Giovanni Di Lullo 217 MANUEL CARRERA DIAZ CURSO DE

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Giovanni Di Lullo 217 MANUEL CARRERA DIAZ CURSO DE
Giovanni Di Lullo
217
MANUEL CARRERA DIAZ
CURSO DE LENGUA ITALIANA. PARTE TEÒRICA
(NUEVA EDICÍON AUMENTADA Y CORREGIDA)
Barcelona: Editorial Ariel, 1990-92. 604 pp.
CURSO DE LENGUA ITALIANA. PARTE PRACTICA
Barcelona: Editorial Ariel, 1990-92. 512 pp.
Studiare una nuova lingua, così come insegnare una lingua a stranieri,
produrrà, per strano che possa sembrare, un medesimo effetto: quello di
constatare il grado di conoscenza del proprio idioma mediante un
percorso che permette di addentrarsi in alcune particolarità che
altrimenti resterebbero precluse a chi conosce — magari perfettamente
— una sola lingua, la sua. In termini di fruibilità non è certo questo il
risultato che più conta, almeno non per lo studente. Eppure bisogna
riconoscere che attraverso il processo di apprendimento/insegnamento
di una lingua, il raffronto costante — anche si indiretto — tra una ο più
parlate è inevitabile. Ciò si verificherà a livello morfosintattico, lessicale
e culturale.
Consideriamo un paio di esempi.
A un italofono che si trovasse davanti un enunciato quale:
•Siediti, vado a tagliarti i capelli
la frase apparirà meno cervellotica dopo che essa sarà stata confrontata
con le rispettive:
a) Sit down, I am going to cut your hair
b) Assieds-toi, je vais te couper les cheveux
c) Siéntate, voy a cortarte el pelo
Solo in un secondo tempo anche un anglofono, un francofono ο un
ispanofono potrà rendersi conto che in italiano il verbo andare seguito
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dalla preposizione a espleta la funzione di complemento di moto a
luogo; per cui è necessario, per uno straniero, avere ben chiaro che la
cosiddetta "perifrasis de movimiento intencional" (Vol. 1, p. 108) è a
noi estranea e che, comunque, non va espressa con il verbo andare.
Dopo avere afferrato bene questo concetto e in base al paragone
avvenuto tra due ο più lingue, lo studente dovrebbe essere in condizione
di rendere in maniera corretta la frase con cui ero partito, scrivendo
cioè:
Siediti, ti taglio i capelli
Secondo esempio. Risulterà ugualmente istruttivo per l'insegnante,
ma anche per il discente, capire la notevole differenza, questa volta in
ambito socio-culturale, che intercorre tra una parola come "spogliatoio"
e le corrispondenti voci "dressing-room," "vestiaire" e "vestuario."
Come sappiamo, "vestiario" ("voce dotta," spiega ΓΧΙ ed. dello
Zingarelli) esiste anche in italiano, però con significato diverso da
"spogliatoio." In "spogliatoio" è possibile cogliere un'aura di
spregiudicatezza popolare, di stampo rinascimentale (ricordo che il
termine è riconducibile al 1550) di cui la parola italiana è imbevuta e
nella quale non trova posto quel senso di pudore che invece sembra
rivestire l'equivalente inglese, francese, e spagnolo. È la riprova che,
come per certi costrutti, anche le parole guadagnano in chiarezza ad
essere confrontate con altre, derivanti da lingue diverse.
E poiché sembra destino che chi intraprende lo studio dell'italiano
ha già studiato ο studierà anche lo spagnolo, un'opera come quella di
Manuel Carrera Dìaz ha un'importanza determinante: innanzi tutto
perché di libri sulla lingua italiana concepiti all'estero, che oltrepassino
le mille pagine, ce ne sono davvero pochi; e poi perché l'impegno
profuso nella realizzazione del Curso è ammirevole.
L'opera consta di due volumi. Il primo si occupa della parte teorica,
il secondo della parte pratica. Quarantotto sono i capitoli in cui si
articola il corso che, stando all'autore, dovrebbe svolgersi in due anni
(Vol. 2, p. 11).
