INTERVISTA A

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INTERVISTA A
intervista A
benedetto vigna
Da Pietrapertosa (Potenza) Benedetto Vigna,
nato nel 1969, si sposta presso l’Università di
Pisa per laurearsi in Fisica Subnucleare.
Nel 1995 Vigna entra a far parte del Laboratorio
di Ricerca e Sviluppo della STMicroelectronics
a Castelletto (Milano). Sei anni più tardi,
diventa direttore della Business Unit MEMS
della STMicroelectronics e responsabile per
la progettazione, produzione e marketing dei
prodotti MEMS della ST. Questi ultimi sono
stati scelti da grandi produttori di apparati di
elettronica di consumo, fra i quali Nintendo
che li ha inseriti nella sua innovativa interfaccia
utente per la console di videogiochi Wii, e da
molti produttori di telefoni cellulari. Nel 2007,
l’organizzazione di Vigna è stata trasformata
in una Divisione di Prodotto e le sue
responsabilità comprendono la gestione di
Sensori, RF, Analogici ad Alte Prestazioni e a
Segnale Misto, prodotti di Interfaccia, Audio
per Sistemi portatili, Prodotti analogici
generici.
Vigna è titolare, ad oggi, di oltre 130
domande di brevetto sul micro-machining
ed è autore di numerose pubblicazioni in
questo campo. È stato invitato a tenere
diverse relazioni in occasione di importanti
convegni internazionali. Vigna è anche
consulente industriale del Presidente del
CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche).
Attualmente è Executive Vice President,
Direttore Generale della Divisione Analogici,
MEMS e Sensori, posizione che ricopre dal
settembre 2011.
l’avventura dei dispositivi mems
Benedetto, dopo le scuole a Potenza
lei ha scelto di andare a studiare Fisica
subnucleare all’Università di Pisa. Cosa
voleva fare da grande?
Ero attratto dalle materie scientifiche, e Pisa
aveva una buona fama. Nel mio caso come in
molti altri ha avuto influenza la personalità
dell’insegnante di matematica e fisica del
liceo e poi un incontro con il professor Carlo
Bernardini (a Cortona nell’estate del 1987).
Sognavo di fare il ricercatore e in effetti dopo
la laurea ho lavorato prima al CERN a Ginevra,
dove mi sono occupato di cromodinamica
quantistica, poi all’European Synchrotron
Facility a Grenoble e infine al Max Planck
Institut di Monaco di Baviera a lavorare al
laser ai raggi X per decifrare la struttura
tridimensionale delle proteine. Ma la fisica
teorica ha tempi lunghissimi. Così mi sono
accorto di voler vedere dei risultati in tempi
più brevi, di amare il confronto delle mie idee
con quelle del mercato, di unire la riflessione
all’azione.
Ed è entrato in azienda…
Stavo pensando di cambiare lavoro e tipo
68 < il nuovo saggiatore
di carriera quando mi hanno chiamato per
il servizio militare. Appena congedato sono
entrato in STMicroelectronics, in uno dei centri
di Ricerca e Sviluppo dell’azienda, quello
che faceva capo a Bruno Murari e la cui sede
principale era vicino Milano, a Cornaredo.
Bruno aveva tante attività in corso ma anche
tante idee nel cassetto, e mi propose di
esplorare un campo nuovo, quello del micromachining. All’epoca, fine 1995, esistevano già
i sensori di accelerazione che fanno scattare
gli airbag delle auto. Bruno pensava alle
caratteristiche meccaniche del silicio e alle
capacità di lavorarlo che la ST aveva sviluppato
negli anni. E poi c’erano gli impianti della ST
da sfruttare. Così appena assunto mi assegnò
l’incarico di esplorare questo mondo della
fabbricazione di sensori mettendomi in mano
l’unico articolo pubblicato in materia, peraltro
da un esperto di Analog Devices. Da lì sono
partito a studiare, a leggere, a viaggiare per
conferenze scientifiche e per un anno ho
studiato a Berkeley, in California.
Dalla fisica alla microelettronica. Comincia
cosi l’avventura dei MEMS?
Non so se definirla avventura, certo in ST
c’erano solide basi di partenza in termini
industriali come know-how e come impianti.
Sul piano personale è stata sicuramente una
magnifica avventura sia perché il settore era
veramente agli inizi, il mio team era piccolo e
formato da giovanissimi, sia perché abbiamo
perseguito strade nuove rispetto alle altre
aziende e come insegnano i migliori studiosi
di marketing abbiamo creato un nuovo
settore di attività in cui ancora oggi siamo
i leader e controlliamo più del 50 per cento
del mercato. Di un mercato, oltretutto, che
cresce a due cifre nonostante l’impatto che la
crisi ha avuto dal 2008 in poi sulla domanda
di beni di elettronica di consumo.
Come avete fatto?
Abbiamo imparato molto strada facendo,
anche dai nostri stessi insuccessi. Ma all’inizio
abbiamo avuto due importanti stimoli. Da
una parte la capacità di innovazione che era
un punto fermo delle strategie di ST e quindi
era incentivata e supportata anche quando
i risultati non arrivavano immediatamente.
