzato la sterilità e la vacuità di questo ruolo cucito su misura per lui dalla
società, e dopo aver rigettato tutti i valori identificati dalla società stessa. Questa nuova coscienza
lo porta ad iniziare un nuovo progetto di vita creando un nuovo mondo per sé stesso, intriso di
nuovi significati e valori che ruotano attorno ai suoi sentimenti per Rachael, e apprendendo la
molteplicità delle possibilità create dalla passione e dalla volontà del suo essere per sé stesso.
Deckard ridefinisce la sua vita negando la staticità del suo passato, trascendendo la possibilità di
un nuovo obiettivo per realizzare pienamente il suo divenire.
In Blade Runner, quindi, essere per sé stessi è presentato come una condizione non intrinseca
dell’esistenza umana ma come uno stato che è pertinente alla auto-riflessività della coscienza
(nell’uomo o nella macchina) che porta alla comprensione della propria nullità e della possibilità di
scelta e libertà e, quindi, alla responsabilità di auto-definirsi attraverso l’annichilimento di qualsiasi
ruolo, dovere o identità che non sono più sufficienti ad identificarlo.
L’aspetto ironico è che i replicanti, ancor prima degli essere umani, incarnano questo stato
dinamico di divenire e non solo di essere, e potrebbe essere un tentativo da parte di Ridley Scott di
dimostrare la natura pervasiva della cattiva fede da parte della società di massa: la vera esistenza
invece che l’essere richiede un livello maggiore di coscienza che mette in questione le identità
auto-imposte per sfuggire all’oggettificazione statica o ad uno stato di esistenza in sé stesso, che
non può corrispondere con la vera identità di sé stesso in nessun momento.
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Bibliografia
J.P. Sartre e A.C. Danto, Being and nothingness: an essay on phenomenological ontology,
(tradotta dal francese da H.E.Barnes), New York, Viking Press, 1975.
Note
[1] J.P.Sartre, Being and Nothingness, p.148
Per approfondire la conoscenza di Jean-Paul Sartre:
Sartre su Wkipedia;
Sartre sulla Stanford Encyclopedia of Philosophy;
United Kingdom Society for Sartrean Studies;
Groupe d’Etudes Sartriennes.
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Buffy the Vampire Slayer. Un teen drama sotto il segno dell’horror
di Valentina Di Stefano
In America, a partire dagli anni ‘50, i ragazzi sono diventati protagonisti ricorrenti in film e serie
televisive, suscitando numerosi consensi tra il pubblico più giovane. Questo genere prende il nome
specifico di teen-drama. L’aumento dei programmi per ragazzi nella Tv americana è stato
obbligato, fin dalle origini, dal mercato economico. Le serie Tv si rivolgevano ai futuri adulti del
domani, che rappresentavano la potente forza economica del Paese, in seguito alla Seconda
Guerra Mondiale. L’idea di un mercato economico orientato sui giovani ha preso forma già a
partire dal 1920, ma è solo dal 1940 che è emerso un gruppo particolarmente influente di giovani
consumatori. C’è da dire, però, che l’aumento di programmi per ragazzi è dovuto anche ai tentativi
dell’industria televisiva di sperimentare sempre nuovi tipi di format TV [1]. Il teen-drama, tuttavia,
non è utile solamente all’aspetto economico: esso permette al giovane spettatore di trovare un
modo per evadere dalla realtà, per commettere degli errori senza esserne il vero protagonista,
riuscendo, in ogni modo, a capire quale sia la cosa giusta da fare. Questo genere di programma
offre, dunque, dei veri e propri insegnamenti di vita, educa e informa i ragazzi; tutto ciò sempre
sotto forma di intrattenimento. I temi trattati sono quelli tipici dei ragazzi del periodo, seguendo le
mode e le abitudini del momento. Ogni teen-drama, infatti, è un vero e proprio documento storico
sulla vita dei giovani che si susseguono nel corso degli anni. Il quadro mostrato mette in evidenza
aspetti e problemi tipici dell’età giovanile: il periodo passato a scuola, il primo amore, le pressioni a
casa, le feste in spiaggia, l’approccio iniziale al mondo degli adulti, i difficili rapporti familiari, il
sesso e la sessualità, l’uso di droghe e alcool. Il ruolo ricoperto dai media è molto importante per
educare i ragazzi a diventare cittadini del mondo a tutti gli effetti, ad assumersi le proprie
responsabilità e ad interagire socialmente. Ovviamente possiamo suddividere il teen-drama in altri
sottogeneri, che distinguiamo in base ai personaggi, agli ambienti rappresentati e alle storie
raccontate. Per quanto riguarda la distinzione seguendo l’ambiente, si tratta per lo più di storie che
si svolgono in una scuola (high school films), o addirittura su una spiaggia (beach films). Esistono,
poi, i teen-drama familiari, dove tutto avviene in una famiglia, in cui si affrontano problemi di
diverso tipo, come il difficile rapporto genitori-figli, le crisi adolescenziali e la ricerca di un lavoro.
Molto spesso, in alcuni teen-drama, la violenza giovanile fa da sfondo alle vicende dei protagonisti
(teen-violence films). È questo il caso di un film che, senza dubbio, rappresenta l’esempio migliore
sul ritratto della vita adolescenziale degli anni cinquanta: Gioventù Bruciata (Rebel without a
cause, 1955). Jim Stark, interpretato dal mitico James Dean, appartiene, appunto, ad un mondo
pieno di violenza, dove ci si scontra spesso tra bande avversarie, rischiando di morire ogni notte
durante le gare clandestine con automobili rubate. I personaggi di questo film cercano la propria
strada, si ribellano al mondo circostante e cercano un cambiamento radicale alla loro noiosa
routine. Negli anni ‘70, invece, il teen-drama più frequente è rappresentato sotto forma di musical:
film cult come La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever, 1977) e Grease (id., 1978),
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entrambi interpretati da John Travolta, riuniscono in un colpo solo musica, moda, amicizia e sesso.
Un altro sottogenere, molto diffuso soprattutto negli anni ‘80, vede i suoi protagonisti alle prese con
le prime cotte adolescenziali, i rapporti interpersonali e i problemi che essi comportano (teencomedies). Incontriamo, infine, il film in cui si affronta il tema del sesso, e molto spesso si tratta
della fatidica prima volta (teen sex comedies). Un famoso film degli anni ‘80, che schiera tra i suoi
protagonisti i diversi tipi “in voga” del momento, è The Breakfast Club (Id., 1985); qui incontriamo,
infatti, il delinquente, la ragazza ribelle, il famoso giocatore della squadra del liceo, la ragazza più
popolare, e il classico “sfigato”. L’aspetto interessante è che questi personaggi, in un certo senso,
sono immortali: li ritroviamo, infatti, anche nei teen-drama dei giorni nostri, differenziandosi dai
precedenti solo per il modo di vestire e lo stile di vita [2] .
Nel ventesimo secolo si sono sviluppate sempre più paure nel mondo giovanile: il cinema affronta
queste paure proprio attraverso i teen-drama. Ecco, quindi, che sempre più spesso vediamo sullo
schermo una giovane ragazza alle prese con una gravidanza indesiderata, un ragazzo che si fa
sopraffare dalla droga e dall’alcool, dei genitori violenti che scaricano tutta la loro rabbia sui propri
figli. Un problema abbastanza comune, che è affrontato nei teen-dram, sotto diversi punti di vista è
la difficoltà ad inserirsi nella società a causa della propria diversità: il colore di pelle, la propria
sessualità, o addirittura il ceto sociale a cui si appartiene.
Oltre ad opere cinematografiche, il vero teen-drama, a partire dagli anni ‘80, lo troviamo soprattutto
nelle serie televisive. A questo proposito possiamo fare una distinzione netta fra due tipi di serie
Tv: la serie reale, che rispecchia appunto la realtà e che quindi narra le vicende di giovani
“normali” simili agli spettatori (Beverly Hills 90210, Dawson’s Creek, The O.C., Veronica Mars) e la
serie surreale, che riprende storie di fumetti, horror e fantasia (Smalville, Buffy The Vampire
Slayer, Roswell). In entrambi i filoni, al centro di tutto, c’è un gruppo di amici, che affronta la realtà
circostante facendosi forza l’un l’altro. Questi due tipi di teen-drama si differenziano tra loro
soprattutto per il modo in cui affrontano i diversi problemi adolescenziali: mentre il primo filone
segue un procedimento standard, che rispecchia in maniera fedele la realtà, il secondo, pur
usando temi fantastici, riesce comunque ad affrontare il problema e a dare degli insegnamenti. Un
altro aspetto interessante del teen-drama è la capacità di avvicinare il giovane spettatore al cinema
e alla letteratura: specialmente negli ultimi anni, i ragazzi non leggono più opere letterarie, ma
attraverso le numerose citazioni dei protagonisti dei teen-drama, che riguardano autori quali
Stendhal, Freud, Kafka o opere cinematografiche classiche, è possibile istruirli in modo alternativo
[3]. Questo avviene anche, ovviamente, perché gli sceneggiatori sono molto preparati su questi
argomenti. Notiamo che, mentre questo genere è indirizzato principalmente a bambini, adolescenti
e giovani che si affacciano al mondo dei grandi, dietro la cinepresa e in tutta la produzione
troviamo solamente adulti; a questo punto è facile pensare che la vita adolescenziale
rappresentata sia filtrata attraverso la loro visione. Molto frequentemente, infatti, i personaggi di
queste serie televisive usano un linguaggio alquanto sofisticato, non adatto a ragazzi della loro
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età, ricco di metafore, ragionamenti filosofici e spiegazioni di psicologia sull'esistenza umana e sui
propri sentimenti (troviamo un chiaro esempio di questi dialoghi nella serie Dawson’s Creek).
Nella società contemporanea il teen-drama non è più esclusivamente un genere per ragazzi, ma
ha allargato la sua cerchia anche ad un folto gruppo di adulti. Questo è avvenuto soprattutto per
quanto riguarda la serie Buffy The Vampire Slayer, molto più intensa delle altre serie Tv. Essa può
essere paragonata ad altre serie come Vita da strega, Genio per amore e Sabrina, solamente
perchè la protagonista ha dei poteri particolari ma, al contrario di queste situation comedy, lo stile
di Buffy è molto dark, ricorrono spesso elementi gotici e forze oscure, gli ambienti rappresentati
sono tetri e per la maggior parte gli episodi si svolgono di notte. Un’altra caratteristica
fondamentale è il suo onnipresente humour ironico.
In Buffy la protagonista è una giovane ragazza di sedici anni, interpretata da Sarah Michelle
Gellar, che si distingue dalle sue coetanee per il suo particolare lavoro: ammazzare i vampiri. Buffy
ha un vero e proprio dono, è dotata di una forza soprannaturale ed è capace di guarire in fretta
dalle ferite, ed è l’unica cacciatrice su tutta la Terra, è la prescelta. Le vicende di questa giovane
eroina si svolgono in una cittadina apparentemente tranquilla, Sunnydale; in realtà proprio qui si
trova la bocca dell’inferno. Al suo seguito Buffy ha una vera e propria squadra: il suo osservatore
Rupert Giles (Anthony Stewart Head), i suoi amici del liceo, la timida Willow (Alyson Hannigan),
l’imbranato Xander (Nicholas Brendon), e Angel (David Boreanaz), un vampiro che decide di
lottare contro le forze del male in quanto possiede un’anima. In ogni stagione la banda di Buffy,
soprannominata “Scooby Gang”, deve riuscire ad evitare la fine del mondo. Al contrario della
maggior parte dei teen-drama, in Buffy, i protagonisti, oltre a scontrarsi con problemi
adolescenziali tipici dell’età, devono affrontare anche situazioni pericolose in cui rischiano di morire
ogni volta; tutto questo non li sconvolge più di tanto e riescono, in ogni caso, a portare avanti una
sorta di esistenza tranquilla. Inoltre nel corso delle sette stagioni i personaggi crescono, maturano
attraverso le diverse esperienze che vivono, e questo è un chiaro aspetto speculare della vita
reale. Nel primo episodio della prima stagione, (Benvenuti al College/Welcome to the Hellmouth e
La riunione/The harvest, 1.01 e 1.02) Buffy giunge, con sua madre Joyce, a Sunnydale, dove
dovrà iniziare una nuova vita, fare nuove conoscenze e, soprattutto, dovrà rendersi conto che il
male è presente anche qui. Il primo incontro con la realtà giovanile avviene nella scuola, dove c’è
un gruppo di snob: Cordelia fa parte delle ragazze alla moda e cerca di far entrare nella sua
cerchia anche Buffy. Le fa delle domande sul colore dello smalto, sul ragazzo più “in” della scuola,
un vero e proprio test di ingresso, che Buffy supera alla perfezione, in quanto a Los Angeles era
un po’ come Cordelia. In realtà Buffy non è così superficiale e, quando Cordelia tratterà male la
povera Willow, la nostra eroina deciderà di scegliere la compagnia dell’anonima sfortunata,
frequentata solo dal suo amico di infanzia Xander. È proprio da questo punto che ha inizio una
bellissima amicizia, che si rivelerà fondamentale per la loro sopravvivenza. Buffy, inizialmente, non
sopporta l’idea di essere una Cacciatrice, e ancor di più la prescelta; vorrebbe vivere la sua vita
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come tutti i suoi coetanei, pensando solo a divertirsi, facendo cose banali e godendosi la sua
giovane età. Di questo problema ne discute con Rupert Giles, il suo Osservatore, che lavora come
bibliotecario nella scuola, e che deve aiutarla nella sua missione: salvare il mondo dalla minaccia
del Maestro, intrappolato sotto Sunnydale. Nel primo episodio, inoltre, avviene il primo, breve
incontro tra Buffy e Angel, il ragazzo misterioso che conquisterà da subito la nostra eroina che,
solo in seguito, scoprirà la sua vera natura di vampiro.
