Marta Garagnani - Parrocchia Santi Angeli Custodi

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Marta Garagnani - Parrocchia Santi Angeli Custodi
ALMA MATER STUDIORUM- UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA IN:
SVILUPPO E COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
TESI DI LAUREA IN
STORIA CONTEMPORANEA
Italia e Albania:
dall’Unione alla Cooperazione
CANDIDATO
RELATORE
Marta Garagnani
Prof. Giuseppe Maione
Anno Accademico 2011/2012
Sessione I
Indice
Introduzione
Perché l’Albania?..............................................................................................2
Qualche cenno sul nostro vicino d’oltremare....................................................4
L’Italia in tutto questo …...................................................................................6
Capitolo 1: Una lunga parentesi nell’antica storia di legami tra
Albania e Italia.
1.1 Gli antichi legami................................................................................................8
1.2 La presenza italiana in Albania: 1914-1943
1.2.1 1914-1939: Le relazioni con Re Zog...................................................9
1.2.2 1939-1943: L’Unione Italo-Albanese................................................13
1.3 Una parentesi lunga 50 anni: il Regime di Enver Hoxha....................................17
1.4 Il crollo del regime: Albanesi in Italia e Italiani in Albania...............................20
Capitolo 2: Gli anni ’90: anni di emergenza.
2.1. L’Operazione Pellicano. ....................................................................................23
2.2. La crisi delle Piramidi e l’operazione Alba. ......................................................27
2.3. Il consolidarsi della presenza Italiana in Albania. ............................................32
2.4. Il primo decennio di transizione: un successo o un fallimento? .......................37
Capitolo 3: L’Albania sulla strada dell’integrazione Europea.
3.1. I primi accordi di cooperazione e la nuova prospettiva allo sviluppo. .............48
3.2. Esempi di coordinamento e cooperazione decentrata:
la Strategia per il Nord dell’Albania e il PASARP. ................................................55
3.3. La sfida dell’Europa..........................................................................................61
Conclusioni..........................................................................................................70
Bibliografia e sitografia....................................................................................72
1
Introduzione
Perché l’Albania?
Il mio interesse per la storia dell’Albania è cresciuto nel tempo, di pari passo
con la voglia di comprendere il presente di questo Paese. Ogni viaggio in questa terra
straniera si è portato dietro tanti interrogativi. Da piccole osservazioni sono nate
grandi domande, che possono trovare risposta solo in una conoscenza più
approfondita delle vicende che hanno coinvolto il Paese nel corso del Ventesimo
secolo e soprattutto dell’ultimo ventennio. Un’analisi solo di lungo periodo
rischierebbe di rendere accettabile la storiografia più ortodossa, che ritiene il ritardo
Albanese rispetto al resto d’Europa una mera conseguenza dell’isolazionismo
durante il Regime Comunista di Enver Hoxha. E questa lettura pare più che riduttiva
a ventisette anni dalla sua morte e venti dal crollo del comunismo. Tuttavia,
trascurarla totalmente impedirebbe di comprendere il clima socio-culturale e le
difficoltà politico-economiche che hanno accompagnato la transizione albanese alla
democrazia negli anni Novanta e che la ostacolano ancor’oggi. Per questo ritengo
fondamentale associare il lungo al breve periodo.
Nello specifico, ho voluto cercare di capire perché palazzi enormi spuntano
come funghi e rimangono spesso incompiuti quando nessuno pensa a sistemare i
marciapiedi o chiudere i tombini; capire perché le crisi energetiche siano così
frequenti, e perché lo stesso collegamento alla rete elettrica avvenga spesso con
metodi fai-da-te. Mi sono chiesta come sia possibile che l’acqua corrente rappresenti
ancora un lusso in molti luoghi e come sia possibile che pochi contadini dispongano
di pozzi per irrigare. Volevo capire perché gli autobus partono solo quando sono
pieni o a mera discrezione dell’autista, e perché in alcune aree si impieghino anche
trenta minuti per fare solo due chilometri in macchina mentre esistono alcune
superstrade con lampioni ogni cinque metri. Come può una madre dover camminare
cinquanta minuti sotto il sole cocente di agosto con suo figlio di un anno e mezzo
malato per raggiungere una clinica dove il dottore forse quel giorno ha deciso di non
lavorare o di chiederle troppi lek, tanti da impedirle di far visitare il bambino? Come
si può distribuire un sussidio ai non possedenti terra se non esiste l’ombra di un
catasto degno di esser chiamato tale? Come può tutto questo avvenire a meno di 100
km dalla costa italiana, in un Paese dove circolano macchine nuove, non di rado con
2
targhe italiane, pieno di bar e locali e con cartelloni pubblicitari enormi che
sovrastano le strade?
Queste sono solo alcune delle tante osservazioni che mi hanno portata in un
primo momento ad identificare, poi ad approfondire nel corso della ricerca, le grandi
problematiche che riguardano la vita di molti Albanesi. Alcuni esempi di tematiche
sono la debolezza dello Stato, della sua amministrazione, del sistema giudiziario; la
presenza di corruzione; il forte radicamento di anomia sociale; la scarsità, o forse
sarebbe meglio dire lo spreco, delle risorse economiche e umane a disposizione, ed
anche degli aiuti ricevuti dalla donor community, sempre che essi siano stati ricevuti.
Problemi comuni a molti Paesi in via di sviluppo, e nei Paesi in via di transizione dal
comunismo alla democrazia e per questo di massima rilevanza. Ritengo che lo
studio della Storia sia il punto di partenza per spiegare il sorgere e permanere di
questi problemi e per tracciare peculiarità del caso Albanese rispetto ad altri Paesi
riguardo a quella che è una delle questioni alle fondamenta degli studi di sviluppo
politico e di transizione: la costruzione dello Stato democratico.
La bibliografia sui cinquant’anni di comunismo è abbastanza ricca e sono state
pubblicate varie analisi sulle cause della crisi delle Piramidi del 1997; mentre dopo
questo anno le fonti monografiche che offrono una visione integrale dello sviluppo
del Paese sono pressoché inesistenti, vista anche la scarsa distanza critica dagli
eventi. Vi è però un’ampia raccolta di dati e rapporti di varie istituzioni
internazionali e dello stesso governo Albanese, dai quali è possibile ricostruire
un’analisi grezza delle dinamiche interne al Paese. Consultando queste fonti ho
trovato risposte più o meno complete a molte delle mie domande. Altre sono invece
sorte, specialmente questioni attinenti alla politica interna ed estera: come impostare
la lotta alla corruzione? Se e quando avverrà l’integrazione in Europa, quali vantaggi
porterà? E soprattutto, nel corso della lettura, è maturato in me un interesse più
specifico: approfondire le relazioni tra il nostro Paese, l’Italia, e il nostro vicino
d’oltremare, l’Albania. E’ di questo argomento che andrò a scrivere con l’intento di
fornire una sintesi il più possibile ricca ed accurata, senza alcuna pretesa di
conclusioni esaustive, anzi, sperando di suscitare curiosità e tante altre domande,
stimolo per scoprire sempre di più questa terra tanto vicina.
3
Qualche cenno sul nostro vicino d’oltremare
Prima di entrare nel vivo della ricerca, credo sia utile fornire qualche notizia
sull’Albania odierna, giusto qualche dato per orientarsi meglio nella lettura delle
pagine che seguiranno, nelle quali molto altro dovrebbe svelarsi da sé. L’Albania,
Shqipëria in Albanese, che significa Paese delle Aquile e per questo da molti
chiamata tale, rimane tutt’oggi il Paese più povero d’Europa.1 Questo fatto permane
innegabilmente, anche se dai dati riportati nei Common Country Assessment della
Banca Mondiale negli ultimi anni, così come dai rapporti annuali dell’UNDP, è
evidente che la frazione di popolazione che vive sotto la poverty line è andata man
mano riducendosi nell’ultimo decennio.2 Quindi sicuramente un miglioramento,
anche se la strada è ancora lunga, c’è stato. In ogni caso è impossibile ignorare la
forte diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza e nello stile di vita soprattutto
tra aree urbane e aree rurali. Ed è importante a questo proposito evidenziare
l’importanza che hanno tutt’oggi le zone rurali nel Paese. Nonostante la popolazione
in aree urbane sia andata crescendo negli ultimi anni, si attesta comunque attorno al
50% sul totale, contro il quasi 70% della popolazione che in Italia vive in città. Ma
soprattutto ricordiamo che tutt’oggi il 40% della popolazione Albanese è impiegata
nel settore agricolo privato contro il 2% circa di Italiani.3 La mano d’opera è
fondamentale, come intuiamo osservando l’esiguo utilizzo dei trattori: solo il 3%
delle produzioni agricole, comprese quelle monofamiliari di sussistenza, fa uso di un
trattore! Metà della popolazione rimane quindi soggetta a livelli di sviluppo
mediamente molto bassi, con un livello di povertà estrema che nelle aree rurali
interessa tra il 4 e il 5% della popolazione. Questa misura è stimata però in base ai
soli consumi e si mantiene bassa grazie al fatto che molte famiglie hanno terreno e
animali sufficienti a mantenere un’economia di sussistenza (solo il 28% degli
agricoltori vende i propri prodotti sul mercato), mentre è intuitivo pensare che le
1
L’Albania è lo Stato europeo più povero se si guarda al PIL pro capite in PPA. Nell’elaborato non
preciserò, per evitare lunghe digressioni, i concetti retrostanti a quello di povertà o le varie teorie in
merito (ad esempio l’approccio delle capabilities di A. Sen), né la composizione degli indici utilizzati per
misurare lo stato di benessere o povertà di un Paese. Eurostat,
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/eurostat/home/, (accessed 02/04/2012)
2
La linea di povertà, già calcolata sul reddito medio albanese, equivale ad un ammontare di reddito
pro capite al mese di 50 $. Sono 12.4% le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà,
rispetto al 25.4% del 2002. E’ andata parimenti diminuendo anche la percentuale calcolata sulla base
dell’Indice Multidimensionale di Povertà. World Bank,
http://data.worldbank.org/indicator/SI.DST.04TH.20/countries/AL?display=graph, (accessed 03/02/12. )
3
ISTAT, Comunicato Stampa “Occupati e Disoccupati”, (1 aprile 2011)
http://www3.istat.it/salastampa/comunicati/in_calendario/occprov/20110401_00/testointegrale2011040
1.pdf
4
famiglie più numerose siano maggiormente suscettibili ad alti livelli di povertà.
Ricordo a tal proposito che una famiglia media coltiva meno di un ettaro.
La stessa misura di povertà estrema non attribuisce, proprio perché basata solo
sui consumi, un degno peso alla scarsa qualità dei servizi e al limitato spettro di
opportunità cui la popolazione può accedere. Difficile ignorare, specialmente quando
lo si testimonia di prima persona, le grandi difficoltà che permangono nella fruizione
di energia elettrica, acqua corrente e di cure mediche in alcuni villaggi. E questo
nonostante livello economico la crescita sia stata impressionante nell’ultimo
ventennio, con tassi di crescita che immediatamente dopo la crisi del 19974 si sono
ristabiliti intorno a una media del +6% annuo. A questa crescita si può attribuire
secondo le Istituzioni Finanziare Internazionali la maggior parte del merito relativo al
calo della povertà. La vera domanda da porsi è allora come mai questa crescita abbia
generato scarso sviluppo5 e in secondo luogo quanto essa sia sostenibile. Scinderne le
componenti è il metodo migliore per una prima valutazione di questa sostenibilità.
Indubbiamente ha giocato un ruolo determinante il divario relativo di partenza,
in maniera del tutto simile a ciò che era avvenuto in Italia negli anni Cinquanta con
l’inizio del boom economico. L’Albania dopo il crollo del comunismo ha potuto
sfruttare una grande disponibilità di manodopera oltre alle importazioni di tecnologie
e saperi già collaudati all’estero. Un’altra grande parte di questa crescita senza
sviluppo ha origine nelle rimesse degli immigrati e negli investimenti diretti ed
indiretti di imprese estere. Le rimesse, oltre a dipendere dalle congiunture
economiche internazionali, quindi attualmente ad esempio ridotte dalla crisi
economica che attraversa l’Europa, spesso vengono spese per consumi di
importazione e quindi non innescano un circolo virtuoso interno. Analogamente, gli
investimenti diretti esteri (IDE) procurano entrate immediate, ma non sono
sostenibili nel tempo in assenza di un’adeguata tassazione successiva sull’attività
delle imprese, sugli immobili o sui terreni, ... . Il sistema fiscale è in effetti uno degli
anelli più deboli dell’economia albanese come dimostra il fatto che contribuisca per
solo all’incirca il 20% alla composizione del PIL. Non potrebbe essere altrimenti
date la diffusione dell’evasione e la predominanza dell’economia informale; per non
4
In dettaglio nel capitolo 2.2.
Qui “crescita” ha significato strettamente economico di aumento della disponibilità di beni e servizi
per soddisfare il fabbisogno di una popolazione. Invece, il termine “sviluppo” evoca un concetto più
ampio. In particolare, vi è un riferimento implicito alla qualità della vita ed alla nozione di benessere. Si
potrebbe sostituire il termine con le sue versioni “aggettivate”: “sviluppo umano”, “sviluppo sostenibile”,
“sviluppo sociale”,… .
5
5
parlare della corruzione e della criminalità organizzata. La rapida crescita economica
in una prima fase si è nutrita anche di riforme strutturali, rivolte a ridistribuire le
risorse dai settori meno produttivi a quelli a maggiore produttività6, ma la crescita
che trae beneficio da queste riforme sta da tempo rallentando. Sicuramente c’è
ancora molto da fare per rendere la politica economica del Paese più sostenibile,
specialmente per ciò che riguarda il quadro istituzionale e gli investimenti in capitale
umano, che è non da ultimo indebolito da rilevanti fenomeni di brain drain.
L’Italia in tutto questo…
L’interesse dell’Italia per l’Albania è una costante nel corso del XX° Secolo,
ma si è andato evolvendo e concretizzando in legami molto diversi fra loro a seconda
del momento storico e di chi fossero le persone alla guida dei due Paesi. Di pari
passo si sono avuti cambiamenti anche nelle rispettive opinioni pubbliche,
nell’immaginario comune dei cittadini spesso molto (troppo?) influenzato dai media.
Tanto che pochi italiani, tutt’oggi, nonostante l’importante presenza di albanesi sul
territorio dello Stato e la fitta rete di rapporti tessuti storicamente, si sono mai
preoccupati di andare oltre gli stereotipi e i pregiudizi per conoscere meglio
l’Albania e gli albanesi e tanto meno di chiedersi perché l’Italia rappresenti ancora
un “sogno” per molti di essi.
Rispondere a questa mancanza è uno dei principali obiettivi di quest’elaborato.
Perciò, nel corso di un primo capitolo introduttivo, mi occuperò innanzitutto di
descrivere le origini dei rapporti tra gli abitanti dei territori dell’Italia e dell’Albania
odierne, per evidenziare come essi si siano sempre caratterizzati per spirito di
collaborazione e fratellanza, e con ciò abbiano gettato le basi per il consolidarsi di
una forte affinità culturale. In questa introduzione non potranno mancare accenni alla
controversa relazione tra i due Stati dal 1914 sino all’anno dell’occupazione militare
italiana, il 1939. Ed infine risulta doveroso parlare della politica perseguita dal
dittatore Enver Hoxha dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla sua morte nel
1985 per comprendere il corso successivo degli eventi.
Il secondo e il terzo capitolo saranno, invece, interamente dedicati agli anni
Novanta e Duemila e all’analisi della politica Italiana nei confronti dell’Albania
6
Si tratta della total factor productivity e la crescita da essa dipesa nel periodo 1993-2003, ha
contribuito al 6.14% della crescita media annuale del Pil reale. World Bank, Country Economic
Memorandum, 2004
6
rispettivamente nei primi anni dalla caduta del regime, caratterizzati da un
susseguirsi di emergenze, e nel secondo decennio di transizione, in cui il cardine
dell’agenda politica albanese è divenuto il processo di integrazione nell’Unione
Europea. L’analisi verterà in particolar modo sull’evoluzione delle iniziative di
Cooperazione allo Sviluppo.
7
Capitolo 1
Una lunga parentesi nell’antica storia di legami tra
Albania e Italia.
1.5 Gli antichi legami
I legami che intercorrono tra i due Stati risalgono ai tempi dell’Antica Roma.
Fu nel 168 a.C. che Roma riuscì a inglobare territori dell’attuale Albania come
provincia dell’Impero, conquistando le colonie greche del Sud e vincendo gli Illiri
che abitavano quelle terre circa dal 350 a.C. Fino al 395 d.C., anno della morte di
Teodosio e della scissione dell’Impero Romano in Impero d’Oriente e d’Occidente, i
territori albanesi rimasero provincia romana, per poi essere attribuiti all’Impero
d’Oriente. Nell’XI secolo, periodo fiorente delle Repubbliche Marinare, nuovi
intensi rapporti prevalentemente di tipo commerciale si instaurarono con la penisola
italiana, in particolare con Amalfi e Venezia. Si ebbero poi legami politici a partire
dal XIII secolo quando Manfredi sposò Elena, figlia di Michele II Angelo, despota
d’Epiro, la quale ebbe in dote città albanesi come Bérat, Durazzo e Valona. Questi
territori passarono successivamente, insieme al Regno di Sicilia, a Carlo d’Angiò e
così gli scambi economici e culturali non si interruppero nemmeno sotto la signoria
degli angioini. Nel XIV secolo Venezia fu chiamata da alcuni dinasti albanesi in
difesa dei loro territori contro la minaccia dei turchi ottomani provenienti dall’Asia
minore. L’avanzata dei turchi alla fine prevalse, ma spicca in questo periodo la
figura di Gjergj Kastrioti, detto Skanderbeg, considerato ancora oggi eroe nazionale
dell’Albania, tanto che gli è intitolata la piazza principale di Tirana. Infatti,
Skanderbeg resistette valorosamente ai turchi dal 1443 al 1467 , potendo contare
sull’aiuto di Venezia7, del Regno di Napoli e dei papi Pio II e Paolo II. Come
conseguenza dell’avanzata turca si ebbero le prime consistenti migrazioni di albanesi
in Italia. E’ in questo periodo che al Meridione nacquero le prime colonie di
arbëreshë, minoranza etnica albanese di lingua tosca8 storicamente residente in
7
Anche se i Dogi non seguirono una politica sempre amica: erano sempre pronti ad allearsi con i turchi
per ottenere in cambio dei privilegi commerciali.
8
La versione della lingua Albanese parlata al Sud dell’Albania.
8
Italia. L’emigrazione e la fondazione di comunità fu caratterizzata sin da questo
primo esodo dall’arruolamento degli uomini albanesi come soldati al servizio delle
diverse corti italiane, specialmente del Regno di Napoli, del Regno di Sicilia e della
Repubblica di Venezia. Per questo motivo nel corso del Rinascimento gli albanesi in
Italia continuarono a spostarsi a seconda delle alleanze contratte impedendo alla
conquista turca di porre termine ai legami culturali tra i due Paesi. L’invasione
ottomana fermò solo la diffusione del cattolicesimo, che dal XIII secolo aveva
costituito importanti ponti tra le sponde dell’Adriatico tramite la predicazione
soprattutto di frati missionari, e che riprese solo nel XVII secolo. La conversione
all’Islam provocò la fuga in Italia dei cattolici albanesi che furono tra i fondatori
delle comunità arbëreshë, creando un’ulteriore affinità culturale, in questo caso
confessionale, con la maggioranza italiana.9
1.6 La presenza italiana in Albania: 1914-1943
1.6.1
1914-1939: Le relazioni con Re Zog.
Alla fine della Guerra Balcanica del 1912-1913, a seguito della disgregazione
dell’Impero Ottomano, si tenne a Londra una Conferenza degli Ambasciatori che
decretò l’indipendenza di uno stato albanese sotto il controllo del principe tedesco
Guglielmo di Wied. La vita del principato però fu presto minacciata dai conflitti
interni fra i diversi centri di potere e dalla crisi internazionale che preparava il campo
allo scoppio della Prima Guerra Mondiale alla fine del giugno 1914. Il principe
fuggì, lasciandosi alle spalle una situazione sempre più instabile, favorevole alle mire
espansionistiche della Grecia. Questo cambio di vento non mancò di preoccupare il
Ministro degli Esteri Italiani, il marchese Antonio di San Giuliano, che in un primo
momento si era ben guardato dall’opporsi alla costituzione del Principato, una mossa
non certo accolta con simpatia dall’Austria-Ungheria. Tuttavia, nel nuovo scenario di
conflitto e con la caduta del principato, l’Italia non poteva sperare di mantenere con
le sue sole forze la propria influenza storica sulle coste meridionali dell’Albania,
un’influenza strategica per il controllo dell’accesso all’Adriatico data la vicinanza a
9
Trani, Silvia (a cura di), Ministero per i beni e le attività culturali , Dipartimento per i beni archivistici e
librari, Direzione generale per gli archivi L’Unione fra l’Albania e l’Italia Censimento delle fonti (19391945) conservate negli archivi pubblici e privati di Roma, Edimond s.r.l. , Città di Castello (PG), (2007):
pagine 70-71.
9
Brindisi. Pur avendo dichiarato la propria neutralità si accinse dunque a cercare un
accordo diplomatico con le Potenze dell’Intesa. Iniziò nell’agosto 1914 un negoziato.
L’Italia acconsentiva a una spartizione dell’Albania tra Grecia e Serbia in cambio del
riconoscimento della propria sovranità sul Trentino Alto-Adige e del controllo della
zona di Valona. Purtroppo, morto in ottobre il San Giuliano, il nuovo Ministro degli
Esteri decise di perseguire una politica più irruente. Il suo intento era conquistare la
sovranità vera e propria dell’Albania meridionale, ma ben lo mascherò con l’invio a
Valona di una missione umanitaria sanitaria giustificata come soccorso ai profughi
decimati da un’epidemia e dai massacri subiti per opera delle truppe greche. Così
l’Italia occupò Valona e l’Isola di Saseno, ottenendo inoltre l’aprile seguente un
protettorato su parte dell’Albania centrale. Il Governo italiano però non era ancora
del tutto soddisfatto e continuò a sognare il controllo sui confini pre-bellici del Paese.
Dal 1920, in base al Protocollo preliminare di Tirana10, le truppe italiane
dovevano abbandonare l’Albania, ma il 9 novembre 1921 la Conferenza degli
Ambasciatori, ignara dell’accordo, firmò la Dichiarazione sugli interessi Italiani in
Albania11 chiudendo la questione apertasi nel 1913 e riserbando all’Italia il diritto ad
intervenire in tutela dell’integrità territoriale e della stabilità politica. Sulla carta
l’Albania veniva riconosciuta quale Stato sovrano e indipendente, ma di fatto l’Italia
era molto vicina a raggiungere il suo sogno essendo legittimata ad intervenire ogni
qual volta lo ritenesse opportuno. Ad ostacolare l’assoluta presa di controllo sul
Paese da parte degli italiani fu solo il consolidarsi del movimento nazionalista
10
Istituto di Studi Giuridici Internazionali - Consiglio Nazionale delle Ricerche, Prassi italiana di diritto
internazionale, http://www.prassi.cnr.it/prassi/content.html?id=1119 , accessed 8/04/12.
11
«L'Empire britannique, la France, l'Italie et le Japon, Reconnaissant que l'indépendance de l'Albanie
ainsi que l'intégrité et l'inaliénabilité de ses frontières, telles qu'elles ont été fixées par leur Décision en
date du 9 novembre 1921, est une question d'importance internationale; Reconnaissant que la violation
des dites frontières, ou de l'indépendance de l'Albanie, pourrait constituer une menace pour la sécurité
stratégique de l'Italie, Sont convenus de ce qui suit: I. Au cas où l'Albanie se trouverait dans
l'impossibilité de maintenir son intégrité territoriale, elle aura la liberté d'adresser au Conseil de la
Société des Nations une demande d'assistance étrangère. II. Les Gouvernements de l'Empire
britannique, de la France, de l'Italie et du Japon décident, dans le cas susdit, de donner pour
instructions à leurs Représentants dans le Conseil de la Société des Nations, de recommander que la
restauration des frontières territoriales de l'Albanie soit confiée à l'Italie. III. En cas de menace contre
l'intégrité ou l'indépendance, aussi bien territoriale qu'économique, de l'Albanie du fait d'une agression
étrangère ou de tout autre événement, et au cas où l'Albanie n'aurait pas recours dans un délai
raisonnable à la faculté prévue à l'article I, les Gouvernements susdits feront connaître la situation qui
en résultera au Conseil de la Société des Nations. Au cas où une intervention serait jugée nécessaire
par le Conseil, les Gouvernements susdits donneront à leurs Représentants les instructions prévues à
l'article II. IV. Au cas où le Conseil de la Société des Nations déciderait, à la majorité, qu'une
intervention de sa part n'est pas utile, les Gouvernements susdits examineront la question à nouveau,
s'inspirant du principe contenu dans le préambule de cette Déclaration, à savoir que toutes
modifications des frontières de l'Albanie constituent un danger pour la sécurité stratégique de
l'Italie».(All. J a Conferenza Ambasciatori, CA 151, Parigi, 9 novembre 1921, ASE, CPV, 302)
Istituto di Studi Giuridici Internazionali - Consiglio Nazionale delle Ricerche, Prassi italiana di diritto
internazionale, http://www.prassi.cnr.it/prassi/content.html?id=2082, accessed 08/04/2012.
