I Quaderni del CREAM 2006

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I Quaderni del CREAM 2006
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO BICOCCA
CENTRO DI RICERCHE ETNO-ANTROPOLOGICHE MILANO
I QUADERNI DEL CREAM
2006 – V
Trauben
I quaderni del CREAM, 2006, V
1
I quaderni del CREAM sono una pubblicazione a cura del Centro di Ricerche
Etno-Antropologiche dell’Università degli Studi di Milano Bicocca.
Raccolgono articoli, note, recensioni e testi di conferenze e seminari tenuti
nell’ambito delle attività del Centro e delle iniziative ad esso collegate: Corso di
Laurea Specialistica in Scienze Atropologiche ed Etnologiche, Dottorato in Antropologia della Contemporaneità (DAC), Corso di Perfezionamento in Antropologia Culturale (COPAC), Laboratorio di Antropologia Visiva (LAV), Seminario di Antropologia del Medio Oriente e del Mondo Musulmano (SAMOMU), Seminario di Atropologia Teorica (SAT).
Unidea-UniCredit Foundation, nell’ambito del proprio impegno nel campo
della ricerca, sostiene le attività del CREAM.
Direttore Roberto Malighetti
Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione ‘Riccardo Massa’
Università degli Studi di Milano Bicocca
Piazza dell’Ateneo Nuovo 1
20126 Milano
© 2006 Trauben editrice s.a.s
via Plana 1 – 10123 Torino
fax 011.7391042
ISBN 8889909080
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Indice
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Vincent Crapanzano, Lo scenario: oscurando il reale
37
Ugo Fabietti, Sulle idee di ‘esotico’ e di ‘esotismo’: lo sguardo
di un antropologo
51
Mariella Pandolfi and Phillip Rousseau, Looking for Anthropos.
With a little help from Pirandello’s infinite absurdity
71
Roberto Malighetti, Identities in the Quilombo of Frechal.
Fieldworking in a Brazilian rural black community
103
Hashem Sedqamiz, Il tempo delle cose, il tempo degli umani:
percezione della temporalità e forme di vita a Shiraz
133
Setrag Manoukian, Cose di casa: modalità di esposizione e
costruzione dei sessi a Shiraz
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VINCENT CRAPANZANO*
LO SCENARIO: OSCURANDO IL REALE
Ciò che vedo esiste.
Solo, non crediamo in ciò che vediamo
perché vediamo ciò in cui crediamo.
J.-B. Pontalis, Perdre de vue
Sopra alla mia scrivania c’è una grande incisione all’acquaforte
intitolata Crepuscolo, dell’artista contemporaneo francese Gérard
Trignac. È una rappresentazione tenebrosa di un grande castello, circondato da un enorme fossato, sovrastato da un ponte massiccio. La
veduta è da sotto il ponte e l’osservatore ne sente l’enorme peso.
Dietro a uno dei piloni che sostengono il ponte si intravede la cima di
una vela bianca, illuminata da un raggio di luce. A prima vista l’incisione ricorda i disegni di Piranesi, pure è meno drammatica, molto
più calda dei lavori di Piranesi, e malgrado richiami gli oscuri meandri del castello, un pericolo occulto e il fiume della morte, della morte in persona, c’è qualcosa di tranquillizzante nell’aria di mistero,
nell’atmosfera, nell’impostazione di questo lavoro. Almeno così l’ho
sentito io in questi lunghi anni durante i quali ho lavorato sotto il suo
silente controllo.
Quando sollevo lo sguardo e osservo l’incisione di Trignac penso
a ombre e a spettri, le dimensioni occulte dell’esistenza sociale e culturale che noi antropologi abbiamo così spesso incontrato sotto varie
sembianze, e che abbiamo tentato di tenere lontano dal nostro lavoro
“serio”, come se fossimo messi a disagio dal mistero, dal pericolo e
dalla prossimità, addirittura dall’immediatezza di ciò che presumiamo sia irrazionale o quanto meno effimero. Di sicuro altre epoche
*
CUNY Graduate Center.
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hanno apprezzato di più quello che Shelley definisce il “mondo insondabile”. Nel suo primo poema, Alastor o lo Spirito della solitudine,
si rivolge alla “madre di questo mondo, della Natura e del Bisogno”.
Ho vegliato
La tua ombra, e
L’oscurità dei tuoi passi,
E da sempre il mio cuore contempla l’abisso
Dei tuoi profondi arcani
Ho fatto il mio letto
Nel buio degli ossari e sulle tombe dove la nera morte
Conta i trofei che ti ha strappato
Sperando di placare queste domande ostinate
Su te e ciò che ti appartiene, forzando un qualche
Messaggero, a cedere il racconto, solitario spettro
Di quello che noi siamo.1
Voglio risuscitare la dimensione romantica dell’antropologia non
perché io voglia proporre un’antropologia romantica, assolutamente
no, ma perché voglio che scendiamo a patti con la nostra eredità romantica e con l’effetto che quest’eredità ha avuto su di noi, se non
altro attraverso il suo insistente rifiuto ideologico. A causa di questo
rifiuto, così come del ripudio delle radici religiose – giudaico-cristiane – della nostra disciplina, che hanno giocato un ruolo così fondamentale nella nostra comprensione e interpretazione dei fenomeni
che studiamo, spesso scompare una dimensione della realtà che è cara soprattutto a coloro che studiamo (e anche a noi, nella nostra vita).
O, se non sparisce, se non è ignorata, soppressa o repressa, essa è ridotta a uno o a un altro deprimente paradigma, così che questi mondi
– o esperienze – oscure perdono qualsivoglia realtà empirica e qualsiasi influenza esse possano avere sui comportamenti e sui pensieri di
coloro che studiamo.
Ho recentemente pensato al modo in cui abbiamo avuto la tendenza di ignorare (uso ignorare in mancanza di un termine migliore)
la “soggettivazione” dei contesti che appaiono oggettivi, ai quali
1
: Shelley 1995: II. 2-28.
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guardiamo per spiegare i fenomeni che osserviamo. Preliminarmente,
anche se questo esercizio teorico richiederebbe un rigore epistemologico considerevolmente maggiore di quello che io posso per ora garantire (se mai io sia davvero in grado di farlo), ho provato a distinguere la realtà “oggettiva” da quello che io chiamo lo scenario2.
Con “realtà oggettiva” intendo qualcosa di simile à ciò che Alfred
Schutz chiama “realtà primaria”, ovvero la realtà del senso comune,
della vita quotidiana, che noi diamo per scontata3. Essa include, nei
termini fenomenologici di Schutz, “non solo oggetti fisici, fatti ed
eventi che si trovano all’interno del nostro effettivo e potenziale
campo d’azione, percepiti come tali all’interno del nostro mero schema appercettivo, ma anche riferimenti rappresentazionali di ordine
minore attraverso il quale gli oggetti fisici della natura sono trasformati in oggetti socio-culturali”. È la “regione finita di significato alla
quale diamo l’accento della realtà” e, come tale, differisce drammaticamente dalle altre regioni, quali “il mondo dell’immaginazione e dei
fantasmi” o “il mondo della contemplazione scientifica”4. Sia che intendiamo la realtà primaria in termini di coercizione, come farebbe
William James, o di resistenza, come farebbero i fenomenologi, oppure in termine di convenzioni (socialmente costruite e accettate o
accettabili) presupponiamo, io credo, una certa stabilità di significato
di questo termine che è condiviso o per lo meno è accettabile a partire da diverse prospettive5. Essa è, in breve, la realtà di prima referen2
Come diventerà chiaro in seguito, il mio uso di “scenario” non dovrebbe essere confuso
con la metafora teatrale di Erving Goffman (1959). Il particolare stile di empirismo di
Goffman preclude precisamente quello che intendo per scenario. Nella versione orale di
questo articolo, per differenziare la nozione di scenario da quella sociologica standard, ho
usato il francese scène, ma alla fine questa parola sembrava essere pretenziosa e magica.
Devo aggiungere che usando l’inglese ho perso l’immediato riferimento alla traduzione
di Lacan dell’espressione der andere Schauplatz di Freud come scène: la scena del sogno.
3
Schutz 1970: 253.
4
Dovremmo aggiungere che Schutz riconosce il suo debito con la nozione di William
James di “sub-universi”. La realtà primaria di Schutz corrisponde pressappoco al “mondo
dei sensi” di James. Vedi il saggio di James, The psychology of Belief.
5
Husserl 1931: 129 ssgg.
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za. A partire dal nostro punto di vista ordinariamente empirico, o, se
si preferisce, pragmatico, la realtà primaria è privata del suo lato fantastico, temporale, propriamente spaziale e capriccioso, ovvero di
quegli spostamenti dell’attenzione che noi attribuiamo ai sentimenti,
alle emozioni, agli umori, a tutto ciò che identifichiamo con la soggettività. Si tratta di puri ornamenti, di epifenomeni, o, come qualcuno potrebbe definirli, epifenomeni di epifenomeni. Ora, sono precisamente questi ornamenti, questi epifenomeni, sui quali io voglio
concentrare l’attenzione, perché essi sono a modo loro, e in un modo
speciale, una dimensione significante ed effettiva del mondo in cui
viviamo, pensiamo e agiamo.
