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Anno XXXIII, n. 1
RIVISTA DI STUDI ITALIANI
Giugno 2015
CONTRIBUTI
AL DI QUA DEL LINGUAGGIO
LA CONCEZIONE SCRITTURALE DELL’OPERA DI
AGOSTINO TULUMELLO
ALESSANDRO GAUDIO
Università della Calabria
Cosenza
G
ià all’inizio degli anni Cinquanta si viene a sviluppare nell’arte di tutta
Europa (e, con grande vitalità, anche in Italia) un uso del segno pittorico
non significante, fatto di intrecci cromatici e calligrafici che non
rimandano a un senso, ma guardano piuttosto − diceva Roland Barthes a
proposito di Cy Twombly − al gesto, inteso come supplemento di significato
che non mira necessariamente a produrre qualche cosa; non ha, si potrebbe
affermare, un oggetto come residuo perché il resto, ovvero ciò che c’è al di là
del segno e del messaggio, rimane interamente nel gesto. Se si compie un passo
ulteriore e, all’opposto, si finisce per accordare a questo segno un valore
semantico che si somma a quello estetico allora, dalla pittura-scrittura, si arriva
alla poesia visiva. Lo stesso Cy Twombly, americano ma romano d’adozione
(così come anche Gastone Novelli, tanto per restare in ambito italiano),
considerava la duplice valenza, di forma e di significante, del segno linguistico.
Tra i nuovi fenomeni d’avanguardia, molti hanno dovuto fare i conti in quegli
anni con questi due principi, spesso non optando esclusivamente per uno di essi,
ma schiudendosi a entrambi1.
È al primo principio che Agostino Tulumello2 sceglie di attenersi,
propendendo per un’idea d’arte che si basi su una concezione scritturale
1
Sui rapporti tra scrittura e linguaggi figurativi rimando a A. Gaudio, “Mai
bruciati dalla Cosa. Parole, figure e oggetti dell’inattualità alle origini della
poesia visiva in Italia”, Critica Letteraria, a. XXXIX, fasc. III, n. 148,
settembre 2010, pp. 592-611; dedicato all’opera di Luc Fierens, Anna Guillot e
Agostino Tulumello il mio recentissimo “Elementarità e critica. Note sulla
rinnovata disposizione della Poesia Visiva”, in C. De Stasio (a cura di), I
linguaggi della sperimentazione, catalogo della mostra, Brindisi, s.d. [ma
2014], pp. 28-29.
2
L’opera dell’artista − nato a Montedoro nel 1959, ma a lungo vissuto in
Belgio, dove ha avuto modo di frequentare l’Accademia Reale delle Belle Arti
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materiale, ma asemantica. L’oggetto, parola o numero che sia, è, dunque,
svincolato dal linguaggio e assunto nella sua afunzionalità, secondo
un’attitudine che riafferma alcuni motivi neodadaisti: ci si riferisce, in
particolare, a quelli legati alle regole di composizione, straordinariamente
ferree, all’elementarità del gesto pittorico e al bilanciamento tra volontà
dell’artista e caso nella determinazione del senso. Si è detto dello spazio
gremito di materia: ad esso Tulumello annette la nozione di un tempo fatto di
una impenetrabile rete di attimi che si susseguono orizzontalmente in maniera
incessante. Anche quando sembrano proporre una scansione (elemento che più
di ogni altro è stato sottolineato dagli esegeti della sua opera), che parrebbe
indicare una frattura o una distanza, in realtà i lavori di Tulumello prospettano
una continuità: quella che passa da una disposizione, ordinata o no, di elementi
regolari, giustapposti per semplici associazioni, che, però, non possono essere
compitati né, tantomeno, letti.
Per ritrovare un impianto fondato su segni portatori di un senso meramente
visivo e disposti con grande gusto grafico sulla pagina bianca come, ad
esempio, quelli presenti sui rotoli di carta lucida di Tulumello, si può cercare
tra le tele realizzate da Paul De Vree tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del
decennio successivo: specialmente in quelle (come Revolutie del 1968, Ode à
Stockholm del 1970 o Demain une vie nouvelle del ’71) in cui il grande artista
fiammingo rompeva l’ordine sequenziale delle parole nel tentativo di preparare
il campo a uno spazio anticonvenzionale e di lotta che mirasse a rivoluzionare
i sistemi estetici e comunicativi del tempo. Quella carica politica antiborghese
(che in De Vree non è, comunque, mai del tutto mirata alla semplice
purificazione formale del linguaggio), allora così pronunciata, non è
ovviamente presente nei lavori di Tulumello ma, sempre in quegli anni, le
scritture bianche di Mark Tobey, le prove di nuova scrittura (di Roberto
Comini, ma non solo) e, in particolare, i pittogrammi di Franco Verdi (o anche
le onde dell’artista veronese) si prestano a chiarire meglio i concetti che l’artista
di Montedoro ha desunto da quella stagione così feconda della poesia concreta
e visiva, filtrandoli nella sua proposta.