Buffy si distingue dalle altre serie giovanili anche nel modo di rappresentare problemi abituali
dell’età adolescenziale. Tutto è metaforico, e tutto ha un collegamento con il surreale: i mostri, gli
avvenimenti misteriosi che avvengono in ogni episodio rappresentano la realtà sotto una forma
diversa, molto più drammatica. In Buffy, infatti, troviamo metafore che, in realtà, vanno prese alla
lettera. Nel secondo episodio della prima stagione, (La riunione/The harvest, 1.02) mentre Buffy si
sta preparando per uscire, perché deve salvare il mondo dalla minaccia del Maestro, sua madre
entra in camera e gli proibisce di andare via e, quando Buffy la implora dicendole che si tratta di
una cosa davvero importante, Joyce non accetta le sue motivazioni e le risponde ironicamente: “Lo
so, se non uscirai sarà la fine del mondo. È tutta questione di vita o di morte quando avete sedici
anni”. Joyce crede che Buffy sia una normale sedicenne e non può pensare che si tratti davvero
della fine del mondo. Esistono numerose altre metafore che in Buffy diventano reali: “La scuola è
un inferno!”, il liceo di Sunnydale è effettivamente la bocca dell’inferno; “Il mio ragazzo è un
mostro!”, in diversi episodi i ragazzi diventano mostri; “Sono invisibile!”, una ragazza trascurata da
tutti è diventata davvero invisibile. Le metafore sono utilizzate per rappresentare le paure più
comuni degli adolescenti e dei ragazzi che si avvicinano all’età adulta, descrivendo in maniera
chiara emozioni che, altrimenti, non potrebbero essere comprese pienamente da tutta la società
odierna [4].
Molte volte i genitori cercano di inculcare i propri desideri nei figli, che rischiano di diventare solo
delle copie, soffocando le loro aspirazioni. Questo problema è affrontato anche in un episodio di
Buffy (Streghe/The Witch, 1.03), in due casi diversi: Buffy e Amy. Nella situazione di Buffy sua
madre cerca di farle calcare le sue orme nella scuola, come scrivere nella redazione del giornale
scolastico, ma Buffy ha altro per la testa e non si fa sottomettere. Amy, invece, deve scontrarsi con
una madre più potente, una vera e propria strega, che scambia il proprio corpo con la figlia, che
considera una perdente, pur di tornare a splendere come cheerleader. Amy da sola non riesce a
ribellarsi alla volontà della madre e saranno Buffy e i suoi amici ad aiutarla.
Nella maggior parte delle scuole si formano gruppi di ragazzi crudeli, si tratta per lo più di figli
viziati provenienti da ricche famiglie, che per combattere la noia si divertono a prendere in giro i più
deboli, costituendo un vero e proprio branco. Anche al Sunnydale High School esiste un gruppo
simile, ma trattandosi di Buffy, si raggiunge l’eccesso: questi ragazzi, insieme a Xander, diventano
un vero e proprio branco di bestie, perché posseduti dallo spirito di una iena. Adesso non solo
continuano a prendere in giro chi li circonda, ma attuano veri e propri massacri: il maialino,
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mascotte del liceo, e il preside Flutie (Il branco/The pack, 1.06). Questo episodio è un chiaro
esempio di come siano pericolosi questi adolescenti insoddisfatti, che godono solo nel far del male
a qualcuno, non solo fisicamente, ma soprattutto psicologicamente. Nella parte iniziale
dell’episodio, infatti, è la stessa Buffy ad essere presa in giro, per il suo modo di essere e per le
sue stranezze. Buffy, nonostante sia la prescelta, la cacciatrice, nonostante la sua estrema forza
fisica, si sente ferita dalle loro parole. Altre volte sono le parole non dette a ferire qualcuno,
l’indifferenza degli altri può fare più male dei maltrattamenti: in uno degli ultimi episodi della prima
stagione, una ragazza del liceo mai presa in considerazione, neanche dagli insegnanti, diventa
invisibile e cerca di vendicarsi su chi l’ha privata delle attenzioni che chiedeva. L’insegnamento è
evidente: l’indifferenza altrui può scatenare una rabbia repressa che può diventare particolarmente
pericolosa (Lontano dagli occhi/Out of mind out of sight, 1.11).
In un modo del tutto originale in questa serie viene affrontato anche il problema della droga, degli
steroidi in particolare. Il coach della squadra di nuoto del Sunnydale High, per avere dei grandi
campioni, somministra, attraverso il vapore della sauna, una sostanza capace di trasformare quei
ragazzi in veri e propri mostri marini (Il dna del campione/Go fish, 2.20). È una metafora, alquanto
forte, che vuole dimostrare che con la droga non si scherza, è pericolosa e può trasformare chi la
prende, non in un mostro marino, ma comunque in una persona orribile.
In Buffy viene trattato anche il tema del divorzio: i genitori della protagonista sono divorziati e,
nell’episodio in cui tutti gli incubi dei cittadini di Sunnydale diventano reali (Incubi/Nightmares,
1.10), scopriamo che Buffy si sente in colpa per la separazione dei suoi genitori e nel suo incubo
suo padre le dice chiaramente che è tutta colpa sua se lui e sua madre non stanno più insieme, a
causa di tutti i guai in cui si è trovata immischiata, e conclude tutto confessandole che non vuole
vederla più. È un duro colpo per Buffy, che in quel momento si trova a vivere la paura peggiore di
tutti i figli di divorziati. In un episodio della seconda stagione, Buffy deve scontrarsi con un’altra
realtà molto comune per i figli di divorziati: conoscere il nuovo compagno della madre (Il fidanzato
di mamma/Ted, 2.11). Dal primo momento Buffy è diffidente nei confronti di quest’uomo, Ted, non
solo perché non è suo padre, ma perché nota in lui qualcosa di sospetto, troppo perfetto per
essere vero. Xander e Willow lo adorano e credono che quella di Buffy sia solo gelosia. Buffy si
sente braccata: l’arrivo di quest’uomo ha cambiato anche il comportamento di sua madre nei suoi
confronti, è più severa del solito. Inoltre Ted invade la sua privacy frugando in camera sua,
leggendo il suo diario e la minaccia di farla chiudere in un ospedale psichiatrico. Buffy si ribella,
lottano e lo uccide. Si trova a vivere un vero e proprio incubo: è abituata ad uccidere, ogni giorno
lo fa, e si tratta sempre di vampiri o demoni, ma quando uccide Ted, un essere umano, si sente
sperduta e l’unica cosa che riesce a fare e ammettere le sue colpe alla polizia. Tuttavia sappiamo
bene che a Sunnydale non tutto è come sembra: Ted ritorna perché in realtà è un robot dalle
sembianze umane. Buffy aveva ragione ad avere dei dubbi su di lui, e i suoi amici devono
ricredersi.
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Buffy, anche essendo un’eroina, è un’adolescente a tutti gli effetti. A scuola non è certo la prima
della classe, e ha difficoltà a studiare per i compiti in classe. Anche lei, come la maggior parte dei
liceali, pensa che studiare chimica, matematica, storia e inglese sia inutile nella vita reale. Inoltre,
come spesso accade nel rapporto tra figli e genitori, spesso Buffy è costretta a dire bugie, per
nascondere il suo segreto alla madre, ma anche per divertirsi un po’ alle spalle di Giles. Questo
avviene nell’episodio in cui Buffy è costretta da Cordelia ad andare ad una festa di una
confraternita universitaria (Macabra festa/Reptile boy, 2.05). Alla festa infatti, lei e Cordelia
vengono drogate in quanto i componenti della confraternita le hanno scelte come offerta per il loro
demone-rettile. Tempestivamente intervengono Giles, Xander e Angel che le traggono in salvo.
Alla fine dell’episodio Buffy rivolta a Giles dice: “Ho detto una bugia. E ho bevuto” e Giles, come un
buon padre di famiglia, le risponde: “Stavi per essere divorata da un gigantesco demone-rettile. Le
parole ‘Ti serva da lezione’ sono alquanto ridondanti”.
Come in ogni teen-drama anche qui le relazioni sentimentali sono spesso presenti, soprattutto
nella seconda stagione. E come in tutta la serie, anche per quanto riguarda l’amore si fa uso di
molte metafore. Xander è l’esempio migliore per relazioni alquanto pericolose. Questo
personaggio non ha molta fortuna con le ragazze, ma in un episodio riesce a far colpo sulla sua
professoressa di scienze, che lo invita a casa sua per una ricerca (La mantide/Teacher’s pet,
1.04). Ogni ragazzo sogna di piacere ad una donna matura, è un’esperienza che fa crescere
l’autostima. Xander, però, è finito con la donna sbagliata perché, in realtà, la sua insegnante è una
mantide religiosa gigantesca che vuole ucciderlo. E non è l’unica volta che Xander si imbatte nella
ragazza sbagliata: questo avviene di nuovo, quando frequenta una straniera giunta a casa di Buffy
per uno scambio culturale. Questa ragazza è davvero innamorata di Xander e tutto filerebbe liscio,
se non fosse per il fatto che…è una mummia (La prescelta/Inca mummy girl, 2.04). Queste
esperienze traumatizzano Xander, che si sente ancora più un fallito. Anche Willow ha
un’esperienza simile: conosce un ragazzo navigando su internet e poi scopre che si tratta di un
demone intrappolato nel computer (Il male nella rete/I, Robot…you, Jane, 1.08). Questa situazione
permette anche di lanciare un messaggio implicito ai giovani spettatori: fare molta attenzione in
chat, non fidarsi troppo, in quanto non si sa mai chi è la persona con cui si conversa, può essere
chiunque e Willow ne sa qualcosa. Tra Xander e Willow c’è una forte amicizia che li lega sin
dall’infanzia. In realtà Willow è segretamente innamorata di Xander e non sopporta l’idea che a lui
interessi qualcun’altra, ma Xander la considera una specie di ragazzo: è “il suo migliore amico” e
sa tutto delle donne. Ovviamente la povera Willow è ferita da queste osservazioni, ma non lo dà a
vedere e continua ad ascoltare gli sfoghi dell’amico, che non riesce a fare colpo su Buffy. Xander
si ritrova nella stessa situazione, l’unica differenza sta nel fatto che con Buffy è lui a vestire i panni
del migliore amico. Nella seconda stagione Xander inizia una strana relazione con Cordelia, e
quando Willow ne viene a conoscenza è turbata perché Xander ha scelto di stare con una ragazza
che disprezzava e non con la sua migliore amica. Fortunatamente per Willow è nei paraggi Oz, un
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ragazzo della scuola, chitarrista in una band, che resta colpito da Willow dal primo momento in cui
la vede. Proprio quando sta per sbocciare l’amore tra i due sorge un piccolo problema: Oz viene
morso dal cuginetto licantropo e lo diventa a sua volta, trasformandosi in un lupo mannaro nelle
notti di luna piena (Notte di luna piena/Phases, 2.15). Willow non è superficiale come molte sue
coetanee, è interessata davvero ad Oz e accetta in modo tranquillo l’idea che sia un licantropo. La
relazione che nasce tra Xander e Cordelia è paradossalmente molto più complicata, in quanto lei
fa parte di un mondo in cui Xander non è benvisto. Cordelia si vergogna di Xander perché non è al
suo livello, e non vuole che la storia venga allo scoperto, non osa affrontare le sue amiche snob,
così continua a frequentarlo di nascosto. Dopo una breve pausa tornano insieme e Cordelia
stavolta non ha paura di essere derisa dalle sue amiche, ha capito quanto sbagliava ad essere
superficiale come loro. Le due relazioni prendono una brutta piega quando Willow e Xander
iniziano una tormentata “quasi” relazione, alle spalle dei rispettivi partner, e il senso di colpa li
opprime. Dopo un bacio sotto gli occhi esterrefatti di Cordelia e Oz, le reazioni al tradimento sono
diverse: Cordelia si allontana da Xander, Oz, che è pazzamente innamorato di Willow, la perdona
perché non può fare a meno di lei.
