Cantando in Dialetto - Fondazione Corriere della Sera

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Cantando in Dialetto - Fondazione Corriere della Sera
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Cantando
in Dialetto
Luca Morino (Mau Mau)
Nando Popu (Sud Sound System)
Raiz (Almamegretta)
Davide Van De Sfroos
MODERA:
Ranieri Polese
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[A causa di un inconveniente tecnico, i primi due interventi dell’incontro
Cantando in dialetto non sono stati registrati. Il primo a parlare è stato Nandu
Popu, dei SudSoundSystem, che si è soffermato sul carattere nativo, popolare della canzone in dialetto, che scaturisce dall’antica tradizione salentina. Alle sue affermazioni hanno fatto da contrappunto le considerazioni di Raiz sulla musica
frutto di contaminazioni di generi, suoni e atmosfere, come connotato fondamentale dell’odierno “villaggio globale”]
Davide Van De Sfroos Ma il punto è che io non mi sono mai sognato di diventare il paladino di una lingua perché oramai non so più cosa
fare. In passato, ho provato a fare un po’ il punk, ma che cosa ne so io dei
problemi di Bristol? Non posso fare il rapper incazzato perché io vedo la festa del missultin e il mercato di Lenno, mentre le violenze di Los Angeles
non le ho mai viste, non le ho mai vissute sulla mia pelle, come faccio a cantare di queste cose? Io volevo, ho
sempre voluto, privilegiare delle storie, delle storie fatte di
IO VOLEVO, HO SEMPRE VOLUTO, PRIVILEGIARE
parole e delle persone che le
DELLE STORIE, DELLE STORIE FATTE DI PAROLE
facessero vivere. Allora se io
E DELLE PERSONE CHE LE FACESSERO VIVERE
vado a finire con degli slogan
D. Van De Sfroos
politici... di una politica che
non capisco, che non ho mai capito, perché l’unica politica che capisco è quella della gente che ancora prima
di aver avuto una bandiera ha avuto una vita... Hanno ucciso Mussolini a
300 metri da casa mia, ho visto partigiani, brigatisti, ex galeotti, ex legionari, pescatori, agricoltori, contrabbandieri: tutte le canzoni hanno dei personaggi con le loro storie, e tutte le storie sono comunque da ascoltare. Poi
giudicarle, metterle sulla bilancia, questo lo lascio fare a chi capisce... Chi
può dire se una persona, in quel momento della sua vita, si è comportata
bene o male, ma qual era il suo momento storico, qual era la sua disperazione? E nella sua disperazione, che altre storie sono avvenute? Una volta
che ho capito questo, mi sono reso conto che non mi interessava assolutamente scimmiottare qualche cantante o cantautore italiano, pur avendoli
sentiti tutti, oppure qualche straniero, pur importantissimo. Qualcuno a ragione poteva dirmi: ma non hai paura che non ti capiscano? Io non la farei
così complessa: avevo un sogno, quello di poter raccontare le storie che vedevo mettendoci dentro le persone reali, facendo poi dei cocktail per ri-
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spettare la privacy di ognuno. Mettere dentro il vissuto, il vero, per il terrore che tutto questo svanisse, per il terrore che sparissero queste cose che
secondo me erano di straordinaria quotidianità. E la mia convinzione era
quella che le persone “normali”, le persone qualunque non esistono. Nel
momento in cui uno viene al mondo e fa una cosa, oppure ne fa un’altra
oppure anche non la fa, non può essere una persona qualunque. Quindi ecco che arriva, sicuramente, il supereroe cosmico, ma anche il pescivendolo e l’ex-legionario che qualcosa hanno combinato, qualcosa hanno fatto,
amori guerre odi dissapori, non lo so. L’importante è cantarla nel modo
in cui io l’ho vissuta, io l’ho sentita. Se io fin dall’età di cinque anni ho
sentito nella mia testa i mantra di questi orchi da
FIN DALL’ETÀ DI CINQUE ANNI HO SENTITO NELLA MIA
osteria che urlavano beTESTA I MANTRA DI QUESTI ORCHI DA OSTERIA CHE
stemmiavano soffrivaURLAVANO BESTEMMIAVANO SOFFRIVANO PREGAVANO
no pregavano vivevano
VIVEVANO NASCEVANO MORIVANO IN DIALETTO
nascevano morivano in
D. Van De Sfroos
dialetto, per me... quale
scelta, se io volevo raccontare questa realtà? Io sono appassionato di questo, se fossi un appassionato di bonsai direi: “Non vengono più grandi di così, se no finiscono di essere bonsai, scusatemi”.
Non ho mai creduto che il dialetto, e queste storie in dialetto, fossero da
relegare in una bacheca colorata, con scritto “Il bel tempo che fu”. Bel tempo un corno! Questi qui facevano e dicevano delle cose che erano prese
di petto, erano prese con violenza, smembrate... la vita di paese non è
sempre “piccolo mondo antico”, c’è gente che si sbrana, che si divora, però c’è sempre un altro lato della medaglia, che è quello del fatto che tutti
un po’ si abbracciano tutti un po’ si pugnalano e c’è comunque una comunità nel bene e nel male. Questo amore-odio, queste cose mischiate insieme, si sono espresse in questa lingua, questo dialetto pieno di vocali e
di suoni strani, e io a questo punto dico quello che prima diceva Raiz.