Non voglio tuttavia ridurre lo scenario alla dimensione soggettiva
della realtà, perché credo che questo ci porterebbe lontano da ciò che
io considero essere la sua fondazione, intersoggettiva. A questo riguardo il mio approccio si distingue da quello fenomenologico usuale, centrato sulla coscienza o intenzione del singolo e, in ultima analisi, sul senso comune. Dovrei anche aggiungere, ma non posso sviluppare fino in fondo il mio ragionamento qui, che la soggettività,
benché questo possa apparire un mio particolare punto di vista, è essenzialmente intersoggettiva, sia grazie alla mediazione, ad esempio
del linguaggio, che nell’immediatezza, attraverso incontri reali o immaginati con oscuri simboli che ci provengono da fuori, al tempo
stesso reali e immaginari. Per me, almeno, lo scenario è questa presa
sulla – o rifrazione della – situazione “oggettiva” nella quale ci troviamo, ciò che le dà i colori e il tono, trasformandola così in qualcosa d’altro rispetto a come la conosciamo se facciamo lo sforzo di
pensare ad essa oggettivamente; nonostante ciò, per quanto sia profondamente marcata da colori e toni, essa si fonda sempre su questa
oggettività. E in verità, per quanto possiamo trovare inquietante questa realtà oggettiva, essa ci garantisce, nella sua oggettività, fermezza, costanza, una sicurezza epistemologica, se non ontologica. Potremmo forse parlare dello scenario, per analogia con la doppia voce
o la doppia vista. Noi riconosciamo immediatamente quella che assumiamo sia la realtà oggettiva della situazione nella quale ci troviamo, in qualsiasi modo questa oggettività sia intesa (come una realtà empirica, in un senso crudamente lockiano, per esempio, o come
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il prodotto di un insieme di convenzioni sociali e culturali), così come riconosciamo la nostra diretta esperienza di questa realtà, in tutta
la sua eccentricità. Ritornerò sul modo in cui la natura intersoggettiva della nostra esperienza dello scenario facilita questa doppiavisione. Per ora voglio limitarmi a sottolineare il fatto che è il riconoscimento dell’oggettività che facilita la formazione dello scenario
e la nostra esperienza di esso, così come è l’oggettiva realtà dello
psicanalista come psicanalista e del paziente come paziente che facilita le proiezioni del transfer e del contro-transfer. Come l’identità
proiettata dello psicanalista o del paziente può diventare così intensa
nel transfer e contro-transfer che o una o entrambe le parti coinvolte
nell’incontro perdono traccia della loro identità obiettiva, così ci sono dei momenti nei quali lo scenario può superare la realtà oggettiva
sulla quale si fonda o da cui è quanto meno sostenuta.
Ieri una delle mie studentesse che era quasi alla fine della sua ricerca di campo è venuta nel mio ufficio. Incerta se avesse finito o no
il suo lavoro – “non ho fatto abbastanza interviste” – davanti alla
massa di materiale disordinato e non ancora assimilato che aveva
raccolto, aveva un’aria sfinita e angosciata. I suoi occhi, che sono
normalmente brillanti e vivaci, erano spenti e sfuggenti. Ricordo
com’ero rimasto colpito la prima volta che l’avevo vista così. Era subito prima dei suoi esami orali. In quel momento, ieri, ha portato nel
mio ufficio un’oscurità – “buio” sarebbe un termine troppo forte –
così intensa, che ho alzato lo sguardo per vedere se per caso le luci si
fossero abbassate. Ma no, era lei. Poi, passati appena pochi minuti,
dopo aver parlato con lei dei suoi dubbi, i suoi occhi improvvisamente si sono illuminati e ha tirato fuori un pezzo di carta sul quale aveva
scribacchiato una serie d’idee confuse. Il suo movimento è stato così
improvviso, così spontaneo, così pieno di sollievo, come se si fosse
improvvisamente ricordata di quel che aveva dimenticato per molto
tempo, che il mio ufficio si è illuminato. Ho sentito che la luce fluorescente da azzurrognola diventava gialla, come la luce di una lampadina a incandescenza. Potevamo infine parlare tranquillamente della sua ricerca, e mentre parlavamo il mio ufficio, la sua luce, la sua
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faccia, i suoi occhi, sparivano... Alla fine della nostra discussione le
ho parlato della mia nozione di scenario e della mia reazione alla sua
ansia e al suo sollievo. Lei ha riconosciuto di aver avvertito un cambiamento nell’”umore della stanza”6. Devo aggiungere che lei è uno
spirito indipendente, e che non riesce a nascondere il suo scetticismo
circa il mio approccio all’antropologia7.
In effetti, non c’è niente di particolarmente inusuale nella mia –
nostra – esperienza. Abbiamo tutti sperimentato questo tipo di cambiamenti, che associamo, a livello personale, a cambiamenti di umore
o, a livello collettivo, a cambiamenti dell’atmosfera8. Questi cam6
In inglese “mood of the room” [NdT].
Ho discusso dello scenario con un certo numero di psicanalisti. Sebbene siano sensibili,
per via della loro professione, ai cambiamenti di umore o del carattere dei loro pazienti e
di loro stessi, restavano sorpresi quando chiedevo loro dei cambiamenti relativi al loro
senso di realtà immediata durante le sessioni psicanalitiche. Il contesto era semplicemente
il loro studio. Eppure, una volta che ci avevano riflettuto meglio, cominciavano a ricordare questo tipo di cambiamenti. Quando i loro pazienti erano depressi, dicevano che la
stanza diventava piú scura e sembrava piú piccola. Molti di loro sottolineavano la presenza di una luce blu. Con i pazienti patologicamente felici, la stanza brillava e alcuni dicevano che diventava gialla. Alcuni sentivano che la stanza diventava piú grande, altri invece avvertivano un senso di claustrofobia. La rabbia e l’aggressività erano associate con il
rosso. Anche gli oggetti cambiavano. Improvvisamente diventavano consapevoli della
dozzinalità di un divano o della polvere che ricopriva un paralume, che non avevano mai
notato prima. Un’analista ha detto che un piccolo dipinto astratto che aveva di fronte a sé
e che era una sorta di punto di riflessione quando ascoltava i suoi pazienti diventava piú
grande in alcuni momenti e in altri piú piccolo. Non era in grado di dire quando o perché.
8
Sebbene l’umore e l’atmosfera giochino senza dubbio un ruolo importante nella descrizione se non nella costituzione dello scenario, non voglio ridurre lo scenario ad essi. Entrambi sono, come osserva Charles Altieri (2003:54) inclusi. Gli umori si riferiscono in
linea di massima ad esperienze interiori; l’atmosfera ad esperienze esteriori. Gli umori
sono pervasivi e non sono legati, come sostiene Altieri (ibidem), ad oggetti specifici. “Nel
caso degli umori gli affetti sembrano essere legati da una qualche forma di continuità a un
certo stato globale del soggetto. Ma la continuità decisamente non è tale per cui possiamo
disporre di una struttura narrativa per essa, forse perché gli umori sono apparentemente
assoluti e in questo senso non hanno né un inizio né una fine, solo un’estensione, una durata e un’evanescenza... Gli umori sono sintetici e imperialistici, e assorbono dettagli anziché conformarsi alle loro specifiche apparenze” (ibidem). Altieri insiste sul fatto che gli
umori sono pervasivi, il soggetto intenzionale non è particolarmente importante. “Certamente noi ci sentiamo coinvolti come soggetti, ma non organizziamo gli scenari secondo
7
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10
biamenti sono descritti molto spesso in letteratura. Kate Leslie,
l’eroina di Il serpente piumato di D. H. Lawrence, legge uno dei lunghi inni di Don Ramòn (Don Ramòn è, come ricorderete, il capo, anzi il profeta, del movimento nativo messicano immaginato da Lawrence che proclama il ritorno del Dio del sole azteco Quetzalcoatl):
Kate tornò a leggere questo lungo foglietto, e poi di nuovo tornò a leggerlo e le sembrò che un turbine di oscurità avvolgesse il mattino. Prese il
caffè sulla veranda e i gruppi di pesanti papayas le parvero enormi gocce
che sgorgassero dall’invisibile fontana della vita ch’è al di là degli uomini.