La storia d’amore tra Buffy e Angel va contro ogni senso: lei è una Cacciatrice di vampiri e lui un
vampiro. Il fatto che lui abbia un’anima lo porta ad innamorarsi di Buffy, fin dal primo momento in
cui la vede nella sua vecchia scuola di Los Angeles. Quando si conoscono, tra i due c’è subito
attrazione, Buffy è affascinata da questo ragazzo misterioso che corre sempre in suo aiuto, ma è
all’oscuro sulla sua natura di vampiro. Il primo bacio tra i due, infatti, non è un bellissimo ricordo: il
volto di Angel si trasforma in quello di un vampiro e Buffy resta scioccata e inizia ad urlare
spaventata. Buffy, tuttavia, accetta l’idea che Angel sia un vampiro in quanto se ne è innamorata.
Inizialmente, però, entrambi si rendono conto che la loro storia non funzionerebbe, ma sono
comunque gelosi l’uno dell’altra. L’amore è talmente forte che non possono fare a meno di amarsi
e decideranno di stare insieme. Buffy cerca di rendere il rapporto con Angel il più normale
possibile: vanno addirittura al cinema, e lei vorrebbe mettere dei cassetti a casa di Angel per le
sue cose, come fanno tutte le coppie. Tuttavia, il solo fatto che Buffy non può vedere Angel alla
luce del sole, se non vuole che diventi un ammasso di cenere, è un motivo per cui questa storia
non può rientrare nella norma. Nella terza stagione Angel vuole suicidarsi, ma Buffy, con il suo
amore glielo impedisce. Tra i due sorgono spesso problemi comuni a tutti i giovani, come la
gelosia, o addirittura la paura per il futuro: Angel non può dare dei figli a Buffy e la cosa lo turba.
Alla fine della terza stagione Joyce, quando ormai è al corrente di tutto, va a trovare Angel e gli
dice di lasciare Buffy per il suo bene; “È cresciuta troppo in fretta. A volte perfino io mi dimentico
che è una ragazzina. Si affaccia ora alla vita” e inoltre aggiunge che, quando si tratta di Angel,
Buffy è come ogni altra donna innamorata, ossia impulsiva e pronta a sacrificare tutto per il suo
amore. Angel è colpito dalle parole di Joyce e dopo l’incubo del matrimonio con Buffy, in cui alla
luce del sole è Buffy quella che brucia e non lui, decide di lasciarla, dicendole: “Stare insieme non
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è giusto per te, meriti di più, un uomo che possa portarti alla luce del sole, che possa fare l’amore
con te”. A questo punto per chiarire l’ultima frase riportata è necessario trattare il tema della “prima
volta” tra Buffy e Angel, in cui è presente una metafora alquanto efficace per quanto riguarda la
prima esperienza sessuale. È il giorno del suo diciassettesimo compleanno e la notte Buffy, che
solitamente fa dei sogni premonitori, sogna sua madre che le chiede “Pensi davvero di essere
pronta?” e subito dopo fa cadere una tazza. Nella realtà la madre si rivolge a Buffy facendole la
stessa domanda e c’è di nuovo la tazza che cade. Sebbene nella realtà Joyce si riferisca alla
patente, nel sogno è chiaro che si sta parlando della prima volta con Angel. Buffy, infatti, si sente
pronta ad affrontare questa importante esperienza con Angel, l’unico per cui abbia mai provato un
sentimento così forte. I due fanno l’amore e si scambiano il simbolico “Ti amo”. Subito dopo si
addormentano, e al suo risveglio Angel sta male, esce fuori e urla chiamando ripetutamente Buffy,
che però continua a dormire tranquilla. Angel si trasforma a causa di una maledizione: alcuni
zingari, per vendicare la morte di una ragazza uccisa da Angel, lo hanno maledetto restituendogli
l’anima, che perderà solamente in un istante di felicità. Angel ha vissuto quell’istante con Buffy ed
è tornato il vampiro di un tempo, il perfido Angelus. Buffy si sveglia e non trova Angel al suo fianco,
nessuno sa dove sia finito e lei è preoccupata perché pensa gli sia accaduto qualcosa di brutto. È
facile rivedere in Buffy la ragazza che aspetta invano la chiamata del suo lui, dopo la sua prima
volta. Inoltre, il rapporto tra Buffy e Angel enfatizza il pericolo di un incontro sessuale,
specialmente con un adulto, essendo Angel un vampiro di circa 240 anni [5]. Quando Buffy rivede
Angel, dopo la sua trasformazione, resta sconvolta: le dice cose crudeli, come ad esempio che ha
molto da imparare sugli uomini, e va via dicendole che la chiamerà (Un attimo di felicità/Innocence,
2.14). Questo comportamento, seppur trattandosi di un vampiro senz’anima, rispecchia
l’atteggiamento di molti ragazzi del mondo reale. Dopo aver ottenuto quello che volevano
cambiano e diventano un’altra persona. Buffy, parlando con Willow le dice: “È completamente
diverso dal ragazzo che conoscevo”, inoltre vive questa drammatica situazione come farebbe ogni
adolescente normale, piange e sta male perché si rende conto di aver perduto Angel, e si incolpa
per tutto. Sua madre inizialmente le dà conforto senza sapere cosa è accaduto. In seguito, quando
viene, più o meno, a conoscenza dei fatti, Joyce parlando di Angel sembra capisca completamente
lo stato d’animo di Buffy “…le solite cose. È cambiato, non è più come prima” (Passioni/Passion,
2.17). In realtà Joyce si riferisce a quello che avviene molto spesso negli adolescenti, e non sa che
quello di cui parla è la verità riguardo alla natura di Angel.
Joyce ogni volta interpreta gli eventi in maniera sbagliata e scopre la verità su sua figlia solo alla
fine della seconda stagione. In precedenza crede che Buffy sia una ribelle, che frequenta gruppi
sbagliati, e lo dimostra il fatto che è stata espulsa dalla sua vecchia scuola di Los Angeles per aver
dato fuoco alla palestra. Sua madre non immagina che Buffy ha appiccato il fuoco per ammazzare
un gruppo di vampiri. Questo segreto, nelle prime stagioni, porta ad una separazione tra Buffy e
Joyce. Buffy è un’adolescente a tutti gli effetti, ma ha delle grosse responsabilità sulle spalle e non
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può subire le punizioni di sua madre, in quanto il mondo ha bisogno di lei. È costretta perciò a
mentire a sua madre e questo le costa fatica, ma la sua missione viene prima di tutto. Quando
Joyce scopre che Buffy è una Cacciatrice, non capisce a fondo la questione e, infatti,
ingenuamente le chiede: “Non potevi rifiutare di essere una cacciatrice?” e cerca quasi una
spiegazione, alquanto superficiale, a tutto ciò: “Forse è perché ti è mancata una figura paterna”.
Madre e figlia finiscono a litigare: Buffy critica sua madre per non aver capito niente in tutti questi
anni, neanche quando le lavava i panni sporchi di sangue. Joyce le proibisce di andare a
combattere Angelus e aggiunge che se uscirà da quella porta non dovrà più tornare a casa. Buffy,
però, è costretta ad andare e dopo aver sconfitto Angelus andrà via da Sunnydale. Quando Buffy
si trasferisce in un’altra città, dove lavora in un fast food per mantenersi da sola, troverà comunque
il male da affrontare come a non potersi emancipare dal suo ruolo: alcuni demoni catturano i
ragazzi che vivono per strada per portarli in un’altra dimensione, farli lavorare tanti anni e rispedirli
sulla terra. L’unico problema è che un giorno sulla terra equivale a moltissimi anni in questa
dimensione infernale, e quando questi ragazzi tornano sulla terra sono già anziani e muoiono di lì
a poco. Una chiara metafora del crescere troppo in fretta, come avviene a molti ragazzi costretti a
vivere situazioni che li portano a scontrarsi con la realtà prima del tempo (Identità segreta/Anne,
2.01). In seguito a questa terribile esperienza Buffy decide di ritornare a Sunnydale, dove sua
madre l’accoglie a braccia aperte. Non è lo stesso atteggiamento dei suoi amici, che in un certo
senso si sono sentiti traditi.
La fiducia in Buffy è fondamentale. Ci sono diversi casi in cui, però, questa fiducia viene a
mancare per diverse ragioni. Quando Buffy lascia Sunnydale per riflettere meglio su ciò che è
accaduto (ha ucciso l’unico uomo che abbia mai amato), i suoi amici si trovano a dover affrontare i
vampiri che girano ancora per le strade della città, e non ottengono mai buoni risultati. Al rientro di
Buffy, Xander è quello più arrabbiato e ci sarà uno scontro durissimo durante una festa a casa di
Buffy: tutti la accusano, sua madre e Xander in primis. Buffy, tra le lacrime, continua a ripetere che
non possono sapere quello che ha dovuto passare, e si sente sperduta, sa di aver perso la stima
di chi aveva di più caro. La situazione, tuttavia, si risolve per il meglio dopo aver combattuto fianco
a fianco per fermare un gruppo di zombie che ha fatto irruzione in casa, nel bel mezzo della festa
(La notte dei morti viventi/Dead man’s party, 3.02). Nella prima parte dello stesso episodio, Buffy
cercando di convincere Willow ad uscire con lei le dice: “Dai, gli amici non si lasciano mai soli”, in
realtà è proprio quello che lei ha fatto con Willow e gli altri, e l’unico che sembra notare il
paradosso della frase è il Giles. Anche in un altro caso Buffy torna a perdere la fiducia dei suoi
amici: Angel torna dall’inferno, ma Buffy non lo rivela a nessuno, e quando Xander lo scopre tutto il
gruppo è deluso dalle bugie di Buffy. Ancora una volta Buffy deve convincere gli amici della sua
buona fede: Angel non è malvagio, ha di nuovo un’anima. Buffy non è l’unica a deludere gli amici,
è capitato anche a Giles il giorno del diciottesimo compleanno di Buffy: l’Osservatore, nel giorno in
cui la sua Cacciatrice si affaccerà alla maggiore età, sarà obbligato a farle, di nascosto,
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un’iniezione che la priverà dei suoi poteri, e dovrà imprigionarla con un pericoloso vampiro; se la
Cacciatrice riuscirà a sopravvivere avrà superato il test. Giles è costretto a fare tutto ciò, in quanto
non può disobbedire al Consiglio. Quando, però, vede il terrore negli occhi di Buffy, che ha avuto
un brutto incontro con due vampiri, decide di svelarle il segreto. Venendo a conoscenza della
verità, Buffy è delusa e arrabbiata e rivolgendosi a Giles usa parole dure: “Chi è lei? Io non la
conosco!”. Giles non solo perde la fiducia della sua Cacciatrice ma, per averle rivelato la verità sul
test, il Consiglio lo licenzia, in quanto si è reso conto che Giles nutre l’amore di un padre per Buffy
e ciò è superfluo alla missione. Buffy riuscirà a perdonare Giles, perché capirà le motivazioni che
lo hanno spinto ad agire così. Il rapporto Buffy/Giles, in effetti, è simile a quello che c’è tra padre e
figlia, molto spesso non riescono a capirsi per la differenza di età, due generazioni a confronto: la
musica che Buffy adora secondo Giles è solo rumore. Quando a Sunnydale arriva un’altra
Cacciatrice, Kendra, Buffy dimostra di essere gelosa, in quanto la nuova arrivata sembra essere
Giles al femminile, conosce perfettamente il manuale e segue le regole di Giles alla lettera, al
contrario di Buffy che è un’impulsiva e non ha regole (L’unione fa la forza II/What’s my line? II,
2.10). Questa gelosia può essere spiegata proprio sul piano affettivo: non solo Giles pensa a Buffy
come ad una figlia, ma è la stessa Buffy che vede in Giles un padre, soprattutto per il fatto che suo
padre non è mai presente.
Come accade ad ogni adolescente, anche i protagonisti di Buffy temono il futuro. La più
spaventata è proprio la Cacciatrice. È a conoscenza del fatto che la sua vita è diversa dagli altri, lei
è un’eroina e non può pensare ad un vero lavoro. Nell’episodio in cui Buffy, Xander e Willow fanno
un test riguardo al proprio futuro, Buffy ironizza sul suo lavoro di Cacciatrice, e si rende conto che,
pur avendo solo sedici anni, è piena di responsabilità. Inoltre nel risultato del test risulta che Buffy
è idonea a lavorare in polizia. È abbastanza curioso notare che la paura di diventare un adulto
può essere paragonata a quella di essere vampirizzato. I vampiri delle prime stagioni usano tutti
un linguaggio da adulti. In un episodio della prima serie (Incubi/Nightmares, 1.10) Buffy sogna il
vampiro Maestro che le mette una mano intorno al collo e, quando si sveglia, trova la mano di sua
madre quasi nella stessa posizione. L’associazione dei due, vampiro e madre, è chiarita dal fatto
che entrambi cercano di muovere Buffy verso una sorta di risveglio. Nello stesso episodio il
Maestro dirà: “Noi siamo definiti dalle cose di cui hai paura”: sia l’essere vampirizzati sia il divenire
adulti, in Buffy, sono esperienze spaventose. Angel, come vampiro, rappresenta il lato dell’adulto
che riguarda gli aspetti attraenti, ma allo stesso tempo pericolosi, di ciò che segna il passaggio tra
l’adolescenza e l’età adulta: la sessualità. Al contrario, il Maestro, avendo a suo servizio un gruppo
di vampiri fedeli e servizievoli, rappresenta il patriarca, l’adulto dedito alla famiglia e al lavoro. La
differenza tra giovani e adulti è accentuata proprio dal linguaggio usato dai protagonisti: molto
spesso Buffy, Xander e Willow utilizzano riferimenti della cultura moderna che l’adulto signor Giles
non riesce a cogliere, e viceversa, Giles spesso usa vocaboli difficili e parla in modo complicato,
risultando incomprensibile ai ragazzi.; divertente la frase di Buffy rivolta a Giles durante uno dei
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suoi soliti discorsi enigmatici: “Penso di rappresentare l’opinione di tutti qui quando dico, ‘Eh’?” [6].