10
albanese che portò al potere nel dicembre 1921, con un colpo di stato, il colonnello
Ahmet Zogolli12, il quale divenne presto noto come Zogu e dal 1928 come Re Zog I.
Egli, divenuto protagonista della scena politica a seguito della Dichiarazione del 9
novembre, si ritrovava però sin da subito schiacciato tra il bisogno di aiuti e supporto
per far crescere il Paese e mantenere il potere13 ed il timore di un’eccessiva ingerenza
negli affari interni albanesi da parte del Governo Italiano. Una paura tra l’altro per
niente priva di fondamenta negli anni del fascismo e delle mire espansionistiche di
Mussolini.
Quest’ultimo ricreò di fatto un protettorato di Roma su Tirana, le cui tracce
sono tutt’oggi visibili in alcuni imponenti edifici della capitale come il Municipio, la
Banca Nazionale, la Presidenca. Con la concessione nel 1925 della Banca Nazionale
d’Albania a Roma, la fondazione della SVEA (Società per lo Sviluppo
dell’Economia Albanese) nello stesso anno, la firma del Patto quinquiennale di
amicizia e sicurezza nel 1926 e del Trattato di alleanza difensiva nel 1927, l’Albania
finì per apparire sempre più una colonia Italiana. Sicuramente però, Zogu non si
sentiva sottomesso a nessuno. L’Italia era a suo avviso un alleato meno pericoloso
della Grecia o della Jugoslavia e riteneva il denaro italiano semplicemente un
adeguato compenso per non ostacolare le azioni dell’Italia nei Balcani, ed anzi
difenderle fornendo informazioni sulla politica ottomana. Secondo Morozzo della
Rocca:
“Zog esemplifica, nelle relazioni con gli italiani, un agire tipico dell’albanese
dinanzi agli stranieri. E’ al tempo stesso amico e nemico, diffidente e poi
improvvisamente condiscendente, poco propenso a sentimenti di gratitudine, attento
a volgere a proprio favore i disegni del più forte interlocutore, convinto
interiormente di essere sempre in credito nel rapporto con l’altro, sicuro di non
subire condizionamenti superiori ai vantaggi prospettati. Il rapporto tra Zog e
l’Italia ha un valore paradigmatico, che illumina il rapporto tra albanesi e italiani
anche al di là dell’epoca tra le due guerre.” 14
Un bilancio dei vantaggi o dei condizionamenti ottenuti rispettivamente da
Zogu e Mussolini in questi anni rimane difficile da farsi. L’Italia beneficiò di
12
Il colonnello scelse il mese di dicembre, poiché conflitti interni tra Nord e Sud, una costante nella
storia albanese, rendevano il momento particolarmente propizio.
13
Nel 1924 proteste anti-zoghiste riuscirono persino a deporre Zog dalla presidenza per un periodo.
14
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.88
11
concessioni petrolifere15 e agricole, sfruttò i giacimenti minerari con grandi guadagni
in minerali metallici, ebbe eccezionali permessi per lo sfruttamento delle risorse
ittiche e forestali; ma contemporaneamente alla crescita dell’attività di enti e società
italiane nell’industria e nell’agricoltura, l’Albania beneficiava delle opere di bonifica
effettuate dall’EIAA (l’Ente industrie attività agrarie) e delle infrastrutture costruite
dalla SVEA ad esempio. Con gli accordi politici l’Italia incrementò sicuramente il
suo controllo, ma forniva anche esperti per riformare la struttura legislativa e
amministrativa dello Stato albanese. Ciò che è certo è che la seconda metà degli anni
Venti testimoniò il sorgere di forti basi culturali comuni, pensiamo ad esempio
all’elaborazione dei Codici giuridici ad imitazione di quelli Italiani16, e vide
l’intensificarsi della presenza italiana in tutti i settori della vita albanese. Il 1928, con
l’approvazione da parte del regime fascista della nuova Costituzione Monarchica con
cui Zogu diveniva Re Zog I d’Albania, segnò forse il culmine dei tentativi di
rafforzare i rapporti fra i due Stati. Questi si andarono infatti deteriorando dai primi
anni Trenta quando, a seguito della crisi finanziaria internazionale, Re Zog domandò
un prestito di non scarsa entità, che Mussolini gli concesse sperando di rinnovare il
Patto di amicizia e sicurezza del 1926. Tuttavia, quando Re Zog non restituì la prima
rata del prestito e Mussolini chiese in cambio la creazione di un’unione doganale,
non solo il monarca albanese respinse la proposta ma rifiutò anche di procedere alla
riconferma degli accordi politico-militari e mise in atto una politica anti-italiana,
guadagnandosi così l’invio di navi militari italiane sulle coste albanesi. Di fronte alla
15
Il 12 marzo e il 15 luglio 1925 vennero firmate, tra il Governo di Tirana e le Ferrovie dello Stato
italiano, due convenzioni in base alle quali le nostre Ferrovie ottennero il permesso per lo sfruttamento
di 164.000 ettari di terreno. Vedi Trani, Silvia (a cura di), Ministero per i beni e le attività culturali ,
Dipartimento per i beni archivistici e librari, Direzione generale per gli archivi L’Unione fra l’Albania e
l’Italia Censimento delle fonti (1939-1945) conservate negli archivi pubblici e privati di Roma, Edimond
s.r.l. , Città di Castello (PG), 2007:p.29.
16
Nel 1928, del nuovo codice penale avente come modello il codice Zanardelli del 1897.Il 1° aprile
1929 entrava in vigore il codice civile, il quale aveva come fonti giuridiche i codici civili italiano,
francese e svizzero. Anche il nuovo codice penale militare si basava sull’analogo codice italiano. Vedi
Trani, Silvia (a cura di), Ministero per i beni e le attività culturali , Dipartimento per i beni archivistici e
librari, Direzione generale per gli archivi L’Unione fra l’Albania e l’Italia Censimento delle fonti (19391945) conservate negli archivi pubblici e privati di Roma, Edimond s.r.l. , Città di Castello (PG) (2007):
pagine 32-33 .
“Le relazioni nel campo giuridico tra l'Albania e l'Italia sono centenarie e consolidate. L'Italia, che ha
dato alla civiltà mondiale alcuni dei fondamenti più importanti della giurisprudenza con il diritto romano,
ha tradizionalmente dato la sua esperienza nella legislazione passata e contemporanea albanese. Nel
fare riferimento ai nostri studiosi di giurisprudenza, le radici di questi rapporti si trovano nel Medioevo
con lo Statuto di Scutari del 1346. Questo statuto, considerato il più antico atto giuridico scoperto nel
territorio albanese, è stato redatto dagli avvocati veneziani. La cultura giuridica italiana è stata
trasmessa attraverso molti studiosi e giuristi albanesi formati nelle università italiane. Il noto giurista di
origine albanese (arbëresh) Terence Toci, laureato qui alla Sapienza, negli anni ‘20, ha pubblicato nel
1928 il "Diritto Penale Albanese" sulla base dell'esperienza italiana.” Dal Discorso dell'Ambasciatore
della Repubblica d'Albania S.E. il Signor Llesh Kola nella Giornata Italo-Albanofona: "L'Italia, l'Albania
e il Kosovo: esperienze socio-giuridiche a confronto", Università Sapienza, 26 maggio 2011.
12
minaccia, Re Zog allentò la sua ostilità, permettendo ai fascisti di esportare
gradualmente il proprio modello economico, politico e sociale. Nacque un Partito
Fascista Albanese, legato a quello del Duce, l’Italiano divenne lingua obbligatoria
nelle scuole. Le acque sembravano essersi calmate, ma i primi di aprile a seguito di
un messaggio di minaccia17 da parte di Mussolini, Re Zog fuggiva dal Paese, mentre
400,000 soldati Italiani appartenenti al corpo militare OMT (Oltremare Tirana)
sbarcavano in Albania. Era l’inizio di un vero e proprio periodo coloniale.
Agli Italiani del tempo, l’invasione militare è stata giustificata come l’unica via
per portare a civilizzazione l’Albania, che era detta sì “affascinante come un bazar”
ma che era anche risaputamente “arretrata” e “selvaggia”.18 Da molti è stata
comunemente interpretata puramente come parte della politica imperialista fascista,
come uno sfizio del Duce per non sentirsi inferiore al Fuhrer. Mentre alcuni storici e
giornalisti vi leggono anche la prova di un bilancio passivo dei guadagni ottenuti
dagli anni di alleanza con Re Zog, che avrebbe spinto all’occupazione totale per
recuperare le perdite degli investimenti e dei prestiti. Tuttavia, trarre conclusioni
sull’esito finale di questo “bilancio” rimane forse un po’ azzardato dato il contesto
del tempo quando, ad ogni mossa fatta alla luce del sole, già di per sé controversa
nella maggior parte dei casi, corrispondeva quasi sempre almeno una clausola
segreta.
1.6.2
1939-1943: L’Unione Italo-Albanese
I primi di aprile 1939 ad ogni modo Re Zog I abbandonava il Paese e pochi
giorni dopo la Corona d’Albania veniva offerta da un’Assemblea Costituente formata
da rappresentanti di ogni provincia albanese a Vittorio Emanuele III e ai suoi
discendenti. E’ da questo momento che ai titoli del Re, Re d’Italia e Imperatore
d’Etiopia, si aggiunse quello di Re d’Albania. Il Gran Consiglio del Fascismo già il
giorno seguente rendeva ufficiale il coronamento dell’Unione dei due popoli,
17
Ciano, nel suo discorso del 15aprile 1939, riporta un messaggio che il Duce stesso avrebbe inviato
al monarca albanese attraverso il Ministro Jacomoni:"La questione di una modificazione dei rapporti fra
l'Italia e l'Albania non è stata sollevata da me. Ma dal momento che è stata sollevata, deve essere
risolta nel senso di rafforzare l'alleanza fino ad accomunare nello stesso destino i due Stati e i due
popoli per garantire, soprattutto il pacifico progresso del popolo albanese. Invito Re Zog a considerare
che gli ho dato durante tredici anni prova sicura della mia amicizia; sono disposto a continuare nella
stessa linea di condotta, ma se ciò fosse inutile le conseguenze ricadrebbero su Re Zog". Vedi
Graziosi, Marcello, Le "Chiavi dell'Adriatico" I rapporti tra Italia ed Albania dall'inizio del secoloalla
Seconda guerra mondiale,(12.11.1997) articolo tratto da Il calendario del popolo e disponibile online
sul sito di Notizie Est.
18
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.93.
13
definendola “più profonda e definitiva” e promettendo “l’ordine, il rispetto di ogni
fede religiosa, il progresso civile, la giustizia sociale e, con la difesa delle frontiere
comuni, la pace”.19 Il primo accordo per suggellare queste intenzioni fu firmato a
Tirana il 20 aprile e stabiliva che “cittadini del Regno d’Albania in Italia e del Regno
d’Italia in Albania avrebbero goduto di tutti i diritti civili e politici di cui godevano
sul rispettivo territorio nazionale”.20 Il regio decreto del 18 aprile 1939, n. 624,
istituiva invece un Sottosegretariato di Stato per gli Affari Albanesi (SSAA), il primo
procedimento in palese “contrasto con l’affermazione dell’indipendenza albanese
più volte affermata dal Governo italiano”.21 E difatti il Segretariato con i suoi uffici
raggruppati nelle tre direzioni generali “Affari generali e politici”, “Affari economici
e opere pubbliche”, “Affari amministrativi e del personale”, divenne fino al 1941,
anno del suo scioglimento, un forte strumento di ingerenza italiana in territorio
albanese. Era in pratica quest’organo a guidare la Luogotenenza Generale di Tirana,
rappresentanza del Re in Albania ed è importante sottolineare a questo proposito che,
così come l’istituzione del SSAA, anche quella della Luogotenenza Generale aveva
costituito un provvedimento unilaterale, e che non vennero mai promulgate leggi
albanesi per la costituzione di tali enti. La legittimazione della Luogotenenza aveva
unico fondamento nello Statuto Albanese del 193922 concesso da Re Vittorio
Emanuele III, anch’esso senza accordo con la controparte albanese, nonostante
riguardasse, come tutti gli atti emanati dal luogotenente stesso, questioni concernenti
il Regno d’Albania. Si può allora parlare dell’operato di quest’organo come un
esempio della massima intesa e comunione di intenti dei due Regni, oppure
annoverarlo tra i tanti esempi di ingerenza italiana prudentemente difesa come un
passo fondamentale per il bene dell’Unione. Tutto dipende da come si intenda la
19
Silvia Trani (a cura di), Ministero per i beni e le attività culturali , Dipartimento per i beni archivistici e
librari, Direzione generale per gli archivi L’Unione fra l’Albania e l’Italia Censimento delle fonti (19391945) conservate negli archivi pubblici e privati di Roma, Edimond s.r.l. , Città di Castello (PG), 2007:
p.38
20
Silvia Trani (a cura di), Ministero per i beni e le attività culturali , Dipartimento per i beni archivistici e
librari, Direzione generale per gli archivi L’Unione fra l’Albania e l’Italia Censimento delle fonti (19391945) conservate negli archivi pubblici e privati di Roma, Edimond s.r.l. , Città di Castello (PG), 2007:
p.41
21
Ibid: p.38
22
Ibid: p.47: “In linea generale il nuovo statuto albanese risultava frutto della fusione dello statuto
albertino con il precedente statuto albanese del 1928: il riferimento al primo era chiaro fin dall’art.1 che
richiamava, come legge di successione, quella salica; del secondo si trovava traccia nei notevoli poteri
attribuiti al re. In base allo statuto del 1939 a Vittorio Emanuele III, nella veste di re d’Albania, spettava
l’esercizio del potere legislativo, a cui poteva collaborare il Consiglio superiore fascista corporativo; del
potere esecutivo; del potere giudiziario, amministrato in suo nome da giudici di nomina regia. Inoltre,
poteva nominare, come di fatto era già avvenuto con il r.d. 22 apr. 1939, un luogotenente generale per
l’esercizio dei poteri regii in Albania; comandare le forze armate; dichiarare guerra; conchiudere trattati
di pace e trattati internazionali.”
14
natura stessa dell’Unione italo-albanese. L’analisi più corretta in merito si ritiene
essere quella del giurista Guido Lucatello che la descrive come “non «un’unione di
stati, bensì una formazione unitaria e precisamente uno Stato, nel quale
l’organizzazione statale italiana [era] titolare della sovranità sia del Regno d’Italia,
sia del Regno d’Albania»; […] una sorta di stato decentrato, costituito da un ente
sovrano, il Regno d’Italia, e da un ente ad esso subordinato, il Regno d’Albania, con
un proprio territorio e un proprio popolo, ma «semiautonomo» vista l’assenza della
piena sovranità”.23 Non stupisce allora che il Partito Fascista Albanese (PFA), partito
unico, fosse per statuto definito «non autoctono, né autonomo, ma filiazione del
Partito Nazionale Fascista»24 e subordinato agli ordini di Benito Mussolini.
Tantomeno può stupire il fatto che l’organizzazione della vita politica, economica e
sociale albanese venne a rispecchiare quasi alla perfezione quella del Regime del
Duce, con piccole differenze fondamentali per sostenerne l’ideologia, la propaganda
e la retorica nazionalista: invece che i Figli della Lupa si avevano ovviamente i Figli
dell’Aquila, per esempio. L’Albania era a tutti gli effetti diventata una colonia
italiana. All’unione istituzionale e all’emulazione del modello fascista, seguirono la
fusione delle forze militari e l’unione valutaria e doganale. Grazie alla
sopravvalutazione del franco albanese che si ebbe per via del suo agganciamento alla
lira, aumentò la redditività e il proliferare delle attività e dei commerci di imprese
italiane in Albania. Molte ditte italiane si avvantaggiarono anche della
sovraintendenza o della gestione dei grandi lavori di opere pubbliche, fondamentali
al regime fascista per “dimostrare il suo contributo allo sviluppo albanese”.25 Inoltre
“La preoccupazione delle autorità italiane di giustificare e avallare la nostra
presenza in Albania, la volontà di esercitare un’egemonia culturale e di indirizzare
lo sviluppo della classe intellettuale albanese, determinarono l’accentuarsi della
strumentalizzazione delle iniziative scientifiche e culturali”.26 Si ebbero cooperazioni
in ambito culturale che andavano dal cinema alla radio, dal teatro al giornalismo;
nacque la Fondazione Skanderbeg per l’incremento culturale; molti archeologi,
geografi e linguisti mostrarono il proprio interesse per l’approfondimento della
conoscenza della storia, del territorio, e della popolazione albanese; la Dante
23
Ibid: p.44, in nota
Ibid: p.45
25
Ibid: p.66
26
Silvia Trani (a cura di), Ministero per i beni e le attività culturali , Dipartimento per i beni archivistici e
librari, Direzione generale per gli archivi L’Unione fra l’Albania e l’Italia Censimento delle fonti (19391945) conservate negli archivi pubblici e privati di Roma, Edimond s.r.l. , Città di Castello (PG), 2007:
p.72
24
15
Alighieri promuoveva l’apprendimento della lingua e della cultura italiana. Il Centro
Studi dell’Albania della Reale Accademia di Italia aveva il compito preciso “di
svolgere ricerche […]per evidenziare i legami secolari fra i due paesi e la necessità
dell’intervento dell’Italia per la difesa della libertà albanese”.27
L’opposizione albanese nei primi due anni dell’Unione non fu mai
particolarmente organizzata e sicuramente non fu influente, certamente anche per via
della disparità delle forze in campo. Nondimeno un forte fattore deterrente fu il
continuo afflusso di capitale e quindi l’interesse dei pochi potenti che maggiormente
ne beneficiavano ad assecondare le politiche italiane. E’ solo in un secondo
momento, quando i tedeschi si avvicinarono, almeno apparentemente, all’Unione
Sovietica e quando l’occupazione della Grecia si rivelò un fallimento, che il sogno di
una Grande Albania, che gli Italiani erano stati tanto vicini a realizzare, svanì. A quel
punto l’azione del movimento comunista, impegnato sin dal ’39 in scioperi,
boicottaggi ed altre dimostrazioni di dissidenza, cominciò ad acquisire spessore. Nel
novembre del 1941 nacque ufficialmente il Partito Comunista Albanese; dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943 si accentuò ulteriormente il sentimento antiitaliano e nel caos prevalsero le forze di occupazione naziste. Alcuni soldati italiani
scelsero di combattere a fianco dei partigiani albanesi per l’espulsione dei tedeschi28,
ma quando la liberazione fu completata con la riconquista di Tirana nel novembre
1944 e la formazione del Regime comunista di Enver Hoxha, anche gli italiani
rimasti per lottare dalla parte degli albanesi diventarono oggetto di persecuzioni.
Iniziò da quel momento una serie di colloqui tra i due Governi centrali, italiano
e albanese, per organizzare il rimpatrio dei militari, dei civili e dei beni italiani;
colloqui in cui il tono amichevole, sincero o dissimulatore che fosse, da sempre
utilizzato nei rapporti tra i due Paesi, venne per la prima volta a mancare. Solo i
comunisti italiani ricevevano “la grazia” di essere ascoltati dal nuovo dittatore. Che
“i destini dei due Paesi vennero definitivamente divisi”29 dal regime di Hoxha non è
però del tutto esatto: fu solo una parentesi30.
27
Ibid: p.73
Si formarono anche reparti autonomi, tra cui è divenuto famoso il Battaglione Gramsci.
29
Silvia Trani (a cura di), Ministero per i beni e le attività culturali , Dipartimento per i beni archivistici e
librari, Direzione generale per gli archivi L’Unione fra l’Albania e l’Italia Censimento delle fonti (19391945) conservate negli archivi pubblici e privati di Roma, Edimond s.r.l. , Città di Castello (PG), 2007:
p.88
30
Il termine “parentesi” potrebbe essere frainteso. Si intende con esso l’interruzione temporanea dei
rapporti intrattenuti dai due Paesi, ma non si vuole assolutamente constatare che nel post comunismo i
legami siano stati di natura coloniale e di dominazione italiana come furono invece nel breve periodo
dell’Unione Italo-Albanese. Il riferimento è solo alla presenza di rapporti o meno tra i due Stati e non
alla loro entità.
28
16
1.3.
Una parentesi lunga 50 anni: il Regime di Enver Hoxha.
Qualche cenno sul cinquantennio di Regime comunista è inevitabile per capire
la società albanese oggi e soprattutto lo scenario interno e le conseguenti mosse
dell’Italia al momento del suo crollo all’alba degli anni Novanta. Non è questa
tuttavia la sede per approfondirne lo studio, mi limiterò quindi a fornire poche
informazioni, le più significative per leggere i paragrafi che seguiranno con il giusto
insight. La scelta di abbandonare qui l’uso del passato remoto dipende proprio dal
fatto che tutti i fatti accaduti in Albania dall’inizio del Regime, date le ripercussioni
che hanno tuttora sullo Stato, non debbano affatto essere considerati remoti.
Enver Hoxha è di professione insegnante, ma una volta rimosso dalla sua
posizione per non essersi iscritto al PFA, non attende molto prima di diventare la
figura guida del Partito Comunista Albanese, chiamato poi Partito del Lavoro. Egli si
è formato in Francia dove ha avuto contatti col Partito Comunista Francese e non
manca di sfruttare ciò che ha appreso a lezioni e seminari per elaborare una sua
visione dell’ideologia comunista, fortemente di stampo stalinista. Nonostante la forte
opposizione del Fronte Nazionale (Balli Kombëtar) dopo la resa delle truppe
tedesche, Hoxha assume prontamente il Governo dell’Albania indipendente e riesce
ad imporre il partito unico. Il suo “obiettivo è creare dei cittadini comunisti
nazionalisti, fedeli allo Stato-nazione”31 e come gli altri leader autoritari del XX
secolo si impegna in un duplice processo di state- and nation-building con una
politica mista di coercizione e propaganda.
“L’autorità indiscussa del capofamiglia nella vecchia società è sostituita dal
culto della personalità del dittatore di Argirocastro- “padre” di ogni albanese (e
“zio” per ogni bambino, in segno di rispetto)”.32 Aspira al diffondersi di una fede
esclusiva nella nazione e nel Partito, ed anche per questo pone il veto alla professione
di qualsiasi religione33, divieto poi inserito anche all’art.55 della Costituzione del
1975. “La religione degli albanesi è l’albanismo” scrive Vaso Pasha34, un autore
31
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.132
32
Ibid: p.132
33
Nel 1967 oltre all’annullamento delle leggi sulle relazioni Stato-Albania con il decreto numero 4337,
2169 edifici di culto vengono chiusi, bruciati o vandalizzati e si ha la creazione di cd Campi di
rieducazione per preti e ministri. Vedi Pearson, Owen, Albania in the Twentieth centuty: a history,
vol.3: Albania as dictatorship and democracy- From isolation to the Kosovo War 1946-1998, The
Centre for Albanian Studies, published in association with I.B. Tauris &Co. Ltd, New York, (2006).
34
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.129
17
molto apprezzato dal dittatore. Allo stesso tempo Hoxha dà il via ad un’intensa
campagna di alfabetizzazione ed istruzione e costruisce un sistema basilare di
welfare per migliorare l’aspettativa di vita e così ampliare il raggio di consenso.
Purtroppo, i successi effettivi di questi sforzi in politica sociale, a causa del
simultaneo moltiplicarsi della popolazione che non permette di investire surplus in
politiche di sviluppo a lungo termine, rimangono limitati. Ciò non significa che si
debba attribuire al solo Hoxha, come alcuni storici hanno fatto, l’impoverimento
dello Stato, che già negli anni ’40 era poverissimo nonostante l’arrivo di capitale
italiano.
L’economia è ovviamente pianificata, l’agricoltura è collettivizzata, le poche
imprese esistenti sono nazionalizzate e la priorità è assegnata all’industria pesante.
Ciò va chiaramente a discapito delle infrastrutture, per cui negli anni ’90 le uniche
strade presenti nel Paese sono quelle di precedente costruzione italiana. Le uniche
edificazioni su cui Hoxha abbia veramente investito, che hanno causato uno spreco di
materie prime non indifferente e un mostruoso degrado ambientale, sono le decine di
migliaia di bunker, secondo varie fonti più di 700.000, “segni tangibili della
sindrome da accerchiamento” del dittatore per utilizzare le parole di una giornalista
di Peace Reporter.35 Indubbiamente i rapporti con la Jugoslavia non sono dei
migliori. Tito non può ignorare le rivendicazioni di Hoxha sul Kosovo e sulla
Macedonia per realizzare il sogno di una Grande Albania; Hoxha teme che si voglia
fare dell’Albania un’altra provincia della Federazione Jugoslava. Comunque, gli
investimenti per la Difesa sembrano un po’ eccessivi. Non si può però nemmeno dare
ragione a chi liquida la politica estera albanese del periodo comunista come
completamente isolazionista e sostiene l’inutilità dei bunker semplicemente
affermando il totale disinteresse straniero verso l’Albania.
Quando le relazioni con l’Unione Sovietica si interrompono nel 1961, negli
anni
della
destalinizzazione
perseguita
da
Khrushev,
Hoxha
si
rivolge
immediatamente alla Cina, per cui sponsorizza l’entrata nell’ONU, avvenuta
effettivamente nel 1971, in cambio di aiuti economici e militari. E quando anche le
relazioni con la Repubblica Popolare vanno deteriorandosi nel corso degli anni
Settanta, principalmente a causa del disaccordo di Hoxha e Mao su questioni di
politica
internazionale
e
teorie
rivoluzionarie,
l’Albania
si
riavvicina
35
Peace Reporter, Pace nel Bunker di L.Jona, 09-03-2005, disponibile online all’URL:
http://it.peacereporter.net/articolo/1645/Pace+nel+bunker (visitato il 02-01-2012).
