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RASSEGNA STAMPA
Martedì 30 settembre 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
IL RIFORMISTA
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 30/09/2014
Sabir, attivisti delle due rive del Mediterraneo
a Lampedusa per ricordare anche il 3 ottobre
2013
Sabir, il Festival diffuso delle culture mediterranee, promosso da Arci,Comitato 3
ottobre e Comune di Lampedusa, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei
Ministri e della Rai. Sabir, che dà il titolo al festival, era un idioma parlato in tutti i porti del
Mediterraneo dal Medioevo fino a tutto il XIX secolo. Uno strumento di comunicazione in
cui confluivano parole di molte lingue del Mediterraneo e che consentiva ai marinai e ai
mercanti dell'area di comunicare fra loro. Il titolo ha l'intento di evocare la vocazione
storica dell'isola di Lampedusa, che le deriva dalla sua collocazione geografica e che ha
visto, nel corso dei secoli, il passaggio delle grandi civiltà mediterranee. Lampedusa,
dunque, come luogo di incontro e di scambio di culture, tradizioni e saperi. Oggi
Lampedusa, nell'immaginario collettivo, è soprattutto legata ai grandi flussi di migranti, alle
tragedie che nel canale di Sicilia si cono consumate, a un'accoglienza quasi sempre
fornita in condizioni di emergenza, nonostante la solidarietà di cui spesso hanno dato
prova, in condizioni difficili, i suoi abitanti.
Dibattiti ed ospiti internazionali. L'intento del Festival è quello di restituire all'isola
un'immagine diversa, di valorizzarne il potenziale sociale, economico e culturale, di
rafforzarne il ruolo di ponte tra le due sponde del Mediterraneo, per la costruzione di uno
spazio aperto e solidale tra i paesi che vi si affacciano. Durante i 5 giorni del festival si
alterneranno dibattiti con ospiti internazionali, europei e provenienti dalla sponda sud del
Mediterraneo, comprese alcune delle aree di guerra; laboratori, eventi teatrali e musicali,
spazi dedicati alla letteratura. Il 3 ottobre ci saranno varie iniziative in ricordo del tragico
naufragio in cui persero la vita 368 migranti, iniziative di cui saranno protagonisti i familiari
delle vittime e i superstiti. La direzione artistica degli eventi teatrali è affidata ad Ascanio
Celestini, mentre per gli eventi musicali la direzione artistica sarà di Fiorella Mannoia.
Sulla sponda nord, a sud del Mediterraneo. Ecco il testo del comunicato ufficiale
dell'iniziativa. "Arriveranno a Lampedusa un gran numero di attivisti sociali della sponda
nord e sud del Mediterraneo, quelli che tutti i giorni con le unghie e con i denti difendono
democrazia, diritti e dignità contro potenti avversari e grandi minacce economiche, militari,
sociali e culturali. Discuteranno, in modo orizzontale e paritario, con europarlamentari
progressisti, intellettuali, personalità e artisti alla ricerca delle alleanze possibili e
necessarie sull'agenda di mobilitazione del prossimo anno e sulle "Alternative
Mediterranee". Solo rafforzando il fronte comune fra le due rive, riconoscendosi alleati
paritari, abbandonando ogni tentazione al paternalismo neo-coloniale, possiamo trovare la
forza per fermare la guerra e le occupazioni, difendere e allargare democrazia reale e
diritti, impedire l'accordo di libero scambio TTIP fra Europa e Usa e quelli che l'Unione
Europea sta continuando ad imporre ai paesi del Maghreb e del Mashrek, contrastare il
neoliberismo globalizzatore e ri-localizzare l'economia, fermare il cambio climatico, creare
lavoro reddito e occupazione, imporre corridoi umanitari, conquistare i diritti dei migranti.
Per ricostruire intorno a questo mare il solo progetto di futuro giusto e possibile, che cacci
guerra e sfruttamento dalla storia".
"No alle belle statuine". "Sabir - prosegue il documento - sarà anche una tappa verso il
FSM di Tunisi che si terrà a marzo 2015. Nel dicembre scorso, a Casablanca, quando
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presentammo l'idea del Forum di Lampedusa, solo una cosa ci disse Kamal Lahbib, una
delle personalità più autorevoli della sinistra sociale e culturale maghrebina: "Abbiamo
fatto tante cose insieme, e posso parlare sinceramente: se dobbiamo venire a Lampedusa
per ritrovarci, come succede quasi sempre in Europa, con noi a fare le belle statuine e voi
a fare la politica, sappiate che rimarremo a casa. Rimarremo a casa se metterete al centro
solo le vostre priorità europee, se il programma non guarderà al Mediterraneo davvero
riconoscendo pari dignità ai due punti di vista. Solo da questo scarto può consolidarsi
un'altra visione, un'altro progetto mediterraneo" Kamal verrà a Lampedusa. Abbiamo
cercato, preparando il programma, di tenere sempre a mente il suo avvertimento. Chi
vuole condividere l'impegno a rispettare questo impegno, è molto benvenuto a
Lampedusa".
http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2014/09/29/news/sabir_fra_una_settiman
a_attivisti_delle_due_rive_del_mediterraneo_a_lampedusa-96948352/
Da Redattore Sociale del 28/09/2014
Lampedusa un anno dopo, Arci: “Le cause di
quel disastro ci sono ancora”
L'associazione sottolinea “l'ipocrisia della classe politica incapace di
eliminare le cause che continuano a provocare morti nel Mediterraneo”.
Bocciatura per Frontex Plus: “Punta solo a sorvegliare le frontiere, non
a salvare i migranti”
ROMA – Le cause che un anno fa determinarono la tragedia di Lampedusa – 368 persone
persero la vita il 3 ottobre 2013 nel tentativo di raggiungere l'Europa – sono ancora oggi
presenti e la nuova missione Frontex Plus non mira al salvataggio dei migranti ma
solamente alla sorveglianza delle frontiere. Il Consiglio nazionale dell’Arci, riunitosi ieri a
Roma - denuncia, a quasi un anno dalla strage di Lampedusa “l’ipocrisia di tutta una
classe politica incapace di eliminare le cause che hanno provocato e continuano a
provocare morti nel mediterraneo mettendo in campo una radicale riforma della
legislazione su immigrazione e asilo, aprendo canali di accesso umanitari e realizzando un
sistema d’accoglienza unico con stand rispettosi della dignità dei rifugiati che vi vengono
accolti”. “Le migliaia di morti nel Mediterraneo – sostiene l'associazione - si rispettano
continuando a svolgere un’attività di soccorso reale e non utilizzando risorse per
operazioni come Frontex plus, che ha unicamente il mandato di sorveglianza delle
frontiere e non di salvataggio dei migranti”.
“Ancora oggi – prosegue l'Arci - il Parlamento italiano, nonostante decine di migliaia di
firme raccolte dal Comitato 3 ottobre, non ha ancora approvato la legge che istituisce la
Giornata della Memoria, che oltre a restituire dignità ai tanti migranti morti nel tentativo di
raggiungere l’Europa, permetterebbe di fare chiarezza sulle responsabilità che gravano sui
governi nella gestione delle frontiere”. L’Arci ricorderà il 3 ottobre a Lampedusa, insieme
all’omonimo Comitato, ai familiari delle vittime e ai superstiti. Organizzerà inoltre in molte
città italiane iniziative di commemorazione e di denuncia, chiedendo scelte concrete
perché di frontiera non si debba più morire.
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Da Radio Città del Capo del 29/09/2014
Diario da Lampedusa
Venerdì prossimo, il 3 ottobre, a Lampedusa, si ricorderà il naufragio di un anno fa nel mar
Mediterraneo che costò la vita a 368 persone accertate mentre furono circa 20 i dispersi
presunti. I superstiti ed i familiari delle vittime libereranno in cielo 368 lanterne una per
ciascuna vittima del naufragio dell’isola dei Conigli. Sarà il momento culminante del
festival Sabir, organizzato dall’Arci che si snoderà con tantissimi appuntamenti dall’1 al 5
ottobre.