Questo teen-drama, inoltre, è tutto nel segno dei giovani; gli adulti di Buffy, infatti, sono una
presenza alquanto inutile. Basta pensare al fatto che le vittime delle forze del male nel liceo di
Sunnydale sono per lo più insegnanti. Gli adulti non si sanno difendere come fanno i ragazzi,
hanno l’autorità, ma per i fatti strani che succedono a Sunnydale, non serve a molto: un chiaro
esempio è il preside Flutie che, prima di essere sbranato dai ragazzi posseduti dalla iena, continua
a dare degli ordini. Le stesse forze dell’ordine sono alquanto incapaci nel combattere demoni e
vampiri. In un episodio molto divertente, il maggior impegno dei ragazzi rispetto ai più grandi, viene
reso ancora più evidente: gli adulti mangiano della cioccolata magica e tornano a comportarsi
come adolescenti. Buffy e gli altri ragazzi sono costretti ad agire come dei veri adulti per riuscire a
riportare la situazione alla normalità. I ruoli si sono invertiti: adesso è Buffy che dà degli ordini a
sua madre e che deve frenare i suoi istinti adolescenziali (I dolci della banda/Band candy, 3.06). In
questo episodio, inoltre, è curioso notare come il preside Snyder, che normalmente dà il tormento
a Buffy e i suoi amici, tornato adolescente si schiera proprio con loro, il che fa pensare che da
giovane sia stato a sua volta un emarginato. L’unico adulto della serie che riesce davvero a dare
una mano è Giles; ma anche lui, come gli adulti di tutto il mondo, non sempre è capace di dare
ragione a qualcuno più giovane. Nell’episodio della prima stagione, quando Xander è posseduto
dallo spirito della iena, Buffy, piuttosto preoccupata, va a parlare con Giles dello strano
comportamento dell’amico, che secondo lei è dovuto a qualcosa di soprannaturale. Giles le fa una
serie di domande: “Prende in giro i meno fortunati?” “Ha cambiato modo di vestire?” “Passa la
maggior parte del tempo con degli imbecilli?”, e quando Buffy risponde di sì a tutto, insistendo che
la faccenda è grave, Giles le risponde ironicamente: “Devastante. Si sta trasformando in un
sedicenne. Dovrai ucciderlo di sicuro”. Ovviamente la giovane e inesperta Buffy ha ragione mentre
Giles sbaglia, dando una spiegazione razionale ad un avvenimento anomalo. Questo è quello che
fanno tutti gli adulti della serie, cercano di trovare una logica alle vicende assurde che vivono: un
assalto di vampiri viene visto semplicemente come un attacco da parte di una gang violenta.
L’unico genitore che compare regolarmente è la madre di Buffy, Joyce. I genitori di Xander e
Willow sono del tutto marginali: la madre di Willow appare in un solo episodio ed è chiaro che non
è molto presa dalla vita di sua figlia, in quanto confonde il nome di Buffy, la migliore amica di
Willow, con “Bunny”; i genitori di Xander, seppur marginali, hanno avuto un’influenza negativa sulla
formazione psicologica del figlio.
La tradizione della Cacciatrice afferma che la prescelta combatte vampiri, demoni e forze
dell’oscurità da sola. Buffy stravolge tutto, è l’unica Cacciatrice della storia che al suo fianco ha la
Scooby Gang, senza la quale sarebbe perduta. Nell’episodio della seconda stagione, (Avversario
pericoloso/School hard, 2.03) alcuni vampiri invadono la scuola durante un incontro tra professori
e genitori. Spike sta per uccidere Buffy, ma viene bloccato da Joyce che lo colpisce con un’ascia
lasciandolo esterrefatto; Spike, con la sua solita ironia, commenta il fatto che una Cacciatrice con
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famiglia e amici non si era mai vista. In effetti, in Buffy, l’amicizia ha un’importanza fondamentale.
Nella maggior parte dei casi, senza l’aiuto dei suoi amici Buffy non ce l’avrebbe fatta a superare
tutto. Inizialmente Buffy non vuole che Willow e Xander la aiutino a combattere perché teme per la
loro incolumità, ma in seguito dovrà ricredersi. C’è un episodio particolare della terza stagione in
cui vediamo, a causa di un desiderio di Cordelia, cosa sarebbe successo se Buffy non fosse mai
giunta a Sunnydale (Il desiderio/The wish, 3.09). Nell’altra realtà Buffy è fredda, pessimista e
alquanto insensibile, mentre Willow e Xander sono stati vampirizzati Ovviamente alla fine
dell’episodio, in questa realtà muoiono tutti e tre, e questo accade perché non erano uniti tra loro:
l’amicizia nel mondo reale ha fatto la differenza tra successo e fallimento [7].
La Buffy della realtà parallela è molto simile a Faith, la Cacciatrice attivatasi dopo la morte di
Kendra. Faith ha vissuto sempre da sola, non ha amici, e ciò la porterà ad essere indipendente e a
sfruttare il suo potere in modo negativo, alleandosi con il malvagio Sindaco Wilkins. Buffy,
inizialmente, è affascinata da Faith, che rappresenta, in un certo senso, quello che lei vorrebbe
essere. Tuttavia, quando Faith uccide per sbaglio un essere umano, Buffy ne resta sconvolta.
Faith ha bisogno di stare da sola, così come Buffy ha bisogno del suo gruppo. Un altro esempio
che dimostra l’aspetto negativo della solitudine è la Cacciatrice Kendra: anche lei non aveva
famiglia e amici ed è stata uccisa dalla perfida Drusilla. L’unione fa la forza, e lo dimostra anche
l’ultimo episodio della terza stagione. Buffy, dopo essere stata premiata dagli studenti del liceo
come difensore di classe, in uno dei momenti più commoventi delle prime stagioni (Il ballo/The
Prom, 3.20), chiede aiuto a tutta la scuola per sconfiggere il Sindaco Wilkins durante il suo
discorso nel giorno dei diplomi. In quel momento, infatti, avviene l’Ascensione e il Sindaco si
trasforma in un orribile serpente gigante. L’intervento degli studenti si rivela fondamentale e Buffy
riesce ad uccidere il Sindaco salvando la maggior parte dei suoi compagni (La sfida II/Graduation
day II, 3.22). Un altro esempio che testimonia quanto sia importante l’amicizia, anche in un
semplice rapporto sociale, è una frase che Buffy rivolge a Cordelia, in un momento in cui entrambe
soffrono per amore: “Ho detto ai miei amici come stavo e mi sento meglio”. Solo essersi sfogata
con Willow e Xander l’ha fatta sentire meglio. Un ottimo insegnamento su come essere amico.
In Buffy sono presenti anche altri fattori principali: l’accettazione, il perdono, la fedeltà, e il
sacrificio. Quest’ultimo viene attuato per la maggior parte delle volte da Buffy: nella prima stagione
Buffy muore letteralmente per cercare di salvare il mondo dal Maestro, ed è Xander che la riporta
in vita. Bisogna dire, però, che in ogni episodio l’intera Scooby Gang, con un grande spirito di
sacrificio, si batte per salvare l’umanità dalla minaccia delle forze del male, rischiando di morire
ogni volta. Nella terza stagione, invece, tutto il gruppo è deciso a fare uno scambio con il Sindaco:
una scatola che contiene qualcosa utile per l’Ascensione in cambio di Willow. La scelta è
obbligata: gli amici prima di tutto. Per quanto riguarda l’accettazione, i protagonisti hanno difetti
come tutti gli esseri umani, ma nel gruppo si viene accettati così come si è, anche dopo grossi
sbagli, ed è questo che lega ancora di più la Scooby Gang. Il perdono, come abbiamo visto è una
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conseguenza dell’accettazione. Dopo la sua morte, seppur breve, Buffy diventa un’altra: scontrosa
con tutti, si ribella a qualsiasi regola e agisce di testa sua, mettendo a rischio la vita dei suoi
compagni, che nonostante questo la perdonano, in quanto gli amici veri sanno perdonare gli errori.
Giles perdona Angel dopo che, nei panni del perfido Angelus, ha ucciso Jenny Calendar, l’unica
donna che abbia mai amato; inizialmente, però, Giles, appoggiando Buffy, la sua protetta, non
perdona Jenny per avergli nascosto la sua vera identità: una zingara che doveva tenere
sott’occhio Angel. La fedeltà è onnipresente tra Buffy e i suoi amici: se qualcuno sta soffrendo, ha
bisogno di una spalla su cui piangere, oppure è in pericolo, gli altri sono sempre presenti. Buffy the
Vampire Slayer, oltre a rappresentare l’idea della comunità, è uno specchio della contemporanea
cultura Americana: gli USA sono una nazione ossessionata dall’indipendenza e dall’individualismo
[8]. Buffy, pur facendo parte di un gruppo, rappresenta un’eroina che deve comunque fare
affidamento su se stessa: è da sola quando affrontare il Maestro e Angelus così come resta sola
nell’affrontare il First al termine della serie. Il gruppo combatte unito ma è la prescelta che deve
affrontare lo scontro finale.
Note
[1] B.Osgerby, So who’s got time for adults! in Teen TV: genre, consumption and identity, British
Film Institute, London 2004.
[2] B.K.Grant (ed.), Film Genre Reader III, University of Texas Press, Austin 2003.
[3] A.Grasso, L'evoluzione di un genere: i telefilm. Sono la buona letteratura dei ragazzi di oggi, da
www.corriere.it del 5 maggio 2005.
[4] T.Little, High school is Hell: metaphor made literal in Buffy The Vampire Slayer and Philosophy,
fear and trembling in Sunnydale di J.B.South (ed.), Open Court Publishing Company, Chicago
2003.
[5] R.Wilcox, “There will never be a ’very special’ Buffy”: Buffy and the monster of teen life in
«Slayage» n.1.2.
[6] Ibidem.
[7] G.Stevenson, Televised morality. The case of Buffy the Vampire Slayer, Hamilton Books,
Oxford 2003.
[8] Ibidem.
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Tra cinema e tv. Quo Vadis, Baby? - La serie
di Monica Parissi
C’è una Bologna profondamente noir. Esiste a dispetto della matrice anglosassone del genere e
del problematico rapporto con l’immaginario – già rimarcato da Alberto Savinio e da Italo Calvino –
che penalizza più diffusamente il noir italiano. Esiste nella letteratura contemporanea (nei romanzi
di Carlo Lucarelli, Giampiero Rigosi, Grazia Verasani, solo per citare i più celebri) e sempre più
frequentemente si trasferisce sullo schermo – prediligendo spesso la televisione al cinema. Dopo
L’ispettore Coliandro e Il commissario De Luca, entrambe produzioni Rai Fiction tratte dalle opere
di Carlo Lucarelli, l’ultimo noir televisivo “bolognese”, Quo Vadis, Baby?, è la prima mini-serie
drammatica realizzata da Sky Cinema (parallelamente a Romanzo criminale, di prossima
trasmissione) e costituisce quindi anche dal punto di vista produttivo una interessante novità.
Prodotta in collaborazione con Colorado Film e Rti per la regia di Guido Chiesa e con la direzione
artistica di Gabriele Salvatores, la serie si sviluppa in sei episodi del formato cinematografico di 90
minuti, andati in onda con programmazione settimanale – e molteplici repliche – sui canali Sky
Cinema tra il 15 maggio e il 19 giugno 2008; alle spalle della serie, il romanzo omonimo di Grazia
Verasani e un film imperfetto ma affascinante diretto in HD da Gabriele Salvatores nel 2005.