18
immediatamente alla Grecia. Nel 1970 con quest’ultima viene firmato il primo
accordo commerciale e diplomatico dall’invasione italiana e cioè da quando era
iniziata la guerra tra Albania e Grecia. Almeno fino alla fine degli anni Settanta non
si può parlare di uno Stato diplomaticamente, tanto meno economicamente, isolato,
ma sicuramente si può parlare di isolamento culturale e tecnologico. Ogni cosa
straniera negli anni del comunismo è percepita come una minaccia. Il consumismo e
le mode occidentali sono visti come un “aspetto tipico della decadenza
occidentale”.36 La stessa moglie di Hoxha, Nexhmije, lamenta pubblicamente sul
quotidiano Zeri i Popullit nel maggio 1965 il pericolo di influenza straniera tramite
radio, televisione, cinema, libri,…37 Lamentele probabilmente non del tutto vuote di
significato come dimostrano le reazioni della popolazione al momento della caduta
del Regime. Negli anni Sessanta l’opposizione è però ancora molto limitata e
facilmente soppressa dalle epurazioni e dalle persecuzioni portate avanti dal dittatore.
Probabilmente Nexhmije Hoxha non confida abbastanza nella forza dissuasiva di
otto anni di lavori forzati: la pena per chi viene sorpreso a guardare un’emittente
straniera. Non da meno gli sforzi di Hoxha per affermare e pubblicizzare la sua
ideologia. Ricordo ad esempio che tra il 1968 e il 1980 ha scritto un’ottantina di
volumi di memorie!
E’ solo quando la sua figura carismatica viene a mancare, nel 1985, che il
Regime si avvia verso il proprio tramonto: "A Tirana finisce un'epoca. E' morto
Hoxha, re-dio rosso da quarant'anni" (la Repubblica, 11 aprile 1985). Il giorno
seguente, 12 aprile, il titolo che compare su Il Corriere della Sera è “Il futuro incerto
dell'Albania dopo Hoxha".38 A decretare le sorti di questo futuro è innanzitutto
Ramiz Alia, successore di Hoxha alla guida della Repubblica Popolare Socialista
d’Albania. Egli giunge al potere negli anni di Gorbachev, quando il mondo sembra
aver compreso la necessità di riformare i vecchi regimi comunisti e perciò muove i
primi passi verso la liberalizzazione economica e l’apertura del Paese, ma questi
stessi passi, come del resto quelli dei Paesi “compagni”, si rivelano letali alla
36
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.32
37
Pearson, Owen, Albania in the Twentieth centuty: a history, vol.3: Albania as dictatorship and
democracy- From isolation to the Kosovo War 1946-1998, The Centre for Albanian Studies, published
in association with I.B. Tauris &Co. Ltd, New York, (2006): p.622
38
Tussi, Tiziano, Le aquile non volano più: la disgregazione sociale dell’Albania,(12.11.1997) articolo
tratto da Il calendario del popolo e disponibile online sul sito di Notizie Est.
19
sopravvivenza del Regime. “La "sua miopia politica" non gli ha permesso di
prevenire il disastro”39 e trarre insegnamento dagli avvenimenti dell’Europa dell’Est.
1.4. Il crollo del regime: Albanesi in Italia e Italiani in Albania.
Il 21 febbraio 1991 la statua rappresentante Enver Hoxha viene distrutta dagli
studenti che dal giorno precedente dimostrano in piazza Skanderbeg. Chiedono che
l’Università di Tirana non porti più il nome del dittatore, ma le richieste alle
fondamenta della protesta sono ben più profonde. Gli studenti manifestano per la
democrazia, per ottenere riforme sociali ed economiche, perché vogliono unire il
proprio destino a quello del resto d’Europa. Alla caduta del Regime l’Albania è
ridotta alla massima povertà40 tanto che figura al 150° posto nella classifica mondiale
per Prodotto Interno Lordo, dopo il Camerun, vicino alla Costa d’Avorio, allo
Yemen e alla Zambia.41 Ne consegue che “per stato di necessità, e per il venir meno
della pubblica disciplina” il Paese è gettato nella più totale confusione dove il modo
migliore per assicurarsi risorse è il saccheggio dei beni e delle risorse pubbliche.42
Aumentano i fenomeni di banditismo, di corruzione, la scena politica è praticamente
congelata (e tale di fatto rimane …). La popolazione è sempre più scontenta e
chiunque possieda una radio o un televisore43 comincia per primo a sognare quel
mondo occidentale che le trasmissioni gli prospettano: l’incubo di Nexhmije prende
vita.
39
Tarifa, Fatos, Albania's Road from Communism: Political and Social Change, 1990-1993,
in Development and Change, vol. 26, n° 1,(1995): pagine 141-142.
40
“Entrare in Albania pareva di rivivere le scene del film di Bernardo Bertolucci "Novecento": la
campagna italiana tra le due guerre mondiali,al massimo nei primi anni del secondo dopoguerra.
Uomini e donne che passeggiavano a piedi, al calar della sera; carretti con ogni tipo di ruote per farli
funzionare; raccolta di angurie a mano, che si mangiavano calde perché c'erano troppo pochi frigoriferi;
pochi trattori, perché non se ne costruivano più dopo l'uscita dei cinesi dal paese. Dei cinesi
rimanevano molti segnali:le gomme degli autocarri impiegate in ogni modo possibile; macchine
industriali dal livello tecnologico bassissimo, evidentemente scarti, assieme a macchinario russo, nelle
fabbriche. Il livello di inquinamento era altissimo dove funzionavano industrie che mancavano di ogni
elementare sistema di protezione per il lavoro: poche industrie, poco inquinamento in totale. Ricordi
della presenza italiana: sedie da barbiere di una ditta di Torino, probabilmente degli anni trenta; molti
albanesi che parlavano italiano; la disposizione dei giardini a Tirana, nella zona delle ambasciate, che
originariamente dovevano disegnare un fascio littorio. Comunque il paese stava in piedi, con forte
ritardo sulla media europea, ma stava in piedi.” In Tussi, Tiziano, Le aquile non volano più: la
disgregazione sociale dell’Albania,(12.11.1997) articolo tratto da Il calendario del popolo e disponibile
online sul sito di Notizie Est.
41
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.34
42
Ibid: p.36
43
L’ipnosi capitalista è tale che nel 1993 in Albania si trova il maggior numero di parabole per abitante
in Europa! (Ibid:p.36). Ed un’indagine sulla comunità albanese di Kruja rivela che le città ribellatesi per
prime captavano le tv italiane. (Notizie Est).
20
L’Albania è ora aperta al mondo e il mondo sembra, per non dire che è
costretto a, accorgersi nuovamente della sua esistenza.44 Chiunque venga
dall’Occidente è “visto stereotipamente dagli albanesi come un “angelo di dio”[…]
Se si tiene presente la devastazione spirituale ed economica dell'Albania si potrebbe
dire che dopo la caduta del comunismo, gli albanesi [guardano] all'Occidente come
un uomo malato guarda al suo salvatore”.45 I contatti con l’estero si intensificano e
quelli con l’Italia diventano in breve tempo i principali. I media contribuiscono a
mutare la concezione di bisogni e consumi ed a radicare la convinzione che c’è “un
Eden a portata di chiunque varchi le frontiere”.46
Così comincia l’esodo degli albanesi verso le coste italiane, attirati dal
differenziale di reddito e dalla speranza di trovare un maggiore ordine politico. I
primi coraggiosi a raggiungere Otranto a bordo di una zattera sono sei uomini, il 3
luglio del 1990, seguiti poi da altri ottocento provenienti dalle ambasciate straniere di
Tirana in cui si erano rifugiati nei primi mesi di caos. Nel 1991 iniziano gli “esodi
massicci”: nel marzo arrivano più di 25 mila profughi, che trovano una calorosa
accoglienza da parte della società civile, indignata dalla disorganizzazione dello
Stato. Eppure, come accenneremo, in breve tempo, e cioè già a partire dal secondo
esodo dell’agosto 1991, che porta in Italia altri 20 mila albanesi, cambia il modo di
guardare a questi primi albanesi in Italia: si passerà dall’accoglienza dei profughi alla
stigmatizzazione dei successivi immigrati come clandestini.
Ricordo che ad eccezione di un solo accordo commerciale di durata triennale
firmato con la Repubblica Popolare Socialista d’Albania nel 1964 per il commercio
di prodotti chimici, farmaceutici, macchinari e carta, legno, petrolio, bitume e
minerali47, gli unici legami mantenuti con l’Italia da Enver Hoxha erano stati gli
44
Il titolo dell’articolo dedicato all’Albania sul giornale Reporter nell’aprile 1985 era: E’ morto il dittatore
del Paese che non c’è.
45
“La scena dei baci all'automobile del Segretario di Stato USA Baker (22 giugno 1991) da parte di
una folla come quella che si vede nelle congreghe di fedeli musulmani alla Mecca è stata il culmine
dell'esaltazione per la religione chiamata Occidente.” Gli stessi partiti politici si affidano all’appoggio
occidentale per fare presa sulla popolazione e mantenere il potere. Dopo le elezioni vinte da Berisha
nel 1992, regna il suo slogan “Noi governiamo e il mondo ci aiuta"."Il Partito Democratico (PD) è stato
ammesso all'Unione Democristiana Europea", "Il Partito Socialista (PS) è stato ammesso
all'Internazionale Socialista", questi erano i titoli cubitali che apparivano sulle prime pagine della
stampa albanese. In Lubonja, Fatos, Albania: Protettorato o Stato Sovrano? (19.02.1999), articolo
tratto da Koha ditore e disponibile online sul sito di Notizie Est.
46
Luigi Perrone, Migrazioni dall’Albania, 22-06-1997, online nell’archivio di Notizie Est. Si tratta di una
citazione dal libro Naufragi Albanesi di Kosta Barjaba, Georges Lapassade, Luigi Perrone.
47
Pearson, Owen, Albania in the Twentieth centuty: a history, vol.3: Albania as dictatorship and
democracy- From isolation to the Kosovo War 1946-1998, The Centre for Albanian Studies, published
in association with I.B. Tauris &Co. Ltd, New York, (2006): p.621
21
occasionali incontri con i comunisti ed i socialisti italiani.48 Nei primi anni Novanta
gli scambi invece ritrovano la passata assiduità e si inaugura una nuova epoca di
presenza italiana in Albania. Si ricreano rapporti economici, innanzitutto, le Piccole e
Medie Imprese (PMI) italiane non esitano a sfruttare la manodopera albanese a basso
prezzo.49 Ed oltre agli imprenditori, diplomatici, cooperanti, ecclesiastici, …,
mostrano un nuovo coinvolgimento nella storia albanese. “C’è l’interesse economico
e c’è l’obiettivo di bloccare l’immigrazione. C’è la pietà per le vittime di una feroce
dittatura ma anche il paternalismo sufficiente del ricco. E la solidarietà idealista non
dissolve il timore di contagio da primitivismo”.50
L’Albania diventa subito il Paese privilegiato della cooperazione allo sviluppo
italiana. D’altronde negli anni Novanta “…la politica estera italiana non può
considerare l’Albania come un paese qualunque. Dalle coste albanesi giungono in
Italia immigrati e merci di contrabbando, nei Balcani è in corso una guerra che
scuote l’Europa tutta, per gli albanesi l’Italia rappresenta un paese di riferimento
storico ed esistenziale, l’Albania è vicinissima geograficamente”.51 Nel corso del
decennio si hanno in particolare quattro momenti caldi, descritti nel prossimo
capitolo: un aiuto immediato tra il '90 e il '91; l'Operazione Pellicano nel 1991/92; gli
anni dell'"imprenditoria italiana" e del "miracolo economico albanese"; infine
l’intervento militare "umanitario" della Missione Alba.52
48
Si dice che nel 1969 Enver Hoxha, notando i fermenti politici italiani, avesse offerto a Pietro Nenni
20.000 volontari albanesi per realizzare la rivoluzione in Italia. Dato che la fonte
[http://briciole.altervista.org/materiale/albania/varie/albania.pdf, visitato il 27/01/2012] non riporta
appropriati riferimenti bibliografici, non farvi troppo affidamento. Contatti con Nenni sono segnalati
anche da Owen Pearson (2006).
49
Essendo poco costosa la manodopera albanese compensa il “rischio Paese” dato da infrastrutture
scadenti, intralci burocratici, etc. e che è stimato dall’Euromoney come 25 su una scala da 1 a 100 in
cui il 100 rappresenta la massima sicurezza. Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della
crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, Milano (1997): p.100.
50
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.104.
51
Ibid: p.101. La citazione inizierebbe con un “Tuttavia”, tagliato nel testo per questioni di
scorrevolezza, che si riferisce al fatto che progetti (di strade, acquedotti, …) rimangono di fatto
incompiuti per via dei problemi interni all’Italia. Sono gli anni di Tangentopoli e del passaggio dalla
Prima alla Seconda Repubblica ed è bene ricordarsene quando si valuta l’impegno italiano in Albania
in questi primi anni Novanta.
52
Spagnoli, Alberto, PELLICANO: UN PRECEDENTE DA RICORDARE, online nell’Archivio di Notizie
Est.
22
Capitolo 2
Gli anni ’90: anni di emergenza.
2.1. L’Operazione Pellicano.
A seguito della caduta del Muro di Berlino nel 1989, “E’ mutato anche il ruolo
dell’Italia come Paese di frontiera: non più davanti alla temibile ma immobile
Europa comunista bensì davanti agli instabili Balcani in preda alla guerra, non più
esposta a una potenziale invasione delle truppe del Patto di Varsavia ma minacciata
concretamente dall’arrivo di migliaia di profughi”.53 L’Italia si deve preoccupare
inoltre di rafforzare la sua immagine in Europa. Prodi e D’Alema pongono tra le
priorità di politica estera stabilizzare il Mediterraneo per entrare nei mercati dell’Est
Europa e del Medio Oriente e per fermare l’arrivo di profughi. Anche per via delle
difficoltà interne alla politica italiana di quegli anni non si definisce un disegno
strategico di lungo periodo ed anzi, sin da subito, si procede per fasi di emergenza in
cui l’Albania acquisisce uno stato di urgenza.
Al clima di insicurezza che domina l’Albania all’indomani della caduta del
comunismo e all’arrivo delle prime ondate di profughi nella primavera del 1991,
l’Italia risponde con “un’inedita (allora) combinazione di intervento umanitario e
militare”.54 Inizia l’Operazione Pellicano, una missione internazionale guidata dai
soldati Italiani, che si compie in due fasi: Pellicano 1 e Pellicano 2. Il primo accordo,
firmato nell’agosto 1991 dal Primo Ministro albanese e il Ministro degli Esteri
italiano, prevede la distribuzione in tre mesi di aiuti per un totale di 180 miliardi di
lire divisi in materie prime per l’industria e beni alimentari. L’Italia si impegna
inoltre a determinare "le vie e i mezzi di collaborazione per evitare una crisi politica,
economica e sociale".55 Si rinnova poi l’emergenza sino al settembre 1992 (Pellicano
2), anche se già dall’agosto 1992 si parla di un’eventuale Operazione Pellicano 3.
Non si può fare molto affidamento sulle date, che come si vede in seguito, sono
53
Molinari, Maurizio, L’INTERESSE NAZIONALE Dieci storie dell’Italia nel mondo, Gius. Laterza &Figli
Spa, Roma-Bari (2000): p.VII.
54
Rotta, Alessandro, La cooperazione decentrata in Albania Stato e Prospettive, Centro Studi di
Politica Internazionale (CeSPI): p.1
55
Spagnoli, Alberto, PELLICANO: UN PRECEDENTE DA RICORDARE.
23
abbastanza arbitrarie. Secondo la pagina dedicata alla Missione sul sito ufficiale
dell’Esercito italiano sarebbero 90.659 tonnellate i generi inviati dall’Italia nella
prima fase (qui settembre 1991-marzo 1992); e ulteriori aiuti provenienti dalla CEE e
sempre dall’Italia si sarebbero distribuiti nelle successive due fasi (marzo 1992settembre 1993, Pellicano 2, e settembre-dicembre 1993, Pellicano 3). Date a parte,
rimane indubbio che da quel marzo 1991 si apre un’intensa nuova fase di
cooperazione tra i due Stati. Sempre in agosto viene firmato anche un accordo di
cooperazione italo-albanese per la lotta contro la criminalità organizzata e i traffici
illegali e l’Albania avanza richieste di assistenza da parte di esperti Italiani per
riorganizzare la polizia civile.
Ma si può effettivamente parlare dell’Operazione Pellicano come di un
successo in campo di cooperazione? L’Arma dei Carabinieri sembra rispondere
positivamente, ricordando la missione come “un’operazione che ha dimostrato
ancora una volta le potenzialità della organizzazione militare nel soccorso delle
popolazioni e nella protezione civile, garantendo allo stesso tempo sicurezza e
controllo”.56 Non tutti concordano però, ed anzi, un interrogativo sempre vivo è
perché si sia scelto di ricorrere a militari per lo smistamento degli aiuti. E’ critico al
proposito Alberto Spagnoli57 che scrive: “Si è detto che gli albanesi non avevano i
mezzi tecnici per farlo.[…] Ma anche ammettendo che l'Albania non avesse questi
mezzi non sarebbe stato più opportuno, semplice e meno costoso fornirglieli? con 10
miliardi al mese si sarebbero stipendiati... 500.000 lavoratori […] Si è detto che gli
albanesi non avevano la capacità tecnica e organizzativa di gestire l'operazione
[…]Ma ammesso per assurdo che sia così, come si spiega che dopo essere ricorsi
all'esercito italiano per lo smistamento degli aiuti dai porti ai magazzini, si sia
lasciato agli albanesi proprio il compito ben più complesso e delicato di distribuire
capillarmente gli aiuti in tutto il paese? E, se proprio, perché per un'operazione che
non aveva niente di militare non sono state incaricate le organizzazioni umanitarie,
anche straniere, presenti in Albania? Perché si è utilizzato personale militare italiano
e non personale civile?”.
56
Arma dei Carabinieri, 1991-1993: In Albania con Italfor-Pellicano
http://www.carabinieri.it/Internet/Arma/Oggi/Missioni/1936+-+2001/Parte+II/1991+-+1993/, [visitato il
15-01-2012].
57
Come le precedenti, anche le citazioni che seguono vengono dall’articolo di Spagnoli, Alberto,
PELLICANO: UN PRECEDENTE DA RICORDARE, online nell’Archivio di Notizie Est. Il Prof. Spagnoli
è co-autore di dizionari e frasari italiano-albanese.
24
Il prof. Spagnoli continua: “A rispondere, senza falsi infingimenti, ci ha
pensato il comandante della missione stessa, generale Antonio Todaldo
sottolineando in una conferenza stampa la "importanza della missione non solo dal
punto di vista umanitario, ma anche nella instaurazione della democrazia,
nell'evitare una guerra civile in Albania e nell'eliminare una controrivoluzione"
(Koha Jone, 3 settembre 1993). Ma come il professore non tarda a specificare “La
democrazia instaurata è stata quella di Sali Berisha e del suo regime antipopolare”.
Luigi Perrone sulla stessa linea definisce quello italiano un “goffo, maldestro e
violento intervento”. Per Spagnoli e Perrone, infatti, come per molti altri studiosi e
giornalisti che hanno commentato l’intervento del 1991-1992, la missione non ha
fatto altro che arricchire le bande criminali e mafiose albanesi quanto italiane, il
commercio nero, lo sviluppo della prostituzione legato alla presenza militare
italiana58, i partiti politici italiani e albanesi, … e sicuramente solo una minima parte
degli aiuti preposti è arrivata effettivamente nelle mani delle famiglie albanesi. Molti
ritengono che la situazione delle famiglie sia anzi peggiorata durante i mesi
dell’Operazione, per via del congelamento dell’economia e il conseguente aumento
della
disoccupazione.
L’Operazione
così
non
sarebbe
riuscita
nemmeno
nell’obiettivo di fermare l’esodo di massa verso le coste pugliesi, continuato in
maniera clandestina dopo l’emanazione della legge 39/90, che prevedeva di
regolarizzare solo gli stranieri presenti prima del 31 dicembre 1989 e quindi non i
nuovi immigrati.59 Tutto questo ovviamente a favore delle tasche dei contrabbandieri
pugliesi e del traffico nero dei visti.
L’Operazione Pellicano è stata rinominata da Il Manifesto “L’affare Albania”60
perché avrebbe costituito piuttosto un’occasione di arricchimento per uomini d’affare
italiani. Nelle parole di Kosta Barjaba e Luigi Perrone, autori di Naufragi albanesi
“l’iniziativa si arenò nella rete dei forti, delle clientele e della corruzione, e fu uno
splendido esempio di aggregazione di future lobby senza avviare, come si constata
ora, alcuna fase di reale transizione …” e a dispetto del tanto rinomato clima di
cooperazione per gli albanesi che approdavano in Italia “Tante erano le delusioni per
58
“Il giornale albanese "Alternativa” del 26 giugno 1992 denunciava come, con la presenza dei militari
italiani, fosse aumentato sostanzialmente il numero degli aborti provocati: circa 120 ogni mese e
riguardanti spesso ragazze molto giovani.” Sempre in Spagnoli, Alberto, PELLICANO: UN
PRECEDENTE DA RICORDARE.
59
Maggioni, Stefania, Immigrazione albanese in Italia, (tratto da) Immigrazione al femminile: donne
albanesi a Milano, Gennaio 2001, disponibile online sul sito di Notizie Est.
60
Il Manifesto, 31 ottobre 1991. Vedi Tussi, Tiziano, Le aquile non volano più: la disgregazione sociale
dell’Albania.
25
un progetto fallito, per la fiaba televisiva miseramente infrantasi di fronte alla
brutalità della polizia italiana; i più gridavano vendetta; i delusi vivevano
l'esperienza come un "affronto nazionale" ”.61 E ci si meraviglierebbe se non fosse
vissuta come tale dal momento in cui i media italiani si preparavano a chiamare gli
albanesi “più delinquenti che profughi” (Il Giornale), “più mafiosi che profughi”
(l’Espresso), “Profughi e criminali” (Il Messaggero), e Il Giornale diceva ancora “Il
governo dichiara gli albanesi calamità naturale”.62
Questi titoli, come quelli dei servizi televisivi, hanno avuto un forte peso
sull’opinione pubblica in Italia e hanno portato gli italiani stessi a chiudersi sempre
di più nei confronti dei nuovi arrivati e a dimenticare velocemente il sentimento di
solidarietà che si era diffuso all’arrivo di quei primi sei profughi albanesi. Anche se
una nuova era di cooperazione è ufficialmente aperta, sin dagli inizi degli anni
Novanta, i rapporti tra l’Italia e l’Albania si ripresentano nella loro ambiguità storica,
forse semplicemente meglio mascherati da discorsi politici di facciata. Dalla sua
vittoria alle elezioni del 1992, Berisha guarda con sospetto alle proposte italiane di
cooperazione in campo militare, spaventato dall’idea che si tratti di un tentativo di
neo-imperialismo sulla sua terra. Allo stesso tempo però si impegna in via
diplomatica per rafforzare i canali di cooperazione e gli scambi economici,
consapevole di poter restare al governo solo se promotore di una qualche forma di
sviluppo economico.
Dal 1992 si procede alla stipula di accordi di cooperazione che sulla carta si
ripropongono di abbandonare la mentalità di emergenza. Nel novembre del ’92 la
Commissione Mista Italia Albania definisce un programma triennale di sviluppo che
sancisce formalmente il passaggio da aiuti di carattere assistenziale di emergenza
concessi con finanziamenti a credito d’aiuto a “interventi diretti a promuovere uno
sviluppo economico auto sostenuto basato su di una economia di mercato”. Per
raggiungere questo scopo vengono individuati “obiettivi di brevissimo, di medio e di
lungo periodo, al fine di garantire una piena sintonia degli interventi con le fasi
61
Barjaba K., Perrone L., ALBANIA QUESTA SCONOSCIUTA , 14.07.1997, online nell’Archivio di
Notizie Est.
62
Titoli del 1997. A riguardo “L'équipe diretta dalla professoressa Maria Rita Saulle, dopo due mesi di
monitoraggio della stampa ha pronunciato la sentenza: il linguaggio dei giornali nazionali profana
sistematicamente i principi affermati dalle più importanti convenzioni internazionali sui diritti umani.”
Tutto in Paloscia, Annibale,“Che colpa ne ho se sei albanese”, 22.06.1997, pubblicato in Avvenimenti e
disponibile online sul sito di Notizie Est.
26
della ripresa economica albanese”63 nei settori delle infrastrutture, dell’agricoltura,
dell’edilizia, della formazione e delle consulenze, in campo finanziario quanto
politico. Nei fatti però di 218 miliardi e mezzo di lire destinati all’Albania nel
triennio 1992-1994, 142 miliardi sono destinati al Programma Triennale e 95
rimangono a credito d’aiuto. E nonostante i buoni propositi, la ripresa economica
albanese in questi primi anni Novanta, si rivela un processo più infido del previsto.
Poi, nel 1997 si apre una seconda fase di emergenza.
