A GENOVA IL MUGUGNO E` LIBERO In questo

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A GENOVA IL MUGUGNO E` LIBERO In questo
A GENOVA IL MUGUGNO E’ LIBERO
In questo racconto il narratore è Matteo, tredicenne all’epoca dei fatti, che sceglie di condividere con i
lettori alcuni aneddoti della sua vita familiare.
Il vero protagonista della storia è il nonno che, nonostante il carattere burbero, riesce a far breccia nel
cuore del ragazzo e ad instaurare con lui un rapporto profondo.
Sarà proprio nonno Vittorio colui che, con i suoi ricordi e le sue esperienze di vita strettamente legate alla
sua città, riuscirà ad instillare in Matteo il desiderio di conoscere meglio Genova.
“Conoscere” Genova sarà per il ragazzo non soltanto un’esperienza sensoriale, connessa a immagini,
gusti e profumi, ma anche e soprattutto, la scoperta di alcuni aspetti della città inerenti la storia e le
tradizioni.
I momenti condivisi con il nonno porteranno Matteo a capire e soddisfare l’intimo desiderio dell’anziano
di trasferire in lui l’amore per Genova e l’orgoglio di farne parte.
Il racconto si chiude con un’espressione della fantasia di Matteo, che, dopo qualche anno, immagina il
nonno, ormai morto, esprimersi con la stessa battuta, tipicamente genovese, con la quale lo conosciamo
all’inizio della storia e che, non a caso, è il titolo del racconto stesso.
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“Cos’hai sempre da mugugnare, papà?!”
Questa era la domanda che, puntualmente, la mamma faceva al nonno quando lo sentiva borbottare
sottovoce durante la sua quotidiana lettura de “Il Secolo XIX” e la risposta era sempre la stessa:
“A Genova il mugugno è libero!”
Io, che li ascoltavo dalla mia camera, non capivo quel botta e risposta che terminava sempre in una risata
da parte di entrambi, ma non avevo il coraggio di intervenire e chiedere spiegazioni.
Non avevo tanta confidenza con nonno Vittorio, forse proprio a causa del suo carattere un po’ burbero o
forse perché pensavo di essere ancora troppo piccolo per potergli fare domande intelligenti.
Era ormai quasi un anno che il nonno viveva con noi, da quando nonna era morta, e il dolore che ancora
vedevo nei suoi occhi quando ne parlavamo, non faceva che aumentare in me la convinzione che
quell’uomo avesse cose ben più serie a cui pensare che conversare col nipotino tredicenne.
Quel giorno, però, non so cosa scattò dentro di me che mi fece correre in cucina, gridando: “Ma si può
sapere cosa vuol dire, nonno?”
Nonno Vittorio alzò gli occhi dal giornale e mi guardò con un misto di gioia e stupore. A pensarci adesso,
dopo qualche anno, credo che, fino ad allora, anche lui avesse pensato che la conversazione con un
vecchio di quasi ottant’anni, legato a ricordi ed esperienze di un mondo che non esisteva più, non potesse
interessare ad un ragazzino che trascorreva le sue giornate tra scuola, amici e il suo “compiutter”, come lo
chiamava lui.
Dopo aver ben ripiegato “Il Secolo XIX”, iniziò a spiegarmi che, tanto, tanto tempo fa, i marinai genovesi
potevano scegliere fra due opzioni di ingaggio: “senza mugugno” o “con diritto di mugugno”.
Il primo era più vantaggioso economicamente, l’altro però dava la libertà di poter lavorare brontolando
su tutto ciò che ti faceva arrabbiare e la cosa più strana, data la proverbiale tirchieria dei genovesi, era che
la maggior parte dei marinai sceglieva il secondo tipo di contratto.
Ricordo, a proposito, come si arrabbiava il nonno quando, in qualche programma televisivo, si diceva che
i genovesi sono avari.
“Noi non siamo avari, non ci piace cacciare via le palànche!” diceva sempre, con quella sua parlata a
metà fra italiano e genovese, che faceva tanto ridere nonna Luisa.