Le pareva di vedere la grande spinta germogliatrice del cosmo muoversi
dentro alla vita. E gli uomini brulicanti come mosche verdi sui teneri cimelli, un’aberrazione. Enorme l’arrotolarsi e dispiegarsi del cosmo col ferro che
anche cresce come un lichene, profondo nella terra, e cessa di crescere e si
prepara a perire. Il ferro e la pietra restituiscono la loro vita, quando è ora.9
Un cambiamento dell’umore rende oscura l’atmosfera nella quale
Keith si trova immersa. La sua percezione immediata dello scenario
conduce, come spesso accade, a una visione che è reale tanto quanto
lo è la veranda oscurata, benché immersa nella piena luce del sole del
mattino. Questi spostamenti dalla realtà oggettiva dello scenario a
delle esperienze visionarie possono giocare un ruolo importante nelle
nostre vite creative aprendo orizzonti immaginari, possibilità sospese
al limite dell’ordinaria percezione10. Ma, dovrei aggiungere, essi posi nostri specifici interessi o prospettive come soggetti. Piuttosto la soggettività fluttua,
passando da un senso di partecipazione in prima persona alla sensazione di essere trascinata in stati mentali che nessun soggetto può penetrare perché gli stati mentali apparentemente esistono indipendentemente dalle prospettive pratiche”. Gli umori assorbono la
capacità di agire dei soggetti e la proiettano nella dimensione transpersonale. Sebbene
l’atmosfera possa essere distinta dagli umori essendo relativa al mondo esterno, entrambi
possono significare metaforicamente l’uno l’altro, come quando la mia studentessa si riferiva al cambiamento di “umore” nella stanza. Entrambi, l’umore e l’atmosfera, differiscono da ciò che io intendo per scenario. Quest’ultimo è “oggettivo”, definito in termini
di specifici elementi ed eventi, ed ha un’importante struttura narrativa così come un importante potenziale teoretico. Non voglio tuttavia elaborare qui queste differenze, perché
la distinzione tra umore, atmosfera e scenario è particolarmente complessa.
9
Lawrence 1987: 328.
10
Crapanzano 2004.
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sono anche forzare, anche se solo per negazione o per terrore, la realtà primaria. Possono richiamare l’attenzione verso l’artificiosità, così
la vedo io, di quella realtà. Possono gettare un’ombra sulla sua certezza, sulla sua fattualità.
Mentre in cielo
Splendeva il giorno, il poeta tenne un colloquio silenzioso
Con la sua anima tranquilla. A notte la passione venne
Come il feroce demone d’un incubo
E lo scrollò dal suo riposo, e lo costrinse ad avanzare
Nel buio.11
Nell’oscurità sconvolgente del suo sogno assillato dalla morte,
nonostante il suo sforzo, il poeta non può generare nella Natura
“vuota”. Non può unire i due mondi, quello che percepisce da sveglio e quello onirico, il reale e l’ideale.
Shelley a parte – potrei interpretarlo male – dobbiamo osservare
che la sovrapposizione dello scenario alla “realtà oggettiva” è essa
stessa soggetta non solo a differenze culturali e epocali, ma anche
all’espressione letteraria e alle convenzioni proprie di ogni cultura e
periodo. Senza dubbio ci sono società che sono propense a concedere
realtà oggettiva allo scenario, ma parlare di mentalité in termini così
generali non solo rischia di creare stereotipi ma di non cogliere neppure la sottile economia della relazione tra i due e della dinamica del
loro incontro. Il poeta romantico – Shelley, Novalis, e così via – può
indulgere in uno scenario che sospende la realtà, come un sogno,
un’ombra, o una visione, nella sua poesia, nella sua ispirazione, ma
deve certamente avere fatto esperienza della dura realtà che ha opposto resistenza al suo indulgere o lo ha portato, come accadde a de
Quincy e a Coleridge, tra gli altri, a trovare una via di fuga nella “reverie” oppiacea o in qualche forma di misticismo. Il punto è, secondo
me, che il modo in cui noi rispondiamo allo scenario – indulgendovi,
scartandolo o ignorandolo – è soggetto al modo in cui la situazione
nella quale ci troviamo si presenta, e non, o almeno non in modo
11
Shelley 1995: II, 221-226.
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meno rilevante, al nostro carattere o disposizione in quel dato momento. Con l’autorità e il controllo propri di un autore, Lawrence ha
messo in scena la risposta di Kate all’inno di Don Ramòn. In modo
meno personale, eppure egualmente se non addirittura più effettivo,
questo tipo di controllo – la coreografia della realtà scenica e la tensione provocata dalla finzione – opera nel rituale e nel teatro.
Alzo lo sguardo sul Crepuscule di Trignac e di colpo mi ritorna
alla mente una scena della mia primissima infanzia. Ho meno di
quattro anni e sono in una chiesa per la prima volta. Mia madre si era
improvvisamente convinta, ho saputo dopo, che i nazisti avrebbero
vinto la guerra. Sebbene lei e mio padre fossero fermamente laici,
decise che mia sorella e io avremmo dovuto essere battezzati, per
“sistemare le carte” come mi disse anni dopo con grande imbarazzo.
Non ero mai stato in una chiesa prima, ed ero terrificato dalla sua oscurità, dall’odore acre dell’incenso e soprattutto dal prete, che mi
dissero che dovevo chiamare padre anche se non l’avevo mai visto
prima e che mi divenne immediatamente antipatico quando mi chiamò “figlio mio”. Non ero suo figlio e lui non era mio padre. Volevo
piangere, ma mi contenni, soprattutto dopo che mia sorella, che aveva meno di un anno, scoppiò in lacrime. Fui il primo ad essere battezzato, e non ricordo niente a parte l’alito pesante del prete, il gusto
del sale, i capelli bagnati e il mormorio di una lingua che non capivo.
Soprattutto ricordo un raggio di sole che mi entrò negli occhi e che
proveniva da un pannello di vetro trasparente di una finestra sporca,
dalla quale un uomo, vestito di una lunga tunica bianca e dorata, che
portava un cappello a cono come quelli da asino che vedevo nei fumetti, mi guardava minacciosamente. I miei occhi erano così accecati
dalla luce, che si riempirono di lacrime e l’espressione di quell’uomo, chiunque fosse, cominciò a cambiare da minacciosa a un’altra.
Per qualche ragione il raggio di sole che illumina la vela della barca
nella nebbia dell’acquaforte di Trignac mi ricorda quel raggio di sole. Mi chiedevo se anche mia sorella sarebbe stata accecata dal raggio. Era piccola e la teneva in braccio non mia madre – a mia madre
infatti lei non piaceva – ma un amico di mio padre, che mi diede una
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piccola croce d’oro attaccata a una collana che io avrei dovuto portare, immaginavo, come una bambina, e che invece mia madre mi disse
che non avrei dovuto mai mettere. Mia sorella fu fortunata perché la
protesse l’ombra del prete quando questi si chinò su di lei. Sebbene
io non ricordi che proiettasse un’ombra anche sulla mia faccia, ricordo che coprí mia sorella con la sua ombra. Dovetti socchiudere gli
occhi quando lasciammo la chiesa, perché era tutto troppo luminoso.
Ritornerò sulla dimensione diacronica – ovvero sul potenziale
narrativo – della nostra esperienza dello scenario. Adesso voglio descrivere la sua coreografia durante la cerimonia relativa a una comunione alla quale ho assistito in una chiesa evangelica conservatrice
nel sud della California, dove stavo facendo ricerca sul fondamentalismo cristiano. La chiesa era conosciuta per i suoi battesimi teatrali,
che erano messi in scena su di una balconata situata in alto, sopra
all’altare. Quella comunione fu un esperimento. Dei tavoli, preparati
per la comunione, furono posti nei corridoi che attraversavano la
chiesa, e si chiese ai comunicandi di somministrarsi la comunione
l’uno con l’altro. Inizialmente tutti esitarono, ma quando le luci si
abbassarono e l’organo iniziò a suonare dolcemente una musica
coinvolgente – io non la riconobbi – una coppia dopo l’altra venne
attirata verso i tavoli. Alcuni erano imbarazzati, ma la maggior parte
era molto presa dalla circostanza. Si fissavano l’un l’altro negli occhi, a volte piangendo, a volte con uno sguardo sofferente o di gioia,
non potevo sempre decifrarlo con esattezza, mentre si davano la comunione. I loro mutui sguardi traducevano non solo il loro amore reciproco, e la loro devozione per Gesù, ma anche, sentii, confessioni
personali che chiedevano perdono. Per me, a dispetto di me stesso,
come per loro, l’atmosfera era soffusa di una sentimentalità commovente che trasformava la chiesa in uno scenario di tale intimità, di tale amore, come lo avrebbero certamente descritto loro, che la chiesa
stessa sembrava scomparire. Essa diventò il vasto teatro di una comunione al tempo stesso intensamente personale e trascendente. Tutti, sia quelli che amministravano la comunione, sia i semplici spettatori, erano coinvolti. Tra le migliaia di membri della congregazione
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mi chiesi se fossi io l’unico che era al di fuori dello scenario, meno,
immagino, per via del mio sguardo “professionale”, che per una sorta
di imbarazzo da “voyeur”. Venni a sapere poi che l’esperimento fu
considerato un enorme successo, e che si sperava che questo avrebbe
accresciuto il numero dei fedeli della chiesa.