I capitoli d'avvio (capp. 1-3) prendono in esame il sistema fonetico
e grafico dell'italiano. Gli esempi addotti per chiarire i concetti vengono
regolarmente trascritti secondo l'alfabeto fonetico internazionale.
Importante anche il capitolo preliminare della "Parte teòrica" in cui si
cerca di far luce sul fenomeno del plurilinguismo della nostra lingua,
soffermandosi in particolare sui dialetti e sul cosiddetto italiano
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regionale. Gli altri capitoli trattano di argomenti grammaticali specifici.
Si parte dal presente dell'indicativo (cap. 4) e si arriva al cap. 48, il
quale si occupa de "el orden de palabras," ο sintassi, e della ellissi. Il
tutto è inquadrato in una panoramica contrastiva.
Ogni capitolo presenta poi, a m o ' di chiusura, alcuni aspetti sociolinguistico-culturali che l'autore fa confluire nelle "Observaciones." I
temi affrontati sono molteplici, ma tutti interessanti ed originali.
Veniamo così a sapere che gli italiani permangono ancora oggi
nell'errata convinzione che vuole che, nell'accomiatarsi, uno spagnolo
si rivolga all'altro con "hasta la vista," mentre nella realtà l'espressione
"no tiene en España tanta frecuencia." Si suppone infatti che "la
creencia se debe, probablemente, al influjo de las pelìculas de ambiente
latinoamericano y, màs concretamente, mejicano" (Vol. 1, p. 85). In
un'altra "observacion" ci si sofferma sulla proverbiale gestualità tanto
degli italiani quanto degli spagnoli, avvertendo però che certi gesti,
benché identici, veicolano significati diversi, a seconda del paese in cui
vengono messi in atto (Vol. 1, p. 151). L'"observacion" a p. 442 cerca
invece di spiegare l'immagine dello spagnolo fanfarone che circolava
durante la dominazione spagnola in Italia (dominazione che ebbe luogo
dalla metà del XVI sec. alla fine del XVII sec.). Secondo quanto si
legge a p. 442, la nomea di "fanfarrón" deriverebbe dall'uso e
dall'abuso che "algunos miembros de la nobleza española" facevano dei
loro innumerevoli cognomi. Infatti:
Los italianos, que acababan de ofrecer al mundo la espléndida cultura
del Rinacimiento, miraban con una mezcla de conmiserción,
sentimiento de superioridad y simpatìa a aquellos soldados a los que,
pese a presentarse como de noble sangre, veìan como mìseros e
incultos. Nació asì la imagen del español fanfarrón, que se prodigò en
numerosas comedias de la època.
Che i fatti siano andati proprio così, è un discorso che conviene
lasciare agli storici. Suscita invece stupore l'affermazione che appare a
p. 4 8 1 , in cui si sostiene che "un autor de cultura tan enciclopèdica
como Dante Alighieri [1265-1321] no sabìa qué lengua se hablaba en
Espafia." Chi volesse controllare la solidità di una simile
argomentazione potrà farlo leggendosi l'incipit della voce "Spagna"
redatta per l'Enciclopedia dantesca da Joaquin Arce.
Il Curso de lengua italiana è un lavoro che si prefigge di fondere
la teoria con la pratica. Esso è stato concepito secondo il metodo
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contrastivo e si indirizza a studenti ispanofoni, che abbiano una buona
conoscenza della loro lingua, senza la quale — ed è convinzione ribadita
più volte dall'autore — risulterà arduo l'apprendimento di un altro
idioma. Il metodo scelto si giustifica quindi da sé in quanto l'allievo che
l'autore ha presente, "està acostumbrado, por la indole de sus estudios,
a moverse mediante esquemas racionales y abstractos, y no acepta
reducir sus conocimientos a la intuicìon ο al uso ciego"; anzi, "si no se
le da la formulacion teòrica del proceso, la exige ο la busca por sì
mismo" (Vol. 2, p. 9).