Quando sentivo Nusra Fateh Ali Khan, che evidentemente non era della
tremezzina, tante cose si intrecciavano se non altro nella mia emozione, e
allora, ancora oggi che non capisco cosa stia dicendo, però certamente il
suono ha un’importanza, perché quello è il suono di quella terra, poi piano piano posso anche comprenderlo. Io sto cantando una delle lingue
d’Italia: avessi potuto scegliere, così, avrei scelto il sardo, perché mi pia-
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ce forse più di tutte le altre. Ma sono nato qui, ho visto delle cose che avevano quel colore e che avevano quel tipo di sapore: ho usato queste, mi
esprimo in queste perché mi viene estremamente comodo cantare queste
cose con questa ironia, perché la tremezzina è una zona dove c’è un modo di sfottere, un modo di drammatizzare ma anche di sdrammatizzare le
cose, con un suono per cui uno può anche non capire se si giochi alla
morra o se si parli. Tutto il resto praticamente è stato questo: fra i miei
ascoltatori ci sono bambini, giovani, vecchi, metallari, jazzisti, tutti accomunati dal fatto che questa isola è praticamente lì, libera, lontana dalle
mode. Ecco perché io non faccio musica di ricerca folcloristica o folclorica, faccio una musica che è un pastone fra la schitarrata rozza di Bob Dylan
e che ne so io, qualcosa che può arrivare da Tom Waits, dai Clash, dai
Ramones, da tutto quello che ho ascoltato, perché io, in fondo, ho attraversato della musica, ho attraversato un tempo e delle cose.
Ranieri Polese
Davide ha usato una parola molto significativa:
bonsai. Solo per ricordare un attimo una cosa di un incontro precedente:
durante l’incontro con i poeti in dialetto venne fuori con sufficiente
chiarezza questo: la scelta di un poeta. La poesia in Italia è un genere
molto stimato e molto apprezzato, ma se uno va a vedere quanti libri
vende un poeta, sono molto, molto pochi. All’interno di questa fascia
stretta dei libri di poesia, quella dei poeti che scrivono in dialetto è
strettissima, è il micro-bonsai dentro una repubblica di bonsai. Questo
rischio – stringere la fascia - è molto meno avvertibile in chi canta (se
si vuole, poi si può convertire questa affermazione in domanda): c’è la
musica, che è senz’altro molto più comunicativa, ed esiste poi anche
negli ultimi anni la curiosità, per cui un bergamasco ha desiderio di
ascoltare la musica salentina, e poi, se proprio gli interessa, si fa tradurre il testo, ma intanto si fa guidare dal mix tra suono e parole. D’altra
parte poi Davide parlava della sua realtà di paese, di questo pezzetto
del lago di Como...
Davide Van De Sfroos Che poi la mia realtà di paese è - e vorrebbe essere - la realtà del paese “mio”, ma anche del paese simbolo, che
potrebbe essere Fiorenzuola come un paese del Salento o della Sicilia. Si
ruota intorno ad alcuni simboli di paese che non sono certo propri di una
fascia ristretta o rinchiusa.
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Sì sì, nel senso che potrebbe essere qualsiasi paese, in teoria.
L’esperienza invece dei Mau Mau e di Luca Morino, e dunque della città
di Torino, è un’esperienza assolutamente urbana, di una città che, dopo
la fine della guerra, è cresciuta estremamente in fretta, in cui c’è stata prima l’immigrazione dal Sud dell’Italia, poi dal Sud di tutto il mondo.
L’esperienza dei Mau Mau, già dal nome, fa capire questa nuova realtà, di
una città che stentava, che ha stentato più volte a riconoscere se stessa,
ma che poi alla fine ha capito, forse, che ci sono molte più anime di quella che tradizionalmente era la piemontesità, la Torino di sempre. Luca
Morino, la scelta dei Mau Mau e le loro esperienze.
Luca Morino Direi che stenta tuttora, Torino, a riconoscersi, perché
comunque, anche se sta cambiando adesso in un’altra direzione, è la città della FIAT: non è soltanto un luogo comune che si dice passando da
quelle parti. E’ una città molto grande, però praticamente isolata dal resto dell’Italia, quell’Italia commerciale che passa da Bologna, Milano e
Roma. E la vita nei tristi anni Ottanta a Torino, la vita dei giovani, di chi
viveva le prime uscite di casa, i primi confronti con gli altri in un ambito
non famigliare, non scolastico, si scontrava con una città senza identità e
con una grande povertà di creatività, con un grande rovello dentro. Ho
passato gli anni Ottanta andando a scuola, naturalmente, ma finivo la mia
settimana il martedì, perché già il mercoledì iniziavano le serate nelle discoteche, ogni sera aveva il suo posto, la sua discoteca, ed era quello il
modo di socializzare di un sacco di torinesi, dei figli della FIAT. In quel
periodo, quello che si ascoltava e si ballava nelle discoteche era musica di
tipo anglosassone, musica principalmente inglese, non americana. La new
wave inglese ha fatto da padrone in quegli anni. Quindi la mia crescita
musicale, oltre che culturale, è avvenuta ascoltando prima il grande rock
del passato e poi la musica inglese. Io compravo i dischi, leggevo i testi,
cantavo qualsiasi cosa mi trovassi tra le mani, ho incominciato a suonare, ma tutIO VENIVO DA UNA FAMIGLIA PIEMONTESE: MIO
to quello che si percepiva
PADRE PARLAVA PIEMONTESE, I MIEI NONNI ANCHE.