Il fatto che il rituale promuova un senso di comunità, o, come direbbe Victor Turner, di “communitas”12, è noto da molto tempo prima che nascesse l’antropologia. L’”effervescenza sociale” che Durkheim ha posto al centro del rituale, o per lo meno al centro dei rituali primitivi, è, sospetto, più una proiezione della mente europea disincantata che un fatto obiettivo. Non voglio negare, con questo, che
vi siano rituali il cui finale è così delirante che vi è una perdita della
coscienza individuale e un’immersione totale nel gruppo, come accade ad esempio in discoteca. In effetti, io ho assistito a questo tipo
di finale tra gli Hamadsha, i membri di una confraternita marocchina
conosciuta per i suoi deliranti esorcismi: all’improvviso, a notte fonda, dopo ore di danza in trance e di canti ritmati, le luci vengono
spente e con un forte “hush” (silenzio!) – soltanto un ossimoro può
rendere adeguatamente quel momento – appare ‘A’isha Qandisha, il
demone femminile da loro venerato. Sebbene io non possa sapere
che cosa abbiano sperimentato i partecipanti in quei momenti, tutti
loro ricordano di aver visto ‘A’isha in una sua qualche manifestazione. (Gli psicologi direbbero, senza dubbio, che qualsiasi fosse
l’esperienza individuale dei partecipanti, essa era stata immediatamente interpretata nel linguaggio collettivo come il demone femminile). Sebbene io non vedessi ‘A’isha, sentivo la sua presenza oscura,
che ho immediatamente attribuito, dato il mio razionalismo (magari
difensivo), all’intensa focalizzazione dei partecipanti al rituale sul
demone femminile. Più tardi ho legato questa esperienza a quelle che
abbiamo fatto tutti quando, pensando di essere soli, improvvisamente
avvertiamo la presenza di qualcuno in una stanza prima di vederlo o
di vederla davvero.
12
Turner 1969: 94-165.
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Molti rituali a cui ho assistito, incluse molte performance degli
Hamadsha, o di cui ho letto, sono, in effetti, degli eventi piuttosto disarticolati, senza una grande intensità drammatica. E ove questa intensità esiste, non è chiaro se essa produca una qualche “effervescenza”. Descrivendo le sedute divinatorie dei medici-stregoni Azande,
Evans-Pritchard osservava che la loro danza è “la performance più
spirituale” alla quale avesse mai assistito e che la musica che i medici producevano – l’”insieme” del gong e delle percussioni – era inebriante sia per i partecipanti che per il pubblico. “La musica, i movimenti ritmici, le smorfie del viso, gli abiti grotteschi, tutto contribuisce a creare l’atmosfera propria di una manifestazione di poteri esotici”13. Sebbene le persone del pubblico seguano lo spettacolo con
grande partecipazione, muovendo la testa al ritmo della musica e
cantando talvolta insieme, sarebbe un errore, dice Evans-Pritchard,
pensare che l’atmosfera sia solenne. Al contrario, le persone sono allegre, parlano tra loro e scherzano. Evans-Pritchard ci ricorda di
nuovo
che il pubblico non sta osservando semplicemente una performance ritmica,
ma anche una rappresentazione rituale della magia. È qualcosa di più di una
danza, è una lotta, in parte diretta e in parte simbolica, contro i poteri del
male. Il pieno significato della seduta, una sorta di marcia contro la stregoneria, può essere afferrato solo se la danza viene capita... Un medico-stregone
“mette in scena le questioni, danzando.14
Quello che Evans-Pritchard trascura di analizzare è l’effetto rituale (quello drammatico, propriamente psicologico) della disgiunzione
tra la serietà della seduta – la solennità cui potrebbe aspirare – e
l’atteggiamento (a volte) gioviale del suo pubblico. Non sembra esservi, nell’evento, “effervescenza” di gruppo e neanche costante attenzione. Dovremmo forse arguire che vi è una persistente deviazione dell’attenzione? È forse l’astrazione, tanto personale nella sua impersonalità, quanto comune, l’atteggiamento rituale più caratteristico.
13
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Evans-Pritchard 1937: 177.
Ivi: 178.
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Uno degli errori di molti studi sui rituali è, dal mio punto di vista, il
farli derivare da una forma e intenzione drammatica, da una finalità
presupposta. Come osservavo in Imaginative Horizons, molti partecipanti ai diversi rituali cui ho assistito mi dicevano che sentivano la
loro solitudine più intensamente proprio durante il rituale.
Quanto spesso io – e altri antropologi – siamo stati incapaci di distinguere tra l’ideale irrealizzato e l’esperienza effettiva nelle descrizioni che i partecipanti ai rituali facevano delle loro personali esperienze. Ricordo di quando assistetti al museum Hamadsha, al pellegrinaggio annuale, che culmina con l’incontro dei capi di due villaggi rivali, uno, Beni Rachid, di più alto status dell’altro, Beni Ouarad.
Il capo, o mizwar di Beni Ouarad, seguito da migliaia di seguaci, arriva su di un imponente cavallo all’entrata di Beni Rachid, dove
l’altro mizwar lo aspetta su uno stallone bianco, circondato da migliaia dei suoi seguaci. Il mizwar di Beni Ouarad smonta di sella e
segue a piedi attraverso il villaggio, il capo di Beni Rachid, che rimane invece in sella, fino al santuario del venerato santo Hamadsha,
dove pregano per poi ritornare all’entrata del villaggio. Questo è
l’ideale, il modo in cui normalmente si compiva il rituale, ma mi è
stato detto che adesso i due capi si incontrano, uno smonta, l’altro
resta a cavallo, si salutano e poi ripartono. Questo accade perché, mi
è stato spiegato, non possono facilmente farsi largo tra le folle brulicanti di adoratori in trance, incontrollabili. In effetti, i due uomini erano gelosi l’uno dei privilegi dell’altro e si affrontavano molto spesso in tribunale per delle liti sul possesso del territorio. Quello che io
osservai non era né l’ideale né la versione “realistica”. I due capi infatti si incontrarono ai margini del villaggio. Non si salutarono. Semplicemente fecero una pausa e poi si voltarono e tornarono indietro
alle rispettive case. Quando chiesi agli spettatori che cosa era successo, mi assicurarono che i due capi non solo si erano salutati ma si erano anche strette le mani. Molti insistettero sul fatto che il mizwar di
Beni Ouarad fosse sceso di sella! Quando cercai di andare più a fondo con le domande, si arrabbiarono talmente che dovetti smettere di
chiedere. Forse è proprio l’oscillazione tra l’ideale e il reale, tra
l’entusiasmo e il senso di inadeguatezza, che caratterizza molte esperienze rituali, ciò che garantisce la loro efficacia, come ho affermato
I quaderni del CREAM, 2006, V
17
nel caso delle circoncisioni rituali marocchine15. L’uno getta
un’ombra sull’altro, a vicenda. Ciò che è importante è la loro reciproca implicazione. L’ideale non può essere interamente staccato
dall’esperienza effettiva, sebbene possano essere distinti analiticamente con qualche successo. È per questa ragione che esiterei ad equiparare l’ideale con lo scenario. Ciascuno di essi ha una specifica
relazione con il reale e una grammatica propria, divergente rispetto a
quella dell’altro.
Molti studi sui rituali, anche quelli che enfatizzano l’importanza
della “communitas”, evitano di soffermarsi sulla percezione sensoriale del miracolo, del mistero e del perturbante descritta dai partecipanti, perché, sebbene solo metaforicamente o simbolicamente, non vi è
un referente reale. Benché io non sia personalmente disposto ad accettare un’interpretazione miracolosa, credo che sia importante chiedersi che cosa venga definito come “miracolo”, “mistero” e “perturbante”. Prima di attribuire un referente predeterminato e soddisfacente a questi frammenti oscuri di esperienza o alla loro traduzione indigena approssimativa – la paura indotta della castrazione, per esempio, nel caso del perturbante, i poteri trascendentali dell’interazione
sociale nel caso del miracolo o del mistero – dovremmo cercare di
capire come vengono utilizzati questi termini ed altri analoghi e come siano rappresentati nel contesto culturale studiato. Nel contesto
europeo e statunitense il “miracolo” suggerisce una rottura con la catena “naturale” degli eventi che sono casualmente congiunti in modo
mediato e immediato allo stesso tempo. Sicuramente, il “miracolo”
presenta una doppia natura, perché non solo è miracoloso in sé, ma
crea anche miracolosamente una rottura con la nostra percezione naturalizzata della storia, diventando così qualcosa di straordinario. La
discussione di Freud (1963) sul perturbante ci può servire come modello, perché, sebbene egli colleghi il perturbante, o almeno una delle
sue manifestazioni, all’angoscia della castrazione, pure si oppone alla
15
Crapanzano 1992: 260-280.
I quaderni del CREAM, 2006, V
18
postulazione di un singolo referente causale, o, meglio, il materiale
su cui lavora lo obbliga ad assumere questa posizione. “Il perturbante
che si sperimenta direttamente si verifica quando complessi infantili
rimossi sono richiamati in vita da un’impressione, o quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato una nuova convalida”16. Ciò che appare importante nella nostra interpretazione di
Freud è il meccanismo che produce la percezione sensoriale del perturbante: quel qualcosa di familiare ed estraneo allo stesso tempo che
ci spaventa e che conosciamo da sempre, sebbene l’abbiamo dimenticato fino ad adesso, quando il suo effetto viene nuovamente provocato da alcune impressioni del presente. Vorrei sottolineare il paradosso esistente tra contingenza e ripetizione – una ripetizione che allo stesso tempo in cui potenzia la contingenza, la spoglia del suo potere. Freud osserva nella sua opera che
spesso e volentieri ci troviamo esposti a un effetto perturbante quando il
confine tra fantasia e realtà si fa labile, quando appare realmente ai nostri
occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico,
quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che
è simboleggiato e così via.17
Freud collega questa “eccessiva accentuazione della realtà psichica rispetto alla realtà materiale” ai sentimenti infantili di onnipotenza
e alle pratiche magiche. La sua ricerca delle origini endopsichiche
dell’esperienza riflette, naturalmente, la presunzione storica e culturalmente specifica del suo tempo. Io sottolineerei, piuttosto, la dimensione interpersonale dell’esperienza del perturbante, nelle sue
dimensioni allo stesso tempo sincroniche e diacroniche: una persona
che ha una percezione sensoriale del perturbante si trova immersa al
tempo stesso nel tempo dell’esperienza e (qualora questa percezione
sensoriale sia evocata di nuovo) nel tempo in cui questa esperienza
viene descritta; essa è dunque posta in relazione a un passato già configurato che la assorbe, attraverso consapevoli e inconsapevoli ricor16
17
Freud 1977: 110.