2.2. La crisi delle Piramidi e l’operazione Alba.
Tra il 1993 e il 1996 il tasso di crescita del Pil albanese non è mai inferiore al
7% annuo, raggiungendo picchi del 13%.64 L’Albania diventa per il mondo un
esempio dei prodigi del libero mercato. Presto però le componenti di questo
miracoloso progresso vengono a galla. L’economia albanese ha una bilancia
commerciale in forte disavanzo, il ché non stupisce dato che non c’è alcuna forma di
produzione interna, se non quella delle PMI italiane di tessile e calzature che danno
lavoro a basso prezzo a 60.000 albanesi. Anche il settore agricolo è danneggiato dalla
rivendita sui mercati neri degli alimentari che continuano ad arrivare come forme di
aiuto internazionale. Questo commercio nero costituisce proprio una delle fonti
maggiori di incasso. Gli aiuti monetari ricevuti non vengono certamente investiti in
formazione e sviluppo: in parte finanziano apertura di chioschi in ogni dove, in parte
vengono incassati del governo. D’altronde quest’ultimo non vede altre entrate data
l’assenza di un meccanismo di tassazione funzionante, che porta al paradosso di
imporre dal 1996 una tassa persino sul passaggio di frontiera degli aiuti umanitari.65
La rinascita dell’economia inoltre non è sicuramente favorita dalla scarsità delle
infrastrutture e dagli spostamenti di massa: dalle campagne alle città, dove si avvia
una selvaggia urbanizzazione a scapito della produzione agricola, e verso l’estero. A
livello famigliare, la maggior parte delle entrate è data proprio dalle rimesse
provenienti dall’estero che, sommate, costituiscono una considerevole fetta del
prodotto interno nazionale. I soldi delle rimesse sono spesi per prodotti ovviamente
63
Dichiarazione della Commissione Mista Italia Albania, Tirana, 1992. I contenuti dell’accordo, così
come di tutti gli altri accordi bilaterali che si citeranno, sono riassunti sul sito internet della
Cooperazione Italiana allo Sviluppo. [http://www.italcoopalbania.org/]
64
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.7
65
Ibid: p.62
27
di importazione, in assenza di produzione in loco, ma ancora di più sono investiti
nelle cosiddette Piramidi66, schemi finanziari che promettono profitti incredibili, o in
altre parole, sospetti. Questo però solo agli occhi degli occidentali, perché,
comprensibilmente, gli albanesi rimasti in patria sono ammaliati e conseguentemente
accecati dalla prospettiva di uno stile di vita più simile a quello degli altri europei,
cioè dal consumismo che vende loro la tv.
Sali Berisha, membro del Partito Democratico, Presidente dalle elezioni del
1992, fin dall’anno seguente pubblicizza l’operato della classe dirigente anche
attraverso il successo delle Piramidi, che diventano il tema portante della sua
campagna elettorale nelle elezioni politiche del 1996, quando viene riconfermato alla
Presidenza del Paese. Non è certamente “una coincidenza che una delle finanziare,
la XHAVERRI, abbia sponsorizzato l’edizione di un libro dedicato al Presidente”.67
Nelle Piramidi vengono investiti anche i soldi delle privatizzazioni di imprese
pubbliche, spesso di fatto svendute agli stranieri, soprattutto quelle minerarie, come
il caso degli acquisti effettuati dalla Preussag AG nell’industria del cromo. Le
privatizzazioni sono ovviamente parte del programma di liberalizzazione sollecitato
dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali che M. Chossudovsky68 non esita a
criticare come una forma di neo-colonialismo di mercato. Questo colonialismo
porrebbe le popolazioni degli Stati aderenti ai programmi del FMI e della Banca
Mondiale in secondo piano rispetto all’adempimento delle condizionalità imposte,
che difatti portano a legislazioni estreme, come la legge per le “aree economiche
libere” del 1996 in Albania che esenta gli stranieri dal pagare tasse per sette anni.69
Non stupisce più allora l’effetto perverso: la tassa sugli aiuti umanitari.
Tanto meno stupisce che le Piramidi siano controllate per la maggior parte da
membri della nomenklatura al governo, per la maggior parte uomini appartenenti a
clan del Nord, da cui Berisha proviene, che non nascondono legami con la mafia
66
Uno schema piramidale o piramide, altro non è che un piano di investimento che promette profitti in
base al reclutamento di altri addetti alle vendite. Non si ha dunque alcuna vendita genuina di prodotti o
servizi. Si tratta dell’esasperazione del Multi-level Marketing (MLM) , definibile come un programma di
marketing in cui ogni partecipante acquisisce il diritto a reclutare ulteriori partecipanti per vendere
prodotti o servizi e a ricevere una percentuale per le vendite finali. Nel caso di una Piramide il processo
di reclutamento va avanti tendendo all’infinito, fino a quando inevitabilmente collassa. Nel migliore dei
casi si hanno poche persone che ne escono arricchite. Il nome “piramide” si riferisce alla forma
triangolare del diagramma di questo schema: al vertice una persona può reclutare n persone che
costituiscono il secondo livello e a loro volta assumono m persone che costituiscono il terzo, e così via.
Per ulteriori informazioni si può consultare il sito internet del Multi Level Marketing Watch Group
[http://www.mlmwatch.org/, visitato il 18/12/2012]
67
Barijaba, Kosta, La ribellione albanese: motivazioni regionali o politiche?, 22-06-1997, online
nell’Archivio di Notizie Est.
68
Chossudovsky, Michel, La crisi albanese, Edizioni Gruppo Abele, Torino (1998).
69
Ibid: p.50
28
italiana. Immediatamente dopo il loro fallimento, Vefa, una delle quattro principali
Piramidi assieme alla già citata Xhaferri, a Sudja e Populi, è messa sotto inchiesta
per legami con la camorra. Le stesse Piramidi non possono che essere sostenute dal
riciclaggio di denaro sporco in un Paese dove le uniche esportazioni rimaste in piedi
sono quelle di droga, armi e prostituzione. Altro denaro è probabilmente riciclato in
attività legali, dal turismo all’immobiliare. Eppure tutto ciò è lasciato al suo corso,
senza alcun intervento della comunità internazionale. Ed anzi, il direttore della Banca
Mondiale per l’Europa Centrale e l’Asia, Jean Michel Severino, non manca di
elogiare Berisha “per la crescita rapida e i risultati generalmente positivi”.70 Solo
nell’autunno del 1996 una delegazione del FMI in visita a Tirana intima al governo
di chiudere l’attività poco chiara e sospetta delle finanziare che si denunciano
finalmente come “una barriera per lo sviluppo economico e finanziario del paese”.71
Inutile però dire meglio tardi che mai, perché comunque, nel 1997, gli schemi
piramidali crollano: scoppia la crisi.
Il fallimento delle Piramidi procura perdite al 70% delle famiglie albanesi. Una
grandissima fetta della popolazione dunque vi aveva investito i guadagni e le rimesse
di ben sei anni. Le stime delle perdite ammontano a cifre esorbitanti: dal miliardo e
mezzo ai due miliardi di dollari, che costituiscono più di un terzo del Pil.72
Scoppiano subito rivolte nel Sud del Paese per chiedere le dimissioni di Berisha:
Valona, Argirocastro, Delvina, Tepelene e Saranda sono le prime città a sollevarsi,
non a caso, le roccaforti del Partito Socialista. Non sono solo i socialisti a prendere le
armi però, ma una folla di composizione estremamente varia: “ex ufficiali epurati
[…], cosiddetti perseguitati di sinistra, militari disertori, giovani delle campagne
[…] e persino agenti dello Shik [la polizia segreta] passati con i rivoltosi”.73 Si
alleano tutti per formare i cosiddetti Comitati di Salvezza, cui Berisha prontamente
risponde con la creazione del Comitato di Salvezza Nazionale. “La connotazione
“sudista” della rivolta, data dal governo attraverso la TV albanese [gli garantisce]
l’appoggio quantomeno del Nord […] minacciato dalle manifestazioni”.74 Berisha
conta di scatenare il Nord contro il Sud, ma vedendo che solo la stampa italiana
accenna ad una guerra civile, punta sul “caos armato”, aprendo i depositi delle armi.
70
Ibid: p.34
Barijaba, Kosta, La ribellione albanese: motivazioni regionali o politiche?
72
Molinari, Maurizio, L’INTERESSE NAZIONALE Dieci storie dell’Italia nel mondo, Gius. Laterza &Figli
Spa, Roma-Bari (2000): p.16
73
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.14
74
Barijaba, Kosta, La ribellione albanese: motivazioni regionali o politiche?
71
29
Il suo scopo è chiaro: creare “un terremoto, perché quando arriva un terremoto, i
conflitti politici vengono rimandati a dopo l’emergenza, [come] dice Fatos
Lubonja”.75
Anche per l’Italia si apre la seconda fase di “emergenza albanese” con l’arrivo
di un’altra ondata di profughi.76 Kosta Barjaba e Luigi Perrone ritraggono in questo
modo la situazione: “Per quanto ci riguarda, consideriamo la loro una scelta
personale; ma ricordino gli "intolleranti colti e differenzialisti" che non ci sono
barriere - alte per quanto possano essere - che tengano, a difesa dei propri privilegi
e contro la fame e la paura. La politica albanese è uno specchio per tutto l'Occidente
liberista; un fallimento di cui non si vuole prendere atto. Una società a guida
democratica avrebbe potuto imparare molto. Invece si è preferita dapprima la
spettacolarizzazione, con i riflettori puntati su una popolazione armata sino ai denti
e in preda a una presunta follia omicida/suicida generalizzata; poi, in uno
sbalorditivo e vergognoso crescendo, un intero popolo in cerca d'aiuto veniva
stigmatizzato come "mafioso, delinquente, criminale". Nessuno voleva vedere che a
sparare erano intere regioni; nessuno si è domandato se per caso non sparassero
anche per la democrazia; un modo come un altro per accreditare la cultura altrui
come subalterna, abusiva, inferiore e per fare il gioco berishiano. Eppure questo
popolo è insorto contro un'impressionante truffa che ha fatto sparire i risparmi di
migliaia di famiglie, le rimesse di 600.000 migranti - 1/6 dell'intera popolazione - e
con essi, per molti, la possibilità di sopravvivenza. Diversamente dal '91, allorché si
visse un'entusiasmante partecipazione popolare - tale da far recedere il governo
italiano dall'iniziale decisione di espellerli in massa, cosa che fece poi in agosto questa volta l'accoglienza è stata freddina.”77
L’Italia ha reagito come una società vittimista, con toni di difesa retoricamente
giustificati dall’“invasione albanese”, con la concessione di permessi di durata
massima tre mesi e con l’espulsione. Va sottolineato che la scelta di predisporre il
blocco navale, l’Operazione Bandiere Bianche, e successivamente varare la legge
40/1998 per la chiusura delle frontiere, è legata anche al rispetto degli accordi di
Schengen e nondimeno ai sacrifici che l’Italia ha dovuto fare per entrare in Europa.
75
Barjaba K., Perrone L., ALBANIA QUESTA SCONOSCIUTA , 14.07.1997, online nell’Archivio di
Notizie Est.
76
Gli albanesi soggiornanti in Italia dal ’96 al ’97 aumentano da circa 66 mila persone a 84 mila
secondo i dati del Ministero dell’Interno e secondo le elaborazioni ISTAT.
77
Barjaba K., Perrone L., ALBANIA QUESTA SCONOSCIUTA , 14.07.1997, online nell’Archivio di
Notizie Est.
30
Si può difendere questa reazione affermando che “l’ondata albanese ha
principalmente la colpa di essere arrivata in un momento difficile per l’Italia e per
l’Europa”.78 Molti non accettano però di difendere la linea politica che è stata anche
la causa di una strage come quella avvenuta nella notte del 28 marzo 1997 nel canale
di Otranto. Quella notte lo speronamento del dragamine albanese Kater I Rades da
parte delle unità italiane a bordo della Sibilla conduce alla morte forse più di ottanta
persone, la maggior parte donne e bambini.
Lo stesso 28 marzo viene approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite la Risoluzione 110179 che autorizza la creazione di una Forza Multinazionale
di Protezione (MNPF) per ristabilire l’ordine interno. L’Italia, che aveva avanzato la
richiesta all’ONU oltre ad aver mobilitato l’Unione Europea per l’assistenza
economica e umanitaria e l’OSCE per la restaurazione delle istituzioni democratiche,
è la nazione guida della missione. Il 2 aprile il Presidente del Consiglio Prodi si reca
in Albania e al suo ritorno illustra un piano di intervento che dovrebbe rispondere
alle tre priorità di politica estera fissate da lui stesso, Dini ed Andreatta. E cioè
mantenere la stabilità interna al Paese, impegnarsi negli aiuti umanitari internazionali
e, terzo, nello sviluppo di lungo periodo. Mercoledì 9 aprile si svolge alla Camera la
discussione sul piano multinazionale di pace, cui si oppongono apertamente solo la
Lega Nord e Rifondazione Comunista, quest’ultima nella speranza di ottenere il via
ad una commissione d’inchiesta sulla responsabilità italiana nelle Piramidi, ma il
Senato nel complesso esprime un voto favorevole. Così con 321 voti favorevoli, 262
contrari e un astenuto, il 14 aprile prende il via l’Operazione Alba.80 Sono 11 gli Stati
che vi prendono parte tra cui, oltre all’Italia, Francia, Turchia, Grecia, Spagna,
Romania, Austria e Danimarca, per un totale di oltre sette mila uomini, più di un
terzo italiani. In quattro mesi la missione ha consentito la distribuzione di quasi sei
mila tonnellate di viveri, medicinali, sementi e vestiario, ed ha assicurato la presenza
di osservatori ai turni elettorali di fine giugno e inizio luglio81 per concludersi
ufficialmente il 12 agosto 1997. Il report dell’OSCE sulle elezioni parlamentari del
78
Maggioni, Stefania, Immigrazione albanese in Italia, (tratto da) Immigrazione al femminile: donne
albanesi a Milano, Gennaio 2001, disponibile online sul sito di Notizie Est.
79
UNHCR, Resolution 1101 (1997) Adopted by the Security Council at its 3758th meeting, on 28
March 1997.
http://www.unhcr.org/refworld/country,,,RESOLUTION,ALB,,3b00f16e64,0.html [visitato 12.12.2011]
80
Camera dei Deputati, Portale Storico, Cronologia: XIII legislatura,
http://storia.camera.it/cronologia/leg-repubblica-XIII/elenco [visitato il 16.02.2012].
81
Sito Ufficiale dell’Esercito, “Alba”-Albania,
http://www.esercito.difesa.it/Attivita/MissioniOltremare/MissioniconiReparti/MissioniMultinazionali/Pagin
e/AlbaAlbania.aspx?status=Conclusa [visitato il 17.01.2012]
31
29 giugno afferma: “The realisation of the June 1997 elections in Albania would not
have been possible without the excellent co-operation of the Multi-National
Protection Force, established in Albania in accordance with United Nations Security
Council Decision N. 1101. The MNPF provided substantial logistical support and
secured a stable environment for the election process”.82 Come per l’Operazione
Pellicano, terreno di discordanza è la valutazione dell’efficacia nella distribuzione
degli aiuti alimentari e medicinali e della necessità dell’impiego dell’esercito,
giustificato solo da chi crede che vi sia veramente in atto una guerra civile. Ancora
una volta è impossibile fare un bilancio obiettivo. In ogni modo, alla Conferenza
interministeriale di Roma il 18 ottobre la crisi è considerata conclusa. Non
dimentichiamo però che la crisi del Kosovo83 è già alle porte e il ruolo dell’Albania è
destinato ad accrescere di importanza per la più generale stabilità e ricostruzione
dell’intera regione balcanica. Anche a ragione di questo collegamento, si inaugura a
Roma una nuova stagione di cooperazione: "Occorre che la comunità internazionale
continui ad assistere l' Albania", si legge nel documento finale della Conferenza.84
2.3. Il consolidarsi della presenza Italiana in Albania.
Nonostante le interruzioni dei rapporti tra l’Italia e l’Albania sotto la dittatura
di Enver Hoxha, l’attenzione dell’Italia si rivolge ancora all’Albania sin dal primo
momento della nuova era post-comunista. Per due volte negli anni Novanta l’Italia è
chiamata in causa dall’“emergenza albanese” prefigurata in entrambe i casi dagli
sbarchi di migliaia di profughi sulle coste pugliesi. Dunque, difficile contestare che
la mobilitazione italiana sia stata motivata nel 1991 come nel 1997 dalla necessità di
interrompere questi arrivi. Questo d’altronde è un fatto che nessun ministro ha mai
cercato di nascondere e persino plausibile se giustificato, come è stato fatto, da
motivi di sicurezza interna. Più forti sono piuttosto le accuse mosse ai media italiani
per i toni razzisti spesso utilizzati, alla scelta dell’utilizzo dell’esercito cui abbiamo
fatto accenno e, per ciò che riguarda il periodo fra le due crisi, al sostegno del
Governo Berisha.
82
OSCE, Election Observation, rapporto disponibile in PDF all’indirizzo:
http://www.osce.org/odihr/elections/14029.
83
Nonostante siano vari gli accenni alla crisi del Kosovo vista l’emergenza ad essa conseguita in
Albania, non si fornisce un racconto dettagliato degli eventi in questa sede.
84
De Lellis, Stefania, CENTO DOLLARI A TESTA PER RIFARE L’ALBANIA, articolo pubblicato su La
Repubblica il 18.10.1997, online all’indirizzo:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/10/18/cento-dollari-testa-per-rifarealbania.html [visitato il 7 marzo 2012].
32
“Il Ministro degli esteri italiano Lamberto Dini non ha forse responsabilità per
avere sostenuto il distruttore dello stato albanese, Sali Berisha, nel momento in cui
quest'ultimo stava creando e difendendo le "piramidi" e dopo che aveva manipolato
le elezioni del 26 marzo 1996?”85 Luigi Perrone e Kosta Barjaba ancora una volta
sferrano il loro attacco: “Chiunque non sia compromesso nel suo governo a
"democrazia autoritaria" sa che il vero impedimento alla normalizzazione del Paese
è il presidente, il quale continua imperterrito a rafforzare il proprio potere personale
e avvelena la vita politica del Paese con un controllo personale degli apparati dello
Stato; mentre continua l'antico uso della famigerata polizia segreta, che imperversa
con schedature, minacce e repressione di chiunque non sia allineato. Ma in Italia
non
si
ascolta
nemmeno
l'opposizione
interna
allo
stesso
Partito
Democratico[…]Durante le elezioni del maggio '96 l'opposizione albanese [invia]
questo appello alla comunità internazionale: "mandate oggi 500 osservatori politici
per le elezioni, per non mandare domani 5.000 soldati per garantire la pace"”. Le
elezioni,
invece,
seppure documentate
come truffaldine dagli
osservatori
internazionali, sono avvallate dall’ambasciatore italiano Foresti86: “Dobbiamo
[allora] dedurre che il governo italiano preferisca la politica delle armi alle armi
della politica?”87
Alcuni giornali italiani rispondono di sì senza usare mezzi toni, criticando
l’“aggressiva politica coloniale del governo Prodi sul fronte balcanico”, che
vorrebbe promuovere i soli “interessi delle grandi aziende italiane in processi di
privatizzazione che privano interi paesi di risorse fondamentali, […] ottenere
privilegi per le industrie del nostro paese, in prima fila quelle militari, facendone
pagare gli oneri alle popolazioni locali, intervenendo militarmente all'estero”.88 Si
criticano prima il sostegno a Berisha, poi le modalità di intervento nella crisi:
“Tutelare gli "interessi" del capitale italiano nell'area e al tempo stesso dare una
immagine dell'Italia che le consenta di "farsi valere"[…]: è questa la logica
dell'Operazione Alba, in continuità con la precedente Operazione Pellicano e con la
85
Lubonja, Fatos, Albania: Protettorato o Stato Sovrano? (19.02.1999), articolo tratto da Koha ditore e
disponibile online sul sito di Notizie Est.
86
L’ambasciatore Foresti, incaricato di creare l’esecutivo di transizione durante la crisi a seguito delle
dimissioni del Primo Ministro albanese Meksi, è stato durante l’Operazione Alba anche accusato di
essersi opposto alla mediazione OSCE.
87
Barjaba K., Perrone L., ALBANIA QUESTA SCONOSCIUTA , 14.07.1997, online nell’Archivio di
Notizie Est.
88
Autori vari, Un anno dalla strage di Otranto, 28-03-1998, pubblicato su Il Manifesto e disponibile sul
sito di Notizie Est. Molti altri articoli del 1997 e del 1998 riguardano, come l’articolo di F. Lubonja, il
dibattito sulla natura dell’Albania rispetto all’Italia (protettorato o stato sovrano?)
33
politica colonialista da sempre perseguita dai governi italiani nei rapporti con
l'Albania, ma soprattutto in armonia col Nuovo Modello di Difesa, che si propone
appunto di usare l'apparato militare, debitamente riformato e professionalizzato, in
funzione di "difesa degli interessi nazionali”".89 E ancora “Il governo "amico" è
riuscito a inanellare un'incredibile serie d'errori. Dapprima ha ritardato gli
interventi, poi ha cincischiato alla ricerca di soluzioni extra legem, allorché ha
dichiarato di non voler "concedere asilo", contro leggi dello Stato (legge 39/90 e
774/54, con la quale si ratificava la Convenzione di Ginevra) che attendono d'essere
applicate; poi ha concesso dei "visti a tempo"; infine il capolavoro del
"pattugliamento" col conseguente, prevedibile "incidente". Ultimo in ordine di
tempo, l'invio dell'esercito senza alcun chiarimento su quali debbano essere i suoi
compiti e con la benedizione della destra che ha invece ben chiari i propri obiettivi:
puntellare il "legittimo governo"”.90 E, come accennato parlando dell’Operazione
Pellicano, non sono affatto minoritarie le critiche legate agli effetti perversi delle
missioni sul proliferare delle attività criminali.91
Al di là delle modalità politiche che hanno caratterizzato il ricostituirsi dei
legami fra i due Paesi sin dai primi anni ’90, è un dato di fatto che in questo decennio
la presenza italiana in Albania è andata man mano consolidandosi di nuovo. Si
intende con presenza italiana sia un’effettiva presenza fisica di imprese, di
missionari, di ONG, di uomini politici e della Cooperazione; sia la più ampia
presenza del mito italiano nell’immaginario comune, attraverso la televisione in
primo luogo, e in secondo luogo tramite l’affluenza delle rimesse, di macchine
italiane e di regali dall’Italia alle famiglie di emigrati rimaste in Albania. Nonostante
l’indignazione per una strage come quella della Kater I Rades, nonostante gli appelli
razzisti e il loro status ufficiale di clandestini, gli albanesi continuano ad emigrare,
prima come “emigrati politici” spinti dall’instabilità interna al proprio Paese, poi
come “emigrati economici”, speranzosi di trovare uno stile di vita migliore. L’Italia
dopotutto continua a fornire all’Albania denaro e progetti per la modernizzazione
dell’economia, si impegna nell’equipaggiamento e nell’addestramento, tanto che al
Ministero degli Esteri di Tirana la lingua diplomatica nel 1997 è l’italiano e alla
89
Autori vari, Sbarco in Albania,editoriale di "Guerre&Pace" n. 39-40, maggio/giugno 1997, online sul
sito di Notizie Est.
90
Barjaba K., Perrone L., ALBANIA QUESTA SCONOSCIUTA , 14.07.1997, online nell’Archivio di
Notizie Est.
91
Particolarmente critico è l’articolo di Mangano, Antonello, Aiuti allo Sviluppo Criminale, 14-07-1997,
online nell’Archivio di Notizie Est.
34
Difesa si comincia a parlare del fondamentale appoggio del governo italiano per
risollevarsi dalla crisi ed unirsi in futuro all’Unione Europea. Con tutte le critiche che
si possono muovere, l’Italia si conferma l’alleato più vicino.92 La Cooperazione allo
Sviluppo, presente sin dai primi anni Novanta per fornire aiuti nell’ambito delle
emergenze, si orienta verso una nuova strategia di azione pluriennale.
Le strategie di sviluppo e cooperazione, finanziate dal Ministero degli Affari
Esteri, sono stabilite da accordi bilaterali, stipulati direttamente tra il Governo
italiano e il Governo albanese. Il tutto avviene all’interno del cosiddetto “Sistema
Italia” che fa riferimento a quattro pilastri. La collaborazione con le ONG e con i
programmi predisposti dalle Agenzie dell’ONU e dell’UE rientra nel primo: la
cooperazione orizzontale. Si hanno poi la cooperazione decentrata, che vede la
realizzazione di iniziative condotte dagli enti locali italiani; e la collaborazione con le
associazioni economiche di categoria nell’ambito della piccola industria, del
commercio e dell’artigianato, oltre che nel settore bancario e finanziario dove si
promuovono il trasferimento di know-how e la buona riuscita delle iniziative
congiunte tra i settori pubblico e privato. L’ultimo campo di cooperazione è il
sistema formativo, con lo sviluppo della cooperazione interuniversitaria in
particolare. Per l’attuazione di tutte queste forme di cooperazione sempre più italiani,
volontari e non, hanno modo di entrare in contatto con il Paese delle Aquile.
