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Anno XXXIII, n. 1
RIVISTA DI STUDI ITALIANI
Giugno 2015
CONTRIBUTI
INGANNARE LA MORTE
UN’IPOTESI DI LETTURA DI UN RACCONTO (E DI UN LIBRO)
DI PIERO CHIARA
ALBERTO BRAMBILLA
Université Paris-Sorbonne
Feigenbaum, seit wie lange schon ists mir bedeutend,
wie du die Blüte beinah ganz überschlägst
und hinein in die zeitig entschlossene Frucht,
ungerühmt, drängst dein reines Geheimnis1.
N
on molto tempo fa, con l’intento di partecipare attivamente alle
celebrazioni per il centenario della nascita di Piero Chiara (19131986), ho raccolto in un volumetto alcuni suoi scritti – di varia misura
e valore, e generati da occasioni diverse –, tutti consacrati al ciclismo2. Non è
impossibile che dal mare magnum delle pubblicazioni dello scrittore luinese, e
in particolare dalle collaborazioni giornalistiche – solo in parte schedate e
dunque foriere di piacevoli sorprese – emergano in futuro altri articoli su
questo medesimo tema, apparentemente stravagante rispetto al mondo
narrativo di Chiara, a cui tuttavia egli è stato particolarmente sensibile.
Dall’antologia ciclistica che ho appena ricordato avevo comunque
volutamente escluso (e più avanti cercherò di dimostrare il perché di tale
scelta) uno scritto di Chiara, al cui interno compariva il ricordo della tragica
morte di Ottavio Bottecchia (1894-1927), ciclista che ebbe modo di scontrarsi
con Alfredo Binda (1902-1986), come si sa uno dei ‘miti’ sportivi (e non solo)
di Chiara, sulle polverose strade del Giro d’Italia3.
1
È l’incipit della VI delle Duineser Elegien di Rainer Maria Rilke; la
traduzione italiana di Franco Rella dice: “Da tanto, ormai, albero del fico, è un
segno per me / come tu quasi salti del tutto la fioritura / e nel frutto maturato a
stagione / senza lode insinui il tuo puro segreto” (Elegie duinesi, Milano:
Rizzoli, 1994, p. 75).
2
P. Chiara, Lo Zanzi il Binda ed altre storie su due ruote, a cura di Alberto
Brambilla, Busto Arsizio:, Nomos, 2013.
3
P. Chiara, “Lo scapaccione di Binda. Il sacrario di Gimondi”, Il Guerin
Sportivo, 3 novembre 1969, p. 3 (poi riproposto, con poche varianti, in Così
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In effetti Bottecchia può essere annoverato tra i grandi campioni del
ciclismo europeo, in quanto primo italiano in grado di conquistare, dopo il
secondo posto del 1923, due Tour de France consecutivi, nel biennio 19241925, uno dei quali indossando la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa.
Egli nasce a San Martino di Colle Umberto (in provincia di Treviso, ma poco
distante da Pordenone, tant’è che egli spesso è definito ‘il friulano’) da una
famiglia numerosa e povera: Ottavio è chiamato così appunto perché è
l’ottavo nato della famiglia, composta dai genitori da cinque maschi e tre
femmine. Partecipa alla Prima Guerra Mondiale come bersagliere ciclista,
ottenendo la medaglia di bronzo al valore militare; ma per sfamare sé e la
propria famiglia è costretto ad emigrare nel 1919 in Francia, a ClermontFerrand, dove lavora come muratore, incominciando durante il tempo libero
ad appassionarsi alle fatiche sportive4. Incomincerà però tardi la carriera di
ciclista professionista, trovando in un altro varesino, Luigi Ganna (18831957)5 una guida autorevole.