Ivi: 105.
I quaderni del CREAM, 2006, V
19
di, nel presente. In questo contesto utilizzo il termine “configurato”
per suggerire sia l’articolazione di eventi passati, sia la loro – dovrei
dire animistica? – rappresentazione, una rappresentazione che fornisce sempre una possibilità interlocutoria.
Alzo lo sguardo ansiosamente sull’incisione di Trignac. Osservo
il modo in cui i piloni che sostengono il ponte sul fossato si riflettono
al contrario nelle sue acque oscure. Il loro riverbero è come un triangolo capovolto, una freccia che si orienta in giù, verso le profondità
misteriose dell’acqua e verso tutto ciò che giace sul fondo. Tutto
questo è evidenziato da una vela che, senza alcuna ragione apparente,
si protende alla base del pilone. Illuminato dallo stesso raggio di luce
che fa brillare le vele di ciò che adesso identifico come il veliero della morte, il suo riflesso si oscura, mentre si immerge nelle profondità
del fossato. Qualsiasi associazione personale questa immagine evochi – la sensazione di affogare, o la paura di essere inghiottito – il pilone e la vela e i loro riverberi improvvisamente diventano una rappresentazione piuttosto inquietante della realtà psichica – o almeno
una sua versione – in cui il limite tra la realtà del traliccio e quella
della vela e il loro riflesso, il confine della contiguità, quello che i
Sufi chiamano barzakh, è ridotto a una striscia oscurata che non può
essere identificata né come realtà né come riverbero.
I Fang del Gabon, che fanno parte di un movimento religioso e
sincretico chiamato Bwiti, enfatizzano il ruolo dello stupore e del miracoloso – akyunge – nei loro atti rituali. Anche se viene normalmente tradotto come miracolo, akyunge significa, come sostiene James
Fernandez:
Qualsiasi cosa che viene compiuta con un’abilità superiore alle aspettative
così da sorprendere e essere al di là della comprensione e dell’imitazione ordinaria. Il soprannaturale sorprende poiché interviene nell’ordine naturale delle cose e elude ciò che viene considerato normale. I Bwiti meravigliano i loro
membri intervenendo sulle loro vite in modo tale da permettergli di superare
I quaderni del CREAM, 2006, V
20
se stessi e di arrivare a una comprensione dello straordinario, dell’aldilà, del
“lato morto” delle cose. E, di conseguenza, di esserne in contatto. 18
I Fang Bwiti stabiliscono i criteri dei loro atti rituali attraverso
quelli dei vicini Gabon, i Metsoga. Fernandez descrive “le meraviglie” di un obango, un ballo estatico eseguito dai Metsoga: “le fiaccole che volavano inquietanti nel cortile, l’apparente crescita in poche ore di un piccolo albero da un germoglio di banana, l’improvvisa
nascita di un gallo da un uovo, la caduta di un ballerino nel fuoco che
ne esce tuttavia illeso”19. Alcuni di questi, come ci spiega Fernandez,
erano semplicemente dei trucchi, ma altri erano il risultato di
un’abilità e di un progetto straordinari.
I cavi dovevano essere attentamente fissati per permettere alle fiaccole
di “galleggiare” per tutto il cortile. O prendete, per esempio, un rumore strano che sopraggiunge dalla cima di un albero vicino. È uno spirito? Un ballerino si offre di salire sull’albero e di controllare. E così si arrampica con una
fiaccola legata al braccio. Ma, mentre sta arrivando in cima, viene scaraventato giù: la fiaccola e ciò che sembra il suo corpo cadono tra gli alberi accompagnati da un terribile urlo. Nel caso successivo, lo stesso uomo balza
fuori della camera segreta [presumibilmente la cappella Bwiti].20
Tali spettacoli sono particolarmente apprezzati per la loro artisticità ma, visto che sono al confine con lo straordinario, sembrano accadere come miracoli, almeno per un momento – quello più elevato –
della performance. Alla fine di una lunga notte di cerimonie, il
Cammino della Nascita e della Morte, nel quale il ciclo liturgicocosmico delle credenze Bwiti viene riprodotto in canzoni, preghiere e
danze, viene potenziato dall’uso dell’eboga (ibogaine, un alcaloide
psicoattivo, leggermente allucinogeno). L’ultima parte della cerimonia, il Cammino della Morte, culmina con la morte, la trasformazione
e l’ascensione del dio Eyen Zame e la liberazione degli antenati imprigionati. Questo complesso rituale include due episodi obango al18
Fernandez 1982: 436.
Ivi: 438.
20
Ibidem.
19
I quaderni del CREAM, 2006, V
21
tamente drammatici, separati da momenti meno intensi di danza e di
canto21. I due episodi, che normalmente hanno luogo dopo la mezzanotte e prima dell’alba, raggiungono il culmine in ciò che i Fang
chiamano un ‘unico cuore’ (nlem mvore), il fluire insieme. I partecipanti al rituale, portando delle candele, seguono l’arpa del culto attraverso la foresta, alla ricerca degli spiriti degli antenati, che non
hanno ancora trovato l’accesso alla cappella e sono poi ricondotti a
questo luogo, dove tutti insieme si spingono contro la colonna centrale e contro il capo religioso, diventando così virtualmente, come
spiega Fernandez, un unico essere. “Alzando le candele sopra le loro
teste (idealmente dovrebbero essere in grado di emanare un’unica
fiamma da tutte le candele) intonano la seguente frase... adesso siamo diventati un unico cuore”.
Secondo Fernandez la dimensione meravigliosa dei loro atti rituali, confondendo le categorie ordinarie dell’esperienza, evoca l’immaginazione religiosa dei Fang. “Ritroviamo in questi atti [cerimonie
Bwiti dei Fang ispirate dai Metsogo] un’atmosfera liminale nella
quale i morti rivivono improvvisamente, gli animali diventano uomini, i semi si trasformano in alberi repentinamente, gli uomini bianchi
diventano completamente neri, o vice versa”22. Le cose si confondono, perdono le loro divisioni in categorie: “i miracoli” Metsogo trasformano questi elementi in qualcosa di “straordinariamente ambiguo”. Come Fernandez osserva, le confusioni semantiche generate
dall’atto rituale sono eventualmente risolte, come pensano i Fang, dai
loro antenati, i morti viventi. Sono loro che riclassificano e mettono
in ordine uomini e donne secondo i loro legami genealogici, sul
cammino della nascita e della morte. Sebbene Fernandez descriva alcune delle visioni degli iniziati sotto l’influenza dell’eboga, non racconta di come i partecipanti al Cammino della Nascita e della Morte
descrivano le esperienze vissute durante la cerimonia23. Tutto viene
lasciato alla nostra immaginazione. Possiamo supporre che ore di
21
Ivi: 453-454.
Ivi: 466-469.
23
Ivi: 476-487.
22
I quaderni del CREAM, 2006, V
22
ballo, canto e l’assunzione di dosi moderate di una leggera sostanza
allucinogena, passeggiate notturne nella foresta al lume di candela,
con ombre e pericoli incombenti, incontri (immaginati) con gli antenati producano molteplici e mutevoli scene che sono ancora più lontane dalla “realtà primaria”.
Qualsiasi altra cosa si possa dire sul rituale Bwiti è che esso è teatrale, e come tale rende più potente lo scenario, così che alla persona
che lo osserva da fuori sembra che la realtà primaria scivoli via. Deve essere ancora compreso come ciò influenzi la prospettiva Bwiti
sulla vita in generale, la loro percezione della vita quotidiana, il riconoscimento dell’artificiosità dello scenario (degli scenari), che sicuramente è collegato con la realtà ordinaria, il loro realismo e il modo
in cui simboleggiano e rappresentano – metaforicamente – lo scenario in altre occasioni. Tutti questi elementi, che sono determinanti,
non solo dovrebbero essere dedotti dai racconti di varie esperienze
personali (queste alimenterebbero solo, forse, un’enfasi eccessiva
sulla soggettività individuale alle spese dell’intersoggettività, dell’interpersonalità, del coreografico); essi si fondano, più formalmente,
sulla struttura delle esperienze dello scenario e sono soggetti, di conseguenza, a un regime metapragmatico; essi dipendono dall’inquadratura della struttura dello scenario – i miracoli – che governa il
modo in cui lo scenario viene articolato, valutato e configurato e da
come, in altre parole, “l’esperienzialità” viene costituita.