Proprio la giornata del 3 ottobre potrebbe essere teatro di contestazioni per la possibile
presenza di ministri del Governo, potrebbe arrivare anche Angelino Alfano, in occasione
dell’anniversario. L’associazionismo dell’isola e parte della cittadinanza non gradirebbe
parate della politica. Qui un articolo del Manifesto che racconta il clima che si respira a
Lampedusa.
A Lampedusa Radio Città del Capo avrà degli inviati d’eccezione, Siid Negash del
coordinamento Eritrea democratica e Luana Redaliè. Ci accompagneranno lungo tutta
questa settimana con articoli, foto e contributi audio che costituiranno il nostro diario da
Lampedusa: la voce innanzitutto alle persone.
Seguiteci con l’hastag #lampedusa
Siid Negash ci parla della settimana
http://www.radiocittadelcapo.it/archives/diario-da-lampedusa-148200/
Da immezcla.it del 29/09/2014
LAMPEDUSA, L'ARCI DENUNCIA: LE CAUSE
DEL DISASTRO DEL 3 OTTOBRE CI SONO
ANCORA
Adriana Sapone
Le cause che un anno fa determinarono la tragedia di Lampedusa – 368 persone persero
la vita il 3 ottobre 2013 nel tentativo di raggiungere l'Europa – sono ancora oggi presenti e
la nuova missione Frontex Plus non mira al salvataggio dei migranti ma solamente alla
sorveglianza delle frontiere. Il Consiglio nazionale dell’Arci, riunitosi a Roma - denuncia, a
quasi un anno dalla strage di Lampedusa “l’ipocrisia di tutta una classe politica incapace di
eliminare le cause che hanno provocato e continuano a provocare morti nel mediterraneo
mettendo in campo una radicale riforma della legislazione su immigrazione e asilo,
aprendo canali di accesso umanitari e realizzando un sistema d’accoglienza unico con
stand rispettosi della dignità dei rifugiati che vi vengono accolti”.
“Le migliaia di morti nel Mediterraneo – sostiene l'associazione - si rispettano continuando
a svolgere un’attività di soccorso reale e non utilizzando risorse per operazioni come
Frontex plus, che ha unicamente il mandato di sorveglianza delle frontiere e non di
salvataggio dei migranti”.
“Ancora oggi – prosegue l'Arci - il Parlamento italiano, nonostante decine di migliaia di
firme raccolte dal Comitato 3 ottobre, non ha ancora approvato la legge che istituisce la
Giornata della Memoria, che oltre a restituire dignità ai tanti migranti morti nel tentativo di
raggiungere l’Europa, permetterebbe di fare chiarezza sulle responsabilità che gravano sui
governi nella gestione delle frontiere”. L’Arci ricorderà il 3 ottobre a Lampedusa, insieme
all’omonimo Comitato, ai familiari delle vittime e ai superstiti. Organizzerà inoltre in molte
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città italiane iniziative di commemorazione e di denuncia, chiedendo scelte concrete
perché di frontiera non si debba più morire.
http://www.immezcla.it/notizie-immigrazione/item/581-frontex-plus-mare-nostrum-europamigranti-sbarchi-accoglienza-corridoi-umanitari.html
Del 30/09/2014
L'Italia cede all'Ue: migranti schedati
Ilaria Sesana e Vincenzo R. Spagnolo
«Lo straniero deve essere sempre sottoposto a rilievi foto dattiloscopici e segnaletici... ». Il
giro di vite, alla fine, è arrivato, attraverso una circolare del Viminale diramata nelle scorse
ore a tutti i prefetti e questori. A tutti i migranti e i profughi soccorsi d’ora in poi con
l’operazione Mare nostrum (quelli giunti finora sono stati oltre 130mila) saranno prese le
impronte digitali e scattate le foto di rito. Il documento, emanato dal Dipartimento di
pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno e che Avvenire ha potuto visionare, parte
dall’esigenza (di natura politico-diplomatica) di chiudere le schermaglie sulle regole legate
al trattato di Dublino: «Alcuni Stati membri lamentano, con crescente insistenza – si legge
– il mancato fotosegnalamento di numerosi migranti che, dopo esser giunti in Italia,
proseguono il viaggio verso i Paesi del Nord Europa». Ciò, prosegue la circolare,
«determina la necessità d’affrontare la situazione emergenziale con rinnovata cura nelle
attività d’identificazione e fotosegnalamento dei migranti».
Tradotto: non ci saranno più situazioni affrontate con minor determinazione, nemmeno per
siriani ed eritrei che, fino a qualche tempo fa, scivolavano fra le maglie delle procedure per
raggiungere Milano e da lì altri Paesi del Nord Europa, dove le reti familiari o un welfare
più solido garantiscono sulla carta un miglior inserimento.
Un cambio di rotta deciso dal governo, sollecitato dai vari richiami da parte dell’Europa – in
modo particolare dalla Germania – che hanno alla fine convinto il ministero dell’Interno a
fare chiarezza, emanando la circolare: «Nei mesi scorsi», c’è scritto, «si è avuto modo di
constatare l’oggettiva difficoltà di procedere al fotosegnalamento dei migranti» nei luoghi di
sbarco, per via del «rilevante numero di gruppi soccorsi» dalle navi. I «tentativi esperiti in
tali condizioni» hanno «determinato rilevanti problemi connessi alla sicurezza».
Così, per «superare le difficoltà operative riscontrate», l’ordine è tassativo: «Prescindendo
dalla puntuale identificazione sulla base dell’esibizione del documento di viaggio, se
posseduto » o anche «dall’inesistenza di motivi di dubbio sulla dichiarata identità », la
circolare dispone che «lo straniero deve essere sempre sottoposto a rilievi foto
dattiloscopici e segnaletici ». Ciò tanto più se sussista il sospetto che abbia presentato
domanda di asilo in qualche altro Paese Ue, o se sia stato «fermato» durante
l’attraversamento irregolare delle frontiere. Ancora, la circolare dispone misure per i servizi
di ordine pubblico nelle province di destinazione dei migranti. E per spegnere le polemiche
sul rischio di epidemie, dispone il rilascio, dopo una prima visita-filtro, di «una
certificazione medica cumulativa che l’assenza di malattie infettive e contagiose in atto nel
gruppo dei migranti ». In occasione di ogni sbarco, il ministero della Salute emetterà «un
bollettino» per gli enti competenti. Tutte procedure volte a contenere potenziali rischi
sanitari anche per il personale di pubblica sicurezza.
La decisione sul fotosegnalamento era stata confermata il 24 settembre dal Viminale alle
associazioni che operano nell’accoglienza, che ora sono preoccupate: «Le impronte
saranno prese a tutti. Ciò vuol dire – spiega Filippo Miraglia, vicepresidente Arci – che
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avremo più persone da accogliere nei prossimi mesi. Questo aggraverà una situazione già
al collasso» «Ci siamo battuti per ottenere un corridoio umanitario che facilitasse il
passaggio dei profughi e invece ci ritroviamo un cambiamento nemmeno annunciato delle
procedure di accoglienza– osserva don Virginio Colmegna, presidente della Casa della
Carità –. La situazione è grave e preoccupante e cambierà parecchio il nostro lavoro».
Da Redattore Sociale del 26/09/2014
Stretta del governo, schedati tutti i rifugiati.
“Ora l’accoglienza scoppierà”
Dopo i recenti richiami dell’Europa all’Italia, rea di non prendere le
impronte e di lasciare transitare i profughi oltreconfine, una circolare
riservata riporta le procedure al vecchio regime. Le associazioni: “Le
strutture sono già piene e avremo problemi a gestire il nuovo corso coi
migranti”
ROMA –Stretta sulle impronte digitali per i profughi da parte del governo italiano. Dopo il
richiamo da parte dell’Europa al nostro paese, reo di lasciar transitare verso i paesi limitrofi
i migranti che giungono sulle nostre coste, il ministero dell’Interno ha emanato a metà
settembre una circolare interna, strettamente riservata, in cui si cambiano le modalità di
fotosegnalamento. Il documento, tenuto sotto il più stretto riserbo da parte del ministero,
prevede tempi più stringenti per le procedure, ma soprattutto non prevede sconti per
nessuno, compresi siriani ed eritrei. Nei loro confronti negli ultimi mesi l’Italia aveva chiuso
un occhio e in tanti erano riusciti dalla Sicilia a prendere un treno verso Milano e poi a
varcare i confini e dirigersi verso il nord Europa. Tutto senza lasciare le impronte digitali in
Italia e senza dover quindi aspettare nel nostro paese tutto l’iter della domanda d’asilo
come prevede, invece, il regolamento Dublino II, secondo cui la richiesta va fatta
obbligatoriamente nel primo paese di approdo.