In particolare, l’Albania si caratterizza per la diffusa presenza di ONG italiane,
approdate in occasione delle emergenze e poi radicatesi soprattutto nelle zone più
disagiate e periferiche, per contribuire innanzitutto allo sviluppo dei settori della
sanità, dell’educazione, dell’inclusione sociale e delle pari opportunità e aspirando al
coinvolgimento delle istituzioni presenti sul territorio. Il numero delle ONG
finanziate dal MAE attraverso la sua Direzione Generale per la Cooperazione e lo
Sviluppo è oscillato negli anni tra venti e trenta, contando fra le più conosciute
Caritas Italiana, CEFA, CESVI, la Comunità Papa Giovanni XXIII, la Comunità di
Sant’Egidio93, VIS. Le ONG sono fra le prime organizzazioni che hanno risposto
all’appello di coordinamento in seno alla nuova prospettiva di cooperazione allo
sviluppo, per cui rimando al capitolo seguente, e già dai primi anni Duemila si è
lavorato per la redazione di un documento che definisse una Strategia per il Nord
92
A conclusione dell’Operazione Pellicano il Primo Ministro Meksi afferma: “simbolo della correttezza
di un’amicizia tra due popoli che gli albanesi non dimenticheranno mai”. (Repubblica 04/12/1993)
93
La Comunità di Sant’Egidio è stata anche promotrice del Patto per il futuro dell’Albania, Roma, 23
giugno 1997 . Consultare l’indirizzo http://www.santegidio.org/archivio/pace/albania_19970623_IT.htm
per il testo del Patto.
35
dell’Albania. Si è prestata particolare attenzione agli ambiti socio-educativo e sociosanitario, all’ambiente e allo sviluppo rurale e ai fenomeni di migrazione
(emigrazione verso l’estero, rientro dei migranti, rimesse dall’estero e migrazione
interna), che sin da subito sono stati i campi di maggiore intervento dei volontari
italiani.
Come è facile intuire dai nomi di alcune delle ONG citate, non è da meno la
presenza di religiosi italiani in Albania, che è pur sempre la terra di Madre Teresa. Le
missioni cattoliche sono inserite nell’Amministrazione Apostolica del Sud e nelle
cinque diocesi del Nord, di cui la più grande è quella di Tirana-Durazzo. Le suore, i
preti, i diaconi ed i laici che ne fanno parte pur appartenendo a diverse congregazioni
e famiglie religiose, collaborano tra loro per portare avanti la loro opera di
evangelizzazione. Dato il trascorso dell’Albania, dove Hoxha aveva bandito qualsiasi
fede che non fosse quella nella sua persona, le comunità delle diverse religioni
convivono più o meno pacificamente e negli oratori dei missionari cattolici sono
accolti anche bambini, ragazzi ed uomini che si dicono per tradizione mussulmani o
cristiani ortodossi. Generalmente, tutti i religiosi sono visti con grande rispetto agli
occhi delle famiglie locali, che sin dalle prime forme di assistenza promosse,
soprattutto nel pericoloso caos scoppiato nel 1997, vi hanno visto una fonte di
salvezza. L’impegno nella scuola, nella sanità, nell’assistenza tramite la fornitura di
viveri, vestiario, .., rimane ancora oggi notevole soprattutto nei villaggi più isolati
dell’entroterra.
E infine, ricordiamo ancora una volta la capillare presenza di imprenditori ed
investitori italiani, che si aggiungono ad altrettante imprese a capitale misto italoalbanese, per un totale di più di duecento imprese registrate. Sono piccole-medie
imprese edili, di abbigliamento, calzature e maglieria, ma anche adibite alla
trasformazione ittica e alla lavorazione del legno e costituiscono un ruolo vitale per
la crescita dell’economia locale. Oltre il 20% delle imprese italiane sulla costa
producono made in Italy e gli investimenti diretti esteri (IDE) già cospicui alla fine
negli anni Novanta, hanno continuato ad aumentare. L’Italia, stando a dati del 2007,
possiede anche l’80% del capitale azionario dell’American Bank of Albania
acquisito dal Gruppo Intesa San Paolo oltre alla Banca Italiana di Sviluppo. Ed oltre
agli IDE, si hanno accordi di collaborazione commerciale e produttiva come ad
esempio il traffico di perfezionamento passivo (TPP), che consente all’Italia di
36
delocalizzare alcune fasi produttive oltremare.94 La fitta presenza di attività italiane è
consentita dal quadro normativo per gli investimenti stranieri in Albania, disciplinato
dalla Legge locale n. 7764 del 2 novembre 1993, che rende le condizioni di
investimento particolarmente favorevoli. Inoltre, da parte Italiana vengono concesse
ulteriori agevolazioni, alla luce dell’articolo 7 della Legge n. 49 del 1987, per il
parziale finanziamento della quota di venture capital in imprese miste da realizzarsi
in Paesi in via di sviluppo. Dal 2005, data l’importanza delle PMI per l’economia
albanese, cui esse concorrono per oltre il 99% del PIL, l’Italia si è impegnata anche
in un Programma di Sviluppo per tali imprese, che prevede il loro supporto tramite
strumenti finanziari e non finanziari e che, come vedremo in seguito, costituisce una
pietra miliare dei più recenti Protocolli di Cooperazione tra i due Paesi.
2.4. Il primo decennio di transizione: un successo o un fallimento?
Sullo sfondo della povertà e del disordine che derivano dai resti del Regime di
Enver Hoxha e dal breve e fallimentare tentativo di governo di Ramiz Alia, l’Albania
del 1991 deve confrontarsi con diffuse aspirazioni a completare la transizione verso
la democrazia e il libero mercato. Rispetto agli Stati nati dalla disgregazione
dell’URSS e a quelli che di lì a breve diverranno indipendenti con la frantumazione
della Jugoslavia, quello albanese è “by far the most difficult starting point for
transition”.95 La sfida della transizione si presenta ardua nei suoi tre aspetti
principali: quello economico di passaggio dall’economia pianificata all’economia di
mercato; quello politico, dall’autoritarismo ad un ordine istituzionale e democratico;
quello giuridico, con la costruzione delle basi di un sistema legale basato sulla rule of
law da sostituirsi allo stato di lawfulness and lawlessness esistente.96 Per via della
compresenza di queste tre trasformazioni da effettuarsi si parla in termini tecnici di
una three-fold transition oppure triple transition. A livello teorico, vi è oramai
94
Iapadre L., Mastronardi G., Le relazioni economiche tra Italia e Albania, capitolo terzo nel documento
a cura di Niglia, Federico, L’Albania verso l’Unione Europea: Il ruolo dell’Italia, Ricerca condotta
nell’ambito del progetto Aquifalc, Università di Bari - Programma Interreg-Cards, 2004-2006, Istituto
per gli Affari Internazionali.
95
Cviić C., Sanfey P., In search of the Balkan Recovery- The Political and Economic Reemergence of
South-Eastern Europe, Hurst & Co., UK (2010): p.126
96
Bas de Gay Fortman, Dilemmas of transition: the case of Albania: p.86. In Tarifa F., Spoor M.,
CESTRAD, Institute of Social Sciences,The first decade and after- Albania’s Democratic Transition and
Consolidation in the Context of Southeast Europe, Smiet, The Hague (2000). Nella stessa pagina
l’autore parla dell’inizio di un lungo periodo di trasformazioni sociali e culturali e sicuramente nel
definire lo stato di “lawfulness and lawlessness” qualcuno potrebbe leggere un riferimento al kanun,
l’antico codice consuetudinario albanese, conosciuto per le rigide leggi di vendetta.
37
un’ampia letteratura sulle transizioni degli ex-Paesi comunisti.97 In particolare, si ha
un acceso dibattito tra i teorici della shock therapy, che auspicherebbero una
trasformazione rapida e radicale in tutti gli ambiti, e i sostenitori di un approccio più
gradualistico. In questo dibattito si colloca anche chi preferisce il dilemma
approach98, ovvero una metodologia basata su dicotomie che dovrebbero rendersi
utili per impostare le nuove politiche postcomuniste. I dilemmi sono del tipo:
economia di mercato o controllata dallo Stato? Favorire la crescita o l’equità?
L’apertura o la chiusura verso l’esterno? La democrazia o la disciplina? Non serve
molto tempo per comprendere che si tratta in realtà di falsi dilemmi, in quanto in
ognuno di essi è possibile percorrere una via di mezzo: un limitato intervento statale
in economia, una crescita che porti anche equità, l’apertura al mercato internazionale
con misure di protezione sulle industrie più forti ad esempio, una democrazia
pluralista adeguatamente sorvegliata da istituzioni preposte al suo controllo. Come è
evidente, inoltre, anche questi cosiddetti dilemmi si possono ricollegare ai tre ambiti
della transizione, che seguiremo anche per compiere una valutazione del primo
decennio post comunista dell’Albania, affiancando l’aspetto della legalità al più
generale sviluppo politico in senso democratico. Innanzitutto però diamo uno
sguardo alla transizione al libero mercato.
Per ciò che riguarda l’economia, è lo stesso Ramiz Alia che a partire del 1989
compie i primi passi verso la liberalizzazione. Tuttavia, forse poiché troppo tardivo,
questo tentativo di apertura non ha saputo difendere la sua posizione al governo. E’
Aleksander Meksi, Primo Ministro in carica tra le elezioni del 1991 e quelle del
1992, a decidere di procedere con la privatizzazione delle imprese “a due velocità”:
più rapida nel caso di PMI, solo parziale per le maggiori imprese statali. La
privatizzazione dei terreni agricoli avviene in maniera confusionaria, creando
conflitti sui diritti di proprietà di diversi appezzamenti e mai garantendo più di un
ettaro a famiglia. Il ché praticamente esclude i due terzi della popolazione dediti
all’agricoltura dal mercato, dato che le tecniche agricole arretrate e le dimensioni
ridotte dei campi a molti consentono a malapena di produrre per la propria
sussistenza. Solo il 15% del prodotto agricolo riesce ad essere commercializzato.99
97
Forse tra i più conosciuti Linz e Stepan, Problems of democratic transition and consolidation, Johns
Hopkins University Press, Baltimore (1996).
98
Bas de Gay Fortman, Dilemmas of transition: the case of Albania: p.89. In Tarifa F., Spoor M.,
CESTRAD, Institute of Social Sciences,The first decade and after- Albania’s Democratic Transition and
Consolidation in the Context of Southeast Europe, Smiet, The Hague (2000).
99
Luigi Perrone, Migrazioni dall’Albania.
38
Dal 1992 il mercato viene ampiamente sostenuto dal Fondo per lo Sviluppo Albanese
(FSA) a cui partecipano la Banca Mondiale, l’Unione Europea e vari donatori
bilaterali. Dal 1995 l’Albania gode anche degli aiuti previsti dal Programma
PHARE.100 Tutte le istituzioni internazionali operanti in loco lodano l’incredibile
ripresa dell’economia albanese, ma l’andamento riportato è ingannevole, ancor più
perché sottoposto alla supervisione di organi locali interessati a fare bella figura. Ed
infatti, come già ricordato, la crescita fino 1997 è “doppiamente malata” poiché
fondata massicciamente sugli aiuti internazionali e sugli investimenti nelle
Piramidi.101 Gli aiuti alimentari paiono aver provocato persino l’aumento
dell’importazione di grano e farina di ben quattro volte tra il 1994 e il 1996.102 E così
nel 1997, mentre gli altri stati balcanici sono già in via di ripresa dallo stato di
guerra, in Albania si ha uno spettacolare collasso.103
Segue, ancora una volta, una rapida ripresa104 e, nel 1998, il PIL è simile al
1996. Ancora una volta però questa crescita è di dubbia sostenibilità. Innanzitutto, il
tasso di incremento della popolazione rimane alto, quindi nonostante vi sia forza
lavoro disponibile, è difficile investire in sviluppo, soprattutto nelle città dove
l’urbanizzazione comincia a presentarsi selvaggia e incontrollabile. Le attività
economiche si concentrano nel corridoio Tirana-Durazzo e, anche per via della
scarsità delle infrastrutture, che continuano a rimanere un punto debole significativo
dello Stato, le disparità sul territorio vanno ampliandosi terribilmente. Le crisi
energetiche, sempre per via del basso livello infrastrutturale, continuano a succedersi
creando ulteriori problemi al riavvio dell’economia. Dopo il 1997 e il superamento
del calo di fiducia nelle banche, si è andato investendo nel sistema bancario che
100
Il programma PHARE ha costituito il principale strumento finanziario della strategia di preadesione
per i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale fin dal 1989.
101
In altri termini una ripresa costruita su deboli fondamenta (“recovery built on weak foundations”:
Cviić C., Sanfey P., In search of the Balkan Recovery- The Political and Economic Reemergence of
South-Eastern Europe, Hurst & Co., UK (2010): p.129.)
102
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati
SpA, Milano (1997): p.53. Il mercato nero, come fa notare l’autore, blocca il commercio lecito
costituendo un disincentivo alla produzione.
103
“the most spectacular collapse” : Cviić C., Sanfey P., In search of the Balkan Recovery- The
Political and Economic Reemergence of South-Eastern Europe, Hurst & Co., UK (2010): p.131.
104
Come nel periodo precedente grazie anche alle riforme strutturali. “During the initial years of
transition, the disorganization or chaos resulting from the removal of central controls and coordination
produced negative total factor productivity growth rates as output fell and large parts of the capital
stock were idled. Subsequently, as the economy achieved macroeconomic stability and introduced
structural reforms, the reallocation of resources to more productive activities allowed the economy to
generate rapid growth with low rates of investment, so that total factor productivity growth rates
increased.” World Bank, Country Economic Memorandum 2004, Albania Sustaining Growth Beyond
the Transition.
39
consente maggiore accesso al credito, soprattutto per rilanciare l’industria. Si ha
avuto certamente un forte proliferare di imprese, ma con tutta la concentrazione
rivolta al “successo” della seconda “rinascita economica” degli anni Novanta, non si
tiene da conto che esse rappresentano quasi sempre micro-attività o grandi business
collegati ad attività nella maggior parte dei casi illecite. Si parla persino della metà
del PIL prodotta da produzioni, servizi o traffici illegali.105 L’agricoltura rimane il
settore più influente, mentre le imprese più redditizie, ad esempio quelle di
estrazione mineraria e le telecomunicazioni, come anche la maggioranza delle altre
imprese produttive esistenti, fanno spesso capo ad aziende straniere, favorite dalle
leggi sugli investimenti esteri già citate. Attirare investimenti è stata una mossa
dettata dalla necessità di sviluppare le infrastrutture ed avere una qualche fonte di
entrata, vista la debolezza del sistema fiscale, ma si è rivelata presto sinonimo di una
viziosa dipendenza della crescita dall’esterno e dell’ampliamento del gap fra risparmi
e investimenti. Diretta conseguenza quindi è stato l’aumento del debito pubblico e
del disavanzo della bilancia commerciale. Gli effetti indiretti sono ancora più
preoccupanti e vanno dalla fuga di cervelli e l’emigrazione della classe lavoratrice,
all’aumento del settore informale, sino alla corruzione e al clientelismo diffusi
capillarmente in tutto il Paese.
Sicuramente il modello economico albanese si è ampiamente discostato dal suo
predecessore “enveriano”. Diverso è stabilire quanto si sia invece avvicinato alle
altre economie di mercato europee. L’ERBD ha elaborato un insieme di nove
indicatori per valutare i successi nella transizione da planned economies a market
economies suddivisi in tre livelli di riforma. Il primo passo consiste nel market
enabling, tramite la liberalizzazione dei prezzi, del commercio e dello scambio, la
privatizzazione delle piccole imprese, tutti traguardi che l’Albania ha giustamente
posto all’apice della sua agenda e che ha raggiunto senza particolari problemi ed anzi
con discreto successo, come testimonia la sua adesione all’Organizzazione Mondiale
del Commercio nel 2000, proprio alla fine del decennio in analisi. Il secondo passo
sarebbe quello cosiddetto del market deepening dato dalla privatizzazione di grandi
compagnie e dal rafforzamento delle istituzioni finanziare. Nel 2000 gran parte delle
grandi imprese albanesi, in campo edile, energetico, delle telecomunicazioni, dei
trasporti, erano state effettivamente privatizzate. Ricordiamo però che quasi sempre
105
International Crisis Group, Albania, State of the Nation, 2003.
40
sono state imprese straniere ad acquistarle ed anche le istituzioni finanziarie sono per
la maggior parte affiancate da equivalenti stranieri. Già in questo secondo gradino è
necessaria più cautela nell’affermare un esito positivo. Ad essere demoralizzanti però
sono gli insuccessi nel terzo step: market sustaining. Questo prevedrebbe riforme
nella governance, per facilitare la registrazione di imprese, per regolare la
competizione, …, ed investimenti per lo sviluppo delle infrastrutture. La situazione
riguardo queste ultime è rimasta disastrosa lungo tutto il primo decennio di
transizione, come ben riassume l’estratto dal Country Economic Memorandum del
2004 redatto dalla Banca Mondiale che segue :
“The on-going power sector crisis puts at risk Albania’s macroeconomic
performance and its economic growth and poverty alleviation prospects. This crisis
was initially triggered as a result of excessive demand resulting from a failure to
curb illegal use of electricity and non-payment of bills. Since the summer of 2000,
the crisis was aggravated by the impact of a drought on Albania’s predominantly
hydropower-based system, as a consequence of which domestic generation fell
significantly. From being a net exporter of electricity until 1997, Albania has had to
import increasing quantities o f electricity .[…] The adverse impact on the
economy has been significant: (i) GDP has been effected as a consequence of
both the reduced domestic hydropower generation and the impact o f load shedding
on industrial production; (ii)load shedding and the unsatisfactory quality of
electricity supply have acted as a disincentive to direct foreign investment,
necessitated the widespread purchase and use of costly back-up generators, and
caused damage to electricity-using equipment; and (iii) scarce budgetary resources
have had to be diverted from other priority needs to subsidize electricity imports.
[Moreover…] Water supply in almost all urban areas is intermittent because of the
bad condition of Albania’s water infrastructure and some underlying institutional
problems. […] A major obstacle for tourism development is the unreliable water
supply and the pollution of beach areas by sewerage. […] The transport system is
adequate in extent perhaps, but not in condition. The poor state of infrastructure
represents a major constraint to trade, foreign direct investment, tourism, growth,
and the provision of social services for the poor. […] Manufacturing firms suffer
delays from inefficient and complex customs procedures, administrative or
41
regulatory bottlenecks, or the lack of modem systems o f information technology and
cargo handling in both maritime and inland transport.”106
Non solo per ciò che riguarda le infrastrutture, ma anche negli altri aspetti
fondamentali per il sostentamento del mercato, un po’ per via della debolezza delle
istituzioni, un po’ per via della mancanza di capacità di implementazione, non si
sono registrati grandi miglioramenti. D’altronde anche a livello teorico come creare
un’economia ben funzionante rimane un interrogativo irrisolto, si riconosce solo che
un “long term economic success requires a fundamental turnaround in the whole
structure of the economy”107 e questo l’Albania sembra averlo capito. E’ a livello
politico che permangono maggiori dubbi.
Anche nell’analizzare i processi politici, è utile partire da un quadro teorico. La
grande domanda che sottosta a tutte le discussioni di transitology può essere
formulata informalmente così: viene prima la democrazia o il benessere economico?
Ci si chiede, in sostanza, se siano necessari requisiti per creare uno Stato
democratico. Tutti concordano, e se ne sono accorti anche gli stessi albanesi, che la
democrazia non sia “a type of political rule- or form of government- that can be
achieved over night”108 e questo lo ha già dimostrato il lungo percorso
dall’assolutismo al governo democratico compiuto dalle prime democrazie europee.
Non c’è uguale concordanza però riguardo alla necessità o meno di prerequisiti.
Charles Kurzman109 ne nega totalmente l’esigenza asserendo che “Few if any
democracies have ever been ready” con lo scopo di denunciare apertamente l’utilizzo
della scusa di non essere pronti per posporre l’intraprendimento di riforme in senso
democratico. Invece, se non si rifiuta totalmente la teoria dei prerequisiti e si accetta
l’affermazione che certi requisiti materiali, socio-culturali e storici possano facilitare
la transizione, nel caso albanese si può osservare come forse più che il benessere
economico, quindi un requisito materiale, per giungere ad una democrazia
funzionante sia di maggiore ostacolo la cultura politica, a sua volta, frutto della
storia. Ma in quali aspetti della transizione politica l’Albania non riesce ad ottenere
un pieno successo?
106
Ancora da WB, Country Economic Memorandum 2004.
Cviić C., Sanfey P., In search of the Balkan Recovery- The Political and Economic Reemergence of
South-Eastern Europe, Hurst & Co., UK (2010): p.146.
108
Tarifa, Fatos, The future pulls Albania and the Balkans forward: p.16. In Tarifa F., Spoor M.,
CESTRAD, Institute of Social Sciences,The first decade and after- Albania’s Democratic Transition and
Consolidation in the Context of Southeast Europe, Smiet, The Hague (2000).
109
Kurzman, Charles, Not Ready for Democracy? Theoretical and Historical Objections to the Concept
of Prerequisites, Sociological Analysis 1,4:1-12 (1998).
107
42
Elezioni multipartitiche vengono indette sin dal primissimo 1991, ad intervalli
regolari, e sono state quasi sempre avallate dalla comunità internazionale con la
classica formula “free and fair”. Per molti questo è un dato sufficiente a testimoniare
grandi progressi verso il pieno rispetto dei principi democratici. Eppure, la teoria
dello sviluppo politico non manca di specificarlo: lo svolgimento di libere elezioni è
solo una definizione minimale di democrazia. E’ semplicemente la base del principio
di rappresentanza politica, che è solo uno degli obiettivi da raggiungersi nella
transizione. Se esso non viene accompagnato dal rispetto della rule of law, di leggi
non più fini a se stesse ma a garanzia dell’ordine e dei diritti sociali, politici ed
individuali dei cittadini, da riforme istituzionali che garantiscano l’alternanza al
governo e la limitazione dei poteri della classe dirigente, la separazione dei poteri, la
riforma delle forze armate, …, ci si può dire ancora ben lontani dall’istituzione di un
governo “del popolo, dal popolo, per il popolo”.110 Entriamo però ora nello specifico
del caso albanese.
Dal 1985 con la morte di Enver Hoxha, la stessa nozione di Stato in Albania è
andata man mano declinando. Abbiamo già detto (capitolo 1.3) che egli aveva
sostituito l’autorità del capo famiglia con il culto della sua personalità: venendo a
mancare la sua leadership carismatica, viene a mancare l’unica autorità legittimata.
Dal momento in cui la popolazione domanda l’allontanamento dalle strutture dello
stato comunista rimanenti per riscattarsi dalla posizione di svantaggio rispetto agli
altri Stati dell’Europa, ci si aspetterebbe l’instaurazione di un nuovo ordine. Invece,
questa viene a tardare. “Si critica il vecchio regime ma se ne rimpiange
l’egualitarismo. […] Si vogliono frontiere interstatuali facilmente valicabili, ma si
scatenerebbe una guerra alla minima minaccia di sovranità. Si invocano a gran voce
gli investimenti stranieri, ma poi si denuncia lo sfruttamento delle ricchezze
nazionali da parte degli stranieri. Si esalta la democrazia multipartitica, ma ci si
comporta con il partito al potere come con il partito unico comunista,
considerandolo il solo possibile intermediario per ottenere lavoro e ruolo
sociale.”111 Con la fine del Regime Comunista ha fine anche la certezza di una
razione di pane in tavola, di un lavoro, …, ma non ha fine lo strapotere della
nomenklatura né il regime di terrore. Dopo cinquant’anni la popolazione si è
adagiata, la società civile è pressoché inesistente e, come ben riassume Remzi Lani:
110
Definizione di democrazia all’Art. 2 della Costituzione Francese della V Repubblica.
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.65.
111
43
“democracy is understood only as freedom and rights, and not as obligations and
responsibilities as well”.112 Non stupisce allora che Berisha resista al potere cinque
anni incontrastato e che continui con il suo autoritarismo. Non è ostacolato né
internamente né dall’Occidente, che ha puntato su di lui per la “transizione” e lo
“sviluppo democratico del Paese”113, ed anzi, i Programmi di Aggiustamento
Strutturale in vigore per avere aiuti dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali, quasi
lo favoriscono necessitando di un effettivo dirigismo che camuffa e giustifica
l’autoritarismo dello Stato.114 Difatti, non si può chiamare se non autoritario uno
Stato in cui sono la norma la repressione, la censura della stampa, la chiusura delle
scuole, le epurazioni, .., in cui regna la violenza al punto da lasciare il via libera al
saccheggio dei depositi militari nel 1997! E’ certamente superfluo esplicitare che
sino al 1997 non c’è l’ombra di democrazia. Ad ogni modo vediamo la denuncia di
K.Barjaba e L. Perrone: “Un Paese disastrato e gettato sul lastrico da una politica
ferocemente liberista e corrotta è passato da "un lavoro per tutti" alla
"disoccupazione di tutti", con l'aggiunta di una gestione clientelare e personalistica.
La "democrazia" albanese ha operato una selezione capovolta: è prevalso il peggio
in tutti i settori; non c'è settore dove non viga la corruzione come metodo. E va
ricordato che tutti i principali settori della corruzione portano allo Stato: dal traffico
dei clandestini a quello della droga o del commercio delle armi”.115
Il 1997 segna “la fine di una Democrazia senza istituzioni, la fine di uno
sviluppo irreale, senza le strutture della produzione, la fine di una libertà caotica,
dove mancavano i diritti politici ed umani” e si può finalmente parlare di “vera
Democrazia, la democrazia senza Berisha”.116 Un segnale tangibile dei primi
barlumi di libertà è la riforma dei mass media che viene emanata nel 1997, quando la
Legge sulla Stampa pre-esistente viene abolita e sostituita con un unico articolo: “La
stampa in Albania è libera”.117 Seguono la demilitarizzazione ed il disarmo dei civili,
assieme alla riforma delle forze armate. Diviene attiva anche la Genocide Law
secondo cui i pubblici ufficiali del Regime vengono banditi dal governo e dagli
112
Lani, Remzi, Democracy and Media in Postcommunist Albania: p.111. In In Tarifa F., Spoor M.,
CESTRAD, Institute of Social Sciences,The first decade and after- Albania’s Democratic Transition and
Consolidation in the Context of Southeast Europe, Smiet, The Hague (2000).