Ora, Tulumello individua un elemento visuale primigenio (un segmento
lineare, un ordito a maglie, un tratteggio, una partitura, un supporto da srotolare,
di Liegi − viene generalmente accostata a quella del movimento denominato
Scuola di Caltanissetta che comprende Calogero Barba, Lillo Giuliana,
Michele Lambo, Giuseppina Riggi, Salvatore Salamone, Franco Spena e,
appunto, Tulumello. Sulla Scuola gli interventi più articolati sono stati prodotti
da Francesco Carbone; più di recente, è possibile far riferimento a A. Gerbino
(a cura di), Incipit per un ritratto di gruppo, Caltanissetta: Qal’At Arte
Contemporanea, 2004, catalogo che include i ritratti autobiografici degli artisti
e un’antologia della critica (con testimonianze di Aldo Gerbino, Vinny
Scorsone, del già citato Carbone e di altri).
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AGOSTINO TULUMELLO
una cancellatura, una lettera o un numero) che, scelto come detto per la sua
elementarità, possa rinviare a uno spazio di creazione sovrasemiotico e
semicosciente all’interno del quale si preparano le relazioni tra gli elementi, le
gradazioni pittoriche, la prospettiva: è come se, prima di mettersi davvero
all’opera, l’artista riconoscesse l’incomparabile ricchezza espressiva e
linguistica che dispone il segno sulla tela e decidesse di comunicare la matrice
(semplice e, a un tempo, complessa, ovvia e ottusa) di tale assunto. In questo
modo, l’immagine che ne deriva deve essere letta in senso contrario rispetto a
quello seguito da De Vree o da Verdi: se questi muovevano verso l’al di là della
parola, per corromperne la norma in forme nuove e inusitate o contestare il
sistema sociale che la accoglie e la usa, Tulumello resta al di qua, sulle prime
soglie del verbale. Tuttavia, non si trattiene nel vuoto o nel silenzio: la sua opera
dà conto già di un pieno indicibile, brulicante, crepitante, dal quale, di tanto in
tanto, iniziano a riconoscersi alcuni elementi che poi precipiteranno nella
figurazione. Mediante l’agglutinazione di simboli si perviene alla composizione
dell’immagine, seguendo una catena fluttuante dei significati da scegliere o da
ignorare. Dunque, il processo semiotico di genesi di qualsiasi linguaggio (non
soltanto di quello pittorico o poetico) comincia proprio nel luogo digitale che
mostra Tulumello, laddove gli interventi delimitanti e repressivi operati dalla
retorica non sono ancora né visibili, né attivi. Si tratta, così, di un processo
semiotico che si concentra sul negativo del linguaggio cogliendolo nel
momento in cui non è sottoposto ancora alle privazioni e alle cancellature che
ne impregnano il livello intellegibile: si potrebbe parlare di un territorio
oggettivo ma, come si è già ribadito, privo di oggetti, privo di resto, e allora
virtuale e del tutto innocente.3
Si ha l’impressione, per di più, che Tulumello abbia intenzione di mostrare
la genesi anche di quei processi semiotici che falliscono, ovvero di quelli che
non producono alcuna immagine, alcun oggetto-segno, perché ad essi se ne
sono preferiti altri. È ovvio che degli effetti di questa preferenza non è dato
sapere, dato che gli elementi usati da Tulumello (o, se si vuole, le funzioni
strutturali che recupera) non sono ancora polarizzati: essi, infatti, sono colti
prima dell’attimo in cui tra di essi si inserisce quel tratto di discontinuità che li
reifica e li sottrae definitivamente a quel mondo del senso totale, dotato di un
paradigma a tal punto condensato.
3
Nell’Ovvio e l’ottuso, Roland Barthes parla della lettera dell’immagine, del
primo grado dell’intellegibile: al di qua di esso − precisa, usando
un’espressione che può essere mutuata dal nostro discorso – “il lettore
percepirebbe solamente linee, forme e colori” (R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso.
Saggi critici III [1982], trad. di C. Benincasa, G. Bottiroli, G.P. Caprettini, D.
De Agostini, L. Lonzi, G. Mariotti, Torino, Einaudi, 1985, p. 32).
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Tutte le unità figurative presignificanti sono poste sullo stesso piano e
considerate come i dati bruti dell’attività produttrice. Tulumello ottiene un
effetto di condensazione sottoponendo queste unità a dispositivi di
coordinazione e di ricorsività che, reiterati all’infinito, non segnano il verso di
una espansione; danno luogo, bensì, a una totalità integrale, una grandezza
intera colta nella sua indivisibilità. Questa totalità costituisce il punto di
intersezione delle catene associative, il posto di raccolta delle energie creative
(e anche di quelle inconsce). Così, la condensazione copre l’intero percorso
creativo fino a tracimare nell’opera stessa, finendo per mostrare esplicitamente
tutte le forze che partecipano simultaneamente alla sua formazione. Insomma,
la grande sfida perseguita con continuità da Tulumello non consiste nel
contestare il modo in cui il linguaggio viene utilizzato; piuttosto, si pone come
obiettivo quello di mostrarne la struttura primordiale, il reticolo della semiosi
che conduce il suo progetto artistico sino a quel grado di condensazione.
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