Osservo nervosamente la fortezza di Trignac. In questo momento
mi ricorda l’ambientazione di un’opera. Penso alle celle, all’incarcerazione, alle scene della prigione di Little Dorrit, il Conte di Monte
Cristo, ai tunnel, all’evasione, alla lentezza dell’evasione... L’intrappolamento in una qualche dimensione della realtà, l’illusione della
libertà, le difficoltà del realismo, la liberazione immaginativa, l’illusione di questa liberazione, maya... il sogno di tutti i mondi. Tutto il
mondo è un palcoscenico. Possiamo fuggire dal sogno? Possiamo
vedere oltre il palcoscenico? E perché? Un paio di giorni fa uno dei
miei studenti, un attore, osservò che quando ci si trova sul palcoscenico non si riesce a vedere il pubblico. Sono semplicemente delle
ombre. Pure, ciò nonostante, si percepisce la sua presenza, soprattut-
I quaderni del CREAM, 2006, V
23
to quando l’attore non è totalmente immerso nel suo ruolo. E anche
quando lo è...
Non mi soffermerò sull’uso delle droghe per generare un’altra realtà. Proseguendo con il mio pensiero, qualsiasi stato esse inducano
fisiologicamente, si tratta sempre di una reazione culturale, del prodotto di un complesso processo interlocutorio. Durante il mio ultimo
anno a Harvard, alcuni amici che volevano guadagnare qualche dollaro partecipavano a degli esperimenti psicologici durante i quali gli
venivano somministrate delle droghe – non sapevano quali fossero –
e dovevano poi fornire un resoconto della loro esperienza. Vedevano
luci, stelle, “illuminazioni simili all’aurora boreale”, come diceva
uno di loro. Era tutto. Gli avevano dato l’LSD. Lo psicologo era Timoty Leary. Dopo un paio di anni (se avessero continuato) sarebbero
rimasti completamente sballati: avrebbero incontrato i loro sosia, fatto il bagno in estasi, viaggiato in paradiso, o verso le profondità infernali, avrebbero vissuto il nirvana, sopportato i piaceri boschiani
del Giardino delle Gioie paradisiache, e sarebbero entrati in contatto
con i loro archetipi. Alcuni sarebbero andati oltre, perdendo le loro
certezze, e non sarebbero più ritornati indietro. Ma verso cosa? Non
dimenticherò mai quando un giorno, a Princeton, uno dei miei studenti è venuto nel mio ufficio dopo aver preso dell’acido, sperando,
mi ha detto, di non tornare alla realtà. Era il giorno dopo gli omicidi
del Kent...
Mi sto spingendo troppo oltre? Sto trasgredendo le convenzioni
del mio genere prescelto, ufficiale? Spero di essermi fatto capire. La
realtà, la realtà primaria, può essere dolorosa. Lo disse anche Freud.
Lo dicono gli stessi Buddisti e Induisti. Platone aveva capito lo squisito dolore della realtà – la realtà, quella delle Idee. Siamo condannati, cosi pensava (e da allora le sue teorie si sono insinuate nei nostri
pensieri), a un mondo d’ombre, a riflessi di una realtà che non possiamo mai sperimentare direttamente, per quanto possa essere forte il
nostro desiderio e la nostra disciplina... Ma perché dobbiamo presupporre una realtà così irraggiungibile? La domanda è importante, più
per le sue implicazioni empiriche che per il suo significato idealistiI quaderni del CREAM, 2006, V
24
co. Perché noi – o almeno alcuni di noi – dobbiamo così ossessivamente aggrapparci a ciò che chiamiamo una realtà empirica? Perché
quella realtà è diventata il baluardo di una disciplina epistemologica
che, nonostante il rifiuto di ogni principio etico, porta avanti un tale
rigore morale – sì, morale: un rigore che preclude?
Quando ero all’università, mi ricordo di aver assistito a una lezione di un antropologo, di cui non rivelerò l’identità. Passò un’ora a
descrivere il metodo empirico. Visse in un paesino dove registrò minuziosamente tutto ciò che la gente faceva senza mai prestare attenzione a quello che dicevano. Non credo che abbia imparato la loro
lingua, per paura che ciò potesse contaminare la sua oggettività e
compromettere il suo metodo. Estremo, sicuramente, assurdo, ma
non del tutto estraneo ai nostri presupposti empirici.
Ancora una volta mi sento costretto a riaffermare che non sto invocando l’irrazionale. Sto invece chiedendovi di aprire il nostro empirismo per lasciar spazio a ciò che appare irrazionale, o meno razionale. Non vi è eventualmente niente di irrazionale, niente neanche di
fittizio nello scenario. Esso ci è dato nella sua esperienza, nella sua
descrizione, nelle sue verità o dissimulazioni.
Sono stato sinora restio a ridurre lo scenario a qualcosa di puramente soggettivo per due ragioni. La prima è che, dato che contesto i
criteri empirici, non l’empirismo in generale, la soggettività è spesso
una categoria che viene ignorata. La seconda è che il modo in cui
concepiamo la soggettività è così individualizzato da escludere la sua
capacità interlocutoria, le sue basi interpersonali. Anche quando cerchiamo di comprendere più profondamente la sua struttura, tendiamo
a guardare alle esperienze biografiche (individuali) che sono alla sua
origine. O, con il cosiddetto spostamento linguistico, al ruolo formativo del linguaggio. Prima di cominciare la mia retorica discesa verso
l’irrazionale, vorrei enfatizzare il modo in cui lo scenario, e sicuramente la realtà primaria, sono costruite. Parliamo troppo facilmente
della costruzione sociale della realtà, quando invece dovremmo parlare della costruzione sociale e – ancore più importante – della costruzione sociale del modo in cui gli scenari e le realtà sono relazionati tra loro oppure no. Dovremmo parlare del modo in cui sono gerarchizzati, se di gerarchia si tratta. Altre soluzioni sono possibili:
I quaderni del CREAM, 2006, V
25
queste possono includere l’equazione di diversi scenari e realtà,
l’eliminazione di alcuni di essi, la loro reciproca esclusione, la loro
Verwerfung o la loro rimozione. Possono essere organizzate temporalmente in un modo apparentemente ambivalente, come nel gioco
del nascondino, o nella meccanica quantistica, dove si salta da una
modalità interpretativa o situazionale a un’altra successiva.
Gli approcci social-construttivisti sono sempre un po’ problematici nella loro generalità. A questo punto vorrei restringere la mia discussione al modo in cui gli scambi interlocutori influenzano lo scenario e, se non direttamente la realtà primaria, quanto meno la sua
articolazione e valutazione così come la relazione tra lo scenario e la
realtà. Come ho suggerito quando discutevo della sua struttura e della sua natura metapragmatica, la costituzione dello scenario, della realtà, e la loro relazione, è il risultato di un complesso gioco indessicale, tra interlocutori che devono consapevolmente o inconsapevolmente identificare se stessi e la loro interazione durante un certo periodo di tempo. Non vi è niente di particolarmente nuovo in questa
osservazione. Ciò nonostante, vorrei sottolineare che gli stessi interlocutori e successivamente altri che interagiscono nello stesso processo, non devono essere individui con i quali si è direttamente o indirettamente in contatto, come per esempio accade quando si legge:
essi potrebbero anche essere parte dell’immaginazione o della memoria, al limite del mondo delle ombre e dei fantasmi. (In molte culture la memoria e l’immaginazione sono un unico concetto). Potremmo definire queste due categorie di interlocutori in termini sincronici e diacronici o, se preferite, secondo un asse verticale e un asse orizzontale la cui intersezione è il momento dell’esperienza. A seconda della situazione in cui ci si trova – del modo in cui essa è strutturata – gli interlocutori diretti o indiretti, o quelli che sono immaginati o ricordati, potrebbero essere dominanti, ma in ogni caso credo
che gli interlocutori latenti non sono mai completamente assenti o
privati di una certa influenza sull’interlocuzione. Si deve ancora determinare come la focalizzazione su di un solo tipo o su diversi tipi
d’interlocutori si trova in relazione con la costituzione e la valutazione dello scenario e della realtà.
I quaderni del CREAM, 2006, V
26
I processi indessicali non sono mai semplici atti ostensivi che
puntano a, o fanno emergere un singolo elemento da una realtà costituita, da un contesto dato. È ovvio che questi processi, nel momento
in cui indicizzano un elemento contestuale, fanno anche riferimento
al contesto in cui questo elemento appare, essendo, diciamo, il contesto di tale natura che tale elemento può darsi in esso. Pure essi potrebbero fondarsi, ironicamente, comicamente, trasgressivamente,
sull’“inappropriatezza” o su “qualcosa di inaspettato”. Ricordo come
mia figlia scoppiò a ridere, a tre anni, quando io, senza pensare, misi
una carota che stavo mangiando in un bicchiere da vino vuoto per
liberare le mani e accarezzare il cane. L’ironia, il gioco e la trasgressione ci portano a focalizzare la nostra attenzione sulla complessità
delle dinamiche pragmatiche e metapragmatiche, la cui analisi va tuttavia oltre gli scopi di questo saggio24.