Agenzia giornalistica
30 euro per chi accoglie immigrati? Alfano smentisce Marino: “No del Viminale”
Un atteggiamento che aveva, però, suscitato le ire degli altri paesi europei, in particolare
della Germania. “E' un fatto – aveva detto il ministro degli Interni bavarese Joachim
Herrmann - che l'Italia di proposito in molti casi non prende i dati personali e le impronte
digitali, così che i migranti possono chiedere asilo in un altro Paese e non essere rinviati in
Italia". E così il nostro paese ha dovuto fare un passo indietro.
Un atto dovuto, ma fatto passare sotto silenzio, i cui effetti sono stati, però, subito evidenti
e hanno gettato in allarme le associazioni che si occupano di accoglienza, e che si trovano
già in una situazione di emergenza. “Che il nostro paese chiudesse un occhio sui profughi
che passavano per l’Italia lo dicono i numeri: dall’inizio dell’anno sono arrivate sulle nostre
coste oltre 130 mila persone ma nei centri ce ne sono circa sessantamila, alcuni dei quali
presenti anche da più di un anno. Ciò significa che gli altri sono andati altrove – sottolinea
Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci nazionale -. Chiudendo un occhio siamo riusciti
a scaricare l’accoglienza sugli altri paesi, ma ora si è deciso di cambiare atteggiamento,
come ci è stato confermato nella riunione al Viminale del 24 settembre. Le impronte
saranno prese a tutti, ciò vuol dire che avremo più persone da accogliere nei prossimi
mesi. Questo aggraverà una situazione già al collasso, perché finora non si è pensato a
un piano vero e proprio, ma l’accoglienza è stata gestita con gare al massimo ribasso ,
che hanno consentito anche a strutture inadeguate, come alberghi e b&b, di entrare nel
sistema, con spreco di risorse ed energie. E ora non siamo pronti: dovremo ricominciare
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da zero”. Ma secondo Miraglia questo cambio di passo potrebbe causare problemi anche
all’interno delle strutture: “come spiegheremo ai migranti che a loro saranno prese
obbligatoriamente le impronte, mentre fino a due settimane fa agli amici con cui sono in
contatto non venivano prese? Questo creerà problemi ai nostri operatori”.
Che la situazione sia cambiata è evidente in particolare a Milano, dove molti profughi
sbarcati in Sicilia giungevano per poi varcare il confine. I flussi in arrivo alla stazione
Centrale sono fortemente diminuiti negli ultimi giorni: se la settimana scorsa ci sono stati
giornate con 1.400 arrivi, il 25 settembre il dato è fermo a 40. A questi però se ne
aggiungono 80 respinti sulla frontiera del Brennero: l'Austria li ha rimandati indietro e, a
quanto raccontano i profughi, pare che in Germania la situazione sia uguale. "A Milano
molti degli ultimi profughi arrivati sono già stati foto segnalati", spiega Alberto Sinigallia,
presidente della Fondazione progetto Arca- Se non si sblocca il tappo con il Nord Europa,
però, la vasca dell'accoglienza milanese si riempirà presto". La onlus che dirige ha già 500
ospiti invece dei 340 previsti dalla convenzione con la Prefettura. "Lo scenario possibile ci
preoccupa. Le prossime due settimane saranno decisive", aggiunge. A quanto risulta dalle
testimonianze raccolte dai volontari di Fondazione Progetto Arca, la maggior parte dei foto
segnalamenti avverrebbe al Sud "senza nemmeno la possibilità di parlare attraverso un
interprete". La situazione è più o meno la stessa anche nel resto d’Italia. “Nel nostro centro
ad oggi ci sono 294 persone, ma dal 15 gennaio ne sono transitate circa 800 – spiega
Barbara Pilati, responsabile di Arci Perugia – ciò significa che circa 500 sono andati
via. Ma dopo questo cambio di procedura dovremmo organizzarci e temiamo un collasso
nelle nostre strutture”. “Le nostre paure su una situazione che potrebbe diventare
disastrosa le abbiamo espresse già al tavolo col ministero – aggiunge Miraglia – Abbiamo
ribadito la nostra contrarietà al regolamento Dublino II e abbiamo chiesto all’Italia di alzare
la voce e chiedere piuttosto l’applicazione della direttiva 55 sulla protezione temporanea,
che sospende il regolamento Dublino, e che potrebbe permettere a siriani ed eritrei di
raggiungere i paesi dove vogliono andare. Tra l’altro il fatto che i profughi scappino
dall’Italia è un giudizio terribile sul nostro sistema di accoglienza, che non potrà che
peggiorare, se non si interviene strutturalmente”. Segnali di un cambiamento di rotta nella
gestione dei flussi migratori erano già intuibili dal Decreto legge dell'8 agosto, in vigore dal
22 del mese scorso. Al capo 2, dove si parla di "Disposizioni urgenti in materia di
protezione internazionale", si leggono le modifiche del decreto legislativo 25 del 2008, il
testo che ha introdotto le Commissioni territoriali, ossia gli organi ministeriali preposti a
giudicare le domande d'asilo. Di norma sono dieci in tutta Italia, come previsto dall'articolo
4 comma 2, che con l'ultimo decreto è stato modificato prevedendo fino ad un massimo di
venti commissioni. Forse in vista del superlavoro che si prospetta per smaltire le domande
d'asilo.
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ESTERI
Del 30/09/2014
Netanyahu, Gaza: è tutta colpa dei palestinesi
e di Hamas
Israele/Territori Occupati. Per il premier, che ieri ha parlato all'Assemblea generale
dell'Onu, Israele si è solo difeso e sarebbe falsa l'accusa di "genocidio" lanciata dal
presidente dell'Anp Abu Mazen. Il nostro esercito, ha detto, è il "più morale" al
mondo
Michele Giorgio
discorso di Benyamin Netanyahu davanti all’Assemblea Generale dell’Onu non ha tradito
le aspettative. Il premier aveva promesso di rispondere all’accusa di avere tentato, con
l’offensiva militare di luglio e agosto, un genocidio a Gaza, rivolta a Israele dal presidente
Abu Mazen venerdì scorso sempre all’Onu. E ieri non ha certo usato il fioretto per contrabbattere al leader palestinese che ormai giudica ostile e non un partner per negoziati. Anzi,
ora Netanyahu sembra rivolgersi a quella parte di mondo arabo che dietro le quinte ha già
rapporti stretti con Israele per arrivare a un ipotetico accordo con i palestinesi. Un avvicinamento tra Israele e Paesi arabi, ha sostenuto, «può aiutare a risolvere il conflitto».
Ha difeso l’offensiva “Margine Protettivo” contro Gaza (circa 2.200 palestinesi uccisi,
almeno 11mila feriti, migliaia di case distrutte). Per il premier l’esercito israeliano sarebbe il
più “morale” al mondo. «Israele ha fatto di tutto per limitare le vittime civili a Gaza, Hamas
ha fatto di tutto per aumentarle…Israele ha usato i suoi missili per difendere i propri figli.