Una storia questa, se vogliamo, analoga a quella di Binda, costretto ad
emigrare a Nizza6; e in un certo senso paragonabile a quella di Chiara stesso,
che diciassettenne abbandona nell’autunno del 1930 Luino per raggiungere
anch’egli Nizza, dove troverà qualche lavoro di fortuna in attesa di trasferirsi
a Parigi via Lione7. In quest’ottica dunque Bottecchia rappresenterebbe non
tanto il campione di ciclismo, ma piuttosto l’ennesima variante del topos,
quasi un’ossessione per Chiara, dell’uomo che per fare fortuna deve
abbandonare le proprie radici; ma poi, una volta raggiunto il successo, è come
finisce la gloria?, compreso nell’antologia Racconti dello sport, a cura di
Giuseppe Brunamontini, Milano: Mondadori, 1972, pp. 79-88); Id., “Quando
vegliai il riposo di Binda”, Corriere della Sera, 29 dicembre 1982, poi
raccolto in 40 storie negli elzeviri del “Corriere” con il titolo Il campione,
Milano: Mondadori, pp. 243-248.
4
Ricavo questi dati biografici dal bel libro di P. Facchinetti, Bottecchia, il
forzato della strada, Portogruaro: Ediciclo, 2005.
5
Cfr. C. Gregori, Luigi Ganna. Il romanzo del vincitore del primo Giro
d’Italia del 1909, Cassina de’ Pecchi: Edit Vallardi, 2009.
6
Cfr. La testa e i garun. Alfredo Binda si confessa a Duilio Chiaradia, a
cura di Giancarlo Pauletto, Portogruaro: Ediciclo, 1998; Alfredo Binda. Le
immagini, a cura di Giancarlo Pauletto, Portogruaro: Ediciclo, 1999; Alfredo
Binda. Cento anni di un mito del ciclismo, a cura di Angelo Zomegnan,
Milano: Giorgio Mondadori, 2002.
7
Attingo queste notizie biografiche dalla Cronologia inserita nel volume P.
Chiara, Racconti, a cura e con un saggio introduttivo di Mauro Novelli,
Milano: Mondadori, 2007, XLVII-XCII (a cui rinvio anche per la bibliografia
di e su Chiara).
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costretto a ritornare nell’amato-odiato paese natio per raccontare (agli altri e
soprattutto a se stesso) la sua esperienza. Da qui forse discende la volontà di
inserire Bottecchia in un racconto, forzando molto alcuni dati relativi alla
tragica fine del ciclista.
Questa spiegazione, sia pure ragionevole, non convince del tutto e stimola
analisi più raffinate. In particolare Chiara parla di Bottecchia nel racconto Che
tempi, che fichi, compreso nella raccolta Il capostazione di Casalino e altri 15
racconti (Mondadori 1986, pp.104-112), e a quanto sembra mai anticipato in
altra sede8. Va subito aggiunto che Chiara allestisce quest’ultima raccolta,
andata in stampa nel febbraio 1986, quando è ormai da tempo gravemente
ammalato, e dunque essa assume per lui (e, di riflesso, per noi) un rilievo
particolare. Essa può essere letta come un viaggio nel tempo e nello spazio e
ancora di più come una sorta di sintesi narrativa dei temi a lungo frequentati
dall’autore, e insieme disperato tentativo di allontanare l’ombra della morte
attraverso l’azione corroborante del lavoro, ossia del raccontare, nel solco de
Le mille e una notte e del prediletto Decameron. Del resto lo stesso Chiara
aveva confessato in un’intervista il carattere di tale silloge, da lui composta
nel periodo peggiore di questo mio ultimo anno, stentavo a riprendermi, da
un serio intervento chirurgico e stavo molto male. Tre o quattro racconti li
avevo già, ma gli altri li ho scritti ad uno a uno come i capitoli di un
romanzo e ne è nato un libro che giudico diverso dagli altri. Via via che
scrivevo affidavo ai miei personaggi l’ultimo senso della mia vita9.
8
Cfr. le Notizie sui testi contenute in P. Chiara, Racconti, cit., pp. 1706-1714,
che non segnala alcuna precedente redazione di riferimento; Che tempi, che
fichi sarà poi inserito nell’antologia scolastica, Fatti e misfatti, presentata da
Federico Roncoroni (Mondadori, 1988). La ripartizione interna del testo,
nonché l’inserimento di parti didascaliche, accompagnate da riferimenti
botanici ed altri dati specifici fanno pensare ad una destinazione in ambito
scientifico, così da fare supporre una possibile pubblicazione in qualche sede
insolita ancora da individuare.