L’indicizzazione di ogni elemento e di conseguenza il loro contesto è in minima parte collegata a una doppia distinzione; infatti, non
solo essa orienta verso ciò che è – il principio contestualizzante, il
contesto – ma anche verso ciò che non è. Il gioco di Hegel con la negazione è così ripetitivo e scontato, almeno da un punto di vista comunicativo, che in diverse circostanze esso rischia di perdere di significato, a meno che la negazione non sia enfatizzata come succede
frequentemente nei giochi di parole. Ma, attraverso la negazione o
l’affermazione, gli elementi indessicali possono, come ho suggerito,
mostrare la realtà primaria e uno o più scenari “coincidenti”. Così facendo, gli elementi indessicali “definiscono” anche la relazione tra lo
scenario e la realtà. Almeno in quelle società che privilegiano il realismo, il loro realismo, sembra che ciò mascheri il modo in cui
l’indicizzazione di quella realtà indicizza anche lo scenario. Quando
lo scenario è il focus indessicale, tuttavia, sembra che l’indicizzazione della realtà acquisti una maggior importanza. Naturalmente tutte queste ipotesi richiedono una conferma. Ciò che è chiaro – e ciò
che ho cercato di dimostrare nella mia discussione del rituale – è che
ci sono momenti in cui l’indicizzazione dello scenario può maschera24
Si veda Crapanzano 2003.
I quaderni del CREAM, 2006, V
27
re così bene l’indicizzazione della realtà primaria, che la stessa realtà
ci sfugge di mano.
Sono andato molto lontano nel sottolineare il gioco indessicale tra
una e più realtà e tra uno e più scenari dal punto di vista di una singola posizione discorsiva, quella del pensatore o dell’interlocutore, pure, come suggerisce la mia enfasi sull’interlocuzione, nessuna posizione discorsiva è mai sui generis. Essa è sempre il risultato di complesse dinamiche interlocutorie che nascono con il discorso o la conversazione. Esse includono un gioco indessicale, o forse più precisamente, una lotta tra (a parte le situazioni più convenzionali) interlocutori posizionati differentemente, inclusi sia quelli reali che quelli
immaginati e ricordati. Questo gioco è, come ho spesso sostenuto25,
governato da una serie di convenzioni determinate (o metapragmatiche) che ho definito come il “Terzo”, che è in sé un punto fondamentale della tensione interlocutoria. Detto in modo più semplice, ogni
interazione comunicativa presuppone sempre una negoziazione del
modo in cui l’interlocuzione sarà strutturata, quale convenzione discorsiva prevarrà, e quali procedure ermeneutiche e assiomatiche saranno appropriate per la sua interpretazione e valutazione. È a questo
livello meta-pragmatico – la costituzione della struttura – che il potere, inteso nel senso pervasivo di Foucault, o Foucualt più centrato istituzionalmente, come nel caso del marxismo, si insinua efficacemente e ciecamente nel discorso e nella formazione della realtà, dello
scenario e della loro relazione26. Affinché qualsiasi tipo di comunicazione sia efficace, vi deve sempre essere un compromesso, un’accettazione della struttura, delle convenzioni, e un’importante ermeneutica e assiomatica. Naturalmente non è necessario credere o accettare questo compromesso. Si può farlo per una ragione pratica, politica o semplicemente per ipocrisia. Solo l’ingenuo accetta il compromesso senza porsi delle domande. Dietro ogni interazione giace
25
Crapanzano 1992.
Non vorrei suggerire che non esiste una realtà vera e propria, ma piuttosto che la realtà,
ciò che i fenomenologi definiscono come resistenza, suscita e articola la forma e il valore
– precipitati? – attraverso il discorso.
26
I quaderni del CREAM, 2006, V
28
una dimensione opaca – la mente – dell’altro che getta la sua ombra
su quell’interlocuzione27.
Tuttavia ci sono momenti in cui le due parti che partecipano
all’interazione si arrendono non tanto l’uno all’altro, quanto piuttosto
al mondo intersoggettivo che hanno creato insieme. Almeno dai tempi dei lavori di Winnicott sull’uso potenziale dello spazio e sull’area
intermedia dell’esperienza – che corrisponde approssimativamente
allo spazio transizionale tra la realtà interna e quella esterna – i teorici delle relazioni tra gli oggetti in psicoanalisi si sono interessati alle
dinamiche dello spazio-tempo nella sessione psicoanalitica28. Tra i
teorici più importanti vi è Thomas H. Ogden, che ha esplorato lo
spazio intersoggettivo creato durante una sessione psicoanalitica, da
lui definito come “un terzo analitico intersoggettivo” o semplicemente un “terzo”29. Egli afferma che il pensiero psicoanalitico contemporaneo “non può semplicemente parlare dell’analista e del paziente
come soggetti separati che si classificano come oggetti”30. Entrambi
sono intrappolati, almeno durante la sessione analitica, in un rapporto
(o dialettica) così forte da un punto di vista intersoggettivo, che la
relazione tra le due parti diventa (esperienzialmente) una terza soggettività con la quale entrambi devono o no relazionarsi. “L’inter-
27
Vedere la mia discussione sui dialoghi oscuri, quei dialoghi interiori che ogni interlocutore ha con se stesso mentre la sua conversazione con una persona o con altre persone
progredisce (Crapanzano 1992: 213ssgg).
28
Winnicot 1982: 104-110.
29
Ogden (1999: 464 nota 2) distingue prudentemente la sua nozione di “terzo” da quella
del “nome del padre” di Lacan, che Ogden intende come un termine “medio” che sta tra
il simbolo e il simboleggiato, tra se stesso e l’ambiente circostante, che crea “uno spazio
in cui viene generato un soggetto simbolico, autoriflessivo e interpretativo”. Aggiungerei
che nemmeno il terzo di Ogden è equivalente al mio uso del termine come metapragmaticamente autorevole. Sebbene vicino al nome del padre di Lacan, il “terzo”, così come lo
uso io, è a un altro livello d’astrazione, che può essere simboleggiato dal “nome del padre” così come dalla “Legge” o incarnato da un padre o, per quella ragione, da una figura
totemica o un dio. Vorrei evitare le implicazione psicogenetiche del termine di Lacan.
30
Odgen 1999: 462.
I quaderni del CREAM, 2006, V
29
soggettività e la soggettività individuale creano, negano, e si preservano l’un l’altra”31.
Io credo che una delle dimensioni più importanti della vita psicologica
dell’analista in una sessione con il paziente assuma la forma di una “reverie” che riguarda i dettagli della sua stessa vita quotidiana... Queste “reveries” non sono semplicemente delle distrazioni, o un coinvolgimento narcisista, oppure ancora un conflitto emotivo irrisolto, o qualcosa di simile;
piuttosto, questa attività psicologica rappresenta delle forme simboliche e
proto-simboliche (basate sulle sensazioni) date attraverso l’inarticolata (e
spesso non ancora vissuta) esperienza di colui che viene analizzato, nel
momento in cui esse prendono forma nell'intersogettività della coppia analitica (per esempio, nel terzo analitico).32
Ogden enfatizza l’entità inconscia del terzo intersoggettivo che
viene creato insieme da analista e analizzato. E sottolinea come
l’analista focalizzerà improvvisamente la sua attenzione su un oggetto comune che ha ignorato, come, per esempio, il timbro postale sulla
busta di una lettera che pensava fosse confidenziale33. Egli riconosce
che la relazione di co-creazione è indubbiamente asimmetrica, perché a) “l’analisi del mondo interno, oggettivo, inconscio dell’analizzato e delle sue forme di collegamento al mondo esterno” è privilegiata e b) quando i due partecipanti vivono l’esperienza del terzo partendo dalle loro diverse prospettive, personalità, modalità di adattamento ai loro rispettivi mondi, al loro mondo.
Ogden limita la sua analisi a una sessione analitica ma io ipotizzerei che noi siamo spesso coinvolti così profondamente nella relazione
intersoggettiva che dobbiamo riconoscere (senza dubbio con una auto riflessione meno critica di quella dello psicanalista) la figurazione
esperienziale dell’intersoggettività o di qualcosa d’altro. Due esempi
mi vengono subito in mente: il primo sono quelle trappole create dalla rabbia e dall’acidità come quelle rappresentate da Strindberg nella
31
Ivi: 463.
Ibidem.
33
Ivi: 487.
32
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Danza della Morte; il secondo sono quei momenti di incanto amoroso, quando gli amanti si amano profondamente e purtroppo si devono
separare. Ci sono altre condizioni patologiche che possono essere capite in termini di fascino intersoggettivo, il più ovvio dei quali è la
folie à deux, ma dovremmo anche includere “i disturbi familiari” che
legano i membri della famiglia l’uno all’altro tanto da non potersi
svincolare o da riuscire a farlo solo malamente. Tutti questi momenti,
come quelli dei rituali di cui ho parlato precedentemente, sono strutturati differentemente dalle sessioni psicoanalitiche. L’aspirazione
intersoggettiva può essere così intensa che la differenziazione soggettiva potrebbe essere abbandonata. Ho sentito alcuni psicanalisti
affermare che in rari momenti si sono sentiti un tutt’uno con i loro
pazienti, “come se dividessero un’unica coscienza”. Tali momenti
sono rari e non ricercati nelle società occidentali, dove sono spesso
considerati svianti, ma vengono altamente considerate in altre società, così come abbiamo osservato nell’unione dei Bwiti, quando i partecipanti al rituale si stringono insieme con le loro candele per formare un’unica fiamma.