Al centro della vicenda, nel romanzo così come nel film e nella serie, un personaggio femminile,
l’investigatrice privata Giorgia Cantini che, se sulla pagina scritta risente troppo pesantemente di
alcuni clichè del genere, sullo schermo si avvale della intensa e convincente interpretazione di
Angela Baraldi. All’interno del piccolo mondo stantio della fiction italiana popolata con rare
eccezioni da carabinieri e poliziotti regolamentari, rigorosamente buoni, spesso bonaccioni, troppo
spesso eroici, Giorgia Cantini è una outsider. Disordinata dentro e fuori, spettinata e struccata,
Giorgia beve, fuma, mangia, pratica la boxe, ama il rock, è capace di fare sesso senza sentimento
e senza ripensamenti: al di sotto della corazza che la difende, prima ancora che dal mondo brutale
che incontra ogni giorno per mestiere, da sé stessa e dal proprio doloroso passato, balugina però
una sotterranea fragilità – una sensibilità femminile spesso scomoda che tracima in una sorta di
luccicanza, un profondo bisogno di relazioni pulite e cristalline nella sostanza a dispetto di
qualsiasi forma – che la rende un personaggio umano, denso, credibile e persino amabile, lontano
dal banale stereotipo dell’antieroe.
Attorno a Giorgia, Bologna. Non solo la Bologna dei portici, delle vie anguste e degli angoli bui, dei
muri giallo crema e rosso, non solo la Bologna bene dei grandi palazzi, delle piazze storiche e dei
negozi di lusso, ma anche la Bologna dei quartieri popolari, della periferia degradata
(desolatamente vivido il ritratto dei nuovi “ragazzi del muretto” de La ragazza dei rospi) e delle
campagne che la circondano – una Bologna che si palesa anche nelle voci e negli accenti, una
volta tanto non caricaturali, del nutrito cast di caratteristi.
Accanto a Giorgia, un gruppo ristretto ed intimo di persone amate, che sembrano declinare
perfettamente le diverse forme di affetto di una vera e propria famiglia: Lucio Spasimo (Alessandro
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Tiberi), il giovane e timido assistente dell’agenzia investigativa Cantini, amico fraterno, paziente e
protettivo, detective ingenuo e maldestro; Johnny Riva, ex pornostar, attuale gestore del Johnny’s
Place, il locale in cui Giorgia si esibisce come cantante, appassionato di donne, tortellini e musica
lirica, confidente paterno e dissacrante, interpretato brillantemente da Bebo Storti; il commissario
Luca Bruni (Thomas Trabacchi), con il quale Giorgia imbastisce una relazione che intreccia la
collaborazione investigativa a un complicato rapporto amoroso – una relazione pesantemente
minata dalla sfiducia su entrambi i fronti, dato che Bruni è coinvolto in un’equivoca vicenda di
corruzione e droga e, sul versante privato, ha un passato che comprende una moglie e una storia
di sesso con la sorella di Giorgia. E’ proprio Sara Cantini (Federica Bonani) la presenza che
completa il ristretto cerchio affettivo di Giorgia. Presenza, perché Sara è morta in circostanze
misteriose in Africa ma non abbandona i pensieri e i sogni della sorella, tornando e ritornando
come un’ossessione, portando con sé echi malinconici di un rapporto irrisolto, conforto, dolore,
domande che non possono più ricevere risposta e una richiesta di aiuto che resterà incompresa e
inesaudita fino all’ultimo episodio.
E’ legata alla misteriosa morte di Sara, infatti, il principale running plot di una serie che fonda la
sua struttura narrativa, come tipico del giallo e del noir, principalmente su storie verticali che si
aprono e si chiudono in un singolo episodio e che coincidono con il caso da risolvere. Altrettanto
classicamente, ogni episodio accosta alla linea narrativa principale, drammatica, una linea
narrativa secondaria più leggera, spesso con toni o risvolti di commedia. La struttura narrativa
verticale consente naturalmente alla serie di arricchire il proprio cast di episodio accogliendo
diversi interpreti, tra cui figurano alcune guest star di pregio: Claudia Pandolfi, dolente vendicatrice
nell’episodio Fattore umano; Serena Grandi, tragica vittima in vita e in morte ne La ragazza dei
rospi; Giuseppe Battiston e Sonia Bergamasco, ne La ballata di Johnny Riva; Toni Bertorelli e Max
Mazzotta, in Sotto ricatto. Allo stesso tempo, attraverso gli episodi scorrono alcune linee narrative
orizzontali che contribuiscono a dare spessore al racconto e ai personaggi: la prima, appena
accennata, riguarda una spietata macchinazione orchestrata da alcuni speculatori edilizi per
strappare a Johnny il suo locale e si conclude con il quarto episodio, La ballata di Johnny Riva; la
seconda, più consistente, riguarda l’ambigua storia di corruzione in cui sembra implicato Bruni e si
conclude positivamente nel quinto episodio, Sotto ricatto, in cui si rivela che il commissario lavora
da anni sotto copertura per smascherare il traffico di droga in cui è coinvolto un questore corrotto;
la terza linea narrativa riguarda come anticipato la morte di Sara Cantini, su cui Giorgia riuscirà
finalmente a fare luce, in tutti i sensi, con un’investigazione che si immerge letteralmente nel
dolore del corpo e dell’anima e che lascia ad altri il compito di risolvere il caso, nell’episodio che
chiude la serie, Requiem per Sara.
I pregi della scrittura di Quo Vadis, Baby? sono però da ricercare altrove: se da un lato le
sceneggiature risentono di alcune debolezze, indulgendo a tratti in espedienti narrativi e dialoghi
che troppo concedono alle convenzioni più stereotipate del genere e mortificando il potenziale di
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alcuni personaggi (primo fra tutti Lucio, la cui omosessualità è trattata in modo superficiale),
dall’altro si dimostrano capaci di efficaci rimpasti di temi e situazioni che declinano il noir in
maniera credibile all’interno di un contesto profondamente e realisticamente italiano. Disastri
colposi messi sotto silenzio e speculazioni edilizie, corruzione politica e intercettazioni, traffico di
droga e traffico di armi, degrado urbano delle periferie e degrado umano del precariato e dei call
center, ex partigiani ed ex soldati di ritorno dall’Afghanistan accomunati dalla disillusione: è l’Italia
di oggi e di ieri a fornire il combustibile a una narrazione che riesce quindi a mantenersi
efficacemente in equilibrio tra cronaca e racconto di genere – una narrazione che si prende libertà
tematiche ed espressive inusuali per la fiction italiana, come una rappresentazione della nudità e
del sesso che rifugge la convenzionale patina allusiva intrisa di romanticismo e si fa esplicita,
sporca, cruda.
E’ lo stile visivo l’aspetto più sorprendente e interessante della serie, che si compone di
inquadrature sghembe, di taglio e composizione ricercata, estremamente variegate e mai banali,
valorizzate da un montaggio ritmato e inquieto (coordinato da Luca Gasparini) che non si fa
scrupolo di spezzare frequentemente la continuità narrativa con inserti in flashback e persino in
flashforward. L’abbondante uso della macchina a mano rende le traiettorie dello sguardo sporche
e nervose; la fotografia di Roberto Forza privilegia i netti contrasti cromatici, non ha timore di
invadere gli ambienti con potenti luci irreali dominate dal rosso e dal blu, permette al nero e alle
tenebre di avvolgere i personaggi, rende conturbanti le splendide, abbacinanti sequenze oniriche.
Una messa in scena che non ha nulla da invidiare per intensità espressiva alle più apprezzate
serie statunitensi, alle quali Quo Vadis, Baby? evidentemente guarda pur senza appiattirsi su una
sterile imitazione, come dimostra l’interessante e sperimentale frammentazione delle unità
narrative e come è segnalato anche attraverso l’uso di un pre-sigla che si configura come un vero
e proprio teaser.
Altrettanto affascinante la chiusura degli episodi, affidata a una sequenza musicale diretta da
Gabriele Salvatores: Giorgia Cantini si esibisce sul palco del Johnny’s Place sfruttando la bella
voce e l’incredibile presenza scenica di Angela Baraldi, che ha un passato di apprezzata cantante,
che interpreta alcuni classici del rock – da Like a Rolling Stone di Bob Dylan a Heaven dei Talking
Heads, passando per Love Will Tear Us Apart dei Joy Division, Everybody Hurts dei R.E.M.,
Heroes di David Bowie, Perfect Day di Lou Reed e Fever, di Peggy Lee, che fa anche da sfondo ai
titoli di testa.
Un noir avvincente con un’anima rock, quindi, atteso al suo passaggio sulla televisione generalista
per un riscontro più preciso sulla ricezione del pubblico che, di certo, si troverà di fronte, una volta
tanto, a qualcosa di nuovo.
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Gli episodi:
1. Fattore umano
2. La ragazza dei rospi
3. L’onore delle armi
4. La ballata di Johnny Riva
5. Sotto ricatto
6. Requiem per Sara
http://www.quovadisbaby.tv/
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Ol3Media Anno 01 n.02 – Settembre 2008
Intervista a Patrick Mulcahey
a cura di Giada Da Ros
Eccellente dialoghista, è considerato probabilmente il miglior sceneggiatore che le soap opera
abbiano mai avuto nella loro storia. Patrick Mulcahey ha vinto quattro Emmy e tre Writers Guild of
America Awards e quest’anno “TV Guide Canada”, definendo il William Shakespeare della TV del
daytime, lo ha premiato con l’Irna Phillips Spirit Award per il miglior contributo alla forma d’arte
seriale. La motivazione è stata che Patrick Mulcahey esemplifica al meglio il vero spirito delle soap
con copioni che riescono immancabilmente a mescolare sottotesto emozionale, ironia, cuore,
umanità e riverenza per il genere, con uno stile unico e un intuito capace di ispirare. La sua
scrittura lascia sempre senza fiato per come riesce ad essere onesto, senza rimpianti ma con
comprensione e rispetto; per come riesce ad essere intenso e leggero, solenne ed impertinente,
talvolta nello stesso momento; per come è brillante e letterario e divertente; per come è capace di
essere intensamente spirituale e acutamente fisico; per come è sempre imprevedibile e profondo:
ora teatrale, ora verista, ora poetico, ora qualcos’altro ancora. Ti travolge per esuberanza e
bravura verbale, ma è quieto e silente dove è necessario. Riesce a penetrare nel cuore delle cose
e delle persone, sempre consapevole della loro moralità e dei loro demoni, della loro complessità,
della loro autenticità… attento nei personaggi “alla follia delle loro ragioni e la ragione della loro
follia”, come ho scritto di recente.
In quasi trent’anni di carriera ha scritto per Aspettando il domani (Italia7), Texas (mai andato in
onda in Italia), Quando si ama (Rai2), Santa Barbara (Rai1 e Rai2), Sentieri (Rete4), General
Hospital (Rete4). Da qualche anno scrive per Beautiful (Canale5) – (per un elenco aggiornato si
veda http://www.tv.com/patrick-mulcahey/person/170384/appearances.html). Si pensi anche solo
alle due puntate del ritorno di Pamela a Santa Barbara, una toccata e fuga in un periodo in cui non
lavorava più per la soap da qualche tempo (“un favore ai Dobson”, ideatori della soap, lo
definisce); al sogno elettorale di Ross in Sentieri, soap di cui è stato brevemente anche caposceneggiatore agli inizi degli anni ’90; alla prima famigerata passionale notte di sesso fra Sonny e
Carly in General Hospital, mentre sparano a Jason… Immancabilmente memorabile.
Hai scritto l’episodio numero 5000 di Beautiful. Come vi è venuta l’idea per quella puntata?
Continuava ad avvicinarcisi furtivamente - sapevamo mesi in anticipo che volevamo fare qualcosa
di speciale. Ma naturalmente per gli scrittori quell’obbligo autoimposto di fare “qualcosa di
speciale” è il bacio della morte. Niente a cui pensiamo sembra speciale a sufficienza. Così è
arrivata la settimana in cui dovevamo stabilirne la trama e scriverla e non eravamo ancora sicuri di
quello che avremmo fatto.
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Ol3Media Anno 01 n.02 – Settembre 2008
Brad [Bell, il caposceneggiatore] voleva rendere omaggio ai 4 personaggi originari ancora
interpretati dagli attori originari: Eric, Stephanie, Brooke e Ridge. E’ stato lui che ha pensato di
ambientarla nella baita a Big Bear, che è iconica per i nostri spettatori. I nostri personaggi
continuano ad andare in quel ritiro di montagna ritenuto pacifico e continuano a strangolarsi l’uno
con l’altro o continuano a venir sepolti da una valanga.
Volevamo qualcosa di divertente e
celebrativo, non un pigro episodio di soli flashback. Brad voleva collegarlo almeno vagamente alla
nostra storia corrente – non tutti stanno guardando da vent’anni. Michael [Minnis, sceneggiatore]
and Betsy [Snyder, sceneggiatrice] volevano che Brad facesse un cameo nella puntata – un
occhiolino al nostro pubblico; era la pietra miliare di Brad, dopotutto – e Brad ha accettato di farlo,
sebbene con qualche timore, a patto che non avesse troppo dialogo. Attore non è.