Nelle pagine che seguono ho accolto l'invito, espresso dallo stesso
Carrera Diaz, a contribuire a "colmar lagunas ο subsanar posibles
errores" (Vol. 1, p. viii). Vorrei cominciare segnalando un primo errore
relativo all'impiego del pronome tonico loro. A tale proposito, non pare
che all'autore risulti ben chiara la differenza tra la funzione
propriamente atona contrapposta a quella tonica del suddetto pronome.
Aggiungo subito che tutte le grammatiche da me consultate (una
ventina) mancano di dare una descrizione soddisfacente del fenomeno.
A p. 299 (Parte 1) si fa rilevare che, trattandosi di pronome
indiretto, loro dovrebbe essere preceduto dalla preposizione a, ma che
generalmente se ne fa a meno quando il pronome si trova in posizione
enclitica. Un simile discorso è valido solo se la funzione espletata da
loro è atona; quando invece si tratta delle forme toniche, la preposizione
non deve essere eliminata. L'errore compare, questa volta in maniera
flagrante, a p. 245 (Parte 2) del cap. 26, in cui il dialogo viene
preceduto dal titolo "Los pronombres complementos tónicos," titolo che
poi è contraddetto dalla frase: "Va bene, domanderò loro se sanno
qualcosa." Che qui siamo in presenza di un pronome atono anziché di
un pronome tonico risulterà ancora meglio se si fa attenzione a quanto
segue. Affermare:
a) Ho detto loro di partire
e
b) Ho detto a loro di partire
non è la stessa cosa. Nel primo caso ci troviamo di fronte a
un'affermazione abbastanza ordinaria, in cui non si dà eccessiva
importanza a nessuna delle parti costitutive della frase. Nel secondo
caso, e allo scopo di evitare malintesi, si insiste sul fatto che ho detto
a loro (non ad altri) di partire. Non solo: ma se si leggono le frasi a e
b una di seguito all'altra, si noterà che anche l'intonazione è diversa. In
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a siamo in presenza di una modulazione di tipo orizzontale, in b si
avvertirà invece una fase melodica ascendente, che culminerà nella resa
enfatica di a loro.
Si osservi adesso la differenza di significato tra la forma atona
(colonna a sinistra) e la forma tonica (colonna a destra).
A. Pronomi diretti (forma atona)
a) Mi vede
b) Vi invita
c) Le ascolta
B. Pronomi indiretti (forma atona)
a) Ti telefono
b) Ci scrive
c) Rispondo loro oggi stesso
B. Pronomi diretti (forma tonica)
Vede me
Invita voi
Ascolta loro
B. Pronomi indiretti (forma tonica)
Telefono a te
Scrive a noi
Rispondo a loro oggi stesso
Il problema che, come anticipato, le grammatiche non ritengono di
dovere approfondire, è stato però sollevato e centrato in pieno da
Jacqueline Brunet nella sua Grammaire critique de l'italien (Paris:
Université de Paris VIII-Vincennes, 1978-91). La Brunet fa notare,
giustamente, che qualora ci si risolvesse a un impiego capriccioso della
preposizione a, si brancolerebbe nel buio giacché:
On ne sait plus très bien alors sur quel terrain on se trouve: si Parlerò
a loro apparait bien comme le pluriel de Parlerò a lui/ a lei (et si on
est donc bien dans le domaine des pronoms forts), Disse loro peut
difficilemente être considéré comme le pluriel de Disse a lui/ a lei
(op. cit., Vol. 8, p. 75).
Appare senz'altro lodevole lo sforzo fatto dall'autore del Curso per
cercare di capire la ragione della coesistenza delle particelle ci/vi. Come
tutti i grammatici e compilatori di dizionari, anch'egli propende per
l'intercambiabilità di ci con vi, premettendo che vi "se usa
preferentemente en el estilo elevado" e "puede utilizarse equivaliendo
a ci sólo cuando esta partìcula tiene valor adverbial" (Vol. 1, p. 457).