113
Barijaba, Kosta, La ribellione albanese: motivazioni regionali o politiche?
114
Al proposito Chossudovsky parla di “Istituzioni fittizie” e “falsa democrazia”. Chossudovsky, Michel,
La crisi albanese, Edizioni Gruppo Abele, Torino (1998).
115
Citazione dal libro dei due autori, Naufragi albanesi.
116
Barijaba, Kosta, La ribellione albanese: motivazioni regionali o politiche?
117
Lani, Remzi, Democracy and Media in Postcommunist Albania: p.108. In In Tarifa F., Spoor M.,
CESTRAD, Institute of Social Sciences,The first decade and after- Albania’s Democratic Transition and
Consolidation in the Context of Southeast Europe, Smiet, The Hague (2000).
44
apparati giudiziari locali e nazionali sino al 2002.118 Si intensificano poi in questo
periodo le relazioni con l’Unione Europea, la Nato e l’OSCE. Ma partendo
dall’assunto che “Quarantacinque anni di comunismo, non hanno lasciato tracce
evidenti; sei sette anni di "democrazia" hanno fatto di peggio”119, la popolazione si
ritrova con sempre più sfiducia nella politica. E questo senso di sfiducia non può che
aumentare col perpetuarsi dei battibecchi tra Partito Socialista e Partito Democratico.
Il 22 marzo 1997, Bashkim Fino, a capo del governo di transizione di unità
nazionale, si trova subito ad affrontare dissensi anche interni al suo Partito Socialista.
In particolar modo da parte di Fatos Nano, che diventa Primo Ministro quando il
Partito Socialista risulta vincitore delle elezioni del 29 giugno, e di Ilir Meta, che sarà
anch’egli Primo Ministro dall’ottobre 1999 al febbraio 2002. Continuano le violenze
da parte dell’opposizione, che si intensificano già a metà del 1998 quando Berisha
contesta sempre più aggressivamente i risultati delle elezioni giudicate invece dagli
osservatori internazionali free and fair (si erano riscontrate come uniche difficoltà
quelle organizzative date dai continui spostamenti della popolazione e dall’assenza di
un adeguato censimento delle circoscrizioni). La protesta di Berisha arriva al punto
di tentare un golpe, che fallisce, danneggiando però anche la reputazione di Nano. Il
più grande critico di Nano è lo scrittore Dritero Agolli che gli sferra accuse dirette
sul giornale nazionale Gazeta Shqiptare120, denunciando ancora una volta la
corruzione della classe dirigente, il suo grande male assieme all’immobilismo che
118
Pearson, Owen, Albania in the Twentieth centuty: a history, vol.3: Albania as dictatorship and
democracy- From isolation to the Kosovo War 1946-1998, The Centre for Albanian Studies, published
in association with I.B. Tauris &Co. Ltd, New York, (2006).
119
Tussi, Tiziano, Le aquile non volano più: la disgregazione sociale dell’Albania,(12.11.1997) articolo
tratto da Il calendario del popolo e disponibile online sul sito di Notizie Est.
120
“Nano and co., per mostrare al mondo di avere completamente abbandonato il loro passato
comunista, vogliono impiantare un partito fatto crescere nel laboratorio della "meritocrazia", che si
presuppone moderna, con leader che vanno e vengono dall'hotel Rogner e dai ristoranti di Durazzo,
facendo volare i piatti come dischi volanti, nel momento in cui in Albania ci sono mezzo milione di
disoccupati e mezzo milione di pensionati che ricevono una pensione di 25-30 dollari al mese, pari a
20 kg. di cipolle; nel momento in cui ogni giorno vengono uccise e mutilate più persone che pecore e
tacchini; nel momento in cui le bande di Scutari danno alle fiamme il commissariato della polizia e
occupano la città, mentre gli alti funzionari del governo meritocratico giocano a calcio, o si ubriacano,
chiedendo la loro scorta per andare da Durazzo a Tirana […]Fatos Nano ha ordinato ai suoi ministri di
non ricevere più i membri del Parlamento per ascoltare le loro domande e le loro richieste. Secondo la
meritocrazia di Nano, i ministri possono cavalcare sulle spalle dei deputati perché, come spiega
facendo riferimento alla sua filosofia, questi deputati sono ignoranti e sono necessari unicamente per
raccogliere voti dagli elettori ignoranti che devono fare di lui il Primo Ministro[...]Secondo il suo
programma scritto, il Partito Socialista deve proteggere e rappresentare gli strati medi e quelli poveri,
senza escludere altre classi. Cosa sta facendo questo governo della "meritocrazia" per la sua classe
media e povera? Questa "meritocrazia" serve per dare lavoro alla sua amministrazione e alle guardie
del corpo dei ministeri, che ora sono proprietari di bar e di altre imprese “ Agolli D., Il governo Nano e
la “meritocrazia”, pubblicato il 29 marzo 1998 su Gazeta Shqiptare e tradotto prima in Inglese da
Albanews, poi in Italiano per Notizie Est Archive.
45
caratterizza tutta la sfera politica. Il successore di Nano, Pandeli Majko121, il leader
più giovane del Paese con i suoi soli trent’anni, al momento della nomina, continua a
dover mediare tra il Partito Democratico di Berisha e i propri colleghi del Partito
Socialista. Il pluripartitismo è sempre più caotico: alla fine degli anni Novanta vi
sono più di cinquanta partiti politici registrati, ma di fatto sono quello Socialista e
quello Democratico a primeggiare nell’arena politica e a paralizzarla. Usando le
parole di Ilir Meta, non è altro che un “pluralism of human characters, dominated by
the vote “against” and conflicting policy”122 e la scelta del termine “arena” non è
infatti involontaria, segnala il perpetuarsi di una battaglia che permette l’uso di
qualsiasi arma, prima fra tutte l’ormai conosciuto clientelismo e non da ultima
l’appello al supporto degli Stati occidentali. Non stupisce la ricerca di maggiore
fortuna all’estero, la fuoriuscita dei giovani, degli intellettuali e del personale
qualificato, che non trovano posto nel fittizio dibattito politico. Si instaura un circolo
vizioso che va ad indebolire ulteriormente il capitale sociale, già estremamente
fievole in una società dove tanto “è rilevante la nazione quanto è secondario lo
Stato”123 e che, sull’esempio di chi detiene il potere, non incentiva certamente
l’attenzione al bene comune.
Citando ancora Ilir Meta, egli definisce il primo decennio di transizione un
“unbaptized decade”: l’Albania sulla soglia del nuovo millennio è “neither a genuine
post communist society and state, nor a fully capitalist one”.124 Manca in particolare
il passaggio alla cosiddetta Good Governance. E’ ancora necessario rinnovare la
burocrazia enverista a favore di una pubblica amministrazione professionalizzata,
applicare strategie di decentralizzazione, rendere l’operato del governo più
trasparente, coinvolgere i cittadini nel processo di decision-making, guardare alla
sicurezza tanto dei cittadini quanto dell’ambiente, lottare contro la corruzione, … . Si
devono distruggere le basi per cui sono considerate naturali affermazioni come: “we
live in the Balkans, where laws are often written according to European standards,
121
Pandeli Majko è conosciuto soprattutto per il suo ruolo nella crisi del Kosovo, dato il suo sostegno
alla guerriglia dell’UcK nel conflitto.
122
Meta, Ilir, Building the future: Albania’s Stabilization and Democratic Consolidation: p.23. In In In
Tarifa F., Spoor M., CESTRAD, Institute of Social Sciences,The first decade and after- Albania’s
Democratic Transition and Consolidation in the Context of Southeast Europe, Smiet, The Hague
(2000).
123
Morozzo della Rocca,Roberto, Albania Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA,
Milano (1997): p.131
124
Meta, Ilir, Building the future: Albania’s Stabilization and Democratic Consolidation: p.21. In Tarifa
F., Spoor M., CESTRAD, Institute of Social Sciences,The first decade and after- Albania’s Democratic
Transition and Consolidation in the Context of Southeast Europe, Smiet, The Hague (2000).
46
but implemented according to Balkan standards”.125 Tutto questo
richiede il
passaggio ad una conscience publique126. Il motore di queste trasformazioni,
realmente in senso democratico, è divenuto in certo qual modo il processo di
integrazione nell’Unione Europea, un vero incentivo al cambiamento. I tre requisiti
per la membership d’altronde sono riassumibili in (i) una democrazia stabile, (ii)
un’economia di mercato funzionante e (iii) nell’ adeguamento agli acquis
communautaire127, cioè ai diritti e agli obblighi politici, giuridici, sociali che
accomunano e vincolano gli Stati membri. Questi requisiti rispecchiano i tre aspetti
della triple transition, tanto che potremmo quasi dire che l’Europa ne richieda il
completamento. E sebbene gli albanesi già alla fine degli anni Novanta giudicassero
più positivamente la loro transizione rispetto agli altri Stati della Regione, l’Albania
deve ancora oggi dar prova dei suoi risultati in tutti e tre i campi, soprattutto per ciò
che concerne gli anelli più deboli: le istituzioni politiche e giuridiche.
125
Lani, Remzi, Democracy and Media in Postcommunist Albania: p.108. In ibid.
Bas de Gay Fortman, Dilemmas of transition: the case of Albania: p.82. In ibid.
127
Cviić C., Sanfey P., In search of the Balkan Recovery- The Political and Economic Reemergence of
South-Eastern Europe, Hurst & Co., UK (2010): p.117.
126
47
Capitolo 3
L’Albania sulla strada dell’integrazione Europea.
3.1. I primi accordi di cooperazione e la nuova prospettiva
allo sviluppo.
In questo terzo capitolo verrà delineato il ruolo della Cooperazione Italiana allo
Sviluppo128 in Albania dai primi anni Novanta fino ad oggi. In particolar modo,
analizzeremo le svolte verificatesi in contemporanea ad alcuni cambiamenti sia nel
panorama internazionale sia interni all’Albania. Una svolta particolarmente
significativa, come ben emergerà, è stato il passaggio in primo piano tra le priorità
politiche albanesi del processo di integrazione nell’Unione Europea, processo nel
quale l’Italia si è affermata come principale partner dei governi albanesi. Più in
generale, possiamo affermare che tramite la Cooperazione allo Sviluppo, e cioè
tramite i vari accordi bilaterali firmati dai due governi, l’Italia abbia cercato sin dai
primi anni Novanta di assistere l’Albania nella sua transizione postcomunista e
quindi, se è vero ciò che si è detto alla fine del precedente capitolo, anche di aiutarla
ad adempiere ai requisiti richiesti per l’accesso in Unione Europea.129 Ovviamente in
una prima fase, la fase dell’emergenza che abbiamo già osservato in dettaglio, ciò è
avvenuto più o meno implicitamente, ovvero mediante l’elargizione di aiuti in teoria
preposti a riportare l’ordine nel Paese. In questo capitolo entreremo più nel dettaglio
dei contenuti dei Protocolli di Cooperazione siglati tra l’Italia e l’Albania, per
valutare sino a che punto la prima abbia adempiuto e stia adempiendo al suo
compito, ufficializzato nell’ultimo decennio, di avvicinare il Paese delle Aquile
all’Europa. Tuttavia, per poter cogliere alcune fondamentali differenze tra i vari
protocolli è necessario conoscerne il contesto: la nascita e l’evoluzione di una nuova
prospettiva nella cooperazione allo sviluppo a livello mondiale. Un quadro teorico
128
Generalmente quando in maiuscolo con Cooperazione allo Sviluppo, o a volte solo Cooperazione,
mi riferisco alla sezione italiana del Ministero degli Affari Esteri, quando il termine compare in
minuscolo indica semplicemente la disciplina.
129
Mimoza Kondo, “Return to Europe: the path that is called transition”. In Tarifa F., Spoor M.,
CESTRAD, Institute of Social Sciences,The first decade and after- Albania’s Democratic Transition and
Consolidation in the Context of Southeast Europe, Smiet, The Hague (2000).
48
sarà utile allora per orientarsi nella disciplina e meglio capire come le iniziative
italiane siano state e siano tuttora influenzate dalle direttive internazionali in materia.
Si parla di cooperazione allo sviluppo sin dal Secondo Dopoguerra. Molti
studiosi concordano persino sulla data inaugurale della nuova “era dello sviluppo”.
E’ il 20 gennaio 1949, quando il Presidente americano Harry S. Truman nel suo
discorso al Congresso espresse nell’ultimo di quattro punti la necessità degli Stati più
ricchi di sostenere quelli meno sviluppati. “Fourth, we must embark on a bold new
program for making the benefits of our scientific advances and industrial progress
available for the improvement and growth of underdeveloped areas…”130, dichiarò in
apertura dell’ultimo punto. Tuttavia, fino alla fine degli anni Ottanta, con la Guerra
Fredda in corso, questa collaborazione tanto auspicata si limitò in pratica ad
assistenzialismo e paternalismo con lo scopo primario di attrarre gli Stati più
svantaggiati nell’orbita di influenza del proprio “blocco”, comunista o occidentale
che fosse. Il primo basato su un’economia pianificata, un partito unico, ideali di
giustizia sociale; il secondo orientato alla crescita economica e a forme tradizionali
di aiuto; ma entrambe sfociarono spesso in forme di sfruttamento dei Paesi satellite o
delle colonie e in un vero e proprio neocolonialismo economico ad indipendenze
ottenute.
Per ciò che riguarda l’Italia, anch’essa già dagli anni Cinquanta e Sessanta
portava avanti iniziative in alcuni Stati ad essa legati da precedenti vincoli coloniali.
E’ dagli anni Settanta che si cominciò a creare un assetto più sistematico in campo di
cooperazione allo sviluppo. Ques’ultimo si realizzò nella legge n.38/1979. Negli anni
Ottanta la netta crescita quantitativa e qualitativa degli aiuti erogati portò
all’emanazione di una ulteriore legge, quella attualmente in vigore, la n.49/1987. La
Cooperazione allo Sviluppo italiana, come previsto da questa normativa e da un
successivo disegno di legge delega, opera attraverso la Direzione Generale per la
Cooperazione allo Sviluppo (D.G.C.S.) nell’ambito del Ministero degli Affari Esteri.
E’ strettamente connessa perciò agli obiettivi di politica estera. La D.G.C.S. si
occupa di modificare le varie iniziative di cooperazione in atto e le più generali linee
guida alla luce delle novità emergenti nel dibattito internazionale. Ciò è accaduto ad
esempio nel caso dell’approvazione del Piano Programmatico per l’Efficacia degli
Aiuti nel 2009 e nel 2011, stilati secondo le raccomandazioni contenute nella
130
Harry S. Truman, Inaugural Address, Thursday, January 20, 1949.
49
Dichiarazione di Parigi del 2005 e nella Accra Agenda for Action del 2008 (vedere
in seguito).
Il caso dell’Albania è un caso particolare in quanto, come già si è detto, ogni
rapporto con l’Italia venne sospeso con rarissime eccezioni per tutta la durata del
Regime enverista. Quando l’Italia si trovò ad affrontare l’arrivo dei profughi albanesi
e il Ministero degli Esteri dovette considerare come priorità l’emergenza albanese, il
quadro normativo e il funzionamento della Cooperazione Italiana allo Sviluppo erano
già definiti e collaudati. Tuttavia, l’urgenza della situazione rese necessario un
approccio più radicale, che si concretizzò nell’ampiamente contestata Operazione
Pellicano. Solo nel novembre 1992 venne firmato un primo accordo bilaterale di
cooperazione, sottoscritto dai due rispettivi Ministri degli Esteri, il Prof. Alfred
Serreqi e l’On. Emilio Colombo. L’accordo riassumeva le conclusioni della Grande
Commissione Mista per la cooperazione italo-albanese tenutasi a Roma il 17 e 18
novembre, inaugurando “una nuova fase caratterizzata da interventi diretti a
promuovere uno sviluppo economico auto sostenuto basato su di una economia di
mercato”. Il verbale della Commissione, già citato, riporta come “A tale scopo
[fossero] stati individuati obiettivi di brevissimo, di medio e di lungo periodo, al fine
di garantire una piena sintonia degli interventi con le fasi della ripresa economica
albanese.” Rispetto al puro assistenzialismo dell’Operazione Pellicano, si esprimeva
la volontà di dare organicità alle iniziative promosse e si riscontrava negli obiettivi
stabiliti un maggiore raggio di intervento. Mentre continuava l’invio di aiuti
alimentari e sanitari di emergenza, infatti, si instaurarono le basi per una
collaborazione anche nei settori delle infrastrutture, dell’agricoltura, dell’edilizia,
della formazione e delle consulenze. I riferimenti allo sviluppo in queste prime
discussioni in merito si limitavano però alla sola nozione di “sviluppo economico”. A
livello internazionale, invece, era proprio in questi primi anni ’90, a seguito della
caduta del Muro, che la cooperazione e l’idea stessa di sviluppo venivano rivisitati.
Gli anni Novanta sono infatti gli anni dei grandi vertici mondiali sul tema,
dove si discute anche della qualità dello sviluppo, cercando di andare oltre la sfera
economica. Si comincia in questi anni a parlare di sviluppo riconoscendone la
multidimensionalità. Si analizzano le problematiche dei Paesi in Via di Sviluppo e si
individuano principi generali e obiettivi di medio-lungo termine riguardanti più
campi: dall’ambiente (Rio de Janeiro) alle pari opportunità (Pechino), dalla
popolazione (Cairo) all’alimentazione (Roma). Nasce il concetto di sviluppo umano
50
e sociale, racchiuso nella Carta di Copenaghen, in cui si parla anche di povertà ed
esclusione sociale, e in cui si critica lo spreco di risorse in iniziative dai fini
meramente assistenzialistici. A fianco del canale bilaterale si propone l’uso del
canale multilaterale131, con l’obiettivo di attuare un maggiore coordinamento delle
iniziative tramite le agenzie e i fondi delle Nazioni Unite132.
Nel Protocollo d’intesa siglato da Lamberto Dini e Paskal Milo a Tirana nel
dicembre 1997, a seguito di vari rinvii dovuti alla nuova ondata di crisi che aveva
invaso il Paese,
gli interventi concordati riflettono perlomeno a parole questa
concezione integrata di sviluppo: non si riferiscono solo alla visione economicistica,
ma anche al piano sociale. Nel protocollo si affrontano le tematiche del
consolidamento istituzionale, della sanità e dell’educazione, della promozione delle
PMI, oltre alle sempre più scottanti problematiche della sostenibilità energetica,
dell’approvvigionamento di acqua, della creazione di posti di lavoro in loco per
limitare l’emigrazione incontrollata, della prevenzione delle attività illecite
transfrontaliere. Si esprime altresì la volontà di pianificare interventi in sintonia con
gli altri accordi sottoscritti dall’Albania con altri donatori bilaterali e multilaterali. La
maggior parte dei finanziamenti stanziati (180 miliardi di Lire su un totale di 210, poi
portato a 317,2 miliardi), sono inoltre non più a dono bensì a credito d’aiuto, ovvero
prestati. Nel 1998, come vedremo nuovamente in seguito, si faceva già largo la
prospettiva dell’integrazione nell’Unione Europea. Molti obiettivi del Governo
albanese, il cui raggiungimento l’Italia si impegnava a sostenere con l’accordo di
cooperazione per il periodo 1998-2000, riguardavano già il rafforzamento delle
istituzioni democratiche e amministrative e il conseguimento di una piena economia
di mercato con attenzione al sociale. Ricordiamo che un forte segnale che nel 1998
sembrava preannunciare un pieno successo in ogni ambito fu l’emanazione di una
nuova Costituzione democratica. Il clima interno tuttavia era ancora fortemente
segnato dalla recente crisi e dal diffuso disordine, per cui di fatto i governi e le
agenzie internazionali faticarono ad agire in concerto e a dialogare con le istituzioni
albanesi.
131
La cooperazione bilaterale è un accordo tra governo donatore e governo beneficiario; quella
multilaterale implica il finanziamento degli interventi dei programmi, fondi, istituti o agenzie facenti capo
alle Nazioni Unite.
132
Le strutture internazionali sono anch’esse autonome però per finanziamenti, quindi spesso entrano
in competizione; sono soggette inoltre alla pressione dei donatori dipendendo da loro per le entrate; e
ad ogni modo le agenzie ONU hanno competenza settoriale, quindi non necessariamente finiscono per
coordinare le loro attività.
51
Si può tranquillamente affermare che la Cooperazione allo Sviluppo in Albania
negli anni Novanta abbia sofferto di tutti i maggiori inconvenienti descritti da
Luciano Carrino in Perle e pirati. Critica della cooperazione allo sviluppo e nuovo
multilateralismo. Egli nel sesto capitolo del suo libro mette in guardia nei confronti
dei rischi di centralismo, verticismo, burocratismo, assistenzialismo, “progettismo” e
settorialismo, che vengono qui brevemente illustrati poiché l’osservazione dei loro
effetti perversi ha portato allo sconvolgimento delle pratiche di cooperazione. Si
intende per centralismo l’eccesso di concentrazione di poteri e responsabilità
nell’amministrazione centrale dello Stato, per cui le decisioni vengono prese da
poche persone in poche sedi, escludendo le amministrazioni decentrate dello Stato e
producendo come risultato una miriade di interventi a pioggia, di scarso impatto,
poco sostenibili, deresponsabilizzanti e che rischiano solo di creare maggiore
dipendenza da parte delle amministrazioni decentrate. Effetti inevitabilmente veri in
un’Albania dove negli anni Novanta sarebbe già stato tanto se avesse funzionato
l’amministrazione centrale. Un secondo rischio è quello del verticismo, da non
confondersi col precedente. Quest’ultimo si riferisce alla relazione tra i vertici delle
singole strutture e la loro base, indicando processi in cui non è la base a influenzare il
vertice, ma si ha invece un eccesso di decisionismo a discapito della concertazione.
In mancanza di gruppi ed istituzioni con cui concertare, o a causa della loro
debolezza, il verticismo è stato spesso un esito naturale e forse l’unica scelta
possibile in Albania. Si ha poi il rischio di burocratismo laddove i funzionari pubblici
scoraggiano la partecipazione, moltiplicando ad esempio i controlli preventivi su un
progetto e dando così il via libera alla corruzione. In questo caso inutile
puntualizzarne la veridicità nel caso albanese. Seguono rischi ancora più comuni, il
settorialismo in primo luogo. Spesso giustificato con l’idea di “specialismo”, ovvero
che ci debba essere un esperto per ogni piccolo ambito in cui operare e dunque con
l’apparente estremizzazione del principio di competenza, il settorialismo conduce a
progetti incompleti, proprio perché non tengono in considerazione le cause del
problema ma forniscono tanti rimedi palliativi a questioni circoscritte. Si
costruiscono strade, ad esempio, senza interessarsi al perché non le riesca a costruire
con i propri mezzi lo Stato sovrano. Un esempio che calza a pennello vista l’enormità
di investimenti stranieri nelle infrastrutture dei trasporti in Albania. Similmente, il
“progettismo” è conseguenza estrema della progettualità per cui si dà il via a
un’infinità di progetti scoordinati e separati. Infine, l’assistenzialismo, già citato più
52
volte, considera i soggetti beneficiari degli oggetti passivi e non portatori di diritti
operando un modello escludente di cooperazione, che a sua volta affievolisce lo
spirito di iniziativa di chi viene assistito e innesca così un circolo vizioso.
Dopo aver delineato queste derive dei principi base della cooperazione, Carrino
propone “lo sviluppo partecipato e integrato a livello delle comunità locali come la
chiave di volta dello sviluppo globale di qualità;” sottolineando che “occorre anche
vedere lo sviluppo locale come strutturalmente ancorato alle politiche di sviluppo
nazionali ed ai processi internazionali di sviluppo.”133 Suggerisce dunque una
visione collaborativa, sia a livello di ogni singolo intervento, quindi tramite un
approccio integrato e partecipativo allo sviluppo che coinvolga la popolazione locale;
sia a livello internazionale, con la messa in atto di una collaborazione pacifica tra i
popoli che porti ad un nuovo multilateralismo, estraneo alle logiche di competitività.
In questo senso si è andata evolvendo almeno in linea teorica la cooperazione allo
sviluppo. In particolar modo dagli anni Duemila si è cominciato a parlare di
cooperazione decentrata. Quest’ultima è la risposta alla necessità di superare una
cooperazione che è mera somma di progetti promossi da soggetti diversi (ONG,
municipi, comuni, fondazioni, privati,..). Con cooperazione decentrata si intende,
infatti, un coordinato sistema di partenariati territoriali fra comunità locali nei Paesi
donatori e beneficiari, che ha non da ultimo il nobile scopo di far lavorare assieme i
suoi molteplici attori. Alla base di questa nuova prospettiva vi sono altri due principi
imprescindibili: il cofinanziamento e la reciprocità degli scambi economici,
scientifici, culturali, tecnologici, politici,… : il cosiddetto vincolo dello scambio di
reciproco interesse. Un modello che ha concretizzato queste linee teoriche è quello
dei Programmi Quadro, cioè di interventi pluriennali di cooperazione che adottano
gli obiettivi ed i metodi dello sviluppo umano concordati tra ONU, governo del paese
interessato e donatori per promuovere politiche di sviluppo locale. Si chiamano
“quadro” proprio perché mirano ad inquadrare e coordinare l’apporto dei diversi
attori nazionali ed internazionali che interagiscono nei processi di sviluppo. Oltre ai
già citati principi di partecipazione, “interagenzialità” e alla loro multidimensionalità,
i Programmi Quadro sono innovativi anche in senso metodico. I progetti vengono
redatti sotto forma di piani operativi periodici tramite l’apporto di gruppi di lavoro,
con limitata presenza di membri delle équipe internazionali, che decidono rispettando
133
Carrino, Luciano, Perle e Pirati. Critica della cooperazione allo sviluppo e nuovo multilateralismo,
Centro studi Erickson,Trento (2005)
53
la regola democratica. Il coinvolgimento della società civile non deve escludere,
come sottolinea Carrino, la dimensione istituzionale, con la quale si viene così a
favorire un maggiore e proficuo dialogo. La periodicità facilita il monitoraggio e
consente una maggiore flessibilità del progetto, che può essere aggiustato in itinere.