Ci siamo accordati sul fatto che l’idea di fondo sarebbe stata che Eric, Stephanie, Brooke e Ridge
si sarebbero riuniti per decidere se e come la Forrester Design avrebbe dovuto continuare a
esistere. Sapevamo che avevamo bisogno di una grande scena Eric-Stephanie. Hanno messo in
piedi l’azienda insieme, ricordano quanto è stato difficile; hanno le energie per rifarlo di nuovo, o si
avvicina la pensione? Volevamo vederli in privato… diciamo in un modo che abbiamo visto
raramente. Al di là di quello, abbiamo parlato del tono che volevamo ottenere e non molto altro.
Mi sono sentito onorato del fatto che Brad abbia chiesto a me di scrivere l’episodio e abbia lasciato
così tanto a me da decidere. Gli ho detto che volevo scriverlo come una piccola opera teatrale.
Non sono sicuro che sapesse che cosa intendevo (non sono sicuro di averlo saputo nemmeno io),
ma ha fiducia in me. Questa è una grande – forse la più grande – ricompensa nello scrivere il
programma per me. Mi dà sempre parecchia libertà su come tenere redini, e come non mai in
quest’episodio.
Mi sono chiesto anche, in questo caso, se a qualche livello non volesse essere sorpreso. 5000
mezze ore di televisione sono un risultato stupefacente. Sospetto che sentisse che doveva essere
onorato, ma è un uomo troppo modesto per onorarsi da sé. Forse ha veramente sentito che era il
compito di qualcun altro quello di celebrarlo. Ha capito che comprendevo il sacrificio personale e
l’impegno che 5000 puntate rappresentavano. Allo stesso tempo, naturalmente, dovevo tenere a
mente chi Brad è – come ho detto, è un uomo molto modesto, una persona che ama il suo lavoro,
che viene preso molto a calci dai fan, che viene costantemente paragonato a suo padre, Bill (che
ha ideato il nostro programma, così come Febbre d’amore). E’ il programma di Brad. La
responsabilità cade su di lui. Qualunque cosa mandiamo in onda è probabile che venga presa
come se venisse dalla sua penna. Perciò la puntata non poteva essere troppo presuntuosa.
Doveva avere la sua personalità: gentile, pronta a mettersi in disparte, piena di humor, affettuosa.
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Ol3Media Anno 01 n.02 – Settembre 2008
Penso sia il miglior copione che io abbia scritto per Beautiful. Ahimè, il pubblico non lo vedrà mai,
proprio per la modestia di Brad. All’ultimo momento non se l’è sentita e non ha fatto il ruolo cameo
che avevo scritto per lui, così la piccola storia che avevo escogitato si è dovuta tagliare. Abbiamo
rimpiazzato i minuti persi con qualche flashback scelto che i nostri spettatori di lunga data
ameranno vedere. Sono rimasto deluso? Certo. Ma per me l’episodio aveva il senso di onorare il
risultato ottenuto da Brad, e quello che gli spettatori finiranno per vedere è l’onore che si è sentito
di accettare. Non è ben riuscito quanto lo era il copione originario, e Brad sarà sempre il primo ad
ammetterlo, ma penso ancora che sia una mezz’ora molto godibile.
Si è scusato profusamente con me per settimane. Lo prendiamo ancora in giro. Quando inseriamo
nella trama una comparsa, un giudice o un fotografo, qualcuno se ne esce con “Ehi, facciamolo
interpretare a Brad!” E lui si sente mortificato daccapo.
Hai scritto per molte soap negli anni. In che modo Beautiful è diversa dalle altre?
Beautiful mi ricorda, tanto nel modo in cui racconta le storie che nel processo di scrittura, il modo
in cui Douglas Marland e io scrivevamo Sentieri 25 anni fa. Sembra perfino sbagliato scrivere
“Douglas e io”: era solo il mio secondo lavoro come sceneggiatore, ed ero decisamente il partner
giovane nella collaborazione. Sono stato il primo sceneggiatore addetto a scrivere l’outline [una
sorta di schema, di abbozzo, di canovaccio, quasi un “trattamento”] delle vicende che lui abbia mai
assunto, su insistenza della Procter & Gamble. È stato intelligente da parte loro. Scriveva da solo
così tanto del programma che avevano paura che ci rimanesse (cosa che, Dio lo benedica, alla
fine ha fatto, in un altro programma della Procter & Gamble). Ci trovavamo insieme ogni giorno alle
7.00 o alle 8.00 del mattino e mettevamo a punto un episodio. La Procter & Gamble voleva anche
che “addestrasse” qualcun altro al suo metodo – che è il modo di pensare delle persone che non
capiscono la scrittura, che puoi mostrare a qualcun altro come farlo. Non puoi addestrare qualcuno
a essere un genio, cosa che Douglas era. Nei fatti (perdonami, Douglas), era un insegnante
terribile. Ma ho imparato comunque, semplicemente standogli intorno, ascoltandolo, vedendo i
sorprendenti salti narrativi che faceva la sua mente, astraendo certe regole non articolate che
seguiva per istinto. Eccone una, ad esempio: mai dare al pubblico quello che li hai condotti a
volere; al posto dà loro qualcosa che non si aspettavano che piacerà loro ancora di più.
Sentieri era allora scritto nel modo in cui un buono scrittore lavora davvero: pensi di sapere dove
stai andando, ma non sei sicuro finché non ci arrivi, e non sai esattamente come farai ad arrivarci.
Procedi a tentoni nel buio. Naturalmente i network lo ODIANO. Pensano che scrivere sia come
fare una sinossi, a ritroso. Si aspettano che tu sia in grado di dire loro esattamente che cosa
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Ol3Media Anno 01 n.02 – Settembre 2008
accadrà domani, la settimana prossima, il mese prossimo, e poi semplicemente far sì che accada.
Non è così che funziona. Devi stare con i personaggi, vivere con loro, sentire con loro, lasciare che
ti sorprendano – altrimenti quello che stai scrivendo è morto, morto, morto.
Beautiful racconta il genere di storie tradizionali guidate dai personaggi che scrivevamo in Sentieri,
e le scriviamo in più o meno la stessa maniera. Brad ci protegge dalle pressioni del network. Non
trattiamo per nulla con loro. (Lui deve farlo, però, naturalmente. Ma la nostra vice-presidente del
daytime della CBS, Barbara Bloom, è comunque molto sveglia, e una vecchia amica). A noi
dialoghisti non vengono semplicemente consegnati gli outline con ciò che si suppone debba
andare nei nostri copioni. Questo è ciò che fa ogni altro programma e io lo odio. Sì, ti rende la vita
più facile in un certo senso. Se qualcosa in onda fa schifo, tu come dialogista puoi sempre dire,
“Lo so, ma era nell’outline”.
Non fraintendermi, riverisco gli scrittori degli outline. E’ un lavoro molto duro, è come spaccare
rocce mentalmente, avere a che fare con le restrizioni del set, le garanzie agli attori, è un incubo. E
generalmente hai solo un giorno o due per scriverli. Come sceneggiatore di un copione, tuttavia,
quando ti viene consegnato l’outline di qualcun altro da cui scrivere, è già stata presa ogni tipo di
decisione creativa, non sai come o perché, quali sono considerate indispensabili e quali sono lì
solo perché lo sceneggiatore dell’outline non aveva tempo di pensare a qualcosa di meglio. Non
hai sentito la discussione che ha informato le decisioni e non sai ciò che finirà per dare i suoi frutti
la settimana seguente, stai volando alla cieca. Perciò fai una di due cose. Diventi molto cauto e
scrivi quello che c’è nell’outline, che sembri organico e giusto per i personaggi o meno. O fai quello
per cui io sono piuttosto noto: dai un’occhiata all’outline, ci trovi qualcosa di solido che funziona
veramente, costruisci drammaticamente su quello e vai dove la storia dice che hai bisogno di
andare, cambiando o bypassando la roba che ti sembra inerte o sbagliata. Quest’ultimo approccio,
meno sicuro, o farà ammattire il tuo capo-sceneggiatore o lo/la renderà molto contento/a; ma sai
che il tuo copione funzionerà e gli attori ti capiranno, se nessun altro lo farà. Ugualmente, è
inevitabile che farai dei casini e salterai qualcosa dell’outline che non sapevi fosse importante, per
la storia futura, e tu o il tuo curatore dovrete arrabattarvi per aggiustarlo in seguito.
Non scriviamo dagli outline a Beautiful. Il nostro processo è basato sul presupposto che se hai dei
veri scrittori che lavorano su dei copioni, non hai bisogno di outline. Brad è la fonte delle nostre
storie, ma noi che scriviamo i copioni siamo sempre coinvolti nelle decisioni creative su come
raccontarle. Parliamo di tutto. Uno sceneggiatore pigro detesterà invariabilmente il modo in cui
lavoriamo, dal momento che aggiunge al lavoro settimanale una piena estenuante giornata di
discussione; ma io ho il terrore di dover tornare a scrivere dagli outline. Negozio tutto quello che
scrivo direttamente con Brad. Ha una sicurezza di sé tale da dire, “Questo è quello che penso di
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Ol3Media Anno 01 n.02 – Settembre 2008
volere, qui è dove voglio qualcosa ma non sono sicuro di che cosa, questo è il datum con cui devi
lavorare, qui è dove puoi decidere che strada prendere.” Pochissime volte sono dovuto uscire da
una discussione sentendo che dovevo far funzionare qualcosa che non mi convinceva, perché non
riuscivo a vedere la storia o il personaggio nel modo in cui lo vedeva Brad. Nella maggior parte dei
lavori di sceneggiatura questo accade settimanalmente. Ma il 98% delle volte, il criterio che
stabilisce la fine della discussione dei miei uno o due episodi è il momento in cui sono contento.
Brad sa che se credo in ciò che sto scrivendo, riuscirò a far sì che ci creda il pubblico.
La ovvia debolezza del nostro metodo è che si poggia fortemente sulla volontà – e l’abilità – dello
sceneggiatore di correlarsi creativamente con il materiale. Molti sceneggiatori abituati a ricevere gli
outline ogni settimana non lo sanno fare o non vogliono farlo. Emerge presto nel loro lavoro, e poi
se ne vanno. Cosa che, francamente, è un’altra cosa che mi piace di Brad. Se qualcosa non sta
funzionando, nello studio, nella sceneggiatura, fa un cambiamento, e in fretta. Molti produttori
esecutivi pensano, “Beh, non sta funzionando ora, ma forse posso picchiare, rimproverare o
terrorizzare Tal-dei-Tali perché mi dia ciò che voglio”. In 28 anni, devo ancora vedere
quell’approccio funzionare. (Con gli attori, tuttavia, può essere efficace un approccio lievemente
differente: “Forse stiamo chiedendo la cosa sbagliata, proviamo a scrivere il personaggio in un
altro modo”).
Dall’altro lato, quando uno sceneggiatore coglie il programma, coglie Brad e il suo modo di
lavorare, lui è molto leale. Chiama Rex [M. Best, sceneggiatore], Tracey [Ann Kelly,
sceneggiatrice] e me “gli Ergastolani”. (LOL, come dicono online. Non sono sempre sicuro di che
cosa penso di quel termine).
Quali sono i punti di forza di Beautiful ? E le sue debolezze?
La forza di Beautiful è che abbiamo in primo piano nel programma gli stessi personaggi (alcuni
interpretati dagli stessi attori) e le stesse relazioni che presentavamo 20 anni fa nel primo episodio.
Questo è estremamente appagante per i nostri spettatori di lunga data. Conoscono veramente i
nostri personaggi.
Questa è anche la nostra debolezza. Un nuovo spettatore è probabilmente sconcertato dalla
complessità delle relazioni che presentiamo, dal momento che hanno storie talmente lunghe. E se
gli spettatori di lunga data di stancano delle facce che vedono ogni giorno per vent’anni, siamo nei
guai. Cerchiamo sempre di far accadere qualcosa di nuovo, ma è un piccolo programma con un
piccolo cast e non penso che ci riusciamo sempre.
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Le soap opera raccontano veramente solo due tipi di storie: storie d’amore e storie di famiglia. In
un programma davvero ben fatto, solidamente strutturato, le due sono mescolate: le storie d’amore
sono storie di famiglia. Penso che questo sia un altro punto di forza di Beautiful.
(Alcuni programmi, non il nostro, sono capaci di raccontare un terzo tipo di storia: la storia sociale.
Ma non intendo la storia con “un argomento sociale”, sia il cancro al seno, l’AIDS, l’omosessualità,
quel che vuoi. Guarda quelle storie da vicino e vedrai che, se funzionano, è perché alla base sono
storie d’amore o storie di famiglia. No, con “storia sociale” intendo la storia raccontata, così com’è,
dall’interno di una comunità, con ricadute su tutti i livelli di società. Questo è fattibile in
ambientazioni di finzione, Springfield a Sentieri, o Pine Valley ne La valle dei Pini. Douglas ha
raccontato bellissime storie che riguardano la comunità in Sentieri, lo stesso ha fatto Nancy
Curlee. Beautiful è ambientato a Los Angeles, che è vasta, multi-etica, brulicante con una tale
varietà di vita sociale ed economica che non facciamo nemmeno finta di rappresentarla. Il nostro
oggetto di studio è la famiglia Forrester e i loro conoscenti più intimi).