in me era il cercar di fare
VIVEVO QUINDI MOLTO VICINO AL DIALETTO
musica e di farlo usando
L. Morino
quel modello, perché ci vi-
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vevo dentro, ero cresciuto con quello e dunque era il mio riferimento. Ma
al contempo tentavo anche di fare sempre più mio un modo di esprimersi. E in quel periodo lì era dura. Io venivo da una famiglia piemontese:
mio padre parlava piemontese, i miei nonni anche. Vivevo quindi molto
vicino al dialetto. Ma questa vicinanza riguardava soltanto certi ambiti, la
famiglia, in particolare; fuori in città, a scuola, il dialetto era tabù: chi aveva un accento molto marcato veniva preso per il culo perché era sicuramente un campagnolo. Su questa via è maturato un senso di attenzione a
evitare il dialetto. Per di più, in quel periodo, quello che veniva fuori in
senso musicale, culturale, dal mondo della canzone cantata in dialetto, era
esclusivamente Gipo Farassino, che, ahimè, era - ed è ancora - un museo
vivente (ma a quel tempo si sentiva molto di più, era molto più alla moda) perché non faceva altro che cantare di certi argomenti quali la piola,
il vino, serenate “ubriache”. Questo era il mondo, questi i temi, affrontati con una serie di luoghi comuni, che non andavano assolutamente al di
là dello spolverare un vecchio soprammobile. Una tristezza. Non a caso,
Gipo Farassino è diventato un rappresentante della Lega…
Nessuno è riuscito a imbrigliare una lingua, che rimane sempre un modo
per dire delle cose, ma poi è quello che si dice a fare la differenza. Non si
è riusciti a usare la bandiera del dialetto per imporre delle barriere culturali. Però di fatto Torino e il Piemonte portano da sempre il peso di un
pregiudizio rispetto alla lingua locale. Se fate un attimo mente locale su
quando si sente parlare in dialetto piemontese alla radio o in televisione,
cosa vi viene in mente?
Pubblico Mike Bongiorno.
Morino
Eh, Mike Bongiorno. A me in realtà viene in mente Macario.
Macario è un grande attore, un grande personaggio che come elemento
della sua comicità usa proprio il dialetto, o meglio la cadenza piemontese. Credo che da lì, probabilmente anche da prima, sia derivata quell’idea
del torinese, tontolone, stupidotto, un po’ facilone, che viene fuori non
tanto come figura di personaggio, ma come figura di lingua: nelle gag televisive, se uno vuol fare lo stupido, usa un accento falso che comunque
si avvicina al piemontese. Per questo motivo, a differenza di certe situazioni universali che possono aver vissuto gli Almamegretta, lavorando su
un dialetto proprio, ma che era già conosciuto e rispettato in tutto il mon-
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do, nel campo della musica soprattutto (O sole mio è un mattone della musica italiana), per il piemontese questo non esisteva. Man mano che passavano gli anni Ottanta, mi rendevo sempre più conto che vivevo in un
luogo-non luogo, sempre di più. Cominciando a girare, cominciando a
vedere cosa succedeva nel Sud d’Italia, nelle isole, ma anche nei paesi,
perché io sono vissuto anche in campagna, vedevo la differenza fra chi viveva in città e chi viveva anche soltanto 30 km lontano da essa: fuori dall’orbita, fuori dal nucleo centrale, il dialetto aveva una sua collocazione
molto più legittimata, diversamente che in città. Torino è sempre stata, e
lo è tuttora, un non luogo dal punto di vista culturale, nel bene e nel male. Nel male, per questi motivi, nel bene perché Torino lascia spazio a un
certo movimento di persone che soprattutto negli ultimi anni proviene
per la maggior parte dal Nordafrica. Per quanto rimanga sempre la “puzzetta al naso”, c’è uno scambio di culture, un confronto, anche uno scontro, che prima non esisteva. Sotto casa mia – io abito vicinissimo alla stazione di Torino - a Porta Nuova, all’angolo si trovano tutti i giorni dei sudamericani, che si incontrano, chiacchierano, bevono birra, mentre all’altro lato dell’angolo si trovano dei rumeni. Mio figlio va all’asilo nido, a tre
isolati, e ci sono 21 nazionalità diverse rappresentate in questo asilo: questo è sconvolgente ed è molto bello insieme.