9
Cito dall’importante Introduzione di Giovanni Tesio all’edizione Oscar
(1988) de Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti. Il testo
dell’intervista (di Tesio a Chiara) era apparso il 29 marzo 1986 su Tuttolibri,
con il titolo Incontro con lo scrittore ricordi e progetti. E ora scriverò un
delitto.
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Che tempi, che fichi partecipa in modo esemplare, e allo stesso tempo
problematico, di questa singolare condizione della raccolta, virando spesso
anche in una dimensione in qualche modo ‘autobiografica’, non priva tuttavia
di significati supplementari che vale la pena di indagare.
Il testo si presenta con un’architettura come al solito ben congegnata, e
tuttavia piuttosto insolita rispetto alla classica forma-racconto di cui Chiara è
stato indubbio maestro. In esso sembrano infatti voler convivere come delle
esigenze diverse sul piano dei contenuti, con una diretta conseguenza sul
genere racconto, che risulta come modificato rispetto alla sua struttura
tradizionale. Superficialmente lo scritto potrebbe infatti essere considerato
come una sorta di brillante divertissement sul tema del “fico”, da intendersi
come è ovvio in primis come frutto, e tuttavia, trattandosi di Chiara, non privo
di un evidente carica ambigua ed allusiva10. In effetti si tratta di qualcosa di
diverso, ossia di un testo composito che contiene in sé più soluzioni narrative,
e tuttavia collegate come perle di una stessa collana. Da questo specifico
punto di vista esso sembra perciò riassumere esemplarmente quella che
sembra essere una caratteristica dell’intera raccolta, che infatti è così definita
nei risvolti editoriali (suggeriti o almeno sorvegliati da Chiara) della
sovraccoperta:
Sedici racconti che, visti da vicino, rivelano una straordinaria varietà di
temi, di ambienti, di figure; e, visti da lontano, danno una sensazione
insolita di unità […]. Nella difficile arte del racconto Chiara è sempre stato
un maestro: e ne offre anche in questa raccolta una prova luminosa.
Giocando su diversi registri, della memoria storica e della nostalgia
personale, dell’aneddoto malizioso e piccante e dello scorcio di costume,
della maschera e del carattere, egli ottiene dalla discontinuità dei racconti
una affabile continuità narrativa; il senso malinconico della labilità del
tempo si sovrappone a quello cronologico della Storia: e ne viene così
intensificato il dono più prezioso di Chiara, che è quello di trasformare
un’Italia provinciale nell’Italia di sempre e i personaggi di una umanità
minore nella umanità in cui ci riconosciamo.
10
Che è del resto ben presente nella tradizione letteraria italiana: Cfr. V.
Boggione - G. Casalegno, Dizionario storico del lessico erotico italiano.
Metafore, eufemismi, oscenità, doppi sensi, parole dotte e parole basse in
otto secoli di letteratura italiana, Milano: Longanesi, 1996, che molto deve
a J. Toscan, Le carnaval du langage. Le lexique érotique des poètes de
l’équivoque de Burchiello à Marino, Lille: Presse Universitaire, 1981, 4
Voll.