Hamas ha usato i suoi figli per difendere e suoi razzi», ha detto Netanyahu mostrando la
foto di un lanciatore di razzi di Hamas tra i bambini a Gaza. Israele, ha insistito Netanyahu,
si è solo difeso e se a Gaza ci sono stati dei civili uccisi la colpa, in ogni caso, è solo dei
palestinesi stessi. Poi ha rivolto una pesantissima accusa a una delle istituzioni più prestigiose dell’Onu, il Consiglio per i Diritti Umani. «Ha tradito la sua missione di proteggere gli
innocenti», ha affermato il primo ministro, «perchè è diventato il consiglio per i diritti dei
terroristi». Se era scontata la replica tagliente di Netanyahu al discorso di Abu Mazen
all’Onu, ben più frustrante per i palestinesi è il “no” di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia
alla richiesta fatta dal presidente dell’Anp di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che
fissi tempi certi (entro tre anni) per la fine dell’occupazione israeliana sui Territori palestinesi e della nascita (sul terreno) dello Stato di Palestina che già esiste all’Onu come Stato
non membro. La delegazione palestinese all’Onu ha incontrato i rappresentanti dei 15
paesi del Consiglio di Sicurezza per sondare il terreno, incassando, pare, l’appoggio di
Russia, Cina e Giordania. Gli altri Stati membri avrebbero detto di avere bisogno di più
tempo per comunicare la propria posizione. In ogni caso anche se la maggioranza del CdS
dovesse schierarsi a favore di una risoluzione sulla proposta palestinese, Washington
farebbe uso del suo potere di veto. L’obiettivo più immediato per i palestinesi è quello di
ottenere una maggioranza di nove paesi favorevoli. Con quei voti sarebbero in grado di
percorrere anche altre strade. A partire dall’adesione alla Corte Penale Internazionale, in
modo da richiedere l’incriminazione di Israele per crimini di guerra.
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Del 30/09/2014, pag. 16
Vietati i tatuaggi e niente trucco la nuova
stretta di Erdogan
Nelle scuole sì al velo, no a barba e baffi: cambiano le regole per gli
studenti E il presidente tuona anche contro l’iPhone
MARCO ANSALDO
SÌ AL velo delle ragazze nelle scuole. Ma no a tatuaggi e trucco per studenti e
studentesse. E poi attacchi contro la politica di marketing del nuovo iPhone. Ma che cosa
sta diventando oggi la Turchia? Il governo islamico conservatore stringe la morsa sui
giovani, imponendo regole fino a ieri fuori corso. Con l’altra metà del Paese, quella laica e
liberale, disperata ma senza la capacità di esprimere un leader capace di opporsi allo
strapotere del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Più che una campagna di islamizzazione, la sua pare un’offensiva moralizzatrice, tesa a
rimodellare la società. Ieri ad esempio sono state rese note sulla Gazzetta Ufficiale le
nuove norme sui costumi a scuola: divieto di tingere i capelli e di portare barba o baffi. Gli
studenti «devono presentarsi con il volto visibile, non possono usare borse o altro
materiale con simboli politici, foto o scritte». Chi trasgredirà rischia l’espulsione. Già a
luglio Erdogan si era già espresso sui tatuaggi, criticando un calciatore del Galatasaray.
«Perché fai del male al tuo corpo? — aveva detto a Berk Yildiz — non farti ingannare dagli
stranieri. Corri anche il rischio che ti venga un cancro alla pelle ».
Ma se da un lato Ankara impone ai giovani divieti precisi, dall’altra si mostra insolitamente
liberale con le studentesse desiderose di indossare il “turban” (che le copre interamente
sul capo senza lasciare trasparire un capello), le quali rappresentano in netta maggioranza
la parte politica vicina al partito Giustizia e sviluppo. Il governo infatti ha da poco abrogato
il divieto di indossare il velo nelle scuole superiori, baluardo delle norme dettate dal padre
laico della Patria, Ataturk.
«Ognuno deve vivere la sua vita come crede», ha commentato serafico il premier turco
Ahmet Davutoglu. E Erdogan, noto per la sua ostilità ai social network e per i più moderni
strumenti della comunicazione on line, ha criticato ieri l’ultimo iPhone della Apple.
«Quell’azienda — ha detto in un discorso trasmesso in diretta tv — mette in commercio un
nuovo modello più o meno ogni anno. Ma non è diverso dalla versione dello scorso anno.
Non si vende un telefono, ma il brand di quel telefono».
«La società turca è avviata a tornare al Medio Evo — commenta il leader di uno dei
sindacati turchi, Veli Demir — che cosa faranno con quei ragazzi che hanno già tatuaggi
sul corpo? Gli strapperanno la pelle?». Ieri l’organizzazione Human Rights Watch ha
diffuso un rapporto di 38 pagine sulla situazione in Turchia, affermando che il Paese sta
facendo passi indietro sul rispetto dei diritti umani e sullo stato di diritto, e deve adottare
misure per tutelare la libertà di parola, il diritto alla protesta pacifica e i principi della
legalità.
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Del 30/09/2014, pag. 36
Si nasconde tra i fedeli di una moschea. Spesso è un giovane
insospettabile, magari universitario, che ha combattuto per l’Is e adesso
è tornato in patria con l’obiettivo di compiere un attentato. Per
l’Intelligence almeno 500 “miliziani britannici” si sono arruolati con lo
Stato islamico. Una minaccia più forte di Al Qaeda
Il jihadista in casa
ENRICO FRANCESCHINI
«DONATE una sterlina per i profughi siriani », sta scritto in inglese e in arabo sui volantini.
Il giovane barbuto dalla pelle scura che li distribuisce indossa un lungo caffettano:«“Allah
Akbar », Allah è grande, mormora ogni volta che un fedele getta monete nel secchio ai
suoi piedi. Dietro di lui risplende una cupola dorata, identica a quella che ricopre la celebre
moschea della Roccia a Gerusalemme. Tutto intorno, uomini con la kefiah colorata e
donne con veli di diversa gradazione, dal chador al burqa, pregano rivolti verso la Mecca.
Potremmo essere al Cairo, a Damasco, a Bagdad, invece siamo alla Central Mosque, la
più grande moschea di Londra, dove ogni venerdì, giorno di festa degli islamici, si ripetono
gli stessi riti. Stavolta, tuttavia, la presenza di poliziotti in uniforme, apparentemente per
regolare il traffico su Park road, sembra più massiccia, come sono più numerosi i
giornalisti, fotografi e cameraman. Scrutando il ventenne con i volantini, è inevitabile
interrogarsi: a chi andranno quelle sterline per i “profughi siriani”? Lavora per una ong o si
è arruolato nelle file del-l’Is, lo Stato Islamico che combatte per creare un Califfato in Iraq e
in Siria?
Nello stesso giorno, più o meno alla stessa ora, lo stesso genere di dubbi circolava
nell’aula della camera dei Comuni, dove il primo ministro David Cameron ha ottenuto a
stragrande maggioranza, con il sostegno dell’opposizione laburista, l’approvazione
all’entrata in guerra del Regno Unito contro l’Is a fianco degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Poco dopo i primi bombardieri della Raf hanno cominciato a sganciare missili sull’Iraq.
«Abbiamo il dovere di intervenire, perché questi barbari, questi psicopatici, minacciano le
nostre strade», ha detto il premier britannico nel suo discorso in Parlamento. Non si
riferiva solo agli ostaggi inglesi e occidentali decapitati uno dopo l’altro dagli estremisti
islamici nei loro covi mediorientali, bensì al pericolo di attacchi terroristici in patria. Un
attentato in Europa è «inevitabile », affermano i responsabili della sicurezza della Ue. La
scorsa settimana, undici persone sono finite agli arresti in base alle leggi anti-terrorismo a
Londra e nove a Madrid. Già a fine agosto l’Inghilterra aveva alzato il suo livello di allarme
da «sostanziale » a «severo», il penultimo grado più alto, secondo cui un attentato è
«altamente probabile » (anche se non «imminente »). Ora il timore delle autorità è che i
musulmani britannici andati a combattere per l’Islamic State rientrino nel Regno Unito per
compiere attacchi sul suolo natio: rispondendo ai bombardamenti dal cielo con il terrore
«nelle strade» evocato da Cameron. Secondo il primo ministro sarebbero almeno 500 i
«jihadisti britannici» attualmente in Iraq e Siria (il presidente Obama parla di 15 mila
jihadisti provenienti da tutto l’Occidente); e altri 250 avrebbero già fatto ritorno a Londra. Il
ministro della Difesa Michael Fallon ha rivelato ieri che 60 di questi sono stati arrestati
appena hanno rimesso piede in Inghilterra. Ma gli altri? Qualcuno potrebbe essere fra i
giovani che distribuiscono volantini ai fedeli davanti alla Moschea Centrale di Park road.