Ovviamente una tale metodologia richiede sforzi superiori per giungere ad una
decisione, coinvolgere la gente, ottenere equilibrio tra tecnici e gruppi di lavoro e
spesso la difficoltà che si riscontra nell’includere i soggetti più “periferici” permane.
In parte si può tentare di compensare questa esclusione dei più deboli con l’utilizzo
di metodi ausiliari quali la creazione di mappe comunitarie dei rischi e delle risorse.
Ad ogni modo, sebbene gli sforzi richiesti siano indubbiamente maggiori, la
cooperazione decentrata presenta un grande valore aggiunto rispetto alla
cooperazione governo-governo e non governativa. Questo consiste sostanzialmente
in tre aspetti: “nella capacità di appoggiare concretamente i processi di
decentramento, democratizzazione e rafforzamento delle capacità istituzionali nei
paesi partner, nella capacità di mobilitare risorse del territorio, e, rispetto all’azione
delle ONG, nel valore politico del proprio impegno di cooperazione”.134 Si gettano i
presupposti per il conseguimento di una più solida sostenibilità nel lungo periodo.
Le principali dichiarazioni e attività della comunità internazionale e
dell’Unione Europea che hanno riconosciuto e orientato in modo crescente la
Cooperazione Decentrata sono: la Dichiarazione del Millennio (2000), la
Dichiarazione di Johannesburg sullo Sviluppo Sostenibile (2002), la Conferenza di
Monterrey (ONU, 2002), la Dichiarazione di Parigi (OCSE, 2005), l’EU Code of
Conduct on Division of Labour in Development Policy (Comunicazione della
Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo, 2007), la Carta Europea della
Cooperazione in materia d’appoggio alla Governance Locale (2008), l’ Accra
Agenda for Action (2008), la Conferenza Internazionale sul Finanziamento dello
Sviluppo (2008), I Assise sulla Cooperazione Decentrata (2009)135. La Dichiarazione
di Parigi sull’efficacia degli aiuti e l’Accra Agenda for Action contengono alcuni
principi fondamentali riguardo ai partenariati. Si parla di partnership commitments:
ownership136, alignment137, harmonisation138, managing for results139, mutual
134
Rotta, Alessandro, La cooperazione decentrata in Albania Stato e Prospettive, Centro Studi di
Politica Internazionale (CeSPI): p.6
135
Linee Guida per la Cooperazione Italiana allo Sviluppo nel triennio 2011-2013, Linee-guida ed
indirizzi di programmazione.
136
Ownership: partner countries exercise effective leadership over their development policies, and
strategies and co-ordinate development actions.
54
accountability140. Tutte queste dichiarazioni e questi principi sono stati adottati dalla
D.G.C.S. che ha stilato un nuovo documento in materia nel marzo 2010, le LINEE
GUIDA della D.G.C.S. sulla COOPERAZIONE DECENTRATA. L’impegno al
rispetto di questi principi era già formalizzato nell’art.3 dell’Accordo Quadro di
Cooperazione allo Sviluppo tra il Governo della Repubblica Italiane e il Consiglio
dei Ministri dell’Albania, firmato a Tirana nel dicembre del 2008. Precisamente,
l’art.3 comma 2 afferma: “Le Parti si impegnano ad incentrare l’attività di
cooperazione allo sviluppo sui principi sanciti dalla Dichiarazione di Parigi
sull’Efficacia degli Aiuti e ad intraprendere azioni tese alla realizzazione dei
principi di ownership, allineamento, armonizzazione, gestione dei risultati e
responsabilità reciproca”. L’Accordo Quadro più in generale disciplina “la cornice
operativa all’interno della quale si collocano le iniziative della Cooperazione
Italiana e dei suoi partner, Regioni, ONG ed Organizzazioni Internazionali …”141
Potremmo definire quest’accordo come il più lampante tentativo della Cooperazione
italiana di riformare gli interventi in Albania alla luce delle nuove direttive promosse
dall’ONU, dall’Unione Europea e dall’OCSE. Nel concreto, già dalla fine degli anni
Novanta, si sono riscontrate alcune esperienze ispirate a questa nuova prospettiva
mondiale allo sviluppo, due in particolare saranno meglio descritte nel capitolo 3.2.
qui di seguito.
3.2. Esempi di coordinamento e cooperazione decentrata:
la Strategia per il Nord dell’Albania e il PASARP.
Si è già accennato nel secondo capitolo ad un’esperienza di coordinamento
attuata dalle ONG presenti sul territorio albanese. Si tratta della definizione di una
comune Strategia per il Nord dell’Albania, avviata nel 2004 e conclusasi nel Maggio
del 2007, grazie al contributo di 13 tra i 27 progetti in corso promossi da ONG
137
Allineamento: donors base their overall support on partner countries’ national development
strategies, institutions and procedures.
138
Armonizzazione: donors’ actions are more harmonised, transparent and collectively effective.
139
Gestione dei risultati: managing resources and improving decision-making for results.
140
Responsabilità reciproca: donors and partners are accountable for development results.
141
Accordo Quadro di Cooperazione allo Sviluppo tra il Governo della Repubblica Italiane e il Consiglio
dei Ministri dell’Albania, Art. 7: “ Si intende per cooperazione decentrata ogni forma di cooperazione ed
azione internazionale realizzata tra entità territoriali italiane ed albanesi, anche con la partecipazione
dei rispettivi attori della società civile, con l’obiettivo di rafforzare le relazioni tra i due Paesi, in
conformità con le politiche estere condotte dai rispettivi Governi nazionali.” Seguono le disposizioni
anti-corruzione all’art.8.
55
italiane e co-finanziati dalla Cooperazione allo Sviluppo in territorio albanese.
Questa iniziativa ha anche permesso, più o meno implicitamente, di valutare ex post i
risultati ottenuti negli anni precedenti. Inoltre, la stesura stessa del documento è
avvenuta tramite una dinamica partenariale con le realtà locali, coinvolgendo sia la
società civile sia le istituzioni presenti e promuovendo così ulteriormente la
partecipazione. Il documento, che sintetizza quali sono i principali problemi del
territorio, gli strumenti e le risorse a disposizione, e i risultati raggiunti o più
facilmente raggiungibili, espone tutto ciò secondo quattro grandi aree tematiche: il
settore socio-educativo, il settore socio-sanitario, quello dell’ambiente e dello
sviluppo rurale e infine il settore della migrazione. Nonostante questa divisione, non
si ha in alcun modo la percezione di iniziative settoriali, poiché è evidente come
l’analisi parta dall’osservazione delle cause alla base dei problemi e pertanto tenga
sempre in considerazione aspetti tra loro sicuramente diversi ma strettamente
intrecciati. Ad esempio nell’ambito socio-sanitario il documento ripercorre prima di
tutto alcune tappe fondamentali dello stesso sistema sanitario in maniera cronologica.
Si risale al Regime, quando tutto il settore era sotto stretto controllo dello Stato, per
fare successivamente un salto negli anni Novanta quando la crisi del 1991 prima e
del 1997 poi hanno mandato in subbuglio l’intero sistema. In particolare gli
spostamenti della popolazione, le dimissioni dei medici, il saccheggio delle strutture
ospedaliere hanno completamente paralizzato il sistema, che si è poi cercato di
riformare anche sulla carta oltre che ricostruire nei fatti. La crisi del Kosovo però ha
bloccato lo stesso processo di riforma. Questa carrellata storica mette in luce
problematiche non solo strettamente attinenti alla sanità, ma anche al più generale
malgoverno, alla mancanza di iniziativa della gente che era abituata al “tutto servito”
sotto il Regime, al caos armato del 1997. Al 2006 la Banca Mondiale ha evidenziato
la permanenza di “gravi carenze nel livello e nella qualità dell’assistenza sanitaria,
in particolare nel servizio ambulatoriale; un sotto-utilizzo del servizio sanitario
primario da parte degli utenti, che si rivolgono generalmente ad altre strutture, sia
pubbliche che private. Ciò avviene per la bassa qualità del servizio primario e/o per
la carenza di personale medico ed infermieristico; una generale assenza di precisi
standard di riferimento per l’assistenza sanitaria e di protocolli per le terapie dei
pazienti; scarsità di personale qualificato per condurre attività di monitoraggio e di
valutazione dei protocolli; diffusa pratica di richiesta di pagamento agli utenti per
l’erogazione di servizi gratuiti da parte degli operatori sanitari a differenti
56
livelli”.142 Vediamo ancora elementi di più ampia portata quindi, come i deficit nella
formazione di personale qualificato e l’onnipresente corruzione. Per ciò che riguarda
l’ambiente e lo sviluppo rurale emerge in egual modo la multidimensionalità dei
problemi. Tra gli “elementi essenziali per la comprensione dei problemi odierni” si
elencano la difficoltà di accesso alla terra ed ai mezzi di produzione, la carenza di
infrastrutture (mercantili, stradali, per lo smaltimento dei rifiuti,…), ma anche la
cultura individualistica, patriarcale, poco incentrata sul senso della comunità quanto
piuttosto sull’appartenenza al clan. E la stessa multidimensionalità si riscontra negli
altri settori, socio-educativo e della migrazione. Il riferimento al trascorso storico, in
particolare agli anni del Regime e alle vicissitudini degli anni Novanta, supporta la
tesi che ha motivato la mia ricerca per cui è impossibile ignorare l’analisi storica di
lungo e breve periodo per comprendere l’Albania di oggi, un principio valido
d’altronde per qualunque fenomeno.
Anche lo Stato albanese, prendendo atto della nuova prospettiva allo sviluppo e
delle fondamenta della cooperazione decentrata, ha cercato di facilitare la
costituzione di partenariati. In particolar modo, si è proceduto su tutto il territorio
nazionale al decentramento amministrativo, affidando con la legge n.8652/2000
maggiore autonomia fiscale ed in ambito della gestione delle risorse a regioni,
distretti, province e comuni. Il governo albanese e le istituzioni internazionali hanno
concordato nel rilevare come “l’autonomia degli enti locali, se effettivamente
applicata, potrebbe stimolare la partecipazione democratica dei cittadini, motivati
dai maggiori poteri attribuiti agli organismi locali municipali e comunali, e dalla
maggiore disponibilità di risorse, e ridurre la conflittualità e l’animosità politica nel
paese: è opinione diffusa che a livello locale la dialettica politica sia meno
“ideologica”, per la maggiore rilevanza di questioni concrete e grazie a un
sentimento comunitario presente solo nelle realtà locali. Inoltre, la gestione di
maggiori risorse a livello locale potrebbe rendere maggiormente visibili, e quindi
più facilmente controllabili e sanzionabili, in sede giudiziaria e politica, i fenomeni
di corruzione”.143 Una prima difficoltà che si è incontrata è l’assenza di informazioni
sulla popolazione che rendono una vera sfida governare il territorio a qualunque
livello, in particolare controllare le entrate date dalla tassazione e programmare gli
investimenti. Il decentramento ha però anche il vantaggio di fotografare le disparità
142
Citazione dal documento della Strategia per il Nord dell’Albania.
Rotta, Alessandro, La cooperazione decentrata in Albania Stato e Prospettive, Centro Studi di
Politica Internazionale (CeSPI): p.4
143
57
tra le varie zone territoriali. In una valutazione della legge n.84 del 21 marzo 2001144,
Disposizioni per la partecipazione italiana alla stabilizzazione, alla ricostruzione e
allo sviluppo di Paesi dell’area balcanica, Gianguido Palumbo ha messo ben in
evidenza queste differenze. Inoltre l’autore riporta i seguenti dati. Il bilancio statale
di 3 miliardi di Euro dell’Albania nel 2006 e quello regionale della Toscana, con
simile numero di abitanti, di 10 miliardi di Euro, differiscono per un rapporto 1 a 3,5
a svantaggio dell’Albania. Mentre, dato il bilancio comunale di Scutari di 2 milioni e
225 mila Euro e il bilancio comunale di Pisa, ancora una volta con simile numero di
abitanti, di 200 milioni di Euro, si osserva un rapporto di 1 a 100. Ciò dimostrerebbe
che “La disponibilità economica di un Governo Locale Albanese è ancora
scarsissima mettendo quindi in crisi di credibilità ed efficacia il processo di
decentramento auspicato e necessario per un vero sviluppo locale ed il
miglioramento delle condizioni di vita della popolazione albanese nei diversi
territori”. L’autore procede sottolineando che “La Cooperazione Internazionale,
Centrale e Decentrata, deve assolutamente tenere in primo conto tali differenze di
“ricchezza pubblica” disponibile per elaborare progetti ed azioni concrete che si
basino su tali condizioni oggettive dei Partner, li aiutino a modificarne l’origine
cercando di influire positivamente sulle condizioni di vita delle popolazioni
residenti”.
Per ciò che riguarda la cooperazione decentrata Italia-Albania, un caso
esemplare che merita sicuramente attenzione è quello del Programma Quadro
PASARP e delle iniziative ad esso associate. PASARP è l’acronimo di Program of
Activities in Support of the Albanian and Refugee Population. Si tratta di un
programma adottato nel 1999 come risposta del governo italiano alle richieste
albanesi di supporto in occasione della crisi del Kosovo. Nato grazie all’accordo tra
il Ministero degli Esteri italiano, il governo albanese, l’IFAD (Fondo Internazionale
per lo Sviluppo Agricolo) e l’UNOPS, agenzia esecutrice delle Nazioni Unite, il
144
Palumbo, Gianguido (a cura di), PARTENARIATI TERRITORIALI ITALIA-BALCANI Valutazione
strategica della cooperazione decentrata sostenuta dall’art. 7 della legge 84/01, linea Mae Studio di
caso Albania, Fonte CeSPI (2007): pagine 6-7. Anche le citazioni seguenti sono tratte dalla valutazione
di Palumbo, che dal 1992 si occupa di cooperazione internazionale e immigrazione curando progetti
anche nei Balcani. Dal 2002 affianca all’attività di cooperatore internazionale quella di pubblicista e
scrittore.
A pagina 13 l’autore ricorda che “In Albania sono stati cofinanziati dalla Legge 84 art. 7
complessivamente 16 Progetti presentati da 8 Regioni italiane per un totale di 2.200.000 (duemilioni e
duecentomila) Euro di Budget comprensivo delle quote MAE e delle quote degli Enti Italiani ed
Albanesi. I progetti nella maggioranza dei casi si sono basati sulla prosecuzione o il rafforzamento di
attività intraprese precedentemente in Albania dalla fine degli anni ’90 in poi dai diversi attori italiani
nelle medesime aree regionali: Scutari, Durazzo, Tirana, Valona, Elbasan, Girokastro.”
58
programma prevedeva inizialmente un finanziamento italiano di 36 miliardi di lire.
Dato il rapido esaurimento della crisi del Kosovo (da giugno ad agosto 1999 si era
passati da 500000 a soli 5000 profughi presenti sul suolo albanese), il PASARP è
stato abilmente “riconvertito in un programma di sviluppo umano, adottando la
strumentazione teorica e la metodologia tipica di questi interventi, basata sulla
partecipazione, sulla territorialità e sulla non discriminazione […] secondo la logica
dell’approccio integrato”.145 Il nuovo profilo del PASARP è stato definito in un
Memorandum del 2000, divenuta data ufficiale dell’avvio del programma, che di
fatto però ha continuato a dipendere dalle strutture dell’UNOPS presenti dall’anno
precedente. In seno al PASARP, si sono effettuate iniziative nelle prefetture di
Scutari, Durazzo e Valona, cioè nei territori più impegnati nell’assistenza ai rifugiati
kosovari. Nel 2007 erano attive in Albania quattro regioni italiane: Emilia-Romagna,
Toscana, Lazio e Marche, oltre ai comuni di Modena, Venezia, Forlì e Ancona. Data
la loro necessità di dialogare con le autorità politiche locali, così come previsto dalla
cooperazione decentrata, la legge sul decentramento descritta nel precedente
paragrafo ha costituito un requisito basilare.
La definizione degli interventi è
avvenuta all’interno di gruppi di lavoro, che hanno tenuto in conto anche le esigenze
delle autorità politiche locali. Si è utilizzata la metodologia che prevede la redazione
di mappe dei rischi, dei bisogni e delle risorse per facilitare proprio questo incontro
tra le esigenze locali e gli obiettivi dei progetti promossi dai partner italiani.
Gianguido Palumbo evidenzia anche alcune difficoltà riscontrate dagli attori della
cooperazione decentrata, prime fra tutte le difficoltà di finanziamento, che in taluni
casi hanno costretto ad alleggerire alcuni impegni. Non solo è rimasta a lungo
incertezza sulla disponibilità di fondi messi a disposizione dal Ministero degli Affari
Esteri tramite la Cooperazione allo Sviluppo, ma si sono rilevate forti complicazioni
anche nel mobilitare fondi autonomamente. I comuni e le regioni italiane si sono
dovuti scontrare con la negativa percezione dell’Albania radicata nel Paese e hanno
dovuto inventarsi iniziative per favorire la conoscenza del “vicino d’oltremare” come
viaggi di turismo responsabile146 o coinvolgimento anche in Italia delle comunità
albanesi. In ogni caso l’impatto del PASARP è riuscito a riscuotere grande successo.
Nel corso di una riunione tripartita tenutasi a Tirana nel 2002 per valutare il corso
dei progetti, lo stesso premier albanese, Meksi, “nel suo discorso di chiusura […] ha
145
Rotta, Alessandro, La cooperazione decentrata in Albania Stato e Prospettive, Centro Studi di
Politica Internazionale (CeSPI): p.7
146
Palumbo riporta l’esempio dei viaggi organizzati dal comune di Modena a Velipoja.
59
voluto sottolineare i diversi aspetti innovativi del programma, come le Agenzie di
Sviluppo Economico, le esperienze nel campo della Salute Mentale, i collegamenti
internazionali creati attraverso la Cooperazione Decentrata, i Tavoli di Lavoro delle
Prefetture, e la volontà del Governo albanese di “esporta” ad altre regioni albanesi
i modelli di sviluppo più significativi”.147 Nel 2002 sono stati realizzati progetti per
un valore complessivo di oltre 400 mila dollari, grazie anche alla volontà dei nuovi
vertici albanesi in seguito al cambio di governo di proseguire nel rispetto degli
accordi raggiunti a Tirana durante la riunione tripartita. Uno fra i tanti esempi di
progetti portati a termine nel 2002 è la ricostruzione del mercato cittadino di
Durazzo. Per tutta la durata del progetto si è rivelato fondamentale l’apporto dei
venditori provenienti dalle campagne e degli stessi produttori delle merci, che hanno
collaborato con il Municipio, la Prefettura e la Camera di Commercio, oltre al
Ministro dei Poteri Locali e Decentramento, uno tra i principali interlocutori
dell’UNOPS nella realizzazione del PASARP148. Durante il corso del progetto è nata
anche la prima associazione di commercianti, la Shoqata tregu i perditshem Durres.
L’associazione ha anche rappresentato i commercianti al momento di assegnare i
banchi del nuovo mercato per la vendita dei prodotti, banchi ora disposti in maniera
ordinata e in migliori condizioni igieniche, senza aver stravolto però le abitudini
cittadine, dato che il mercato è stato ricostruito nella piazza tradizionalmente ad esso
adibita. Un ulteriore punto a favore del progetto è il fatto che i lavori siano stati
affidati ad un’impresa locale, la Mushiqi ShPK, alimentando così il mercato locale
del lavoro e responsabilizzando le imprese in loco.
Prima di concludere questa parte dedicata alle esperienze di cooperazione
decentrata, è doveroso mettere in luce un’altra difficoltà, oltre a quella della
reperibilità dei finanziamenti, che esse si trovano ad affrontare, ovvero la debolezza
della società civile e la conseguente difficoltà nell’instaurare un processo
partecipativo, che tuttavia, come dimostrato dall’esempio del mercato di Durazzo,
non è impossibile avviare. In Albania la debolezza dei processi democratici e la
sfiducia nelle istituzioni,
accanto alle forti radici dell’economia informale,
147
Programma Italia/IFAD/UNOPS/PASARP in Albania: p.12. Il rapporto in PDF si trova all’indirizzo
web http://www.exclusion.net/images/pdf/583_cobum_1UNOPS_ALBANIA.pdf.
148
“Con i nuovi fondi UE europei IPA del settennato 2007-13 ed i relativi regolamenti, le Regioni
italiane potranno inoltre rapportarsi direttamente ed esclusivamente alle omologhe albanesi senza
dover interloquire con i Ministeri Nazionali per gli ambiti specifici relativi ai progetti.” Palumbo,
Gianguido (a cura di), PARTENARIATI TERRITORIALI ITALIA-BALCANI Valutazione strategica della
cooperazione decentrata sostenuta dall’art. 7 della legge 84/01, linea Mae Studio di caso Albania,
Fonte CeSPI (2007): p.20
60
dell’illegalità, della corruzione e del clientelismo, sicuramente non hanno favorito lo
sviluppo di una società civile organizzata. Lo stesso processo di decentramento
previsto dalla legge del 2000 è stato rallentato da resistenze politiche e socioculturali, soprattutto di chi tutt’oggi rimpiange la “monotona affidabilità del
“socialismo realizzato””149 e il “mito dell’ “uomo forte””150 e non vede il motivo per
cui impegnarsi in politica o per il bene comune. Sicuramente i Gruppi di Lavoro
hanno facilitato in molti contesti il riscatto da questa mentalità, ma difficilmente
anche quando il dialogo con le istituzioni è stato fruttuoso, si è mantenuto nel tempo
un rapporto costante con i governi locali.151 E’ bene tenere presente le possibili
conseguenze di questa debolezza anche in ambito di cooperazione, per comprendere
al meglio i limiti che essa incontra nell’accompagnare le società partner nel
travagliato percorso verso una salda democrazia.
3.3. La sfida dell’Europa
Nel 2010 la Cooperazione Italiana allo Sviluppo e le ONG da essa finanziate
hanno promosso un’iniziativa proprio con lo scopo di coinvolgere la società civile e
stimolare le istituzioni albanesi a definire politiche e strategie di sviluppo, oltre che
ad informare i cittadini sugli interventi della Cooperazione e del loro legame con il
processo dell’integrazione europea. Non a caso questa iniziativa, parte di una più
ampia stagione di eventi (Italia - Albania 2010: due Popoli, un Mare, un’Amicizia), è
stata intitolata “1990/2010 insieme per l’Europa: la cooperazione italiana allo
sviluppo per l’Albania”. L’iniziativa si è conclusa poco dopo la firma del protocollo
2010-2012 ed a seguito di un finanziamento ad hoc di 200 mila euro. E’ consistita di
fatto in un ciclo di conferenze, mostre, rassegne cinematografiche, che hanno avuto
luogo al Museo Storico Nazionale in piazza Skanderbeg e riguardanti i progetti della
Cooperazione Italiana in Albania messi in atto tra il 1990 ed il 2010. Sono stati
trattati temi dall’accesso al credito per le PMI alla valorizzazione del territorio, ai
legami tra innovazione tecnologica e università. Le ONG hanno illustrato le sfide
restanti nel campo della sanità, dell’educazione, dell’inclusione sociale, dello
149
Cit. di Bacon e Sandle, Breznev reconsidered, in Bottoni,Stefano, Un altro Novecento. L’Europa
Orientale dal 1919 ad oggi, Carocci Editore, 2011: p.230
150
in Bottoni,Stefano, Un altro Novecento. L’Europa Orientale dal 1919 ad oggi, Carocci Editore, 2011:
p.276
151
Palumbo, Gianguido (a cura di), PARTENARIATI TERRITORIALI ITALIA-BALCANI Valutazione
strategica della cooperazione decentrata sostenuta dall’art. 7 della legge 84/01, linea Mae Studio di
caso Albania, Fonte CeSPI (2007): p.22.
61
sviluppo rurale, dei diritti dei minori, dell’uguaglianza di genere. Hanno partecipato
anche alcune Regioni italiane per parlare del ruolo della cooperazione decentrata nel
potenziamento delle amministrazioni locali tramite programmi di scambio di best
practices nella gestione dei servizi locali, soprattutto di assistenza. Quest’iniziativa
ha voluto farsi testimonianza del forte impegno italiano in Albania, soprattutto
attraverso la Cooperazione allo Sviluppo, e ribadire in particolar modo il ruolo di
accompagnamento assunto dall’Italia nel percorso di preadesione all’Unione
Europea. Entriamo così nel tema della tensione albanese verso l’Europa.