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Dopo queste schermaglie è tempo di affrontare direttamente il testo, che si
apre con una serie di immagini che coinvolgono l’allora bambino Piero, anzi,
meglio, Pierino. Il racconto autobiografico, come al solito introdotto da una
precisa marca cronologica (“un pomeriggio d’autunno del 1917, dovevano
essere gli ultimi giorni di ottobre”) è all’inizio ambientato a Luino, nel
“magazzino e deposito di ombrelli e cappelli” appartenente allo zio materno
Pietro, e prende le mosse dall’osservazione della copertina della Domenica
del Corriere in cui domina un’illustrazione di Achille Beltrame che descrive i
momenti fortemente drammatici seguiti alla disfatta di Caporetto. A tale
disgrazia nazionale allude con preoccupazione la madre di Pierino, Virginia
Maffei, timorosa che le “truppe austro-tedesche” possano dilagare nella
pianura, raggiungendo così anche la Lombardia. Ad allontanare madre e figlio
da “quei tristi pensieri” giunge però il Vallerani, un postino amico del padre
che entra nel magazzino per offrire dei fichi “tardivi […], i più saporiti quelli
con la goccia”, da lui rubati nei dintorni di Luino. Incoraggiato dalla madre a
gustare quel frutto, Piero ha finalmente occasione di assaggiare per la prima
volta nella sua vita un fico. Tale fatto, in sé di poca rilevanza, a poco a poco
da una specie di gioco si trasforma in una vera e propria esperienza
conoscitiva (“da allora seppi che esisteva un fico”), quasi una prova di forza
con le connotazioni di un rito di passaggio11, dove sono forse da ritrovarsi
anche dei riferimenti biblici)12, ed ha una conclusione amara, quanto insolita.
11
A dire il vero più adolescenziale che legato all’infanzia, visto che Pierino ha
solo 4 anni. Ma, come si vedrà meglio più avanti, il racconto propone un uso
del tempo ‘dinamico’, sia sul versante narrativo che in quello autobiografico.
12
Penso naturalmente ai passi della Genesi relative all’albero della
conoscenza del Bene e del male. Come è noto il termine latino pomus fu
tradotto in mela, ma esso può indicare genericamente il frutto di una pianta, in
primis il fico. Per altro non si dimentichi che il ficus ruminalis (ossia che
allatta, da ruma, mammella) fu, secondo il mito della fondazione di Roma,
l’albero di fico selvatico nei pressi del Tevere sotto il quale Romolo e Remo
furono allattati dalla lupa; da qui il valore sacrale del ficus nella tradizione
latina. Nella cultura giudaico cristiana, invece, il fico, in qualità appunto di
“albero che allatta”, assunse una connotazione simbolica legata al desiderio e
alla tentazione, e quindi di un passaggio dallo stato di grazia a quello di colpa
(collegandosi così, per analogia, anche all’albero dell’Eden). Ancora diversa,
ma ugualmente problematica, è la presenza del fico nei Vangeli (si pensi in
particolare al passo presente in Marco, 11, vv.12 e segg. che si conclude con
la maledizione di Gesù che rinsecchisce il fico).
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Pierino rimane infatti molto deluso tanto da decidere di non mangiare mai più
fichi, adducendo per altro delle spiegazioni piuttosto strane:
Decisi che non avrei più mangiato fichi, tanto più che, andato via il
Vallerani, avevo avuto la tentazione di palpare quelli che stavano sul
banco: mi era sembrato di toccare dei rospi, delle rane o altro animale del
genere, come la salamandra o il lumacone, tutte bestiole che mio padre,
portandomi a spasso nei boschi e per le campagne, mi aveva fatto
osservare.
Mi sentivo, a proposito del fico, indispettito anche per il fatto di averlo
conosciuto così tardi e in maniera innaturale: sul bancone del magazzino e
non sulla sua pianta, nel suo ambiente, tra altri alberi da frutto, dove mi
sarebbe apparso meno subdolo e insinuante, meno adescatore.
È sin troppo facile scivolare qui in interpretazioni relative alla sfera sessuale,
insistendo su più o meno esplicite espressioni metaforiche che, con un’abile
deformazione del tempo qui proiettato al futuro, sembrano suggerire
l’iniziazione di Piero all’amore carnale13. È lo stesso Chiara che, adottando
una tecnica consueta nei suoi scritti, subito dopo aver proposto tale invito
percorre un’altra via, distraendo in tal modo il lettore:
Che dire poi di mia madre, che aveva dato tanta importanza a quei quattro
fichi, quando aveva sotto gli occhi la Domenica del Corriere con tutta
quella povera gente in fuga? E del Vallerani, che non aveva neppure
degnato d’uno sguardo l’illustrazione, occupato com’era a presentarci i
suoi fichi?
Come a voler affermare che sono sì importanti le vicende personali, ma
esistono catastrofi di ben più larga portata; e occorre fare i conti piuttosto con
la Storia che con le miserie personali. E tuttavia lo scritto non termina qui, e
non assume dunque il valore di un vero e proprio apologo morale.