Come il ragazzo barbuto che chiede fondi per i “profughi” in Siria. «È ripugnante che
cittadini britannici possano ritornare nel nostro Paese e porre una minaccia alla sicurezza
nazionale», afferma il premier conservatore. Quello del “terrorista della porta accanto” è un
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incubo ricorrente per la Gran Bretagna. Per trent’anni ha avuto il volto del-l’Ira, l’esercito
clandestino repubblicano che lottava per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord, autore di non
pochi sanguinosi attentati in Inghilterra e nella stessa capitale. Quindi, dopo che nel luglio
2005 quattro kamikaze islamici si fecero saltare in aria nella metro di Londra causando 60
morti e 700 feriti, ha assunto l’aspetto di Al Qaeda, lo spettro che ha spaventato
l’Occidente, e provocato due guerre, a partire dall’attentato dell’11 settembre 2001 contro
le Torri Gemelle di New York. Ma il “jihadista della porta accanto” rappresenta una
minaccia ancora più grave dei terroristi di Al Qaeda. Arruolarsi nelle file di un esercito che
combatte per costruire un califfato in Medio Oriente è un gesto più romantico che infilare
una cintura di esplosivo e farsi esplodere tra donne e bambini. Per un giovane musulmano
che si sente inutile, frustrato e depresso in Gran Bretagna, la “guerra santa” può costituire
un richiamo accattivante. E non lo costringe a rinunciare alla famiglia, all’amore, alla vita –
almeno non subito, non necessariamente. Perciò partono in tanti. Molti di più di quanti si
sono votati al suicidio nelle cellule di Al Qaeda a Londra, Madrid, New York negli ultimi
quindici anni. È questa minaccia a generare consenso per le misure del governo
britannico. La decisione di entrare in guerra ha avuto l’approvazione del 70 per cento degli
inglesi. Una percentuale analoga aveva accolto favorevolmente le proposte per impedire
ai jihadisti di rimpatriare: controlli delle liste dei passeggeri, ritiro dei passaporti, spionaggio
più intrusivo. Ma non mancano le critiche. «Più che reprimere serve prevenire», osserva
Harun Khan, vicesegretario generale del Muslim Council of Britain, l’associazione che
rappresenta due milioni di musulmani britannici, la maggior parte dei quali sono cittadini
pacifici e rispettosi della legge. «Le autorità dovrebbero cercare di capire cos’è che spinge
dei ragazzi in tale direzione. E parte del problema è proprio il continuo perorare la causa
del controllo, della vigilanza, della privazione di diritti in nome della lotta al terrorismo.
Ecco cosa spinge tanti giovani islamici britannici a radicalizzarsi». Concorda Ghaffar
Hussain, direttore della Quillam Foundation, think tank londinese di studi islamici: «Il
governo Cameron ha una politica anti-terrorismo ma non ha una politica antiestremismo.
Punta a bloccare la gente che si radicalizza, ma una volta che un giovane si radicalizza è
spesso tardi per bloccarlo. La chiave è fermarlo prima».
Non sono solo i rappresentanti dei musulmani a sollevare obiezioni. Richard Barrett, ex
capo dell’antiterrorismo all’-MI6 e all’MI5 (i servizi di spionaggio e controspionaggio
britannico), si sdegna per l’idea lanciata dall’ambizioso sindaco di Londra, Boris Johnson,
di assegnare una «presunzione di colpevolezza» a tutti i britannici che si recano in Iraq o
in Siria. «La presunzione d’innocenza è un cardine della nostra democrazia », osserva l’ex
agente segreto, «sarebbe gravissimo sospenderla in nome di minacce non provate». Il
complotto scoperto in primavera nelle scuole di Birmingham, di cui fondamentalisti islamici
si stavano impossessando per radicalizzare gli studenti e allevare piccoli jihadisti, dimostra
che bisognerebbe fare qualcosa per stroncare il fenomeno. Ma cosa? Il dilemma non è
semplice per il Paese che nel 1215 sancì l’“habeas corpus”, prima garanzia che non si può
essere accusati senza motivo, e che dal 1866 ospita lo Speakers Corner, l’angolo di Hyde
Park dove a tutti è concessa libertà di parola, inclusi a suo tempo Marx e Lenin. Un Paese
che per i musulmani è diventato una sorta di seconda patria comoda e civile, per quelli
ricchi che fanno shopping da Harrods (i grandi magazzini fino a qualche anno fa di
proprietà dell’egiziano Mohammed al Fayed e ora del Qatar) e per quelli poveri che
emigrano qui dal Pakistan o dal Nord Africa. Tanto da far ribattezzare la sua capitale
Londonistan. «Il problema non si risolve internamente, bensì internazionalmente »,
ammonisce Paddy Ashdown, ex leader del partito liberaldemocratico. Non allude solo
all’intervento militare, ma a una ripresa del dialogo con l’Iran (Cameron ha incontrato nei
giorni scorsi all’Onu il presidente Rohani, primo contatto diretto con un leader iraniano
dalla rivoluzione khomeinista del 1979), a pressioni su Arabia Saudita e Qatar affinché
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interrompano i finanziamenti (diretti o indiretti) all’estremismo e a «una soluzione alla
questione che resta la miccia di ogni conflagrazione mediorientale, l’occupazione illegale
della Cisgiordania palestinese da parte di Israele».
Non è chiaro se la guerra, destinata a durare “anni” secondo Obama e Cameron, farà
scomparire i jihadisti della porta accanto. Né cosa vogliano veramente i giovani barbuti
che distribuiscono volantini davanti alla Central Mosque di Londra, invocando Allah
quando un fedele getta una sterlina nel secchio.
INTERNI
Del 30/09/2014, pag. 2
Lavoro, la vittoria di Renzi “L’articolo 18 va
superato” Si divide la direzione Pd
Duro attacco di Bersani e D’Alema: “Basta spot e metodo Boffo” Poi la
minoranza si spacca: 130 sì al premier, 20 no e 11 astenuti
GIOVANNA CASADIO
Matteo Renzi vince la sfida in Direzione sul Jobs Act, ora la battaglia si sposta in
Parlamento. Il premier si augura che dopo una discussione che definisce «bella», ma che
in realtà è stata una resa dei conti, alle Camere «si voti uniti». Difende il suo governo: «È
contro la realtà continuare a dire che è solo slogan». Ne rivendica le scelte, a cominciare
dall’abolizione dell’articolo 18.
Attacca «le responsabilità drammatiche dei sindacati» e dice che il Pd deve avere anche
la rappresentanza degli imprenditori. Alla fine è provato. Una mediazione minimalista l’ha
tentata. A sera fa capire che andrà avanti come un panzer. L’ok alla riforma del lavoro
passa con 130 sì, 11 astenuti (parte di Area riformista, la corrente di Roberto Speranza) e
20 contrari tra i quali D’Alema, Bersani, Cuperlo, Civati, Fassina, D’Attorre.
Nel parlamentino del Pd va in scena uno scontro drammatico su articolo 18, identità della
sinistra, rapporto con l’impresa. Il conflitto tra la “vecchia guardia” e Renzi ha toni mai
raggiunti. Eppure l’inizio della riunione è soft. Il segretario-premier si mostra determinato
sull’abolizione dell’articolo 18: «No ai compromessi a tutti i costi, però questa è una riforma
di sinistra, se la sinistra serve a difendere i lavoratori e non i totem, a difendere tutti e non
qualcuno già garantito». Poi Renzi annuncia un incontro con i sindacati e fa delle aperture
sul “reintegro” non solo per i licenziamenti discriminatori ma anche per quelli disciplinari. È
una delle richieste della corrente dei “giovani turchi”, che infatti vota a favore della riforma.
Quando Massimo D’Alema però prende la parola, denunciando che Renzi fa «molte parole
senza fondamento» e rincara con l’accusa di una «oratoria non attinente alla realtà»,
condendo l’attacco con sarcasmo e ironie, il Pd si ritrova in piena burrasca. Una tempesta
nel partito che cresce con l’intervento di Pierluigi Bersani. Dall’ex segretario dem un
j’accuse: «Noi sull’orlo del baratro non ci andiamo per l’articolo 18. Ci andiamo per il
metodo Boffo, perché se uno dice la sua, deve poterla dire senza che gli venga tolta la
dignità». La platea renziana rumoreggia. Roberto Giachetti contrattacca sul “metodo
Boffo”, usato casomai - sostiene - contro Renzi da D’Alema con l’accusa al premier di farsi
«istruire da Verdini». «Citami una frase mia...» ribatte Bersani. Brusio, commenti. Sarà poi
Renzi a scherzarci su: «Io adopero casomai un metodo buffo...». Non basta ad alleggerire
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il clima. L’affondo di Civati è senza sconti: «Ho sentito Renzi dire cose di destra...».