Mancava a tutti Nonna Luisa. Al nonno, che aveva condiviso con lei le gioie e i dolori di quasi
cinquant’anni di vita coniugale; a mamma che tutte le mattine, mentre rifaceva il letto alla bell’e meglio
(come tutte le mamme che in mezz’ora, prima di correre al lavoro, devono fare diecimila cose….),
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ricordava la cura con cui nonna faceva la stessa cosa e sentiva spuntare una lacrima; a me, che, tutte le
volte che pensavo alla mia nonna, non potevo fare a meno di associare il suo ricordo ad un profumo
meraviglioso che sentivo nella sua cucina tutte le domeniche, quando andavamo a pranzo a casa sua: il
profumo del pesto.
“Che profummin de baxaicò!” diceva il nonno, entrando nella stanza in cui nonna Luisa stava per iniziare
quel rito domenicale che non avrei voluto perdere per niente al mondo.
Ricordo ancora lo sguardo inorridito che nonna rivolse a mamma quella domenica in cui ebbe l’ardire di
dirle: “Ma mamma, perché non lo triti il basilico e poi butti tutto nel frullatore e in cinque minuti è tutto
pronto?! Intanto è uguale!”
“Non è uguale!”, avrei voluto rispondere a mamma, perché, con tutto il rispetto, il pesto di nonna era
proprio un’altra cosa!
“ A Genova il pesto si prepara col mortaio e non parliamone più!”, rispondeva un po’ divertita e un po’
seccata, mentre io mi apprestavo ad osservare i suoi gesti esperti mentre, col pestello, faceva in modo che
le foglie di basilico si disfacessero pian piano contro le pareti del mortaio insieme all’aglio. Poi, a poco a
poco, aggiungeva il parmigiano e continuava ad amalgamare il tutto.
Mancava ancora quello che nonna chiamava “il nostro oro” : l’olio della Riviera Ligure.
E con quel termine “nostro” dimostrava tutto l’attaccamento alla sua terra e l’amore per quella splendida
parte di Riviera di Ponente, da Imperia a Ventimiglia, dove gli oliveti si arrampicano verso i ripidi rilievi
dell’entroterra e dove solo il sacrificio e la passione dei nostri olivicoltori permette di affrontare territori
scoscesi e produrre quello che nonna Luisa, giustamente, chiamava “oro”.
Fu proprio durante un pranzo domenicale che ebbi la netta sensazione che il rapporto fra me e il nonno
stesse cambiando.
Stavo infatti approfittando dell’atmosfera allegra che, nonostante la mancanza della nonna, regnava in
casa alla domenica, per chiedere a mamma e papà il permesso di comprarmi l’ennesimo paio di jeans,
ovviamente di nota marca americana, quando il nonno disse : “Lo sai Matteo che se Genova non fosse
esistita, non ti potresti comprare i tuoi bei calzoni americani?”
“Dai. nonno” – replicai io – “lo so che per te Genova è la più importante città del mondo, ma credo che
questa volta tu l’abbia sparata grossa!”
Allora nonno Vittorio mi spiegò che “blue jeans” vuol dire “blu di Genova”, nome con il quale veniva
indicato un tipo di tela molto resistente di colore blu, che nel 1500 veniva utilizzato sulle navi genovesi
per le vele e per la copertura delle merci.
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Col tempo, la robustezza di questo tessuto la rese ideale per la fabbricazione di comodi e resistenti calzoni
da lavoro indossati dai marinai genovesi.
“Lo sai che se li metteva anche Garibaldi? Se non ci credi, va’ a vedere sul tuo “compiutter” !”
Non vedevo l’ora che il pranzo finisse per andare a verificare se il nonno avesse detto la verità o se si
fosse preso gioco di me. Non appena i grandi mi diedero il permesso, mi collegai a Internet e ricordo
ancora il mio stupore quando vidi sullo schermo una riproduzione della battaglia di Marsala, in cui
Garibaldi indossava un paio di ……jeans, realmente non troppo diversi da quelli che io e i miei coetanei
credevamo “un’invenzione americana”.