Distinta anche graficamente da uno spazio supplementare (e sarà così anche
per le sezioni successive), si apre infatti una seconda parte del testo, in cui è
ora lo scrittore Piero a prendere la parola. Qui lo scritto che sin da subito
sembra assumere una prospettiva diversa, quasi da elegante dissertazione, sia
13
E qui forse inconsciamente il pensiero va ad un altro racconto di Chiara,
intitolato Il fico sull’incudine (inserito nel volume Le corna del diavolo ed
altri racconti, Milano: Mondadori, 1977), dove non è assente tale
dimensione.
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pure inizialmente svolta nel segno della preterizione (“Trattare del fico,
considerarlo nelle sue varietà, secco, cotto al forno, mandorlato o impastato
nei dolci siciliani, non fu mai cosa che anche dopo destasse in me il minimo
interesse. Neppure al famoso fico di Smirne” … etc.). Esplicita è invece la
riflessione seguente, che riguarda prima le scarse qualità estetiche della pianta
di fico e poi la denuncia della sua ‘pericolosità’ e della sua “sinistra
influenza”. Per avvalorare le sue tesi, Chiara introduce prima l’esempio
evangelico di Giuda (che “dopo il tradimento, si sarebbe appeso a un fico”) e,
sorprendentemente, quello più recente che vede appunto come protagonista lo
sfortunato Ottavio Bottecchia14. E tuttavia, se per tratteggiare il suicidio di
Giuda era stato sufficiente un semplice accenno, ora Chiara si sofferma a
raccontare con dovizia di dettagli la tragica morte del famoso ciclista,
introducendo così nel testo una lunga digressione narrativa, che vale la pena di
riprodurre:
Della sua sinistra influenza si hanno prove anche ai nostri tempi. Per
esempio, il famoso corridore ciclista Ottavio Bottecchia, e chi non ricorda
il Bottecchia che aveva vinto due Giri di Francia nel 1924 e nel 1925?
ebbe il suo destino segnato dal fico. Nel 1927, quando aveva trentatré anni
e riposava sui suoi allori al paese nativo di san Martin del Colle vicino a
Pordenone, un giorno, girando per le campagne vide un albero carico di
bei fichi maturi. Credendosi protetto dalla sua fama, si fece sotto l’albero e
cominciò a mangiare quei fichi come fossero suoi. Il contadino, che
essendo tempo d’uva e di fichi, vigilava in un pagliaio con a portata di
mano uno schioppo, vide il Bottecchia e lo riconobbe. L’avrebbe certo
rispettato, se verso di lui, che in paese si dedicava non poco alle donne,
non avesse nutrito un serio rancore come marito di una giovane che il
campione aveva insidiato non senza buon esito. Puntò la doppietta e fece
partire un colpo, forse diretto alle gambe, ma che riuscì un po’ più alto e
freddò il Bottecchia sotto la pianta, con un fico in bocca e l’altro in mano.
Evidentemente qui Chiara si fa un poco prendere la mano dalla potenzialità
narrativa dell’episodio, che interpreta a suo modo; ciò che gli preme è la
possibilità di inserirlo nel suo discorso dimostrativo vertente sulla pericolosità
14
Il passaggio dall’uno all’altro esempio è forse suggerito da un’analogia
sottile: Bottecchia muore, come Gesù Cristo (a cui ovviamente rinvia la
citazione di Giuda) a trentatré anni (per la precisioni li avrebbe compiuti il 1°
agosto 1927, un mese e mezzo dopo la sua morte).
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del fico. In effetti, nonostante la registrazione di dati reali (il luogo di nascita,
l’età di Bottecchia, gli anni delle sue due vittorie al Tour), le modalità e le
cause della morte di Bottecchia devono molto alla pura invenzione15. Tali
forzature, sebbene giustificabili dal contesto generale, lasciano un po’
perplessi, perlomeno sul piano meramente sportivo, e invitano a cercare forse
in quest’episodio dei significati supplementari, che in gran parte ancora
sfuggono.