Qual è il personaggio per cui è più difficile scrivere?
Brooke. E’ una creazione molto sottile e originale. È semplice, ma in maniera tutta sua, anche
complicata. Ho osservato che ci vuole molto tempo per un nuovo sceneggiatore per capirla; per
me ci è voluto. É in un certo senso poco brillante e in un certo senso no. É in un certo senso
sordida e in un certo senso irreprensibile. Riesce ad essere manipolatrice e schietta nello stesso
momento. Kelly Lang [Brooke] è un’attrice meravigliosa per cui scrivere e porta se stessa nel ruolo
– con questo non voglio per nulla dire che “sia” Brooke. Non la conosco come donna. Ma il modo
in cui capisce il personaggio e quello che scriviamo per lei viene rifratto attraverso il suo prisma in
un modo bellissimo che non riesco a descrivere ma che ho imparato ad anticipare. É
incredibilmente generosa, umile e fiduciosa, come attrice. Se scrivi Brooke nel modo sbagliato, fa
quello che le hai chiesto di fare, e quando lo vedi in onda fai una smorfia, perché ti rendi conto che
hai mancato di molto il bersaglio. Fortunatamente, ha in sé così fortemente il personaggio che non
possiamo mai sbagliare così tanto. Onestamente non so chi altro potrebbe interpretarla. Giulietta
Masina, forse. (Per quanto pretenzioso possa suonare, è il solo attore a cui riesco a pensare di
qualità comparabile).
Stephanie è un altro personaggio che è difficile da scrivere, per alcune delle stesse ragioni e per
altre. E’ stata in primo piano in praticamente ogni storia che ho scritto. L’attore che la interpreta
[Susan Flannery] è davvero splendida, un raro talento, ed è molto meticolosa e protettiva del suo
personaggio.
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E il più facile? Perché?
Non direi che sono “facili”, ma ammetterò, ci sono 3 personaggi che amo scrivere: Eric, Felicia e
Bridget. Lesli Kay [Felicia] e Ashley Jones [Bridget] sono semplicemente meravigliose, attori “nononsense”. Conoscono molto bene i loro personaggi sono sempre disposte ad esporsi con me
quando scrivo per loro. E John McCook, oltre ad essere un attore fantastico, interpreta Eric da 20
anni. Mi piace molto Eric e la sua storia. E’ in parte patriarca, in parte artista, in parte cane-incalore. Penso che ci sia la tendenza a liquidarlo rapidamente da parte nostra qualche volta, c’è da
così tanto tempo ed è circondato da personaggi femminili talmente forti. Ma è una gemma, e John
salta, con tutte le scarpe, ad ogni opportunità che gli diamo. Nulla va perso con lui.
Hai un ricordo speciale, che ti è caro, associato al programma?
Brad fa un grande party di anniversario per il programma e tutti ci lavorano ogni anno a marzo. Lo
scorso anno mi ha colmato di attenzioni presentandomi una grande torta di compleanno. (Sono
nato il 17 marzo.) Questo alla House of Blues sul Sunset, di tutti i luoghi. Non penso che la
maggior parte delle persone coinvolte nel programma prestino una gran attenzione agli
sceneggiatori che non sono in loco. Per loro, “gli sceneggiatori” sono Brad. Per cui per la maggior
parte dicevano cose del tipo, “Chi è, ridimmi, quel tipo che fa il compleanno? Che cosa fa?”
E a proposito di passati programmi, ci sono episodi che hai scritto che hanno uno speciale
significato per te o di cui sei più fiero?
Santa Barbara [SB] è davvero dove mi sono fatto le ossa e mi son fatto qualunque nome io possa
avere. Era un programma in cui lavorare era sia meraviglioso che duro, per ragioni relative al
dietro le quinte. Bridget e Jerry Dobson [gli ideatori di SB] erano persone e capi folli, appassionati
e creativi. Ricevevo outline con dieci, dodici pagine cancellate con una X e una nota al margine:
“Patrick, fai qualcos’altro” – mi davano così tanto credito e libertà d’azione. Avevamo un gran cast,
grandi registi, e una collezione di personaggi idiosincraticamente solida, la famiglia Capwell e i
suoi satelliti. Tutti noi ci parlavamo – cosa abbastanza rara – e avevamo fiducia l’uno nell’altro, era
una collaborazione da sogno. E quando i responsabili ultimi hanno introdotto capo-sceneggiatori
(dopo che i Dobson sono stati buttati fuori legalmente) che non conoscevano il programma o che
erano semplicemente incapaci, li ignoravamo e “facevamo qualcos’altro”. Più ne assumevano, più
li ignoravamo. Era maleducato e irrispettoso, non so come lo abbiano tollerato (l’enorme busta
paga può aver avuto qualcosa a che fare con tutto ciò), ma nessuno ci ha fermato perché
sapevamo che cosa stavamo facendo. SB è dove ho trovato il mio potere come sceneggiatore, il
mio potere interiore. Ho deciso che qualunque cosa mi venisse data da scrivere, ci avrei scritto
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tutto quello che riuscivo a dare. Ci ho messo la mia anima e il mio cuore, tutto quello che sapevo e
non sapevo, in molti episodi di SB che nessun altro ricorderà. Non mi è mai importato se venivo
licenziato perché infrangevo le regole; scrivere più onestamente e meglio che riuscivo era ciò che
aveva importanza per me; e miracolosamente, non sono mai stato licenziato. Quando [la
responsabile del network] Jackie Smith, Dio l’abbia in gloria, - che, secondo me, era già piuttosto
fuori di testa – ha introdotto John Conboy come produttore esecutivo, mi ero fatto un po’ una
reputazione. Penso che gli fosse stato suggerito che fossi uno con cui gli conveniva essere gentile.
Sono stato chiamato nel suo ufficio per una chiacchierata. Quando mi ha detto che il programma si
sarebbe centrato attorno al polo e a un club di polo, che voleva che il nostro eroe Cruz, un
poliziotto ispanico (interpretato dal magnifico A Martinez), diventasse un giocatore di polo, ho detto
“Okay, grazie, per me questo è quanto”. Loro due, la Smith e Conboy, sono stati i due personaggi
più sprovveduti e involontariamente comici in cui mi sia mai imbattuto nel daytime. Rassegnai le
dimissioni.
Ho già menzionato la grandiosa esperienza che ho avuto lavorando con Douglas Marland a
Sentieri. Ho amato quel programma, e me ne sono innamorato di nuovo quando ci ho lavorato con
Nancy Curlee e Stephen Demorest. Forse la storia più attenta, più commovente, più completa e
narrata con più amore di cui sia mai stato parte è stata la storia del ritorno di Buzz Cooper a
Springfield. Era stato dato per disperso in Vietnam e non era mai tornato da sua moglie, suo figlio
e sua figlia, per ragioni che alla fine abbiamo capito senza mai spiegarle completamente. Era una
storia sull’amore, la comunità, il perdono, la gioia e il dolore di ciò che significa essere una
famiglia. Ed è stata interpretata in modo molto bello. Justin Deas [Buzz] è un attore molto, molto
raro. E gli attori che interpretavano Nadine, Jenna, Harley, Frank, Eleni, Alan-Michael, Blake,
Bridget, Vanessa, Holly, Roger, Ed, Michelle, Ross, David, Kat – che gruppo straordinario erano.
Quel paio d’anni sono stati un periodo magico nella vita del programma e nella mia vita creativa.
Nancy Curlee è una sceneggiatrice magnifica e meticolosa. Una delle cose che non vanno bene
nel daytime in questo momento è che lei non vi sta lavorando. Se fossi pressato a scegliere un
solo episodio del daytime che meglio rappresenti la mia vita come sceneggiatore delle soap,
probabilmente sceglierei il matrimonio di Frank ed Eleni sulla Quinta Strada.
Ho amato General Hospital [GH] per ragioni differenti. Il programma porta ancora (e porterà
sempre) l’impronta di Gloria Monty, che vi ha dato un certo sigillo; ma [la defunta produttrice
esecutiva] aveva anche decimato la struttura del programma a un punto tale che di un sacco di
personaggi erano rimaste solo le “vestigia” da cucire insieme. Con l’espressione “vestigia” intendo
personaggi che appartenevano un tempo a famiglie, relazioni o storie importanti ma che non erano
realmente più collegati a niente; erano più che altro isolati in un angolo da soli. Alcuni di loro
potevano condurre una storia, ma non in virtù di come erano relazionati al resto del canovaccio,
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ma per il fatto di essere abbastanza grandi o energici o cattivi o esagerati da attirare l’attenzione di
tutti. In una certa misura era quello che dettava il genere di storie che potevamo raccontare. Non
vai a licenziare un attore che piace al pubblico e che sta facendo un buon lavoro, anche se è
difficile usare il personaggio in modo tale che gli altri personaggi sulla scena gli prestino un minimo
di attenzione. Quando passano devono spararti o ricattarti o rapire tua moglie o prendersi l’HIV o
raparsi a zero i capelli per indurti a sollevare gli oggi dal giornale del mattino.
Ma avevamo i Quartermaine, che erano una vera famiglia, e una famiglia meravigliosa per cui
scrivere, interpretata o da vecchi professionisti come Stuart [Damon, Alan] e Leslie [Charleson,
Monica] e John [Ingle, Edward] o da straordinari giovani attori come Steve Burton [Jason] e Amber
Tamblyn [ex-Emily]. La dipendenza dalle droghe di Alan è stata una delle mie storie preferite.
Ugualmente lo è stata la storia d’amore fra Robin e Jason, e la triangolazione che abbiamo fatto
con Carly, allora interpretata dalla fantastica Sarah Brown; avevamo un sacco di bravi attori nel
cast. E gli sceneggiatori con cui ho lavorato direttamente – Bob Guza, Michele ValJean, ed
Elizabeth Korte – non sono solo grandi talenti ma persone a cui voglio veramente bene. Bob è un
principe, un bravo sceneggiatore così come un buon manager di scrittori. Lui e Nancy Grahn
[Alexis] sono le mie amicizie di lunga data personali-professionali più intime.
Ecco una storia che esemplifica Bob come sceneggiatore, amico e capo. Stavo scrivendo l’infame
episodio conosciuto come “Clink-Boom”: Brenda che sposa Jax, intramezzato con Lily, la moglie di
Sonny, che salta per aria per una bomba piazzata nell’auto, nel momento in cui i bicchieri di
champagne di Brenda e Jax si toccano sullo yacht di quest’ultimo. Conoscevo Bob dai tempi di
Santa Barbara, ma ero abbastanza nuovo a GH. Non mi ero reso conto da quanto tempo stava
lavorando per arrivare a questo episodio, o quale misura di fiducia stava riponendo in me nel
darmelo da scrivere. Per mesi aveva avuto in mente la sequenza clink-boom, e l’outline rifletteva
esattamente il modo in cui lo aveva concepito. Ora, non sono stato così tonto da non rendermi
conto che era un importante punto di svolta nella storia. Ma quando ho ricevuto l’outline e l’ho
letto, non mi è piaciuto. Per me non aveva senso. Questo talvolta accade quando fai l’outline di
qualcosa, anche di qualcosa di molto buono. Così ho chiamato Bob
gli ho detto, “questa
sequenza di clink-boom per me non funziona. Suona meccanica e troppo amplificata e artificiosa”.
E senza esitazione, mi ha detto, “Allora scrivila nel modo in cui vuoi. Mi fido di te”. Beh, datami
quella libertà, vi ci sono tornato, e ci ho pensato a lungo e ho cercato di assorbirla – e sai che
cosa? E’ uscita in modo quasi identico a quello in cui l’aveva prevista Bob. Penso di aver inserito o
eliminato un passaggio. “Scriverla nel modo in cui volevo” ha significato trovare in essa la forza
che Bob aveva già trovato e di cui si era innamorato. Ma era disposto a mandarla al macero per
me.
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Quale ritieni sia la tua forza nella scrittura?
Lavoro sodo. Scavo a fondo. Cerco di rendere nuovo il materiale. Non fingo mai.
E il tuo punto debole?
Lavoro sodo. Scavo a fondo. Cerco di rendere nuovo il materiale. Sono sempre indietro sulla
scadenza.
Chi ammiri all’interno del mondo delle soap?
A parte le persone che ho già nominato…
Non so se qualcuno dei tuoi lettori ricorderà Charita Bauer, che per molti anni ha interpretato Bert
in Sentieri. Una donna veramente generosa e gentile, e un attore meraviglioso, che non si è mai
stancata di fare il lavoro di recitare. Non importa quanto Bert fosse tangenziale in quello che
stavamo facendo accadere, Charita colpiva nel segno. Non si è mai impigrita. Era La Bomba.