Ormai estremamente incuriosito e, perché no, inorgoglito da ciò che il nonno mi aveva fatto scoprire,
continuai a “navigare”, fino a scoprire una cosa per me pazzesca!
“Nonno, vieni a vedere!” - gridai – e , quando arrivò nella mia stanza, guardammo insieme le immagini
di alcune tele del 1538 esposte nel Museo Diocesano di Genova, che rappresentavano alcune scene della
Passione di Cristo, realizzate su tele blu in fibra di lino tinte con l’indaco, praticamente ….su tele di jeans.
“Ah, questa proprio non la sapevo! Non si è mai troppo vecchi per imparare!” esclamò nonno Vittorio e
fu proprio in quel momento che capii che la sua esperienza e la mia curiosità sarebbero stati fondamentali
per far crescere in me, giorno dopo giorno, l’orgoglio di appartenere ad una grande città, ricca di storia,
cultura e tradizioni.
Più passava il tempo e più il mio rapporto col nonno diventava sempre più importante; a tal punto che non
erano rare le occasioni in cui abbandonavo i miei videogiochi per mettermi a chiacchierare con lui.
Il nonno aveva una grande passione: il mare.
Infatti nonno Vittorio era un pescatore. Poteva passare ore a raccontare le sue mille avventure e, mentre
parlava, capivo che per lui la pesca non era stata semplicemente un modo per poter “portare soldi a casa”,
ma era diventata parte essenziale della sua stessa vita.
Quando mi descriveva la sua barchetta con la quale partiva da Boccadasse tutte le volte che il mare glielo
permetteva, leggevo nei suoi occhi un tale orgoglio, che credo non avessero nemmeno gli ammiragli sulle
enormi e splendide galee genovesi ai tempi della Repubblica Marinara.
Infatti, fino ad allora, quando pensavo a Genova e al suo mare, vedevo immagini di battaglie epiche, dove
i nostri antenati combattevano strenuamente per ottenere il predominio; vedevo Giuseppe Garibaldi
partire dalle nostre coste per affrontare una delle più grandi imprese della storia italiana; vedevo il nostro
porto, da sempre cuore pulsante della città, dove salpano e arrivano i meravigliosi transatlantici pieni di
turisti.
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Ma l’amore con cui il nonno mi parlava della sua vita, mi fece capire che gli uomini di mare genovesi non
erano solo i grandi eroi o esploratori della storia, ma anche tutti quelli, come lui, che tutti i giorni
affrontavano quel lunatico amico blu con le loro piccole imbarcazioni.
Ecco perché, in un bellissimo pomeriggio primaverile, chiesi al nonno di portarmi a Boccadasse a
mangiare un gelato. Il nonno accettò volentieri di accompagnarmi nello scorcio di Genova che,
sicuramente, evocava in lui i più bei ricordi e le più vivide emozioni.
Come promesso, non appena arrivati, mi portò in gelateria e, mentre attendevamo il nostro turno, mi
rivelò che, negli anni Sessanta, quella era stata una delle prime gelaterie in Italia a produrre gelato
artigianale per tutto l’anno.
Quando uscii dal negozio e diedi un’occhiata a ciò che mi circondava, mi resi conto che la presenza del
nonno rendeva tutto un po’ speciale. Era come se vedessi questo piccolo borgo per la prima volta, forse
perché lo guardavo con gli occhi “innamorati” di nonno Vittorio.
Ci sedemmo insieme sul muretto a godere della bellezza della baia, della piccola spiaggia e delle casette
colorate addossate le une alle altre; il nonno mi indicò alcune finestre delle case dove abitavano alcuni
suoi vecchi amici pescatori e, per ognuno di loro, aveva un aneddoto da raccontare.
Ad un tratto si avvicinò ad un piccolo gozzo bianco e verde e incominciò ad accarezzarlo teneramente; mi
spiegò che assomigliava moltissimo a quella che, per tanti anni, era stata la sua compagna d’avventure e
non potè fare a meno di commuoversi.