Dall’altra un’intuizione: i MEMS dell’epoca
erano grossi e costosi come gioielli
importanti. Questo limitava necessariamente
il loro utilizzo. Ma la ST produceva miliardi
di chip l’anno e la sua grande infrastruttura
manifatturiera si muoveva efficientemente
solo per grandi volumi. L’elettronica di
consumo era all’epoca il solo settore che
potesse assorbire grandi numeri di prodotti
ma che dovevano necessariamente avere
caratteristiche completamente diverse dai
sensori degli airbag. I nostri MEMS dovevano
essere piccoli, consumare poca energia,
svolgere molte funzioni e costare poco.
Niente gioielleria, in una parola, piuttosto
grande magazzino.
Ci siamo messi al lavoro e abbiamo
cominciato subito a correre perché
dovevamo sviluppare allo stesso tempo
il prodotto, ma anche le tecnologie per
produrlo, le macchine per testarlo, e così
via. Nuove procedure, nuove specifiche,
centinaia di brevetti (600 per la precisione),
tanti prodotti diversi sviluppati per clienti e
applicazioni diverse. Per vari motivi però non
siamo mai entrati in produzione in volumi.
Finché non abbiamo preso una decisione
radicale: abbandonare tutti gli sviluppi in
corso per affrontare una sola grande sfida a
cui nessuno si era ancora applicato. Dare cioè
ai nostri accelerometri miniaturizzati la terza
dimensione. In effetti il nostro mondo ha tre
dimensioni. Così ci siamo impegnati a costruire
un terzo asse su una piastrina di silicio di meno
di un millimetro. La sfida era enorme anche
perché dovevamo tenere bassi i consumi,
studiare un package adeguato e tenere bassi i
prezzi, come ci eravamo proposti. Ma alla fine
del 2002 avevamo il primo accelerometro a tre
assi al mondo capace cioè di percepire ogni
dimensione di movimento lineare.
è stato questo accelerometro la chiave del
successo?
Non immediatamente. Abbiamo avuto
molti contatti e molti clienti ma non grandi
volumi. Per questo è stato importante avere
alle spalle un’azienda con grande esperienza
di innovazione che ha continuato a darci
fiducia anche se il fatturato non c’era. Anzi il
management ha preso una decisione cruciale
in un momento cruciale: nonostante non
avessimo grandi ordini, è stato deciso di
avviare alla produzione di MEMS una linea
ad otto pollici, quando tutti i concorrenti ne
avevano una a sei pollici. Si è investito per
garantire al nuovo prodotto quello che gli
altri non potevano avere: grandissimi volumi,
grande affidabilità, prezzi molto contenuti.
E come ha fatto a convincerli?
L’idea di partenza nasceva dall’esperienza
di chi ha visto per anni crescere l’industria
elettronica. Abbiamo apparati sempre più
sofisticati e multifunzione. Ma se il loro uso non
resta semplice se ne limita la diffusione. Pensi
ai telecomandi dei televisori. O alle tastiere dei
telefonini. Noi pensavamo che il movimento
o meglio il gesto potesse semplificare
l’interfaccia uomo macchina. Anche per
alleggerire il peso dei dispositivi portatili.
Viene in mente il paragone con l’entrata del
mouse o delle icone sulla scena del personal
computing. Poter passare dalle raggelanti ed
ostiche istruzioni scritte alla semplicità intuitiva
della selezione con i movimenti del polso e
delle dita ha avvicinato milioni di nuovi utenti
al computer. Lo stesso tipo di rivoluzione è
stato reso possibile dall’affacciarsi dei MEMS sul
mercato di massa. C’era chi puntava sulla voce
come interfaccia che tuttavia richiede grande
dispendio di energia. Noi abbiamo avuto
successo, anche perché ci siamo attrezzati “just
in time”.
E poi, dall’altra parte del mondo qualcun
altro pensava a come mettere in pratica
l’insegnamento di P. Drucker: creare un
mercato invece di trovare un cliente.
Nintendo aveva perso la posizione di leader
nel mercato dei videogiochi rispetto a Sony
e Microsoft. Era necessario un colpo di
reni: questo è stato possibile proprio grazie
all’incontro di due innovazioni. Nintendo
ha compiuto un’innovazione radicale
trasformando il concetto di gaming con la
console Wii. D’altra parte c’è l’innovazione
radicale nella tecnologia e nella sua
applicazione all’industria rappresentata dal
nostro accelerometro a 3 assi.
Come siete arrivati a questo incontro?
Questa è una storia ormai scritta. Ma vale la
pena di ricordarla.