A volere analizzare sotto una diversa angolatura il caso appena
descritto, si scoprirebbe però che l'affermazione risulta viziata da un
eccesso di normatività. Mentre è innegabile che posso dire
indifferentemente:
a) In questa casa lei ci/vi abita da due anni
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non potrò fare altrettanto con frasi del tipo:
b) Ecco la stanza dove io ci mangio
e neppure con:
c) In biblioteca noi ci studiamo
Sostituire ci con vi produrrebbe risultati ambigui (frase c) ο
addirittura grotteschi (frase b). Per una discussione più equilibrata sulla
frequenza ridotta di sostituibilità dei locativi ci/vi, rimando a Luca
Serianni e alla sua monumentale Grammatica italiana (Torino: UTET,
1988, pp. 216-17, par. 51).
Vengo adesso a quello che Carrera Diaz chiama "lagunas." Ne
segnalo due. È prassi generalizzata da parte dei grammatici di non
parlare affatto, ο solo di sfuggita, di un problema che, al contrario,
andrebbe affrontato con decisione. Alludo al trattamento riservato ad
entrambe le forme analitiche ed organiche del comparativo e del
superlativo degli aggettivi buono e cattivo. Il cap. 34 del Curso (Vol.
1, p. 392) si limita a riportare lo schema relativo alle sole forme
organiche (cioè: buono -» migliore // cattivo -> peggiore), tacendo
dell'esistenza di più/ meno buono e più / meno cattivo, che pure sono
molto diffuse in italiano. Le grammatiche che invece riproducono le due
forme or ora citate, parlano di un uso indifferenziato delle medesime;
ma poi, ripensandoci, sono costrette a chiosare: "spesso si preferisce ο
addirittura si deve usare solo una delle due forme. E purtroppo non c'è
una norma. Soltando la pratica della lingua (alcuni dicono 'l'orecchio')
può aiutare a scegliere." Almeno chi insegna dovrebbe sapere che, in
fatto di lingua, l'orecchio è il peggiore nemico.
Dunque le grammatiche preferiscono sorvolare su un argomento
che, a mio parere, è fondamentale. E se a un italofono la differenza tra
le due forme apparirà ovvia in ragione della pratica che egli/lei ha avuto
con la lingua materna sin dalla più tenera età, non si può dire lo stesso
quando è uno straniero che deve familiarizzarsi con certe espressioni,
per di più in età avanzata. Se le grammatiche preferiscono tacere, le
cose non vanno meglio con i dizionari che, anche loro, tendono a fare
coincidere le due forme in un unico significato. Si distingue dagli altri
il Vocabolario italiano (Ed. Palumbo, 1993) di De Felice-Duro, che alla
voce "migliore" avverte: "comparativo di buono (opposto a peggiore),
che presenta gli stessi valori e usi di buono (ma per esprimere bontà
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d'animo, di comportamento e di condotta, è usata solo la forma più
buono)." Sfortunatamente, la definizione si ferma qui, lasciando fuori
l'altra accezione, quella cioè che fa di più / meno buono (ma anche più/
meno cattivo) un comparativo per mezzo del quale vengono connotate
qualità degustative ed olfattive, oltre che caratteriali ed affettive. Un
tentativo di distinzione in tale senso, ma con un procedimento inverso,
lo tenta il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia,
il quale al lemma n. 10, par. 2°, della voce "migliore," scrive: "Più (o
il più) nutriente, saporito, gradevole al gusto, appetibile (un cibo una
bevanda)." Definizione che, come abbiamo visto, è adatta a definire più
buono anziché migliore (termine quest'ultimo che ha valore figurativo).