In tutto questo, io la torinesità, la piemontesità non l’ho mai avvertita. A
un certo punto però mi è venuta voglia di mettere in gioco tutto quello
che conoscevo a livello linguistico per scrivere i testi. Io ho sempre scritto i testi dei gruppi di cui ho fatto parte, prima i Loschi Dezi, poi i Mau
Mau, li ho sempre scritti in italiano tranne un paio in inglese proprio agli
inizi, quando esisteva soltanto la new wave inglese, poi il mondo si è aperto e io ho pensato: io il piemontese non lo parlo bene, perché non lo parlo con nessuno, però in casa si parla, si capisce, quindi provo a scrivere
delle cose in piemontese. Il primo testo fu effettivamente una rivelazione:
ovviamente io scrissi in un
modo che non era puro,
IL DIALETTO NON È PURO PER DEFINIZIONE, È UNA
ma il dialetto non è puro
CONTAMINAZIONE DELLE LINGUE, DEL POPOLO, DELLA
per definizione, è una
GENTE CHE SI PARLA , PER CUI NON C’È PUREZZA ,
contaminazione delle
LA SUA FORZA È NELLA SUA BASTARDAGGINE
lingue, del popolo, della
L. Morino
gente che si parla, per cui
non c’è purezza, la sua forza è
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nella sua bastardaggine. Però, il fatto di poter usare delle parole che in
piemontese non finivano per vocale, ma con una consonante, e quindi
fornivano un riferimento alla lingua inglese più vicino rispetto a quello
che poteva offrire la lingua italiana, produsse dei suoni e delle melodie
che erano completamente diverse, raggianti. Io riuscivo a comunicare delle cose che in italiano non sarei mai riuscito a esprimere, pur con il problema di farmi poi capire in quello che dicevo. Però, il poter dire le cose
in una maniera convinta, anche se in una lingua che tu sai non essere compresa da molti, ti dà una forza tale da “superare la lingua” – o per lo meno non è una regola, ma è quello che io ho sperimentato. Ti fa andare oltre la barriera della comprensione, ti fa comunicare quello che abitualmente dici a parole, anche attraverso l’intenzione, il modo, la forza della
voce. E così, nel giro di pochissimo tempo, al mio bagaglio musicale e vocale ho aggiunto tantissime cose che poi si sono confrontate non soltanto con la lingua italiana, ma anche con le lingue europee. Infatti, con i
Mau Mau abbiamo sempre cercato di suonare molto all’estero e alla fine
ci siamo riusciti: sono anni che, quanto meno in Europa, diamo concerti. Dopo un po’, vedere, visitare, ritornare in alcuni posti ti fa acquisire
“pezzettini” di parole, non dico un vocabolario, ma frammenti di discorso, come succede quando si va in vacanza. E allora la trasformazione che
è avvenuta nel mio modo di scrivere è stata quella di passare dall’italiano
al piemontese e poi a un piemontinglese-francese-spagnolo, che altro non era
che quel poco che sapevo io, un po’ di qua un po’ di là, messo poi in parole, mentre ero pur sempre consapevole che quella non era la forma migliore per comunicare dei concetti, però per comunicare delle sensazioni
sì. Con la forza di questa convinzione, siamo riusciti a fare dei concerti in
luoghi culturalmente non lontani, ma lontanissimi, come l’Iraq o il
Giappone, senza avere il problema di riuscire a comunicare la poesia di
quelle parole (che io scrivo e, ovviamente, mi piacerebbe che tutti capissero), raccontando però qual era il
nostro modo, il nostro sentimento. Con questa forza siaL’EGEMONIA DELLA CULTURA ANGLOSASSONE
mo riusciti a capire che l’egeNEL CAMPO DELLA MUSICA È UN VINCOLO
monia della cultura anglosasENORME ALL’ESPRESSIVITÀ, ALLA CREATIVITÀ
sone nel campo della musica è
L. Morino
un vincolo enorme all’espressività, alla creatività e nel momento
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in cui si esce da quello... la parola inglese world music è inglese non a caso, perché gli inglesi hanno deciso che non è la loro lingua e dunque appartiene al mondo, per fortuna ci sono molti mondi diversi, probabilmente per un algerino la world music è quella cantata in inglese... Con questo tipo di consapevolezza siamo riusciti a confrontarci con culture molto diverse e a comunicare, senza peraltro avere ogni volta l’obbligo di essere capiti o di capire i singoli vocaboli. Torino, in tutto questo, gioca un
ruolo fondamentale, perché la voglia di essere torinesi si confrontava allo
stesso tempo con il fatto di non aver voglia di essere quei torinesi. E quindi i Mau Mau sono in qualche maniera ‘scappati’, pur vivendo ancora a
Torino.