Sino all’arrivo sul mercato della Wii,
i videogiochi – come qualunque altra
apparecchiatura elettronica – venivano
controllati attraverso la pressione di tasti, lo
spostamento di selettori o al massimo con il
movimento di un joystick. L’interfaccia uomomacchina era tutt’altro che amichevole. Per
chi aveva superato l’adolescenza e non aveva
saputo conquistarsi un’adeguata mobilità dei
pollici, l’impatto con il gioco era addirittura
ostile. Il controllore della Wii, costruito attorno
all’accelerometro, cambia radicalmente le
regole e si propone come nuovo paradigma
nei videogiochi, trasformandosi in estensione
naturale delle braccia come racchetta da tennis,
pistola da tiro a segno, mazza da baseball o
addirittura in bacchetta di direttore d’orchestra.
Partendo da questo primo impiego di massa,
i MEMS si posizionano per creare una nuova
interfaccia, più naturale di mouse, joystick e
tasti sempre più piccoli, fra noi e le tecnologie
elettroniche della vita quotidiana. Quanto
è meglio poter comandare gli oggetti
dell’elettronica quotidiana con un semplice
gesto, una cosa che a noi mediterranei viene
peraltro facilissimo. La forza del gesto imprime
a una piccola massa all’interno del dispositivo
un’accelerazione, come spiegato 300 anni fa
dal grande Newton. Quest’accelerazione può
essere rilevata e trasformata in un segnale
elettrico. E Nintendo conquista un mercato
nuovo, il mercato di tutti coloro che mai si
erano o si sarebbero cimentati con un joystick
e che invece trovano naturale maneggiare una
racchetta o un guantone da boxe.
La console Wii è stato un successo senza
precedenti. Cosa è successo dopo?
Immagino una strada in discesa?
Niente affatto. Anzi, abbiamo cominciato
a correre ancora più veloci e affrontato
scommesse sempre più grandi. è vero che
dal 2008 siamo ufficialmente leader di un
mercato che prima non esisteva, quello dei
MEMS per applicazioni portatili e di elettronica
di consumo e da allora ci attribuiscono quote
del mercato che vanno dal 70 al 50 %. Ma
noi guardiamo a quello che non abbiamo
ancora realizzato. Dall’accelerometro a 3 assi
siamo passati al giroscopio a 3 assi, perché
l’accelerazione è importante ma il movimento
angolare è preciso. Quando abbiamo
cominciato sul mercato li trovavi in cubi di
una decina di centimetri di lato. In 100 giorni
abbiamo progettato un giroscopio di 4 mm
compreso il package per Apple. E anche questo
risultato ha aperto un mercato nuovo e molto
ampio.
Ma non c’è solo il movimento. Così costruiamo
e vendiamo sensori di pressione per poter
localizzare un oggetto in movimento anche
come altitudine. Fra l’altro questo ci ha aperto
il settore della navigazione personale in
luoghi chiusi, come aeroporti, musei o centri
commerciali dove è fondamentale sapere a
che piano mi trovo e il segnale del satellite
non arriva. Poi ci sono i microfoni MEMS,
piccolissimi anch’essi, che permettono di
cancellare il rumore e di migliorare l’audio
anche a partire da un telefono cellulare.
In effetti, guardando indietro più che il fascino
della tecnologia con cui realizziamo queste
minuscole sensibili macchine, mi colpiscono le
trasformazioni che si rendono via via possibili.
Le applicazioni sono davvero infinite e siamo
ancora solo all’inizio. Penso a quelle intorno al
nostro corpo, che ci aiuteranno a stare bene,
a migliorare la diagnosi e a curarci. Una nota
azienda di attrezzi sportivi usa i nostri sensori
per sollecitare i più pigri al movimento: registra
ogni movimento di carattere “sportivo” o
salutistico e ci mette in competizione con
noi stessi, con quanto ci siamo mossi o non
ci siamo mossi rispetto ai nostri obbiettivi.
Penso ai sensori MEMS e non che progettiamo
per gli ambienti, che processeranno dati e
manderanno informazioni ma anche istruzioni
ad altre macchine. Passiamo dall’interfaccia
uomo-macchina basata sul movimento a
macchine che interfacciano altre macchine
raccogliendo ed elaborando informazioni
dall’ambiente in cui vivono e magari anche
catturando energia per autoalimentarsi. Sono
nuovi settori che si spalancano quasi ogni
giorno.
Dal punto di vista industriale cosa ha
comportato il vostro successo?
Potremmo dire che è nata una nuova industria,
complementare a quella dei semiconduttori,
quasi un pollone nuovo da una pianta molto
radicata. Abbiamo fatto investimenti, creato
posti di lavoro, salvaguardato posti che la
crisi della domanda post 2008 aveva messo
in gioco, avviato una catena di fornitura
complementare. L’impianto produttivo di
Agrate Brianza è stato ampliato più volte per
far fronte alla domanda di MEMS, mentre a
Malta si assembla il prodotto finale e in uno
stabilimento francese si produce il chip che
legge i segnali del sensore. Calcoliamo in 1500
i posti di lavoro ST legati ai MEMS, di cui un
migliaio in Italia.
Ma soprattutto il cuore della ricerca, dello
sviluppo e del marketing resta vicino a Milano,
dove i MEMS sono nati, a Cornaredo.
S. Centro
Università di Padova
vol28 / no5-6 / anno2012 >
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