Mi piaceva veramente e ho ammirato Wendy Riche, la produttrice esecutiva di General Hospital
quando ero lì. Poteva essere terribilmente irritante; faceva impazzire Bob, erano come acqua e
olio. Ma le cose che ti facevano diventare matto erano tratti positivi in lei. Era coerente, insistente,
persistente e una gran lavoratrice. L’ho trovata premurosa, attenta, equa, e completamente a
bordo, senza secondi fini reconditi. Ti diceva che cosa realmente pensava, quanto era d’accordo e
quando non lo era, fin troppo – in effetti finivi per pensare, “Va bene, basta, stai zitta una buona
volta”. Ma così tanti produttori ti trattano come un bambino, ti mentono, ti minano alle spalle,
incasinano il tuo lavoro mentre non stai guardando, ecc. Non mi sono mai sentito così con Wendy,
E non ha mai mancato di fare la sola cosa che vuoi che un produttore faccia: produrre il dannato
programma. Sembra il minimo che uno si possa aspettare, giusto? Ma molti produttori non si
prendono il disturbo. Non sanno veramente come fare, per cui fingono di avere cose più importanti
da fare, come farti riscrivere l’ultima settimana.
Jackie Zeman [Bobbie, GH] è una persona adorabile con cui lavorare, molto alla mano e
generosa, premurosa, cortese. Constance Towers [Helena, GH] è probabilmente la donna più
gentile, più affascinane che si possa conoscere, veramente una persona di sostanza. Trasuda
integrità e bontà. John Ingle [Edward, GH] e Stuart Damon [Alan, GH] sono uomini adorabili,
divertenti, onesti, umili.
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Mi manca veramente [il defunto] Michael Zaslow [Roger, Sentieri; David, Una vita da vivere]. Lo
ammiravo e apprezzavo molto. Per prima cosa, era un attore bravo e poco apprezzato. Inoltre, era
un gentiluomo. E’ il solo attore che mi abbia mai ringraziato per nome quando ha ricevuto il suo
Emmy. Aveva un vero apprezzamento per la scrittura, e il gusto e l’esperienza per sapere quando
aveva fra le mani un buon copione. Mi citava battute che avevo scritto mesi prima per Roger e che
nemmeno io mi ricordavo. Una volta si è arrabbiato moltissimo quando l’ufficio di censura ha
decretato che non poteva dire una battuta che avevo scritto per lui e li ha combattuti e ha
telefonato al network e alla fine si è chiuso nel camerino per sbollirsi, mi ha raccontato. Non
c’erano parolacce nella battuta, niente di questo genere. Era (se posso dirlo io stesso) abile e
semplice ma scioccante. E, come molte battute e scene che ho scritto, nessuno l’ha sentita o la
sentirà mai.
Fuori dalle soap chi ammiri degli scrittori? E in generale?
Amo molti scrittori per molte ragioni. Per me, Proust è il più grande fra loro. Poi, in nessun ordine
particolare, Hardy, Dickens, George Elliot, Ibsen, Dostoevsky, Čechov, Trollope, Melville.
Chaucer, Omero, Dante, Pope sono lì da qualche parte. Jose Saramago. Primo Levi. Eudora
Welty, una scrittrice con molta grazia. Garcia Marquez.
Jane Bowles.
Alice Munro. Graham
Greene. Pedro Almovodar è diventato un mio scrittore preferito per i film. Robert Riskin era un
altro grande sceneggiatore. David Chase, che ha scritto I Soprano, è chiaramente una specie di
genio. David Milch, di Deadwood ed NYPD Blue, non solo è uno scrittore bravo e onesto, ma è
stato anche uno dei miei insegnanti di scrittura a Yale molto prima che scrivesse per la TV. Alan
Ball ha fatto un lavoro veramente glorioso a Six Feet Under. Meritava maggior riconoscimento.
Intendi non scrittori, ma persone in generale che ammiro? Tendo ad apprezzare piuttosto che
ammirare le persone, eccetto per quelle che conosco e ammiro da vicino nella mia vita quotidiana,
persone che i tuoi lettori non possono conoscere.
Ci sono storie/dialoghi che hai rimpianto di aver scritto o che avresti scritto differentemente?
Sono stato coinvolto in dozzine di storie davvero orribili, ma non erano mie. Il rapimento del figlio di
Eden in Santa Barbara – brividi. E certamente ci sono state scene di cui sono stato il solo
responsabile che ho guardato in onda e ho pensato “Ops – questa l’ho toppata“. Ma non sono
rimaste nella memoria di nessuno, perché le ho toppate.
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Come hai cominciato a scrivere?
Non ricordo. Ho ricevuto la mia prima lettera di rifiuto quando avevo cinque anni. Ho cominciato a
leggere prima di cominciare la scuola. Nessuno me lo ha spiegato. I miei genitori dicono che ho
semplicemente preso su un libro e ho cominciato a leggere quando avevo tre o quattro anni.
Naturalmente non può essere l’intera storia. Ho in effetti un flebile ricordo di aver fatto qualcosa del
genere. Mia madre leggeva molto, e ricordo di aver preso su un libro e all’improvviso è successo
che tutte quelle lettere dell’alfabeto hanno formato delle parole, avevano un senso per me, e ne
ero sorpreso.
Hai avuto un mentore?
Molti.
Quando ti sei reso conto di essere davvero uno scrittore, non solo qualcuno che scrive? Perché
scrivi? Qual è il suo significato per te? Quel è la tua poetica/estetica?
Non so la risposta a queste domande. Non scrivo per esprimere me stesso. Penso che scrivere sia
più difficile e non più facile, per me, che per le altre persone.
Pensi che la tua scrittura sia cambiata negli anni?
Sì. E’ diventata molto più semplice e più sicura. Dal lato negativo, può essere diventata più
ristretta. Lato positivo: più focalizzata.
Che cosa avresti voluto scrivere tu stesso, ma non lo hai fatto?
Avrei voluto aver scritto “Cent’anni di solitudine”. Ma non lo desidera ogni scrittore?
Quali abilità ritieni che uno scrittore di soap, o ogni scrittore di per sé, debba avere/sviluppare?
Sai, questa è una gran domanda, e ci sono molte abilità da affinare. Ma non hanno nomi perché
nessuno ne ha bisogno tranne gli scrittori, e le usiamo come usiamo le dita delle mani e dei piedi,
a cui pure non pensiamo di dare un nome.
Un’abilità è molto diversa da una regola. Penso che tutti noi sviluppiamo le nostre proprie regole
private sullo scrivere e vi facciamo riferimento mentalmente quando cerchiamo di diagnosticare
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che cosa c’è che non va in quello su cui stiamo lavorando. Per esempio: ogni personaggio deve
essere sia fedele a se stesso che capace di sorprenderti. Sono come le persone. Se un
personaggio non riesce a fare quelle due cose allo stesso tempo, non è un personaggio, è un
qualcosa di costruito, e c’è qualcosa di gravemente sbagliato nel modo in cui lo hai concepito.
Direi però che creare quel genere di personaggio non è una questione di abilità ma di cuore.
Che consiglio daresti agli scrittori?
“Scrivete. Capirete da soli come funziona. Non credete a nessuno che vi dice che non siete in
grado di scrivere. Se non siete in grado smetterete”.
Come si impara a scrivere bene?
Scrivendo, sviluppando il proprio gusto e giudizio leggendo grande scrittura – capendo che cosa la
rende grande – e diventando onesti.
Qual è la tua routine di scrittura?
Mi agito, e poi scrivo e smetto di agitarmi. Poi finisco e comincio ad agitarmi di nuovo.
Guardavi le soap prima di cominciare a scriverle?
No. Non avevo una televisione. Scrivevo opere teatrali.
Ci sono molte discussioni su che cosa caratterizzi un genere TV rispetto ad altri generi. Come
definiresti una “soap opera”? In che modo le soap sono diverse dagli altri generi, dal tuo punto di
vista?
Una soap è uno specifico tipo di serial che non ha un inizio, un mezzo e una fine. Le soap
muoiono per mancanza di interesse, non perché la storia è finita.
Messo in un’altro modo (il modo di Douglas): la fine della storia è sempre un’altra storia. Sono
come la vita in quel senso.
Pensi che il genere delle soap sia cambiato negli anni? Se sì, come?
Come si riflette la politica del dirigere un network sugli sceneggiatori? Il genere delle soap si dice
stia morendo per mancanza di spettatori: sei d’accordo con la previsione? Se lo sei, che misure,
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se ce ne sono, dovrebbero essere prese per evitarlo, secondo te?
Sono d’accordo con la previsione. Di più, penso che per la maggior parte le soap meritino di
morire. Quello che facciamo oggi non è minimamente vitale o nuovo o interessante come quello
che facevano diciotto, anche venticinque anni fa. Le soap allora erano potenti, crude, scioccanti –
facevamo qualunque cosa e tutto. Quello che facciamo adesso è timido e pieno di costrizioni. Lo
capisco. I network hanno paura di perdere ancor più spettatori, così cercano di non turbare
nessuno, e nel mentre li annoiano a morte.
Ho le bollette da pagare, per cui spero di poter cavalcare questo genere per un altro po’. Ma che io
lo faccia o meno, i serial torneranno. Forse su una base più limitata, come le telenovelas. Non so
se vedremo di nuovo qualcosa come Sentieri.
Leggi le critiche della stampa dedicata alle soap?
No.
La trovi utile?
Potrei se avessi il tempo di leggerla.
Perché qualcuno dovrebbe guardare una soap? Che cosa le rende valevoli di essere viste?
Le ricompense a lungo termine per il pubblico (e per lo scrittore) sono piuttosto uniche. La
memoria dello spettatore di lunga data racconta letteralmente la storia insieme a noi. Non
dobbiamo informarli sulle situazioni e sulle relazioni che hanno risonanza rispetto alla storia dei
personaggi. Se ti capita di imbatterti ne Il giardino dei Ciliegi [di Čechov] durante la gran scena di
Varya con Lopakhin, non hai idea che lui voleva sposarla o che lei stava aspettando che lui glielo
chiedesse. Il fatto che la scena ti spezzi il cuore dipende dalla comprensione del pubblico di ciò
che è venuto prima. E’ così per ogni scena di una soap. Il modo in cui le costruiamo fa sentire il
pubblico legato a noi creativamente, e lo è; contiamo sul fatto che prestino attenzione, che
ricordino, che utilizzino il passato nella comprensione del presente. Penso che richieda un livello di
impegno e intelligenza che può essere di grande soddisfazione per lo spettatore. Le persone che
non guardano le soap tendono a meravigliarsi (o a inorridirsi)
di quanto coinvolto è il nostro
pubblico. Ma veramente, non c’è altro modo di guardarle.
Le soap possono essere buone o cattive, coerenti o no. Ciascuna ha la propria personalità, le sue
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stranezze, attrae il suo pubblico, ha i suoi momenti di gloria e i suoi periodi burrascosi. E la sua
capacità di essere come di quei libri che ti spingono a girare una pagina dopo l’altra – Che cosa
accadrà poi? – non può essere sottostimata. Mi sono sentito un po’ deprivato, per esempio,
quando ho terminato i romanzi del ciclo di Palliser di Trollope. Non erano tutti meravigliosi, c’erano
alcune lungaggini, ma i momenti alti erano più alti di ogni film di due ore o di quanto ogni singolo
romanzo nella serie si sarebbe potuto permettere.
Fondamentalmente però l’attrattiva delle soap è questa: il nostro tema è l’intimità. Due persone da
sole in una stanza. Una famiglia all’interno delle mura della propria casa. Questo è il modo in cui la
maggior parte di noi fa esperienza della vita e il modo in cui riconosciamo che sono accadute le
nostre esperienze realmente formative. Per le persone, le donne specialmente, che sono in
sintonia con il potere e la necessità di intimità nelle proprie vite, avremmo sempre una speciale
attrazione e una ricompensa speciale.
Una domanda bizzarra ricorre spesso fra i fan delle soap, e sembra che nessuno sia in grado di
rispondere, per cui la pongo a te: i capo sceneggiatori vengono pagati extra per creare personaggi
nuovi di zecca?
No. Io non lo sono mai stato, in ogni caso.
Quando hai avuto il tuo primo lavoro retribuito come scrittore, a chi lo hai detto per primo, e che
cosa hai fatto con la prima busta paga?
1) Lo ho detto a mia madre. Ha sempre creduto in me come scrittore, o almeno ha sempre finto di
farlo.
2) Ho pagato l’affitto.
Dove tieni gli Emmy?
Vicino alla mia scrivania. Non li guardo molto e penso che sarebbe cattiva etichetta obbligare gli
altri a farlo.
Di notte sogni mai personaggi di soap o storie o dialoghi?
Sento dialoghi continuamente, soprattutto mentre mi sto addormentando. O semplicemente mi
esce dalla bocca – in ogni momento, anche in pubblico. Le persone che mi conoscono bene
devono abituarsi a me che parlo molto con me stesso o con nessuno.
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Non so se “sogno” i personaggi. Ma spesso – giornalmente, forse ogni ora – immagino come
sarebbe essere qualcun altro.
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