Ma non affrettiamo le conclusioni perché il racconto ha ancora molto da
dirci, se non altro nella sua struttura complessiva, di cui dobbiamo proseguire
la descrizione. Segue infatti una terza parte, la più breve, che all’inizio è
ancora di impostazione didascalico-informativa (“Pare che di fichi se ne
producano più di tre milioni di quintali l’anno. Dalla Persia alle Canarie il fico
è presente in tutta la zona nella quale si è svolta la civiltà umana”…); essa,
con un mutamento di prospettiva a cui Chiara ci ha abituati, torna in seguito
ad assumere un taglio autobiografico (con l’autore che confessa di aver fatto
“pace” con il fico, riprendendo a mangiarlo, “ma mai quando fosse stato colto
da altri”), mentre nel finale ritorna l’intreccio allusivo tra botanica ed altre più
piacevoli esperienze (“Dovevo staccarlo con le mie mani dai rami salendo
sulle piante, osservandolo bene fin sotto al rigonfio dove ha un brutto buco
[…] poi aprirlo […] dopo averne ispezionato l’interno lo mangiavo, staccando
coi denti la polpa dalla buccia e cercando di non insozzarmi le labbra”).
L’ultima sezione del racconto – come visto strutturalmente composito, con
un effetto quasi ‘a fisarmonica’, soprattutto sul piano cronologico della
narrazione, che si dilata in continuazione, così come muta la presenza e la
voce dell’autore – si apre con la descrizione del padre di Chiara, ormai
pensionato, che realizza il desiderio di possedere una piccola proprietà in cui
trovano spazio “vari alberi da frutto, una vigna e due piante di fichi: una della
varietà detta “Brogiotto” e l’altra della varietà detta “Fracazzano”16. Chiara
15
Basterà qui ricordare che Bottecchia è trovato agonizzante la mattina del 3
giugno 1927 (non era dunque tempo né d’uva né di fichi, al massimo di
ciliegie) sul ciglio della strada in località Peonis, frazione di Trasaghis (vicino
a Gemona), con la bicicletta a fianco. Trasportato all’ospedale di Gemona
morirà dopo qualche giorno, ossia il 15 giugno, in seguito alle numerose ferite
(non di arma da fuoco) riportate, in particolare alla testa. Molti indizi fanno
dunque pensare ad un incidente, forse causato da un malore, anche se non
sono mancate altre interpretazioni, tra cui una delle più deboli sembra riferirsi
al delitto passionale, ipotesi che ovviamente ha invece attratto Chiara. In ogni
caso, nessuno ha mai parlato di fichi.
16
Le due varietà qui menzionate sono scientificamente ineccepibili; in
particolare la botanica registra due tipi di fico denominato fracazzano, quello
bianco e quello rosso, mentre preferisce usare la definizione di brogiotto nero.
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precisa che la proprietà paterna confinava con una grande villa “abitata da
famiglie svizzere”, appartenenti alla ristretta comunità elvetica luinese, di cui
egli non manca di tessere l’elogio, non senza ironia. La narrazione continua
prendendo spunto ancora dalla presenza di alcuni alberi di fico cresciuti
proprio al confine delle due proprietà:
Proprio addossato al muro, e forse con le stesse radici del nostro fico
brogiotto, sorgeva al di là del muro quella che si dice una ficaia o un
ficheto, cioè un gruppo di tronchi coronati da rami che passavano dalla
nostra parte, così come i rami del nostro fico passavano da quella degli
svizzeri.
Spesso, scendendo dalla mia pianta, dalla quale ero passato di ramo in ramo
all’altra che mi sembrava portasse frutti migliori, domandavo a mio padre
quale delle due avesse dato origine all’intero gruppo.