Mentre si scappava, tuttavia, Torino è cambiata, è diventata una città con
una forte immigrazione, soprattutto dal Nordafrica, tanto che qualche mese fa a ottobre abbiamo fatto un concerto al Mercato ortofrutticolo di Porta
Palazzo, e il concerto si è trasformato in una festa marocchina: ci saranno
state 5.000-6.000 persone, non so, ma più della metà sicuramente erano
nordafricani. Questa è stata veramente la cosa più lampante che ho notato negli ultimi anni: la trasformazione avvenuta in conseguenza dell’immigrazione dal Nordafrica, che forse in città ancora più grandi, come Milano
o Roma, non si riesce ad avvertire così bene. Invece a Torino si nota abbastanza: in quel mercato lì sono scomparse delle cose e ne sono comparse altre: la menta prima non si trovava quanto adesso che si fa così spesso
il tè alla menta di tradizione nordafricana; la musica algerina non si ascoltava, per esempio, quando io ho cominciato a cantare in dialetto piemontese, mentre adesso al mercato di Porta Palazzo si ascoltano prevalentemente stereo a palla che mandano musica africana. Questa trasformazione, che è avvenuta di fatto, anche se non è stata ancora assorbita dal torinese figlio della FIAT, è quello che secondo me in qualche maniera indica
quella che sarà l’evoluzione della cultura locale da qui in avanti: il doversi confrontare non più con quel senso di rivalità perché ci si conosce da
secoli, con il vicino che sta a 10 km, subito fuori, ma confrontarsi con delle realtà così lontane che per forza di cose si impongono, realtà con cui
parlare che costringono a prendere una posizione. Tale posizione adesso
in città, per quello che vedo io, è sempre quella di girarsi e di “avere la puzzetta”: l’atteggiamento da “certe zone non si frequentano”, senza che poi
questi timori abbiano un riscontro reale. Però, naturalmente, quello che
non si conosce fa sempre più paura e io credo che comunque lavorare sul-
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la lingua e sul dialetto sia un modo per esorcizzare questa paura, fermo restando che nel nostro caso specifico ci dobbiamo confrontare con una lingua che non è morta ma quasi e quindi prendere delle posizioni è molto
più dura. Non a caso c’è un altro gruppo che canta in piemontese e usa il
dialetto per fare della musica da baraccone: hanno fatto una cover di una
canzone di Ivano Fossati La mia banda suona il rock dal titolo La mia Panda
perd’ i tocc’, cioè “perde i pezzi”. Benissimo, non avrei niente da dire, se ciò
non andasse a dare ancora un volta una picconata in favore di quell’immagine che una cultura dà di sé nel mondo che non la conosce. Quello
che noi abbiamo cercato di fare è stato semplicemente questo: dare un’immagine diversa a chi nel piemontese vedeva soltanto una specie di Macario
con il suo sorrisone un po’ ebete. Abbiamo avuto soddisfazioni tanto più
grandi quanto più lontano andavamo da Torino, perché tutto acquistava
una dignità che qui a Torino, o comunque in zona da noi, doveva essere
spiegata, mentre fuori no, e ovviamente di questo abbiamo fatto bagaglio.
Polese Prima di un secondo giro di parole, di esperienze, di considerazioni: sia Davide che Luca sono venuti qui con la chitarra quindi, cominciando da Davide, se può farci sentire una sua cosa.
Davide Van De Sfroos
Le canzoni nascono proprio da questo:
tante volte qualcuno si chiede, soprattutto magari chi non fa musica o non
si trova quotidianamente a dover pensare di dover trasformare una storia
in film, piuttosto che in romanzo, in poesia, in canzone, si domanda dunque: nasce prima la musica o prima le parole, nasce prima l’uovo o la gallina? E’ un elemento che colpisce un po’ tutti. Si pensa che il cantautore
stia là sul suo bel trespolo d’oro, con la foglia d’alloro, guardi il lago e poi
gli arrivi come una badilata, l’ispirazione. Invece, tante volte, tu vieni tormentato da tante cose, quelle che vedi sotto casa tua, quelle che si incontrano nei viaggi. Vai a ripescare nel pozzo dell’acqua passata cose che
ti hanno profondamente emozionato: io penso che oggi come oggi..., io
che non so fino a che punto sono un musicista – perché non conosco la
musica -, non so fino a che punto sono un cantautore corretto – non sarei simpatico ad alcuni dei discografici che hanno una loro equazione ben
precisa sulla loro idea di marketing di canzone. Io ho fatto canzoni che
non avevano alcun ritornello, avevano solo parole, e le parole che avevano erano per giunta in una lingua ostica, eppure le persone che hanno
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sentito queste canzoni, in un modo o nell’altro, mi hanno fatto capire di
essersi emozionate. Finché io vedrò costante questo fil rouge dell’emozione andare e venire, sarò contento di fare questa musica, in questo modo
così istintivo, proprio come le
storie che racconto.
FINCHÉ IO VEDRÒ COSTANTE QUESTO FIL ROUGE
Questa canzone deriva proDELL’EMOZIONE ANDARE E VENIRE, SARÒ CONTENTO
prio da una di queste storie,
DI FARE QUESTA MUSICA , IN QUESTO MODO COSÌ
una di quelle che da ragazISTINTIVO, PROPRIO COME LE STORIE CHE RACCONTO
zino sentivo: la guerra era
D. Van De Sfroos
finita sì, ma non da tantissimo, gli ex-combattenti, quelli
che erano stati o da una parte o dall’altra, quelli che poi s’eran pentiti,
s’erano spostati, esistevano lì davanti al vino, e davanti alle cose, e ti raccontavano delle storie, che giustamente, anche se erano in dialetto, erano lontane dal discorso “macchietta”, film di serie C del genere Vanzina,
dove il romano per forza è un figlio di buona donna, dove il milanese è
quello che lavora e pensa solo ai denari e canta Oh mia bella Madunina,
dove il piemontese è Macario e dove il napoletano è davanti al suo piatto di pasta con la “pummarola”. Ci sono dei mondi che dovremmo, e abbiamo il dovere - e dovrebbe essere anche un piacere - di andare a scoprire, storie anche toccanti. La storia di questa canzone è una storia di
guerra, dove il personaggio racconta - non so se era vero, non importa,
io poi ci ho fatto su una canzone - di aver dichiarato al proprio comandante che se ne sarebbe andato. Il soldato aveva un grande rispetto per
quest’uomo – e penso anche viceversa, visto che non l’hanno fermato e gli confessa di aver ucciso una persona la notte di Capodanno. “Io non
so se questa persona era buona o era cattiva, io ne ho uccise tante, di persone, sono abituato, ma l’idea di uccidere una persona la notte di
Capodanno, come un triste presagio di un anno che arriva, nel modo più
semplice che stappare una bottiglia, mi fa capire che il mio rifiuto per
tutto questo è arrivato al suo punto più alto”. Allora è nata questa canzone, che in realtà è una poesia che io ho scritto, ma mi son messo a cantarla ultimamente anche nei concerti, per via di quello che continuo inesorabilmente a vedere in giro da tutte le parti: cambiano i nomi delle nazioni, di mezzo ci siamo poi ancora anche noi, e tutti quelli che sono
compresi nel nostro essere “noi”, e penso che radicalmente questa cosa
diabolica, questa paura a forma di scarpone enorme che schiaccia tutto
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quello che siamo, non l’abbiamo ancora vinta. Questa canzone è una
canzone fatta di poco, fatta di uomini, soprattutto, e s’intitola Sciur capitan, Signor capitano.