Ma la contraddizione è solo apparente. Per illustrare il significato
appena trascritto, il Battaglia fornisce sette esempi, tutti antichi (si inizia
con Franco Sacchetti [1332-1400] e si finisce con Francesco Redi
[1626-1698]). Esempi estrapolati da scritti prodotti negli ultimi trecento
anni non ce ne sono, forse perché mentre l'esistenza di migliore,
ricalcata sul lat. meliore (m), è possibile farla risalire al 1219 e quella
di buono al 1294, non sembrano esserci attestazioni che dimostrino la
presenza di più buono in ambito antico. Lo stesso Battaglia, alla voce
"buono," che definisce "gradevole al gusto, all'olfatto" (lemma n. 28),
registra un solo esempio con più buono, tratto però da Salvatore
Quasimodo: autore del Novecento. Il che porta a concludere che benché
l'italiano sia partito da una base antica, di matrice latina (e gli esempi
con migliore raccolti dal Battaglia sembrano provarcelo), la biforcazione
di migliore in più/meno buono e di peggiore in più/meno cattivo sono
di derivazione popolare: esse si sono formate e hanno avuto larga
diffusione solo più tardi. Una conferma a tale proposito la si trova nelle
grammatiche storiche che Rohlfs (1968) e T e k a v č i č (1972) hanno
dedicato all'italiano e ai suoi dialetti. Non solo, ma un'ulteriore prova
della maggiore ricettività dell'italiano ad attingere dal linguaggio
popolare può essere ravvisata stabilendo, ancora una volta, un confronto
con l'inglese, il francese e lo spagnolo: lingue che rifiutano le forme
analitiche *"more good," *"plus bon" e *"mâs bueno" a favore delle più
classiche "better," "meilleur" e "mejor." Come già per "spogliatoio," qui
l'italiano si dimostra essere lingua meno conservatrice di quel che si
crede, anche perché essa si è dovuta misurare da sempre con
l'inestimabile ricchezza dei suoi dialetti.
Il fatto che si tratti di forme popolari, potrebbe dunque servire a
spiegare la ragione per cui certe grammatiche (soprattutto straniere) si
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ostinano a non riportare le forme analitiche citate prima.
Dopo la breve — ma necessaria — divagazione, possiamo tornare al
nostro discorso. Nella frase:
Questo vino è più buono di quello
si mette l'accento sul sapore del vino piuttosto che sulla qualità, senza
che tuttavia quest'ultima ne venga esclusa. Dicendo invece:
Questo vino è migliore di quello
l'idea di qualità ha il sopravvento. Insomma: il vino può anche non
piacermi, però è di buona qualità.
In una pubblicità radiofonica udita non molto tempo fa, viene
reclamizzata una dieta. Il testo contiene, tra l'altro, le parole seguenti:
La dieta più buona che c'è.
Chi ha scelto di usare l'espressione più buona in luogo di migliore
aveva in mente la gustosità degli ingredienti che costituiscono la dieta,
oltre che, implicitamente, la sua efficacia. Dicendo più buona sembra
che il messaggio voglia far passare in secondo piano la qualità, per il
semplice fatto che si è voluto minimizzare il senso di sacrificio e di
rinuncia che l'idea stessa di dieta comporta, portando così al massimo
livello il meccanismo della persuasione, base su cui poggia ogni
discorso pubblicitario. Da notare anche la pertinenza di quel "che c'è"
in luogo del più corretto (grammaticalmente corretto) "che ci sia." Dire
"che ci sia" avrebbe significato mettere in dubbio l'idea di unicità di
tale dieta. Ciò serve a dimostrare che norma linguistica e pubblicità non
vanno/ non possono andare sempre d'accordo.
Hanno torto le grammatiche — in modo particolare quelle destinate
a studenti non italofoni — che liquidano con poche parole il problema
del comparativo. Chi impara l'italiano, certe cose le dovrebbe
apprendere direttamente dal testo che utilizza; così facendo si eviterebbe
anche di mettere in imbarazzo quegli insegnanti che, vuoi per
formazione vuoi per indole vuoi per pigrizia, non hanno il buon senso
di approfondire da sé ciò che i libri lasciano in sospeso.