Riprendemmo la nostra passeggiata ed il nonno mi mostrò un negozio, che, fino a pochi anni prima, era
stata la bottega del maestro d’ascia Lallo, un abilissimo artigiano che costruiva le barche in legno per
pescatori. Più di una volta il nonno aveva avuto bisogno degli utili consigli e interventi di quell’uomo,
che era parte integrante della vita del borgo.
Iniziammo ad arrampicarci per gli stretti viottoli, dove l’odore del mare si mischiava a quello della
biancheria stesa ad asciugare sulle corde tirate da una casa all’altra e, all’improvviso, nonostante fossi
solo un ragazzino, mi sentii parte di quell’incantevole parte di Genova, che, forse più di altre, mantiene
intatta nel tempo la sua magica atmosfera.
Prima di tornare a casa, il nonno mi portò sulla piazzetta della chiesa e mi fece scoprire una targa, dove il
poeta genovese Edoardo Firpo esprimeva in pochi versi in genovese l’amore per Boccadasse.
Il nonno mi tradusse quelle parole, spiegandomi che il poeta, tutte le volte che si rifugiava qui, uscendo
dal caos della città, aveva l’impressione di tornare nella culla o di ritrovare il caldo e confortevole
abbraccio della sua mamma.
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Credo che anche il nonno si sentisse così ogni volta che veniva qui e, da quel giorno, anche per me
Boccadasse è molto più che un posto dove incontrare gli amici nelle calde giornate estive.
Fu proprio durante un pomeriggio estivo che, grazie ai ricordi del nonno, venni a conoscenza di una
pagina importante della storia genovese, che i libri di scuola sfiorano appena, ma che, secondo me, è
testimonianza concreta del carattere indomito di noi genovesi, da sempre poco propensi ad accettare le
ingiustizie e a farsi sottomettere da altri.
Il nonno, quel pomeriggio, era intento a mettere ordine in quella parte della nostra libreria che mamma e
papà avevano messo a sua disposizione quando era venuto a vivere con noi.
Stava “mugugnando”, come al solito, perché non trovava un suo vecchio album di foto, che, giurava e
spergiurava, era sempre stato in quello scaffale!
Sperando di far cessare quell’estenuante brontolio, mi offersi di aiutarlo nella ricerca e, in effetti,
trovammo quell’album in mezzo ai libri di ricette della mamma, che, neanche a dirlo, venne puntualmente
redarguita dal nonno. Ovviamente mamma si guardò bene dal dire a suo padre che non vi era certezza di
come l’album fosse finito lì, altrimenti i “mugugni” sarebbero proseguiti fino a notte inoltrata!
Iniziai così a sfogliare “il motivo del contendere” e il mio occhio curioso si soffermò su una piccola foto
ingiallita in cui erano immortalati alcuni ragazzini in divisa in posa militare. Chiesi al nonno chi fossero
quei bambini e lui, indicandomene uno in particolare, : “Questo è tuo nonno insieme ad altri compagni
quando eravamo dei Balilla”.
Capì subito dal mio sguardo che la spiegazione non era sufficiente e allora iniziò a raccontarmi che,
durante il periodo fascista, i ragazzi fra gli otto e i 14 anni facevano parte dell’Opera nazionale Balilla,
istituita per l’educazione fisica e morale dei giovani.
“Scommetto che non sai neanche chi è Balilla!” mi disse con quel suo tono un po’ burbero, che ancora mi
metteva soggezione e non mi fu facile riconoscere che non ne sapevo un granchè.
“Hai presente dove oggi c’è il Tribunale?” - incominciò il suo racconto - “E’ quella la zona dove si svolse
questa storia.”
E’ il quartiere di Portoria, dove oggi ci sono grattacieli ed importanti edifici pubblici, ma che, un tempo,
era fatto di vicoli ripidi e stretti. L’anno è il 1746, periodo buio e difficile per i Genovesi, che si vedono
privati della loro indipendenza, soggiogati da un nemico straniero: l’Austria.