La risposta del padre (“non si sa”) lascia il figlio nel dubbio, ma non
interrompe le sue incursioni in direzione del fico cresciuto nel giardino della
villa accanto. Proprio a causa di questi sconfinamenti nell’altrui proprietà
Piero (che appare come un adolescente), colto sul fatto, viene un giorno
“gentilmente” invitato da uno dei giovani figli del proprietario svizzero “a non
servirsi dei suoi fichi”. La reazione di Piero è immediata quanto violenta:
Mortificato, e non potendogli rispondere non solo perché avevo la bocca
piena, ma anche perché non trovavo argomento che valesse, presi un
grosso fico ben maturo che mi pendeva davanti al naso e glielo scagliai
addosso colpendolo in pieno petto. Il giovanetto, che era un signore oltre
che uno svizzero, indossava una camicia di seta bianca perfettamente
stirata, forse appena messa, perché era mattina. Con quel fico spiaccicato
sul petto se ne andò in silenzio verso la villa e non si fece più vedere.
Muta poi di nuovo la dimensione temporale, spostata in avanti di ben
cinquant’anni. Chiara infatti rincontrerà, a Losanna, quel giovane svizzero,
che nel frattempo era “diventato un medico di grande fama”, e a lui chiederà
di essere visitato. Il luminare lo giudicherà “ancora buono per la vita”, e
l’improvvisato paziente non saprà fare altro che citare il passato incidente
luinese. Lungi dall’offendersi per quella “villania”, il medico lo ringrazierà
per avergli ridonato attraverso il suo ricordo quello che egli giudica
(utilizzando anch’egli un’espressione biblica) il “perduto paradiso”,
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esemplarmente rappresentato dal “cielo sempre sereno dell’infanzia, in un bel
paese di lago e di colline”.
L’ultima parte del testo, formata da poche righe, contiene una sorta di
considerazione finale dell’autore, che in qualche modo cerca di legare le
vicende umane e quelle naturali, rappresentate nel corso dell’intero testo
dall’emblema ‘fico’, non a caso definito ambiguamente come “individuo”:
Sono passati tanti anni da quei tempi, da quei fichi. Sulla scena del mondo
si sono viste ben altre apparizioni, ma il fico ancora occhieggia e si fa
presente, individuo ben caratterizzato che in bene o in male ha sempre
fatto la sua parte tra i vegetali e gli uomini.
Si conclude così questo testo composito, che a dire il vero pare contenere
troppe cose, cercando di armonizzare intenti comunicativi (e dunque generi)
troppo diversi. In primo luogo esso sembra impegnato, con non poche
difficoltà, a racchiudere nel giro di poche pagine l’intera esistenza di Chiara, o
almeno un lunghissimo periodo, dall’infanzia (Pierino nel 1917, quanto si
apre il racconto, ha 4 anni) sino alla tarda maturità con l’ombra incalzante
della malattia, sebbene allontanata dal responso del medico. Ugualmente è
rappresentato l’ambiente familiare in cui è vissuto Chiara, con la presenza
della madre, del padre e dello zio. Non manca poi l’omaggio ai luoghi della
formazione del protagonista, a cominciare da Luino, le colline, il lago, il
confine (con il rapporto strettissimo con la Svizzera, quasi una seconda terra
richiamata dalla metafora del fico che nasce da una parte all’altra del muro,
così da avere radici indistinte). In questo senso si comprende anche la
presenza per molti versi non richiesta e un po’ forzata, di Bottecchia, esule in
Francia, ma nato sul confine tra Veneto e Friuli (e infine residente a
Pordenone), quindi ghiotta occasione per richiamare altri due luoghi
importanti per la biografia di Chiara (che come noto esordì
nell’Amministrazione giudiziaria lavorando in alcune sedi vicine al confine
orientale, e poi in particolare a Cividale). Luoghi, si diceva, a cui sono
ovviamente strettamente collegate le opere di Chiara, quelle legate
all’ambiente lacustre in primis, ma anche quelle che riportano a Parigi (Il
cappotto di astrakan), o all’ambiente giuliano (Vedrò Singapore?).
Ma che tutto ciò sia contenuto in un testo che a prima vista appare leggero, a
cominciare dal titolo (che rinvia ad una semplice nostalgia d’antàn e induce a
facili allusioni sessuali), risulta ancora difficile da riconoscere. E dunque Che
tempi, che fichi appare ancora oggi, per molti aspetti, un testo enigmatico.