Cuperlo corregge Renzi: «Non sono 44 anni come i 44 gatti che non si tocca l’articolo 18
ma solo due». Fassina ammette che il momento è delicato e che il disaccordo con Renzi è
totale. Lo spettro della scissione ritorna. Anche se tutti negano. Il ministro Poletti si mette
d’impegno a spiegare il cambio d’epoca nel mercato del lavoro. Però la ricetta renziana ha
contro i leader storici democratici.
Del 30/09/2014, pag. 2
Con l’apertura sui licenziamenti disciplinari il
premier propone un mini-ritocco dell’art.18
ROMA .
E ora si profila un mini-ritocco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Oltre al reintegro
nel posto di lavoro in caso di licenziamento discriminatorio (che il governo non ha mai
messo in discussione), sarà previsto pure per i licenziamenti disciplinari senza giustificato
motivo. È la novità che ha annunciato ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
L’obiettivo del governo in ogni caso resta quello di ridurre il più possibile la discrezionalità
del giudice nei procedimenti. Proprio l’incertezza del comportamento dei magistrati di
fronte a fattispecie identiche sarebbe — secondo l’esecutivo — il principale fattore di freno
degli investimenti (italiani o esteri) destinati a generare nuova occupazione.
Molto dipenderà, dunque, da come la norma sarà scritta dal governo nei decreti attuativi
della delega lavoro (il Jobs Act) per ora all’esame del Senato. Certo sembra possibile che
l’impianto generale possa restare quello della legge Fornero. A prevederlo è stata ieri lo
stesso ex ministro del Lavoro: «Non cambia nulla», ha detto Elsa Fornero. «Abbiamo già
tolto al giudice — ha aggiunto — la possibilità di reintegrare in caso di licenziamento per
motivi economici. L’apertura del premier, Matteo Renzi, sui licenziamenti disciplinari apre
la strada a lasciare le cose come stanno dopo la nostra modifica all’articolo 18», ha
concluso. Provando a fare un po’ d’ordine, la possibilità di reintegro nel posto di lavoro
dopo aver subìto un licenziamento senza giustificato motivo resterebbe in due casi: nel
caso di licenziamento discriminatorio e in quello disciplinare. Non ci sarebbe più il terzo
caso, previsto dalla legge Fornero, ossia la reintegra decisa dal giudice nel caso di
licenziamento economico «manifestamente infondato», insomma quando vengano
presentate motivazioni economiche solo per mascherare un licenziamento dovuto ad altre
ragioni. Da quel che si capisce in questo caso scatterebbe un indennizzo monetario.
Non dovrebbe subire interventi la parte dell’articolo 18 riguardante il licenziamento
discriminatorio, cioè quello provocato da ragioni politiche, religiose. Oppure
dall’appartenenza a un sindacato o dalla partecipazione a uno sciopero. O, ancora, dal
sesso o dall’età. O quelli decisi durante il matrimonio, la maternità e la paternità. In tutti
questi casi di licenziamento spetta al giudice dichiararne la nullità e dunque determinare la
condizione precedente, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro, con il pagamento di tutte
le eventuali mensilità non corrisposte.
Per i licenziamenti disciplinari l’attuale normativa prevede il reintegro nel posto di lavoro
anche con il pagamento di un risarcimento massimo di un anno di mensilità, quando il
giudice accerti che il fatto non sussiste o perché il fatto può essere sanzionato in altro
modo. In alter- nativa alla reintegra il giudice può stabilire il pagamento di un indennizzo
pari a due anni di mensilità. Probabilmente il governo interverrà con una semplificazione
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delle procedure, riducendo (ma non sarà semplice) il ruolo del giudice e “tipizzando” il più
possibile le fattispecie.
La decisione politica di ieri dovrà essere trasferita ai tecnici. Da oggi riapriranno il dossier.
Ed è da capire anche se qualche modifica subirà pure la legge delega o la partita sarà
tutta giocata con i decreti attuativi per il varo dei quali il governo ha comunque sei mesi di
tempo dopo l’approvazione del Jobs Act.
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 30/09/2014, pag. 24
Dai filippini ai cinesi i migranti d’Oriente alla
conquista dell’Italia
Lo studio: sono più di un milione, aumentati del 52% in cinque anni
“Lavorano o fanno impresa. E i figli hanno un buon rendimento a
scuola”
VLADIMIRO POLCHI
Davanti al ristorante di Zhou Fenxia, nel cuore di Roma, ogni fine settimana c’è la fila. Il
locale è grande, ma non basta a smaltire la clientela crescente. Fenxia è un’imprenditrice
di successo, ma non è la sola: dietro di lei, un esercito ingrossa di giorno in giorno le sue
fila. È il boom dell’immigrato d’Oriente, che sta cambiando il volto urbano delle città
italiane. Persi dietro l’emergenza sbarchi, non ci accorgiamo infatti di aver bruciato un
record: siamo diventati il primo Paese in Europa per presenza di asiatici. Una crescita
impetuosa, oltre il 50% in più negli ultimi cinque anni. Per capirci: l’Italia ospita le comunità
cinesi, bangladesi e filippine più numerose del continente.
Tracciare l’identikit degli “orientali d’Italia” non è difficile: crescono a ritmi vertiginosi,
lavorano, fanno impresa, mandano un fiume di denaro a casa e delinquono meno degli
altri. I dati Eurostat sui permessi di soggiorno sono chiari: l’Italia è il primo Paese per
presenza di asiatici (oltre 1 milione al 31 dicembre 2013, quasi un quarto del totale Ue).
Ma quello che più salta agli occhi è la rapidità della crescita: negli ultimi cinque anni sono
aumentati del 51,6%. A fotografarne l’ondata è ora uno studio della Fondazione Leone
Moressa. Cosa emerge? Innanzitutto le nazionalità: quasi un terzo della popolazione
cinese in Europa si concentra in Italia. Record per gli immigrati del Bangladesh: addirittura
6 su 10 sono da noi. Il nostro Paese risulta secondo solo per indiani e pachistani, che
scelgono il Regno Unito.
Il loro segreto? «La solidità delle reti sociali e familiari — risponde Asher Colombo,
sociologo a Bologna e curatore della collana Stranieri in Italia dell’Istituto Cattaneo — gli
asiatici infatti hanno famiglie coese, abbattono i costi di impresa, e soffrono poco di
disuguaglianze di genere, impegnando nel lavoro anche le donne. Così attraggono in Italia
sempre più connazionali». Non solo. Spesso, sono bravi a scuola. Il 17,6% degli alunni
stranieri oggi proviene dall’Asia e «il loro livello di successo scolastico — spiega Colombo
— è spesso superiore agli altri immigrati».
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Le regioni preferite sono Lombardia (30,2%), Lazio (13,6%) ed Emilia Romagna (11,6%).
Sono un esercito di lavoratori: gli immigrati asiatici hanno infatti un tasso di occupazione
del 61,1%, contro il 57,1% complessivo degli stranieri (già molto alto rispetto al 41,8%
degli italiani). I cittadini filippini, poi, presentano un tasso di occupazione del 77%, i cinesi
del 68,5%. Cosa fanno? I cinesi sono occupati nel commercio (34,5%), gli indiani
nell’industria (35,8%) e i filippini nei servizi alle persone (66,7%).
Non manca chi si mette in proprio, come Christine Chua, filippina, arrivata in Italia nel
2000. Tre anni fa, l’idea: Christine fonda la Delta Contract , azienda specializzata
nell’illuminazione delle navi da crociera. Nel 2013 fattura 1,2 milioni di euro. Oggi conta 5
dipendenti e stima una crescita del fatturato del 22%. Come lei, tanti sono gli imprenditori
asiatici: quasi 135mila. Di questi, 60mila cinesi. E anche qui a contare è il trend di crescita:
nell’ultimo anno gli imprenditori orientali in Italia sono cresciuti dell’8,3%, mentre gli
stranieri complessivamente hanno registrato solo un aumento del 2,4% e gli italiani sono
calati del 1,8%. La nazionalità che ha segnato l’aumento maggiore è quella del
Bangladesh (+18,6%).