Sciur capitan/varda scià la mia mann/ho cupaa un’umbria/la nocc de
capudann./L’è sta pussé facil /che stapà una buteglia /ma de un culp de
s’ciopp in crapa, /gh’è nissoen che se sveglia.
Sciur capitan/ho cupaa una persona/so mea se l’era grama, /so mea se l’era
bona./M’han daa mila reson/en trovi ne’anca voena./So che me manca el me
fiò, /so che me manca la mia dona.
Sciur capitan/questa che l’è la verità, /adess ghe n’hoo piee i ball, /Giovanni el
turna a cà. /Sun sempru staa ai to urdini/e t’ho mai tradì,/però questa sira
questa guera m’ha stufii.
Sciur capitan/questa che l’è la verità, /adess ghe n’ho pien i ball, /Giovanni
turna a cà. / Se te voret scriv /te regali la mia pena, /se te voret sparam
/questa l’è la mia schena.
Sciur capitan/varda te che ironia, /la giacchetta insanguinada /pudeva vés la
mia, /bastava che incuntravi/un bastardo come me/invece che incuntrà /quel
poor ciful là là lé.
Sciur capitan/me paar de vecch fréc,/la guera la finiss mai, /me par de vegnì
vecc /quand finiss la bataglia.../Crepum in divisa, /vemm a cà in una
bandiera, /e lassum che la moort/la vaga in giir in canutiera.
Sciur capitan/ varda scià la mia mann/ho cupaa un’umbria/la nocc de
capudann./Semm che a cüraa el cunfin/e pensum de vess foort/ma el sémm
che per crepà/ghe voer mea el pasaport.
Sciur capitan /questa che l’è la verità, /adess ghe n’ho pien i ball, /Giovanni
turna a cà./Sun sempru staa ai to urdini /e t’ho mai tradì, /però questa sira
questa guera m’ha stufii. /
Sciur capitan/questa che l’è la verità, /adess ghe n’hoo piee i ball, /Giovanni el
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turna a cà. Se te voret scriv /te regali la mia pena, /se te voret sparam /questa
l’è la mia schena.
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Morino E’ una canzone ovviamente in piemontese, perché ha senso in
questo incontro, però il titolo è in italiano: Mezzaluna.
Costa mesalun-a carògna
am guarda come fussa n’assassin
e tut përché i vivo pa tant bin
mes e mes, sempre a la deriva
Gnanca pì ël telefon a fa magie
a guariss pì nen la malatia
e rema, rema, che fatica
la corent a viagia via come ‘na spia
Creus, neir e creus
neir e creus
a l’è ‘l ciel staneuit
son-a vent, son-a campan-a mia
Creus, neir e creus
neir e creus
a l’è ‘l mond staneuit
ariva ‘na spiral ch’am porta via
Costa seira la mesalun-a carògna
a l’ha ipnotisà le bòje panatere
a rij plandra e am lassa rotolè
an cercc, come ‘na serp ch’as mòrd la coa
(e am rosia l’anima, la bastarda)
E a crija ch’a l’è ora
adess pì che mai
d’arstrenze ‘l cul
e macinè ‘l dur
Creus, neir e creus....
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Polese Prima di concludere, volevo coinvolgere Nando e Raiz in due
domande che sono venute fuori dalla discussione. Il dialetto, come diceva prima Luca, nella tradizione italiana, soprattutto di spettacolo, è sempre stato visto un po’ come un’arma, un mezzo comico. Io volevo chiedere a Nandu, dei SudSoundSystem: chiaramente la questione è un po’
più frastagliata, ma il dialetto specialmente pugliese, è diventato celebre
grazie a dei comici, sia comici alti, che bassi, più spesso bassi...
Popu Pensiamo a Lino Banfi...
Polese Appunto Lino Banfi, eccetera. Soprattutto una certa televisione...