In questo clima di rabbia e di scontento, esattamente il 5 dicembre, un gruppo di soldati austriaci stava
trascinando un pesante mortaio per la via di Portoria. A causa dell’eccessivo peso il mortaio sprofondò e i
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soldati intimarono alla gente del posto di aiutarli, brandendo i bastoni per far capire che quella non era
una richiesta, ma un ordine.
Fu proprio in quel momento - continuò il nonno – che un ragazzino, un balilla, appunto, raccogliendo un
sasso dalla strada, gridò: “Che l’inse?” ossia “La comincio?” e, senza aspettare la risposta dei suoi
concittadini, scagliò quella pietra contro un ufficiale austriaco.
Fu l’inizio della rivolta: le pietre diventarono dieci, trenta, cento e gli Austriaci dovettero arrendersi alla
furia del popolo.
Fu proprio questo che mi colpì di questo evento. Il trionfo sull’invasore non fu opera di soldati ben
addestrati, ma di facchini, pescivendoli, mercanti; gente umile, di poca cultura, ma con in comune un
sentimento nobilissimo: l’amore per la propria città, il forte senso di appartenenza alla propria terra, che li
faceva diventare forti, orgogliosi e sprezzanti del pericolo.
E credo fosse proprio ciò che il nonno mi aveva voluto insegnare con il suo racconto, perché, nei suoi
occhi, mi sembrava di rivedere lo stesso amore e lo stesso orgoglio di quei genovesi che a Portoria, più di
duecento anni fa, si erano resi protagonisti della storia.
L’estate finì e, come sempre, in un battibaleno, arrivò il periodo dell’anno che più mi piaceva: Natale.
Adoravo l’atmosfera natalizia e non vedevo l’ora che arrivasse il momento di preparare l’albero di Natale
e il presepe. Questa attività coinvolgeva tutta la famiglia, ma, quell’anno, c’era anche il nonno a casa con
noi e, sinceramente, non ero sicuro che un tale brontolone avrebbe partecipato a quello che, per me e per i
miei genitori, era un vero e proprio rito.
Fu la mamma a “sondare il terreno”, chiedendo a nonno Vittorio un aiuto per gli addobbi natalizi.
Ovviamente la prima risposta fu: “Non è lavoro per me. Ho le mani troppo grosse e rischio di rompere
qualcosa!”, ma, quando vide la scatola di cartone piena di statuine d’ogni tipo, non seppe resistere alla
tentazione di tornare bambino e, chino sul tavolino del salotto da sempre dedicato all’allestimento del
presepe, iniziò a disporre con cura pastori e pecorelle, finchè, a lavoro ultimato, esclamò: “Non sarà
quello della Madonnetta, però è bello!”
Avevo sentito parlare di questo famoso presepe genovese, ma non avevo mai avuto l’occasione di
visitarlo. Il nonno si offrì di accompagnarmi e così, la domenica successiva, andammo insieme al
Santuario della Madonnetta.
Appena entrato nella stanza che ospita il Presepe, capii al primo sguardo perché il nonno ne avesse
parlato con tanta ammirazione. Infatti non è solo un opera d’arte con statuine del ‘700 finemente
agghindate con i vestiti dell’epoca, ma è la rappresentazione stessa di Genova che fa da sfondo al tema
della Natività.
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Fu proprio il nonno a svelarmi i segreti di quell’ambientazione; la Val Bisagno, Ponte S:Agata e, nella
parte centrale, il centro storico: Porta Soprana, Sottoripa, Piazza Banchi, Palazzo San Giorgio e, in
lontananza, il simbolo di Genova, la Lanterna.
Proseguendo questo viaggio nella Genova settecentesca, ecco apparire le creuze che si inerpicano sulle
alture, fino al Santuario della Madonnetta, per poi giungere alla stalla della Natività, dove i pastori
rendono omaggio a Gesù bambino e all’arrivo dei Re Magi a Betlemme.