L’Asia è anche il primo continente di destinazione delle rimesse degli immigrati in Italia
(44,7%), con un tesoro di 2,5 miliardi di euro nel 2013. Il primo Paese di destinazione è la
Cina: oltre 1 miliardo. Tra le principali province di invio del denaro, Prato: da qui parte il
16,2% delle rimesse verso la Cina. Un ultimo dato: gli immigrati orientali delinquono, certo,
ma meno degli altri. L’incidenza dei detenuti asiatici sul totale degli stranieri è infatti molto
bassa (6,5%), considerando che la popolazione asiatica incide su quella straniera per
quasi il 20%. La prima nazionalità è la Cina. Ma conta appena 235 detenuti. «Gli immigrati
orientali delinquono meno degli altri — conferma Colombo — e questo grazie al sostengo
dei loro gruppi familiari, uniti sul lavoro, tanto da occupare sempre più settori economici.
Un esempio? I bar dei cinesi ».
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CULTURA E SCUOLA
Da ilfattoquotidiano.it del 30/09/2014
Fondi pubblici editoria, Mediacoop a M5S:
“Sono necessari per il pluralismo”
La commissione Cultura a Montecitorio ha iniziato la discussione sulla
proposta di legge dei 5 stelle che chiede l'abolizione dei fondi alle
testate. Polemiche dalle cooperative e dalla Federazione italiana liberi
editori. Il grillino Brescia: "Pronti a modifiche". Sottosegretario Lotti:
"Buon punto di partenza"
“Il finanziamento pubblico all’editoria è necessario per tutelare il pluralismo”. E’ stato Lelio
Grassucci, presidente onorario di Mediacoop a difendere la necessità dei contributi alle
testate davanti alla commissione cultura alla Camera. Il dibattito durante una audizione in
cui si è discussa la proposta di legge M5S, che invece chiede l’abolizione dei fondi. ”Il
libero mercato”, ha detto il rappresentante diLegacoop-Associazione cooperative editoriali
e di comunicazione, “tende alla creazione di monopoli e non di un sistema che tuteli il
pluralismo, per questo l’intervento pubblico è necessario”. Tra le critiche soprattutto il
costo che tale intervento potrebbe provocare: ”Il gioco non vale la candela perché dalla
proposta di legge si ricava che dovremmo risparmiare 80 milioni, che in realtà sono 50, ma
se noi facciamo chiudere queste circa 80 testate la spesa che dovremmo sostenere per la
mobilità sarà di più dei 50 milioni che risparmieremmo. Senza contare il dramma delle
persone che resterebbero per strada ed il danno causato al pluralismo. E allora chi ce lo fa
fare?”.
Il testo proposta dai grillini, tra i primi ad essere emendato in rete dagli stessi iscritti
attraverso il sistema di democrazia diretta “lez”, non è definitivo. “L’intento della proposta
di legge è aprire un dibattito”, ha detto il deputato e primo firmatario Giuseppe Brescia, “e
siamo disposti a modificare il testo”. Aperture ci sono state anche dal governo: “La
proposta di legge M5s”, ha detto Luca Lotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio
con delega all’editoria, ”è un buon punto di partenza per poter discutere della proposta di
legge o di quella che sarà la proposta di legge del governo”.
Critiche anche da Caterina Bagnardi, presidente di File (Federazione italiana liberi editori):
“Il finanziamento pubblico all’editoria è stato oggetto di un accanimento mediatico
incredibile, basato su una distorsione feroce della realtà”. Bagnardi si è detta in disaccordo
con la proposta ma ha apprezzato l’inizio di un dibattito sul tema nelle istituzioni. Ha poi
fatto riferimento alla relazione illustrativa della proposta di legge, che fa riferimento ad una
editoria di Stato: “L’editoria è di governo, non di Stato” ma è “necessario capire se le
minoranze del Paese meritano tutela oppure no”. La presidente di File ha quindi chiesto un
“quadro di certezze giuridiche”
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ECONOMIA E LAVORO
Da corriere.it del 30/09/2014
I DATI DIFFUSI DALL’ISTAT RELATIVI AL MESE DI AGOSTO
Giovani e disoccupati, nuovo record «Quasi
uno su due è senza lavoro»
Il tasso di disoccupazione per i 15-24enni sale al 44,2%, un punto
percentuale in più su luglio. I giovani che cercano un’occupazione sono
710 mila
Nuovo record della disoccupazione giovanile in Italia. Il tasso dei 15-24enni ad agosto è
stato del 44,2%, in aumento di un punto percentuale rispetto al mese precedente e di 3,6
punti nei dodici mesi. In totale, i giovani disoccupati sono 710 mila. Lo rende noto l’Istat.
Dal calcolo sono esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano
lavoro, ad esempio perché impegnati negli studi. Non soltanto ci sono più giovani
disoccupati, ma ci sono anche meno giovani che lavorano. Il tasso di occupazione
giovanile è calato al 15%, in calo di 0,5 punti percentuali su mese e di 1,4 punti su anno.
In generale, la disoccupazione ad agosto è scesa al 12,3%, in diminuzione di 0,3 punti
percentuali in termini congiunturali e di 0,1 punti nei dodici mesi. Il numero di disoccupati,
pari a 3 milioni 134 mila, diminuisce del 2,6% rispetto al mese precedente (-82 mila) e
dello 0,9% su base annua (-28 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 12,3%, in
diminuzione di 0,3 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,1 punti nei dodici mesi.
Gli occupati sono 22 milioni 380 mila, in aumento dello 0,1% rispetto al mese precedente
(+32 mila) e sostanzialmente invariati su base annua. Il tasso di occupazione, pari al
55,7%, cresce di 0,1 punti percentuali sia in termini congiunturali sia rispetto a dodici mesi
prima. Ad agosto, su base mensile, l’occupazione aumenta tra gli uomini (+0,3%) mentre
diminuisce tra le donne (-0,1%). Anche su base annua, l’occupazione aumenta con
riferimento alla componente maschile (+0,5%) ma diminuisce rispetto a quella femminile (0,8%).
Da Redattore sociale del 29/09/2014
Articolo 18, Asgi: “Con la riforma colpiti
lavoratori deboli e stranieri”
L’associazione studi giuridici sull’immigrazione lancia l’allarme: “La
tutela contro il licenziamento discriminatorio è bassissima, perché
difficile da dimostrare. Mentre riformando lo statuto dei lavoratori
saranno mandati via i lavoratori più deboli, con problemi drammatici”. E
corregge Renzi: “Anche nelle cooperative non c’è l'articolo 18”
ROMA - L’annunciata modifica dello Statuto dei lavoratori, colpirà soprattutto i soggetti
deboli. A fare le spese della riforma dell’articolo 18 annunciata dal presidente del Consiglio
Matteo Renzi, saranno i lavoratori meno qualificati, e in particolare gli stranieri. Non
basterà, infatti, conservare come un baluardo per la difesa dei diritti, la norma contro il
licenziamento discriminatorio, perché coloro che hanno minore potere contrattuale di
fronte al proprio datore di lavoro, siano realmente salvaguardati. A sottolinearlo è Alberto
Guariso, esperto di lavoro e discriminazione per l’Asgi, l’associazione studi giuridici per
l’immigrazione.
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Resta la norma antilicenziamento discriminatorio, ma si tratta di una tutela minima. “La
tutela contro il licenziamento discriminatorio, cioè il licenziamento legato a fattori come la
razza, la religione, l’orientamento sessuale, il genere, la disabilità, è minima: parliamo di
circa tre casi l’anno. Questo perché si tratta di una fattispecie difficilissima da dimostrare –
spiega Guariso - . La stessa Fornero, che ha già riformato l’articolo 18, salvaguardando il
licenziamento discriminatorio ha previsto anche l’illecito determinante, cioè il licenzimento
per motivi non consentiti dall’ordinamento. Ma si tratta comunque di una tutela contenuta a
i setti fattori di discriminazione previsti per legge – aggiunge l’avvocato dell’Asgi -. Non si
può dire che così si salvaguardano i diritti fondamentali”.