Popu Secondo me forse i comici sono più pragmatici. Il problema non
è tanto di relegare il dialetto in certi ambienti. Forse questi ambienti non
hanno bisogno di costruire intorno tanti fronzoli, sono più schietti, quindi hanno fatto ricorso al dialetto. Certamente, usare il dialetto in certi ambienti equivale a denigrare. Ma se poi vediamo da dove deriva questa osservazione, cioè da angolazioni medio-borghesi, mediocri, direi meglio, si
capisce subito che è un attacco. Bene o male, però, credo che si stia sciogliendo, questo ghiaccio. Il fatto stesso che noi siamo qui a parlare di dialetto, il fatto che il dialetto ormai sia venuto alla luce: questo credo significhi che ora l’italiano deve togliersi il cappello davanti al dialetto, quello
stesso italiano che prima ha denigrato, anche perché l’italiano non ha memoria, sta rischiando di perdere la memoria, e quando qualcuno in genere perde la memoria...ahiahiahi....La memoria costa sangue e sudore,
quindi se la cultura vuole attingere da questa memoria rimasta intatta...
non so, io parlo del Salento, noi nel nostro dialetto troviamo pezzetti di
cultura bizantina e così via, ed è importante mantenere tutto questo in vita, perché nel momento in cui
mantenessimo in vita quella
NEL MOMENTO IN CUI UNA PERSONA SI INNAMORA
parte di noi stessi, saremDEL PROPRIO DIALETTO, SARÀ PER FORZA
mo innanzitutto delle perINNAMORATA DEL DIALETTO DEGLI ALTRI, PERCHÉ
sone più coerenti, delle
NON VEDE NEL DIALETTO UN MODO COME UN ALTRO
persone che rispettano se
PER COMUNICARE, MA UN MODO PER ESSERE
stesse, e cominceremmo an-
N. Popu
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che a rispettare gli altri. Infatti, nel momento in cui una persona si innamora del proprio dialetto, sarà per forza innamorata del dialetto degli altri, perché non vede nel dialetto un modo come un altro per comunicare, ma un modo per essere. È qualcosa che servirebbe e che senza dubbio servirà, in questo mondo in cui stiamo andando sempre più nella direzione dei simboli. Se noi osserviamo quello che accade nel mondo, con
l’avvento dell’informatica, della televisione: oggi i ragazzi per dire “energie” mettono in fila una N, una R, una G: siamo tornati all’alfabeto sillabico siriano. Questo significa omologazione, significa appiattire tutti i discorsi, sì, è facile, è semplice, ma gli antichi dicono che quello che è difficile è bello da fare, almeno dalle parti nostre dicono così. Penso che il dialetto possa e stia già risolvendo diverse diatribe, che in italiano non si erano capite: c’è stato un continuo litigare in italiano, per cui forse, parlando e non capendosi, è meglio !!!!
Invece, per quanto riguarda la musica, è tutto diverso, perché già la musica è un linguaggio; mi viene da torcere il naso quando sento dire: tu canti in italiano, tu canti in inglese, tu canti in dialetto. No. La musica è già
un linguaggio, se cominciamo a distinguere anche in questo, facciamo un
torto alla musica. C’è anche la musica che non si serve di parole: quella
musica in che lingua è? Beethoven scriveva sinfonie in tedesco? La musica è qualcosa che va valorizzata, poi se uno non ha capito le parole di
una canzone, e sia, che problema c’è? Comunque ha ballato, ha provato
un’emozione, dobbiamo anche imparare a vivere di questo.
Polese E’ successo qualcosa di fondamentale, che è questo. Nandu ha
detto la parola esecrata, “omologazione”, ed è vero. Però, se uno ci pensa, come dall’incontro di una musica che è venuta dall’America, dal rock
inglese e americano fino al rap e così via, si siano poi innestate delle realtà molto connotate, regionali, di Paesi che erano fuori dalla via principale della musica, come l’Italia e le sue varie realtà locali, e sia nato qualcosa di nuovo... E’ successo qualche cosa che ha superato quel conflitto che
negli anni Settanta e Ottanta pareva insolubile, quello che Pasolini aveva
chiamato omologazione, modernità, sviluppo. Raiz da un lato è napoletano, quindi erede della tradizione fondante la storia della canzone italiana, dall’altro ha usato tutti gli apporti possibili e immaginabili. Siamo un
po’ oltre rispetto a quello che diceva Pasolini, cioè che la cultura moderna uccide tutto?
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Raiz La cultura moderna e lo sviluppo inteso appunto come omologazione e riduzione di tutte le culture a una: questa è una cosa che è avvenuta, dagli anni Cinquanta in poi.Vai a Berlino, dormi all’hotel Mercure,
che c’è pure a Milano, mangi al Mac Donald’s, che c’è pure a Milano: questo è uno dei tanti esempi di omologazione, che si potrebbero replicare
anche per la musica.
Rispetto al tanto vituperato dibattito sulla mondializzazione o globalizzazione, io mi pongo sempre la domanda: cosa significa questo? Se significa
opporsi all’omologazione, allora sì, ma non alla globalizzazione in senso
stretto, perché io sento, nella parola e nel suo significato, un valore positivo. Non si può dire: io mi oppongo alla globalizzazione e quindi ognuno a casa propria, i piemontesi a casa loro, io a casa mia. Invece no. Vorrei
fare una metafora alimentare perché credo che possa essere più chiara.