L'ultimo punto che ho scelto di discutere rientra nella categoria del
cosiddetto discorso diretto / discorso indiretto; e più precisamente, l'uso
dei verbi venire e andare. Problema che alcuni testi di lingua
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menzionano soltanto.
Nel cap. 47 (Vol. 1, p. 534) dell'opera di Carrera Dìaz si può
leggere: "en el estilo i n d i r e c t o el verbo venire es sustituido por andare,
a causa de la lejanìa psicològica del narrador con respecto a los hechos
y a los personajes," pensando forse ad avvenimenti e personaggi da
romanzo. Le cose non stanno sempre così. Se mi si chiede di volgere
al discorso indiretto la proposizione:
Mi ha detto: "Verrò a trovarti domani"
e applico la regola enunciata sopra, dovrei trasformare la frase in:
*Mi ha detto che sarebbe andato a trovarmi il giorno dopo
Se lo facessi, cadrei in un errore non molto diverso da quello contenuto
nell'esempio con cui ho iniziato il presente articolo, e cioè:
•Siediti, vado a tagliarti i capelli
Bisognerà dunque rettificare dicendo che, sì, nella maggior parte dei
casi il verbo venire si trasforma in andare allorché si passa dal discorso
diretto al discorso indiretto, ma che questo non avviene in modo
sistematico poiché le circostanze non sono le stesse ogni volta. Sia la
pratica che la riflessione maturate nel corso degli anni, mi hanno portato
a elaborare uno schema che vorrei sottoporre all'attenzione di chi legge.
Nel passaggio dal discorso diretto al discorso indiretto, si
verificherà, in linea di massima, quanto segue:
1) Si usa andare quando il narratore/ la narratrice non è coinvolto/a
direttamente nell'azione, ma si limita a riferire ciò che accade.
Es.: Le disse: "Vengo con te"
Le disse che andava con lei
2) Si usa andare quando il narratore/ la narratrice è coinvolto/ a
direttamente nell'azione. L'azione parte dal narratore/dalla narratrice per poi
dirigersi altrove.
Es.: Anna mi pregò: "Vieni anche tu a teatro"
Anna mi pregò che andassi (di andare) anch'io a teatro
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3) Si usa venire quando il narratore/ la narratrice è coinvolto/a direttamente
nell'azione. L'azione parte da un determinato punto per poi dirigersi verso il
narratore/la narratrice.
Es.: Ci promisero: "Verremo ad aiutarvi"
Ci promisero che sarebbero venuti/e ad aiutarci.
Insomma, e per dirla con un linguaggio più tecnico e sfumato, è
importante sottolineare che: "Nella deissi spaziale, compreso l'uso di
andare e venire, la scelta della forma trasposta dipende da informazioni
contestuali riguardo al luogo in cui si trovano i partecipanti all'atto
comunicativo" (cfr. p. 460 del Vol. 3 della Grande grammatica italiana
di consultazione, a c. di L. Renzi et al. [Bologna: il Mulino, 1995]).
La stesura occasionale di questi appunti non mi consente di andare
al di là del loro stato di abbozzo. Qui posso solamente accennare al
problema — cosa che del resto ho fatto anche per gli altri punti
controversi esposti nel corso dell'articolo-recensione — nella speranza
che altri si decidano un giorno a dedicare un intero volume alla
faccenda del discorso diretto/discorso indiretto: faccenda che, nonostante
le apparenze, è molto più complessa di quanto non sembri, ο di quanto
le grammatiche vogliano darci ad intendere.
Il Curso de lengua italiana mi ha offerto lo spunto per la messa a
fuoco di alcuni argomenti che mi sembrano richiedere un'analisi meno
frettolosa. Se si accetta la tesi secondo cui la lingua italiana "es unas de
las menos gramaticalizada de Europa" (Vol. 1, p. 114), bisognerà poi
riconoscere che la colpa non è sempre e solo della lingua, ma anche di
che scrive le grammatiche.
GIOVANNI DI LULLO
Bishop's University,
Lennoxville, Québec