Rimasi letteralmente affascinato dalle scene di vita quotidiana rappresentate così magistralmente; pastori
che si accordano per la vendita del bestiame, donne e uomini del popolo intenti a vendere le loro
mercanzie, nobili genovesi intenti a passeggiare e a conversare amabilmente lungo le strade e perfino…..
il presepe nel presepe! Sì, perché fra i banchi colmi di verdure di ogni tipo e di pesci appena pescati, mi
colpì quello su cui una vecchina aveva messo in vendita decine e decine di statuine del presepe!
Non riuscivo a staccare gli occhi da quelle meraviglie; guardavo e riguardavo le stesse scene, ma, ogni
volta, mi accorgevo che mi era sfuggito qualche dettaglio: l’omino col cappello col suo cesto colmo di
uova fresche, la testa di un maiale appesa davanti alla macelleria, la donna che offre ai passanti le sue
caldarroste fumanti, l’eleganza raffinata di un nobiluomo e ancora e ancora……
Non so quanto tempo trascorremmo ad ammirare il Presepe; ricordo però che, quando uscimmo, il nonno
mi portò in Spianata Castelletto.
“Quello che hai visto è tutto vero ed è la tua città!” mi disse, mentre io riconoscevo strade e palazzi che
avevo visto poco prima in miniatura e, in quella frase, riconobbi ancora una volta quanto fosse importante
per lui infondermi il grande amore che aveva per Genova.
Eh sì, tutte le grandi passioni che avevano contraddistinto la vita di nonno Vittorio erano
indissolubilmente legate alla sua città: nonna Luisa, genovese “doc” come lui, il mare, che, da sempre, è
parte integrante di Genova e …… il Genoa!
“Rosso come l’amore, blu come il mare” diceva sempre, annodandosi la sciarpa rossoblu, pronto per
andare allo stadio. La sua passione calcistica andava ben al di là del risultato domenicale; era un amore “a
prescindere” , diceva lui, un legame indissolubile per quella maglia, quello stemma, indipendentemente
dai nomi dei tanti giocatori che il nonno aveva visto correre al Ferraris.
Per lui, sventolare la bandiera nelle tante trasferte che aveva fatto in gioventù non era solo “tifo”, ma era
portare Genova stessa in giro per l’Italia. Infatti lo stemma del Genoa racchiude due simboli importanti
della città: il Grifone e la Croce di San Giorgio.
Ricordo che, per stuzzicare il suo orgoglio, una volta gli dissi: “Ma che Genova e Genova! Il Genoa è
stato fondato dagli Inglesi nel 1893 !!”
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“Questo dimostra come, già allora, Genova fosse una città importante apprezzata in tutta Europa !!!!”
rispondeva il nonno, aggiungendo un epiteto nei miei riguardi, rigorosamente in genovese, che credo sia
meglio non riportare……
Del resto nonno Vittorio aveva pienamente ragione. Anche il Genoa fa parte senz’altro della storia e della
tradizione della mia città e le splendide coreografie che i tifosi preparano ogni anno, in occasione del
derby cittadino, hanno sempre fatto riferimento non solo alla squadra, ma anche, con simboli o frasi, al
profondo legame esistente fra questa e la città intera.
Certo è che Genova non sarebbe la stessa se non esistesse “l’altra metà del cielo”, la Sampdoria.
La rivalità calcistica fra le due tifoserie è senz’altro una pietra miliare della vita genovese, come la
focaccia al mattino e la pasta al pesto a pranzo……. Certo, si può vivere anche senza, ma, chi sa di cosa
sto parlando, ne capisce l’importanza!!!
E’ passato qualche anno da tutto quello che ho raccontato finora. Io sono cresciuto e il nonno non mi è più
accanto. Di una cosa però sono sicuro, anzi di due! La prima è che stia approfittando della situazione per
ammirare la sua, anzi la nostra Genova dall’alto. La seconda è che, senz’altro, abbia trovato anche lì
qualche motivo per brontolare e che, rispondendo a chi gliene abbia chiesto spiegazioni, abbia esclamato:
“ A Genova il mugugno è libero! “
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