L’incontro non significa andare a mangiare a Mac Donald’s dove tutti mangiamo lo stesso panino, sia in India che qui, solo che in India è insaporito con la polverina al curry, qui con la polverina al ragù, oppure, per fare un altro esempio, non significa tutti i ragazzini di MTV, uguali in tutto
il mondo: sono persone che si comprendono, ma è stato come tagliarli
sotto e sopra in modo che non vedi più la differenza, vedi solo un tronco, non ci sono più le teste, non ci sono più le gambe e sembrano tutti
uguali. Opporsi all’omologazione, significa saper mettere insieme, secondo me, diversi elementi: la soluzione sarebbe dunque, forse, tornando alla metafora alimentare, non sedersi tutti
quanti davanti a un Mac Donald’s,
ma cercare di creare piatti nuoCONDIRE IL RISO BASMATI INDIANO CON IL
vi. Condire il riso basmati inRAGÙ NAPOLETANO, COSE DI QUESTO GENERE:
diano con il ragù napoletano,
QUESTO CREDO CHE IN MUSICA SIA UNO
cose di questo genere: questo
STRUMENTO PER USCIRE DALL’OMOLOGAZIONE
credo che in musica sia uno
strumento per uscire dall’omologazione.
Davide Van De Sfroos
Raiz
La cosa veramente importante, a questo
punto, arrivati a un momento in cui la parola “contaminazione” non evoca più la quarantena... voglio dire, il mondo è diventato veloce: io nel disco E semm parti’ ho messo senza troppa riflessione delle ragazze sarde a
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fare dei cori accanto a un bluesman di Pavia, sono andato a chiamare un
altro chitarrista dalla Valtellina, e ho riunito dei musicisti così, con semplicità…bene io, in passato, prima di arrivare a visitare la Sardegna, chissà cosa dovevo fare. Ma oggi con un SMS posso mandare a quel paese uno
che sta a Tokio, piuttosto che dichiarare il mio amore a una persona in
Finlandia, con due soldi, un aereo, un treno o semplicemente una videocamera arrivo a raggiungere tutti, tutti raggiungono tutti e tutti hanno
qualcosa da porre sul tavolo di questa jam session cosmica di suoni, di valori, d’arte. Pensiamo a tutti quegli esperimenti che ci sono nei dischi dell’etichetta di Peter Gabriel, prendiamo gli Afro Celt Sound System, il musicista celtico con il musicista africano, e tu senti comunque funzionare
un qualcosa che sa di afro-celtico, non viene appiattito né una delle caratteristiche, né l’altra.
Allora io a questo punto dico: va bene il confronto, va bene l’impastare
delle cose, degli atteggiamenti musicali, spirituali, tecno-artistici, però
proprio quando arriva quest’ora, sapere chi si è, non è che ci può dare
una mano? Altrimenti, cosa faccio io? Farò una specie di frappè dove il
colore dominante sarà quello della fragola e il sapore dominante quello
della banana perché è più forte degli altri? Oppure una macedonia, ben
precisa, nella quale riconosco ancora il kiwi – e qui di robe alimentari continuiamo a parlare, eh eh - riconosco i singoli frutti? Ecco, la mia paura è
questa. Io non vorrei dire al mio pubblico: “Attenzione, io vengo dal lago di Como”... no, questi sono tutti i pezzetti della mia storia che ho raccolto, alcuni li ho limati in un certo modo per metterli lì, qualcun altro l’ho digerito io per primo ... voglio dire, ci sono tante cose che hanno fatto parte di un qualcosa che è esistito e queste persone erano reali, non
erano magari esotiche e altisonanti, non appartenevano a qualcosa che sono andato a cercare in un viaggio oltreoceanico, erano proprio lì sotto casa, erano i soliti della straordinaria quotidianità. Però, attenzione, se io
son contento di aver raccolto, gustato, celebrato, in qualche modo, portato in giro e tramandato cose che io, “inviato speciale dell’emozione” in
quel momento, sotto casa ho trovato, io mi sento bene in questo ruolo.
So, più o meno, chi sono. Poi, sono il primo ad andare: nel dopofestival
Tenco ero con i Nidi d’Arac, i Parto delle nuvole pesanti, c’era anche la
De Sio, quella sera, c’era quel suonatore di tammorra… eravamo tutti là,
a far musica: la base era una mia canzone, che è diventata una taranta,
una pizzica, e non la smettevamo più di suonare e cantare, perché qual-
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cosa di sciamanico e di liberatorio era penetrato in noi, ed era sicuramente
qualcosa che arrivava da queste percussioni, che io non ho mai usato sul
mio palco, perché noi non le conosciamo, non appartengono alla nostra
tradizione. Sarebbe bello a volte fare un giro - senza voler fare per forza
quello che contamina tutto, perché allora diventi un album di figurine,
una storia del rock – e unire un sound come la sua voce (di Raiz, n.d.r.)
con delle sonorità che ci fanno ricordare i Massive Attack, sentire questi
bassi, questi dub, che pompano, mischiati a qualcosa di molto più nostro,
questo ti dà la sensazione... a me
fa stare molto bene, poi ciascuno ha i suoi gusti.
L’IMPORTANTE È CHE QUELLI CHE SI MISCHIANO
L’importante è che quelli
ABBIANO IL DIRITTO E ANCHE IL DOVERE DI SAPERE
che si mischiano abbiano
BENE CHI SONO PRIMA DI PERDERE TUTTI DENTRO IL
il diritto e anche il dovere
GRAN COLORE FINALE
di sapere bene chi sono priD. Van De Sfroos
ma di perdere tutti dentro il
gran colore finale.
Raiz Infatti a me il termine che piace è “sovrapposizione” più che...
Davide Van De Sfroos Sovrapposizione! Siamo lì tutti, poi lascia
stare che la cosa più pesante viene appoggiata sotto e quella più leggera
sopra....
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