La riforma modificando la fattispecie di licenziamento illegittimo, invece, andrebbe a
colpire la fascia dei lavoratori più deboli, che non hanno alcun potere contrattuale di fronte
al datore di lavoro. “Si discute dell’articolo 18 come se oggi tutti i lavoratori fossero dei
professionisti inchiodati alle aziende – aggiunge – in realtà togliere la tutela per il
licenziamento illegittimo, colpirebbe soprattutto i soggetti deboli, cioè tutta la fascia del
lavoro povero, costituita per lo più da stranieri. Penso a coloro che lavorano nei servizi,
come nel caso di chi fa le pulizie o lavora nelle mense o nella movimentazioni merci.
Questa fascia di lavoratori, per lo più immigrati, con bassa qualifica e retribuzione,
incollocabili in qualunque altro posto, se non a salari più bassi, subirà le conseguenze
peggiori di questa riforma – continua ancora Guariso – Se uno di loro, per esempio, viene
mandato via dall’azienda per un motivo economico fittizio e non ha più il reintegro, andrà
incontro a dei problemi drammatici. Parliamo di una forza lavoro che guadagna pochi euro
l’ora, e che ha bisogno di una tutela reintegratoria, altrimenti da questa norma avrà solo
una perdita secca. Invece ad oggi il dibattito è centrato su una fascia di lavoratori, che
esiste ma che non è l’unica, dove c’è una sostanziale parità contrattuale con il datore di
lavoro. Mentre i soggetti deboli non vengono, o quasi, contemplati”. Secondo Guariso non
regge la motivazione per cui anziché il giudice dovrebbe intervenire un arbitro a dirimere le
controversie lavorative, per accelerare i tempi delle decisioni: "la riforma Fornero ha
accelerato enormente i tempi dei ricorsi – spiega -. L’idea che il giudice non debba
intervenire in questi casi è assurda, perché vuol dire abolire i diritti dei lavoratori”
Non solo nel sindacato, anche nelle cooperative non c’è l’articolo 18. Intervistato ieri a
“Che tempo che fa”, il premier Renzi ha ricordato che in Italia l’articolo 18 non si applica in
una sola azienda con più di 15 dipendenti: il sindacato. “In realtà – spiega Guariso – anche
i lavoratori delle cooperative non sono tutelati dall’articolo 18, in quanto soci di un’azienda
e questo crea enormi problemi”. A questo proposito l’associazione Avvocati per niente ha
lanciato un appello al ministro del Lavoro Giuliano Poletti e al Parlamento. “Con una legge
del 2011 il Parlamento ha istituito il tribunale delle imprese e molti giudici in tutta Italia
hanno ritenuto che il socio lavoratore di cooperativa, in caso di licenziamento e esclusione,
debba necessariamente rivolgersi a questo speciale Tribunale – si legge nell’appello – ma
per impugnare un licenziamento avanti al Tribunale delle imprese un lavoratore deve
affrontare una procedura lunghissima e soprattutto sobbarcarsi una spesa di circa 1.500
euro di soli costi vivi. L’assurdo è che lo stesso lavoratore, se svolgesse le identiche
mansioni come dipendente di un “normale” datore di lavoro e non di una cooperativa, non
sarebbe gravato da nessuno di questi costi; e ancora più assurdo è che questi costi
colpiscono un settore dove la stragrande maggioranza dei lavoratori, spesso stranieri,
guadagna dai 4 agli 8 euro lordi l’ora ed è quindi assolutamente impossibilitato a pagare
questa inaccettabile tassa sulla giustizia.
La conseguenza è che un socio di cooperativa, anche se licenziato ed escluso per motivi
illegittimi e arbitrari non puo’ rivolgersi al tribunale per ottenere giustizia ma solo chinare il
capo e accettare. Questa clamorosa ingiustizia non puo’ più essere accettata”.
L’associazione, dunque, chiede direttamente a Poletti di proporre un decreto legge che,
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abrogando le norme attualmente vigenti, parifichi immediatamente le cause del socio
lavoratore con quelle del “normale” lavoratore per quanto riguarda i costi di giustizia e al
Parlamento di riformare l’attuale disciplina del contenzioso in materia di licenziamento ed
esclusione del socio lavoratore riportandolo alla competenza del giudice del lavoro.
Del 30/09/2014, pag. 4
Piano sul Tfr in busta paga prestiti bancari
alle imprese ma saranno esclusi gli statali
Possibile patto governo-Confindustria-Abi per partire il 1° gennaio Chi guadagna 2
mila euro potrebbe avere un bonus di 80 euro
VALENTINA CONTE
Il Tfr in busta paga, a partire da gennaio. Il governo ci lavora dalla scorsa estate, anche se
al ministero dell’Economia «non se ne è mai discusso» e «non esiste un piano», dicono in
coro viceministri e sottosegretari. Ma ieri il premier Renzi l’ha ufficializzato, alla direzione
del Pd. Aggiungendo subito che occorrerà «un protocollo tra Abi, Confindustria e governo»
che consenta di «attingere» agli strumenti messi a disposizione dalla Banca centrale
europea per compensare le piccole e medie imprese della inevitabile sottrazione di
liquidità, «soprattutto quelle sotto i dieci dipendenti».
Ad optare per più denari subito, anziché (rivalutati) poi, alla fine del percorso
professionale, saranno per ora i lavoratori privati.
Esclusi gli statali, dunque. Ma anche con buona probabilità coloro che hanno scelto di
depositare il Tfr nei fondi pensione, anziché lasciarlo in azienda (per non mettere a rischio
il processo di accumulo di pensioni integrative). L’ipotesi allo studio dei tecnici prevede un
anticipo del 50% della liquidazione che si matura in un anno. A spanne, chi guadagna 2
mila euro netti al mese, ne riceverà 80. La misura parte come annuale, ma potrebbe
essere estesa al triennio. Molti i problemi aperti. Il primo è fiscale. Il Tfr ad oggi gode di un
trattamento privilegiato, la tassazione separata. Se finisce in busta paga, si cumulerà con
la parte restante del reddito, contribuendo ad alzare l’aliquota marginale Irpef? Si
pagheranno cioè più tasse? Al momento nulla si sa. L’ostacolo è però aggirabile con la
ritenuta alla fonte, ad esempio. Oppure considerando quell’anticipo come acconto sul Tfr
finale, dunque tassato allo stesso modo (agevolato).
Poi c’è la questione della sostenibilità finanziaria dei bilanci dell’Inps e delle piccole e
medie imprese. Le aziende con più di 50 dipendenti girano il Tfr “inoptato” (quello che i
lavoratori decidono di lasciare nell’impresa) a un fondo del Tesoro gestito dall’Inps.
Mentre quelle sotto i 50 dipendenti, lo trattengono in cassa. Cosa succede se i lavoratori
decidono di chiedere l’anticipo in busta paga? Un “buco” in entrambi i bilanci: quello
dell’Inps, pubblico (da ripianare con un intervento di copertura dello Stato)e quello delle
pmi (di qui la necessità di un “protocollo” con le banche per usare i denari della Bce). Non
a caso ieri sera, dopo l’annuncio di Renzi, Rete imprese bollava l’operazione come
«impensabile» per l’impossibilità delle piccole aziende di «sostenere ulteriori sforzi
finanziari» e di «indebitarsi per alimentare i consumi dei propri dipendenti». Su 22-23
miliardi di flusso annuo di Tfr, 11 miliardi restano in azienda, 6 finiscono nel fondo di
tesoreria, 5 e mezzo ai fondi pensioni. Con l’ipotesi del 50% del Tfr in busta paga, otto
miliardi e mezzo potrebbero finire dunque negli stipendi. Quasi l’ammontare del bonus da
80 euro. «Io sono perché si alzi il salario dei lavoratori», dice non a caso Renzi. E tutto fa
brodo, anche il “salario differito”, per uno «scatto ulteriore del potere di acquisto».
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