Esso perciò invita a molte considerazioni, e ad ipotesi interpretative che,
come è ovvio, tentino di superare la veste esteriore, a partire dal significato
speciale che l’autore stesso dichiara di attribuire all’intera raccolta Il
capostazione di Casalino e altri 15 racconti. In questa particolare prospettiva
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forse il testo sin qui analizzato può rappresentare una sorta di emblema, o, se
vogliamo, può essere considerato il capitolo centrale17 del “romanzo” che
Chiara ha costruito alla ricerca dell’ultimo senso della sua vita18. Come tale
esso sembra nutrirsi di due pulsioni contraddittorie ma complementari: da un
lato si propone dunque come il bilancio di un’esistenza pienamente vissuta
che tuttavia sta volgendo verso la fine (accelerata dalla presenza della
malattia); dall’altro, mette in atto una funzione esorcistica attraverso la forma
salvifica del racconto, in perfetto stile Decameron. Mentre dunque Chiara stila
una sorta di testamento (che presuppone la fine di un’esperienza),
contemporaneamente vuole a tutti i costi, allontanare la morte attraverso la
celebrazione e la ricapitolazione della vita vissuta.
Alla luce di queste ipotesi, la scelta di usare un frutto – così ambiguo e,
come visto, così carico di significati – come il fico può forse non apparire del
tutto fuori luogo. E magari anche la citazione che abbiamo collocato in esergo
del nostro scritto può in qualche modo trovare una giustificazione, visto che
Rilke, attraverso l’exemplum del fico (che come noto salta la fioritura
passando direttamente alla formazione del frutto) vuole appunto concentrare
la sua profonda riflessione sull’inesorabile scorrere del tempo, tra eroica
pienezza della gioventù (di cui Bottecchia, morto a trentatré anni diviene il
simbolo) e sterile maturità dell’uomo; dunque, ancora una volta, sulla paura
della morte, e sul disperato desiderio di riempire di significati tale vuoto:
... Wir aber verweilen,
ach, uns rühmt es zu blühn, und ins verspätete Innre
unserer endlichen Frucht gehn wir verraten hinein.
Wenigen steigt so stark der Andrang des Handelns,
17
Per altro anche la sua collocazione all’interno della raccolta (in settima
posizione su sedici pezzi) sembra autorizzare quest’ipotesi di centralità, oltre
che di mise en abyme rispetto al macrotesto della raccolta.
18
Così anche il titolo del racconto che dà è esteso all’intera silloge, a parte il
tono scherzoso, ma non privo di malinconia, può rinviare al tema cruciale
della stazione, insieme fine ed inizio di un viaggio. In questo senso credo che
vadano lette anche altre opere scritte o progettate da Chiara nell’ultimo
periodo della sua vita; a cominciare ovviamente da Saluti notturni dal passo
della Cisa (Mondadori, 1987), apparso a due mesi dalla morte, dove ancora è
presente il mistero del viaggio; su tutto ciò, cfr. A. Brambilla, Segni sui
margini. Con Piero Chiara e i suoi libri, Macerata: Biblohaus, 2013, in
particolare le pp. 187-198.
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ALBERTO BRAMBILLA
daß sie schon anstehn und glühn in der Fülle des Herzens,
wenn die Verführung zum Blühn wie gelinderte Nachtluft
ihnen die Jugend des Munds, ihnen die Lider berührt:
Helden vielleicht und den frühe Hinüberbestimmten,
denen der gärtnernde Tod anders die Adern verbiegt19.
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19
Ecco la traduzione italiana di Franco Rella: “Ma noi, ahimè, indugiamo /
nella gloria della fioritura, e nella tardata intimità / del nostro frutto alla fine
penetriamo traditi. / A pochi urge tanto la spinta all’agire / da essere pronti ad
ardere verso la pienezza del cuore / se la seduzione al fiorire, come dolce
soffio notturno, / alita sulla giovane bocca e sulle palpebre: /gli eroi, forse, o
quelli subito destinati a trapassare, / che ad essi il giardiniere La Morte
diversamente curva le vene”.
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