Innanzitutto è bene individuare i primi passi compiuti dall’Europa verso
l’Albania, che si identificano nei primi accorgimenti rivolti dall’Unione Europea
all’area dei Balcani Occidentali (Western Balkans) in seguito alla fine delle guerre
scaturite dalla disgregazione della Jugoslavia. La prospettiva dell’integrazione per i
Paesi di questa regione è stata annunciata dalla Dichiarazione di Zagabria (2000) e
confermata nel Consiglio Europeo di Salonicco (2003). La Commissione Europea ha
elaborato un quadro istituzionale di assistenza tecnica e politica per avvicinare questi
Paesi agli standard richiesti per ogni allargamento, come stabiliti dal Consiglio
Europeo di Copenhagen (1993). Ciò non significa che l’Europa non operasse nei
Balcani Occidentali, con forme di aiuto ad esempio, già negli anni Novanta. Anzi,
abbiamo visto l’apporto della CEE in ambito dell’Operazione Pellicano. Inoltre, già
dai primi anni Novanta ai Balcani Occidentali è stato esteso il programma PHARE,
lanciato dal 1989 a sostegno delle nuove democrazie dell’Europa dell’Est.
Sicuramente però con la Dichiarazione di Zagabria è cambiato radicalmente il modo
in cui si è guardato a questi Paesi, considerati non più semplicemente parte del
cosiddetto “Resto del Mondo”, bensì più vicini e assimilabili ai Paesi membri.
Dal canto albanese, già nei primi anni Novanta era chiara la voglia di
avvicinarsi al resto d’Europa, che per cinquant’anni di Regime era rimasta molto più
lontana di quanto geograficamente non fosse. Nel 1993 l’Albania tuttavia aveva
aderito all’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI), allontanandosi in un
certo senso dall’Europa Occidentale. Già nel 1995 ad ogni modo le è stato esteso il
programma PHARE e l’Albania è entrata a far parte del Consiglio d’Europa e
dell’OSCE. Inoltre, anche se l’effettiva applicazione rimane molto deludente
soprattutto in materia di diritti di proprietà, nel 1996 l’Albania ha ratificato la CEDU.
Così, nel 1998, Fatos Nano ha giustificato la scelta di ritirare il Paese dall’OCI con la
sua appartenenza al destino dell’Unione Europea. Sembra essere d’accordo il famoso
62
scrittore Ismail Kadaré che nel 2006 ha composto un saggio intitolato L’identità
europea degli albanesi. Non sorprende allora che Mimoza Kondo, diplomatica, abbia
parlato dell’aspirazione all’entrata in Unione Europea degli albanesi come un “return
to homeland”.152 E nemmeno che Fatos Tarifa, diplomatico e “padre” della
sociologia albanese, abbia sempre espresso la sua convinzione che “Albania should
orient itself to the EU, and avoid getting caught up in the Balkan morass”!153 E il
sentiero che avvicina l’Albania all’Europa è andato man mano spianandosi col
superamento delle crisi degli anni Novanta fino a giungere il 28 aprile 2009 alla
presentazione dell’application albanese alla candidatura per la membership europea.
Nel 1999 ha preso vita il Patto di Stabilità dell’Europa Occidentale, lanciato
dai Paesi membri dell’UE in Germania a seguito della crisi del Kosovo con lo scopo
di elaborare una strategia comune per i Balcani Occidentali e tutelare la sicurezza
dell’intera regione. Hanno assunto così un ruolo di enorme rilievo l’Unione Europea
e la Banca Europea per lo Sviluppo e la Ricostruzione (EBRD). Dal 2000 al 2006 è
rimasto in vigore il Programma CARDS (Community Assistance for Reconstruction,
Development and Stabilisation) per supportare la partecipazione degli Stati al Patto
di Stabilità. Tra il 2002 e il 2007, oltre che nel cammino di “integrazione verticale”,
che ha portato nel giugno 2006 alla firma dell’Accordo di Stabilizzazione e
Associazione (SAA), per cui i negoziati erano iniziati nel 2003, l’Albania è stata
impegnata in un cammino di “integrazione orizzontale”. Si è giunti infatti, nel
dicembre 2006, alla firma dell’Accordo di libero scambio nell’area balcanica, un
accordo che ha consentito un importante incremento degli scambi commerciali nella
regione. La firma del SAA ha permesso all’Albania di ricevere 144 milioni di Euro
in cambio del suo impegno per promuovere il rispetto dei diritti umani, della
democrazia, dell’economia di mercato e della lotta contro il crimine e la corruzione.
Dal 2007 con il passaggio dal programma CARDS all’IPA, lo Strumento per la PreAdesione, l’Albania ha ricevuto oltre 497 milioni di Euro154 suddivisi in assistenza
per la transizione e l’institution building e incentivi per la cooperazione
transfrontaliera principalmente con gli Stati membri. Si è a tutti gli effetti compiuto il
152
Mimoza Kondo, Return to Europe: the path that is called transition. In Tarifa F., Spoor M.,
CESTRAD, Institute of Social Sciences,The first decade and after- Albania’s Democratic Transition and
Consolidation in the Context of Southeast Europe, Smiet, The Hague (2000).
153
Oberschall, Anthony, De-balkanizing the Balkans: prospects for peace and democracy in Southeast
Europe: p.40. In Ibid.
154
European Commission, Enlargement, Albania- Fiancial Assistance. Dati nella pagina web:
http://ec.europa.eu/enlargement/potential-candidates/albania/financial_en.htm [visitato 02.04.2012].
63
passaggio “From aid to trade and investment”155. Ricordiamo al proposito che il 75%
delle importazioni albanesi deriva dall’Unione Europea e che agli Stati membri va
ogni anno tra l’80 e il 90% delle esportazioni totali. L’Italia, come già sottolineato,
rimane al primo posto per gli IDE. E nonostante la crisi economica attuale abbia
prodotto effetti di negative spillovers, il Governo albanese rimane propenso e
desideroso di entrare a far parte dell’Unione Europea anche con lo scopo di attrarre
ulteriori investimenti esteri. Solo la criminalità organizzata rema contro il
raggiungimento di questo obiettivo, che ovviamente costituirebbe un forte limite ai
traffici di sostanze stupefacenti, ai traffici umani, al contrabbando, … . Nominiamo
qui l’Accordo di Cooperazione nella Lotta contro la Criminalità stipulato con l’Italia
a Bari nel Maggio 2007. Anche la corruzione e l’inefficienza della pubblica
amministrazione
costituiscono
chiaramente
degli
ostacoli
all’attrazione
di
investimenti e al rispetto degli acquis communautaire. La sola inclinazione verso
l’Europa ha prodotto comunque benefici anche nella sfera politica, per quanto forse
essi siano solo temporanei. Ad esempio, alle elezioni del 2002 tutti i partiti si sono
fatti portavoce della “retorica europeista” e fino al termine della sua carica nel 2007,
il Presidente eletto Alfred Moisiu, è stato metafora del nuovo dialogo Nano-Berisha,
che hanno smesso di propagandare il boicottaggio reciproco delle iniziative dei loro
partiti, Socialista e Democratico.
Nell’analizzare gli accordi italo-albanesi tra il 2000 e il 2012 è più che logico
tenere presente il quadro europeo e l’importante ruolo affidato all’Italia. Lo stesso
Sali Berisha, in qualità di Primo Ministro, intervenendo alla conferenza "Il sostegno
italiano all'integrazione dell'Albania nella Ue: un partenariato strategico tra
l'Albania, l'Italia e la Commissione Europea" nel maggio 2010 ha sottolineato che
“Il rapporto con l'Italia è straordinario, su questo supporto e sull'amicizia che
l'Italia ha mostrato e continuerà a mostrare, l'Albania punta molto per centrare
l'obiettivo dell'integrazione europea”. Saba D’Elia, Ambasciatore d’Italia a Tirana,
sembra concordare: “La firma del nuovo Protocollo di Cooperazione allo Sviluppo
per gli anni 2010-12 è ulteriore conferma della volontà di proseguire questo forte
rapporto di collaborazione e di guardare al futuro accompagnando l’amica Albania
lungo il sentiero che condurrà alla piena integrazione nell’Unione Europea.” E da
par sua il ministro per i Rapporti con le Regioni Italiane, Raffaele Fitto, ha
155
E’ il titolo del sesto capitolo di Cviić C., Sanfey P., In search of the Balkan Recovery- The Political
and Economic Reemergence of South-Eastern Europe, Hurst & Co., UK (2010).
64
affermato: "La partnership fondamentale tra Italia, Albania e Commissione europea
in questo percorso di accompagnamento dell'Albania verso l'integrazione europea,
credo sia un elemento fondamentale e decisivo sul quale bisognerà continuare a
lavorare anche nei prossimi mesi molto intensamente. Perché è un obiettivo che non
riguarda solo l'Albania, ma che può dare un beneficio anche al nostro Paese".156
Dunque, per vedere più in dettaglio gli accordi conclusi tra i due Paesi dal 2000
in poi, si è qui scelto di mantenere la suddivisione in due periodi (2000-2006 e 20072013) che è valsa per l’attuazione del programma CARDS e per l’IPA. Lo stesso
Consiglio dei Ministri albanese ha scelto di utilizzare programmi di durata pari a sei
anni coincidenti con quelli Europei per elaborare le proprie strategie interne. Per cui,
dal 2000 al 2006, in corrispondenza con il programma CARDS, le linee guida di
politica nazionale erano contenute nella Strategjia Kombëtare për Zhvillim Ekonomik
dhe Social (Strategia Nazionale per lo Sviluppo Socio-economico, NSSED); dal
2007 al 2013, in contemporanea alla durata dell’IPA, tutti gli indirizzi politici interni
sono contenuti nella Strategjia Kombëtare për Zhvillim dhe Integrim (Strategia
Nazionale per lo Sviluppo e l’Integrazione, SKZHI). Un tentativo di coordinamento
certamente degno di nota! La parola “integrazione” nella seconda Strategia
preannuncia quello che vedremo essere il suo obiettivo chiave. Ed è sul periodo
2007-2013 che ci soffermeremo di più, non solo perché più attuale, ma soprattutto
perché in questo arco temporale si colloca l’ultimo accordo bilaterale siglato tra Italia
e Albania, il PROTOCOLLO BILATERALE DI COOPERAZIONE ALLO
SVILUPPO 2010-2012.
Eravamo rimasti però al Protocollo di Intesa degli anni 1998-2000 e da qui
riprendiamo. Ad esso segue cronologicamente la firma del Protocollo per la
Cooperazione allo Sviluppo del triennio 2002-2004. La Commissione Mista che ha
concordato le iniziative del Protocollo ha scelto di dare priorità ad alcuni settori
strategici come le infrastrutture (come d’altronde negli anni precedenti, il ché è
sufficiente a comprenderne lo stato), l’agricoltura (in collaborazione con la FAO),
…, ma anche l’adeguamento dei servizi sociali e il rafforzamento delle risorse umane
e delle istituzioni, ad esempio tramite progetti di informatizzazione della pubblica
amministrazione. Il capacity building dell’amministrazione era parte degli obiettivi
di intervento del Programma CARDS per facilitare gli scambi e lo sviluppo delle
156
ANSAmed, http://ansamed.biz/it/albania/news/MI.XAM12582.html, 19 maggio 2010, [visitato il
22/04/2012].
65
comunità locali. Infatti, la stessa Commissione Mista ha sostenuto necessario il
“coordinamento con i programmi finanziati e cofinanziati dalla Commissione
dell'Unione Europea relativi alla collaborazione transfrontaliera per il periodo
2000-2006”. Buona parte dei fondi (202 milioni di Euro in totale) però sono stati
destinati per urgente necessità a sanare la crisi energetica dell’inverno 2001-2002.
Mentre per ciò che riguarda il sostegno allo sviluppo delle PMI albanesi, esso ha
cominciato ad assumere in questi anni la precedenza su interventi d’emergenza,
preannunciando il futuro impegno italiano nel campo dell’imprenditorialità.
Institution building, sostegno allo sviluppo del settore privato, miglioramento
nell’erogazione dei servizi pubblici, …, sono alcune delle priorità in comune tra il
Programma CARDS, la NSSED, le iniziative di Banca Mondiale e FMI e dei vari
donatori bilaterali, tra cui in prima linea la Cooperazione Italiana.
Dal 2007 si è intensificato questo coordinamento. La Commissione Europea e
gli altri donatori, tra cui la Cooperazione Italiana cercano di facilitare l’Albania a
raggiungere gli obiettivi preposti nella Strategia Nazionale per lo Sviluppo e
l’Integrazione. Il documento della Strategia è suddiviso in cinque macro capitoli: il
primo descrive “where are we now”, il secondo “where do we want to be”, il terzo
“how do we get there”; poi seguono un quarto capitolo che stima “how much it will
cost” e un ultimo che stabilisce “how we will measure our progress.” Il dove si
voglia essere è chiaramente delineato: innanzitutto in Unione Europea, poi un Paese
a reddito medio, ovvero allo stesso livello dei Paesi dell’Europa Centro-Orientale,
con livelli di vita elevati, strutture democratiche e garante delle libertà e dei diritti
umani fondamentali. L’adesione all’Unione Europea è dunque l’obiettivo chiave cui
si accennava. Pertanto, le iniziative previste dalla Cooperazione Italiana allo
Sviluppo nel Protocollo per il triennio 2010-2012, per quanto agiscano in diversi
settori, hanno tutte l’obiettivo primario di sostenere il processo di integrazione
europea. Due grandi sfide in campo di libertà e diritti umani rimangono le
problematiche relative ai diritti di proprietà e alle disparità nella fruizione dei servizi
educativi e sanitari. Ne consegue tra gli obiettivi di medio periodo quello di
uniformare le varie aree del territorio nazionale, cercando di colmare il più possibile
il gap tra campagne e città e interno alle stesse città, potenziando le istituzioni
decentrate. Questo obiettivo è regolato tra l’altro dalla Strategjia e Zhvillimit te
Qarkut (Strategia di Sviluppo Regionale), un accordo consensuale tra le varie
suddivisioni amministrative in ambito economico, occupazionale, infrastrutturale,
66
urbano e rurale e di contenimento della povertà che tende a superare le politiche
preferenziali uniformando le politiche allo sviluppo. L’accordo però ritarda ad essere
tradotto in un piano finanziario con un adeguato sistema di monitoraggio. Il Governo
non manca di riconoscere le difficoltà date dal permanere della corruzione e
dell’informalità diffusa, nell’occupazione arbitraria di terra, edificazione abusiva, nel
mancato rispetto della rule of law, oltre che nelle classiche forme di evasione fiscale.
E per l’ennesima volta non si possono ignorare i rallentamenti causati dalla
debolezza delle infrastrutture energetiche, idriche e stradali.
L’Italia nel biennio 2010-2012 ha confermato il suo impegno nel sostenere
l’institution building ed il settore privato e imprenditoriale albanese. E’ anzi lead
donor europeo per ciò che riguarda quest’ultimo settore. La denominazione di lead
donor deriva dall’ l’EU Code of Conduct on Division of Labour in Development
Policy che si propone di migliorare la divisione del lavoro tra i donatori europei.
Nella pratica lo status di lead donor comporta l’affiancamento dell’Italia al Ministero
dell’Economia albanese per la redazione e la gestione di piani di sviluppo del settore
privato. Inoltre, è bene ricordare che con il diffondersi di una visione “olistica” dello
sviluppo157 l’Italia ha scelto di impegnarsi qualitativamente in un numero ristretto di
Paesi per ridurre la frammentazione degli aiuti, e l’Albania e la Serbia in questo
contesto sono considerati Paesi prioritari nell’agenda della Cooperazione italiana nei
Balcani.158 Il Protocollo di Cooperazione allo Sviluppo per il triennio 2010-12
sottoscritto dall’On. Ministro degli Esteri Franco Frattini e dal Vice Primo Ministro
Ilir Meta, rappresenta dunque l’apertura di una nuova intensa fase di collaborazione
tra i due Paesi. I finanziamenti previsti dal Protocollo, in totale 51 milioni di Euro,
sono destinati ad interventi in soli tre settori: privato, sviluppo rurale e sviluppo
sociale. Tramite il canale dello sviluppo rurale l’Albania riceve strumenti operativi
per il programma di modernizzazione del settore e del Ministero corrispondente che
dovrebbero consentirle di essere in grado di gestire i fondi agricoli europei quando
riceverà lo status di candidato. I 20 milioni di euro destinati alle politiche sociali,
ricavati grazie alla conversione del debito pregresso tra Italia ed Albania, ricadono
quasi totalmente sui servizi socio-educativi e socio-sanitari. Per la prima volta si
afferma nel Protocollo che “Sarà avviato, al contempo, il graduale disimpegno dal
settore delle infrastrutture pubbliche.” Per ciò che riguarda il settore privato, il
157
Si parla di una visione che guardi all’interezza del Paese. Generalmente “whole of a country”.
Linee Guida per la Cooperazione Italiana allo Sviluppo nel triennio 2011-2013, Linee-guida ed
indirizzi di programmazione.
158
67
Protocollo va di fatto a rifinanziare un progetto già in corso, il Programma per lo
Sviluppo delle Piccole e Medie Imprese Albanesi, aggiungendo altri 15 milioni di
Euro ai precedenti 27,5. Il Programma dal 2005 prevede tre componenti: una linea di
credito, un fondo di garanzia e l’assistenza tecnica. I primi due, gestiti dal Ministero
dell’Economia, del Commercio e dell’Energia albanese, offrono condizioni agevolate
di accesso al credito anche come mezzo di trasferimento di tecnologia e know-how. Il
programma include anche supporto al microcredito tramite istituzioni come BESA,
Opportunity Albania, MADA (Mountain Area Development Agency). L’assistenza
tecnica è invece seguita dall’Ufficio della Cooperazione Italiana allo Sviluppo
dell’Ambasciata d’Italia in Albania. Oltre a riproporre modelli di successo italiani,
come avviene anche in ambito agricolo, si cerca anche di favorire dinamiche che
anche in Italia non sono ancora ben radicate, come il collegamento tra università e
mondo del lavoro per favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Come
ha notato Gianguido Palumbo, “Nel mercato del lavoro internazionale l’Albania è
tornata a risultare molto conveniente dopo l’ingresso nell’UE di alcuni Paesi
dell’Est con il loro conseguente calmieramento del costo del lavoro. Molte aziende
Europee e Italiane stanno programmando nuove delocalizzazioni industriali da quei
Paesi all’Albania. Tale processo va tenuto in conto nei progetti di cooperazione
legati all’occupazione, alla formazione, all’avviamento al lavoro. […] L’Albania
sembra “arricchirsi”, “crescere”, “svilupparsi”, molto velocemente ma senza una
maturazione complessiva della società, della comunità nazionale e locale, bruciando
tappe ma anche storia, cultura, originalità. Si creano migliaia di aziende, di partite
iva, di case e hotel, ma non crescono parallelamente i livelli medi di cultura della
popolazione considerando inoltre che il Settore Culturale in senso lato richiede
sempre di più capacità ed attività imprenditoriali con risvolti occupazionali
multilivello.”
159
Si fa sempre più impellente la necessità di consolidare politiche di
sviluppo multidimensionali, integrate, che guardino all’interezza del Paese. L’Italia
deve essere per prima determinata ad operare per gli interessi collettivi e non
guardare solo ai propri interessi commerciali. Ovviamente difficile dire quanto
questo avvenga, perché negli statement di natura politica cui possiamo avere accesso,
prevale sempre la retorica che fa leva sull’amicizia tra i due popoli e sulla forza dei
nostri legami storici e recenti.
159
Palumbo, Gianguido (a cura di), PARTENARIATI TERRITORIALI ITALIA-BALCANI Valutazione
strategica della cooperazione decentrata sostenuta dall’art. 7 della legge 84/01, linea Mae Studio di
caso Albania, Fonte CeSPI (2007): pagine 28-29
68
Ad ogni modo, l’Albania è determinata, sebbene il parere emesso dalla
Commissione Europea il 9 Novembre 2010 non le abbia conferito lo status di
candidato, a continuare la sua grande “sfida europea” e l’Italia pare continuare ad
assecondarla. Nell’ Albania 2011 Progress Report redatto dalla Commissione
Europea (Ottobre 2011), sono emerse le principali tappe di questa sfida. Innanzitutto
dopo gli incidenti nel gennaio 2011 in periodo di elezioni, si è ritenuto doveroso
ribadire la necessità di superare il boicottaggio politico e riprendere in mano la
riforma elettorale che era stata bloccata. Si insiste sull’importanza del decentramento
e della professionalizzazione della Pubblica Amministrazione che invece rimane
essenzialmente politicizzata160. Anche la riforma giudiziaria è tra le priorità da
conseguire e ancora una volta nel rapporto la Commissione accusa l’Albania di non
aver adottato alcuna misura per combattere la corruzione nel sistema giudiziario,
come limitare o eliminare l’immunità dei giudici. La riforma del sistema giudiziario
e la lotta all’informalità, alla corruzione e alla criminalità organizzata sono tra le
sfide maggiori da affrontare. Da un punto di visto economico, la strada è ancora
lunga perché venga concesso il libero movimento di merci, lavoratori e capitali e
perché si attui una efficace politica per la competizione. In generale ovunque
mancano o scarseggiano le capacità di implementazione delle riforme e delle
politiche prestabilite. In compenso ampi successi sono stati raggiunti nel semplificare
la cornice legale delle politiche riguardanti le imprese e le industrie, per ciò che
riguarda la difesa, la politica estera e anche la ricerca e la scienza. Nonostante il
parere della Commissione sia stato negativo, nel dicembre 2010 è entrato in vigore il
sistema di liberalizzazione dei visti, segno di come l’Unione Europea abbia
comunque grande fiducia nelle capacità di modernizzazione del Paese. Chissà
dunque se l’Albania uscirà a breve vincente da questa sfida. La decisione dipenderà
in buona parte dalle più generali considerazioni degli Stati membri sull’ulteriore
allargamento dell’Unione in questo periodo di crisi interna.
160
Il dipartimento della Pubblica Amministrazione (DOPA) non ha dati a disposizione e il Training
Institute per la Pubblica Amministrazione ha difficoltà a implementare le attività programmate anche
per via del basso budget.
69
Conclusioni
“Approfondire le relazioni tra il nostro Paese, l’Italia, e il nostro vicino
d’oltremare, l’Albania” era l’intenzione che ha motivato la scrittura di questo
elaborato. Perciò, ho cercato di ripercorrere alcune importanti tappe storiche che
hanno talvolta legato, nel caso del Regime invece diviso, i destini dei due Paesi. Il
titolo Italia e Albania: dall’Unione alla Cooperazione, vuole essere un titolo in parte
provocatorio. Non specificando quando sia avvenuto questo passaggio, non
necessariamente corrispondente al termine dell’Unione Italo-Albanese nel 1943, non
si chiude il dibattito sulle Operazioni gestite da militari negli anni Novanta né si
elimina totalmente la possibilità di leggere la presenza italiana in Albania come una
forma di neocolonialismo economico. Il periodo di colonizzazione fascista però ha
costituito senz’ombra di dubbio un periodo di dominio italiano unico nel suo genere,
a cui l’ingerenza economica italiana dagli anni Novanta non si può nemmeno
comparare. E’ necessaria una certa cautela, quindi, nel parlare di “neocolonialismo”.
Data la varietà di personale e volontari italiani in Albania, sarebbe azzardato ed
ingiusto generalizzare sulla genuinità delle loro finalità. A livello governativo, ad
ogni modo, negli accordi tra la Cooperazione Italiana allo Sviluppo e il Consiglio dei
Ministri albanese non manca conferma di una stretta collaborazione che si è
dimostrata continua nel tempo e che, come affermava Raffaele Fitto, “non riguarda
solo l'Albania, ma che può dare un beneficio anche al nostro Paese". Per quanto una
lieve dose di ambiguità sia una costante nel dialogo tra i politici ed i diplomatici
italiani ed albanesi, il rischio di un voltafaccia che rovini quest’oramai consolidata
amicizia, sembra essere stato completamente debellato.
La Cooperazione Italiana, soprattutto accompagnando l’Albania nel suo
percorso di integrazione europea, si conferma come il suo più stretto alleato, ma il
destino dell’Albania, che sia più o meno legato all’Italia e all’Unione Europea è
prima di tutto nelle mani dei propri politici e dei propri cittadini. Se i primi non
riescono a governare il Paese, debbono essere innanzitutto i secondi a riscoprire il
valore del “bene comune” e della res publica e a lottare per i propri diritti. Se si
sceglie la corruzione e non si rinnovano la classe dirigente e la burocrazia, ogni aiuto
esterno è purtroppo inutile.
70
Preferendo concludere con una nota positiva, cito allora la rivista Përpjekja
(endeavor) di Fatos Lubonja, nata con lo scopo di infondere maggior spirito critico
nella cultura albanese. E con essa il Movimento MJAFT! (Basta!), fondato nel 2003
per sollevare consapevolezza contro la corruzione, la bassa qualità dei servizi
pubblici, i traffici illegali, le faide di sangue, il degrado ambientale e il
malfunzionamento della democrazia. MJAFT!, per il suo ruolo di catalizzatore di
cambiamento nel Paese, ha ricevuto nel 2004 il Premio delle Nazioni Unite per la
Società Civile. Bisognerebbe sperare in sempre più persone disposte a dire Basta!
Ringrazio il Prof. Giuseppe Maione,
che mi ha assistita in ogni fase del mio lavoro dimostrando sempre vivo interesse, e che mi
ha già invogliata a procedere nella ricerca per risolvere tutte le questioni in sospeso che nel
breve tempo dedicato a questo lavoro non hanno, purtroppo, trovato risposta.
Un grazie di cuore!
71
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