Come parte della mia recente ricerca sugli Harkis, gli algerini che
si sono schierati dalla parte dei francesi durante la guerra
d’indipendenza dell’Algeria, ho visitato uno dei più noti campi dove
venivano incarcerati coloro che erano riusciti a sfuggire al massacro
avvenuto dopo l’indipendenza. (C’erano circa 250.000 Harkis; tra
80.000 e 150.000 furono uccisi dagli algerini al tempo dell’indipendenza. Nonostante il tentativo di de Gaulle di evitare la fuga degli
Harkis verso la Francia, più di 60mila famiglie sono riuscite a raggiungerla per poi essere rinchiusi in campi, alcuni per oltre 16 anni).
Mohammad B. è cresciuto in uno di questi notori campi – un isolato
camp de forestage nelle montagne vicino a Carcassonne – che visita
almeno una volta all’anno per “non dimenticare”. Oggi, con l’eccezione di alcuni hippy tedeschi che si accampano lí vicino, il paese è
abbandonato, le baracche di pietra sono in rovina, e l’entrata è piena
di macchine e pneumatici di vecchia data. Solo la casa del capo del
campo, che è adesso il suo capanno di caccia, che sovrasta il paese, è
ancora in piedi. Mohammad era molto ansioso di mostrarmi il campo. Durante il lungo viaggio abbiamo parlato degli Harkis, dei merI quaderni del CREAM, 2006, V
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cenari, dell’economia e della politica francese e, inevitabilmente,
della guerra in Iraq. Mentre stavamo arrivando al campo, Mohammad divenne pensieroso, perso, suppongo, nella memoria. Rimasi
molto colpito dall’isolamento totale del campo. In diverse occasioni
lui mi chiese di fermarmi e di fare delle fotografie del paese e dei
dintorni, e quando lo feci, diligentemente, mi parlò di un suo amico,
un pied-noir, che era rimasto talmente colpito dalle condizioni disumane del campo da non essere in grado di scattare nessuna fotografia. Ci rimasi male. Avevo fatto quello che Mohammad mi aveva
chiesto – non mi piace particolarmente fare fotografie – ma il mio si
era dimostrato un comportamento insensibile. Ero offeso e allo stesso
tempo pieno di comprensione per l’ambivalenza di Mohammad. A
tratti, con le lacrime agli occhi, mi mostrava il luogo in cui lui, sua
madre e le sue sorelle avevano vissuto, la scuola dove era andato,
l’appezzamento dove aveva giocato, il pozzo... fui travolto dal pensiero di tutto ciò che passava per la sua mente, che non conoscevo,
ma che in realtà in qualche modo conoscevo. Durante il viaggio di
ritorno ci fermammo a pranzare. Mohammad bevve molto vino con
l’aria imbronciata, e in macchina si addormentò. Era un sonno di rimozione, pensai. Quando si svegliò, si sedette silenziosamente e cominciò a guardare e a toccare il suo cellulare di tanto in tanto: sospetto che sperasse che arrivasse una chiamata che lo liberasse dall’implosione del mondo della sua memoria. Anch’io sperai che il cellulare squillasse. Finalmente dopo quasi un’ora Mohammed si voltò verso di me e mi disse che, se non fosse stato per sua madre, che aveva
sempre insistito perché guardasse al futuro con speranza, si sarebbe
ucciso. Ma non poteva deluderla. (Lei era, infatti, una donna straordinaria che riuscì non solo a sopravvivere all’orrore di aver assistito
allo sgozzamento del marito e alla difficile vita del campo, ma anche
a trovare un lavoro che le permise di crescere e di educare i suoi tre
figli). Le parole di Mohammed mi colpirono, meno per quello che
aveva detto che per il fatto che io avevo pensato che avesse dei pensieri suicidi dal momento in cui si era seduto vicino a me. Non riuscii
a dire niente. Non c’era niente da dire. La macchina divenne una
specie di prigione. Volevo solo scappare. Fortunatamente, il cellulare
di Mohammed suonò. Era uno dei suoi clienti. Era un muratore.
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Tutti gli antropologi hanno vissuto delle esperienze di questo tipo.
Abbiamo una relazione asimmetrica con le persone con cui lavoriamo. Sono i loro mondi che vengono privilegiati. Ogden potrebbe dire
che mi sono trovato catturato in qualcosa di simile al terzo intersoggetivo ma, sebbene io abbia avuto un’affascinante esperienza di vicinanza con i pensieri di Mohamed a quel tempo, e forse anche di sovrapposizione, sono esitante a definire quella vicinanza, sovrapposizione, come “terzo”. La comprensione e definizione di Ogden nascono dall’esperienza stessa. Lui stesso parla del fatto che si è qualche
volta dentro e qualche volta fuori da questo terzo intersoggettivo. La
sua teoria riflette – e mistifica inevitabilmente – l’esperienza. È, se
volete, un sintomo dell’esperienza. Non può mai raggiungere la distanza richiesta per realizzarlo così come avviene per l’osservatore
esterno e non può nemmeno riflettere sul “gioco indessicale” – la lotta – che accade quando vive l’esperienza, senza annientarla o distruggerla. Vi è sempre un limite alla nostra doppia o triplice coscienza. Data la costruzione intersoggetiva della nostra auto coscienza che difendo, dovrei chiedermi, in ogni caso, come una consapevolezza putativa dell’intersoggettività, il suo fascino, si colleghi a una
soggettività intersoggettivamente costruita. Non ci dobbiamo far sedurre dall’opacità che si trasforma in incerta onniscienza.
***
Guardo per un’ultima volta la fortezza di Trignac e improvvisamente mi rendo conto che non mi sono mai domandato chi ci vivesse. Ci sono delle finestre, ma sono oscurate. Non riesco a vedere
niente di più di quello che potrei vedere guardando nella mente di un
altro. Qualcuno mi sta guardando, da laggiú? Nessuno spettatore? Il
mio studio si oscura. È un tardo e freddo pomeriggio – penombra,
crépuscule.
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UGO FABIETTI
*
SULLE IDEE DI ‘ESOTICO’ E DI ‘ESOTISMO’:
1
LO SGUARDO DI UN ANTROPOLOGO
1. L’esotico come “discorso” e le sue connotazioni
Una riflessione sulle idee di esotico e di esotismo necessita, come
minimo, di un assunto e di una premessa teorica. L’assunto è che i
termini di esotico e di esotismo, così come vengono oggi mediamente intesi, sono elementi costitutivi del discorso elaborato dalla tradizione occidentale sulle culture “altre” (questo non esclude affatto,
ovviamente, che altre culture abbiano elaborato nozioni “parallele”
ma di ardua traducibilità con quelle di esotico e di esotismo). La
premessa teorica è che un discorso, seguendo le indicazioni di Foucault, è qualcosa che plasma sistematicamente gli oggetti di cui si
parla. Pur essendo costituito da segni, un discorso fa qualcosa di più
che utilizzare i segni per designare delle cose; questo di più ha origine in spazi di vita sociale e culturale che non sono riducibili né alla
langue né alla parole2. Analizzare un discorso contenente le dimensioni dell’esotico e dell’esotismo significa dunque mostrare l’ordine
che comanda la produzione degli oggetti che tale discorso fa emergere autoattribuendosi uno statuto di verità. Ne consegue che non si
tratta di esercitare l’analisi del discorso solo sui testi scientifici, ma
*
Università di Milano Bicocca.
Questo articolo riproduce il testo di una relazione tenuta al XXXIX Congresso della
Società di Linguistica Italiana dedicato al tema “Lo spazio linguistico italiano e le lingue
esotiche”, Milano 22-24 settembre 2005.
2
Foucault 1971: 60.
1
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35
su tutti quei “luoghi” in cui graficamente, vocalmente o iconicamente
(cioè scrittura, dialoghi, monologhi, arte figurativa e media) si produce un discorso tendente a instaurare un “regime di verità”, in questo caso, intorno alle dimensioni dell’esotico e dell’esotismo.
Per quanto un regime di verità pretenda di essere egemonico, con
l’esclusione quindi di altri discorsi, l’ordine della sua esposizione
non è mai semplice ed univoco. È sempre esposto alle variazioni delle posizioni soggettive, differenziali e mobili che in questo discorso
confluiscono. Di conseguenza, “esotico”, pur indicando genericamente e intuitivamente qualcosa di “non” o di “extra” (come nel caso
delle lingue non indoeuropee d’Europa, o di quelle extra-europee), è
un termine che designa tanto oggetti quanto situazioni nei cui confronti possono essere assunte posture intellettuali diverse. Nei riguardi
di queste ultime, la cultura “alta” ha prevalentemente espresso giudizi
negativi, e attribuito ad esse connotazioni di segno peggiorativo.
Sul versante peggiorativo, esotico ed esotismo sono stati concepiti
via via come sinonimi di evasione piccolo-borghese, riduzione della
diversità umana a stereotipi, “placebo dello straniero”. E anche come
un meccanismo di bloccaggio della comunicazione interculturale:
“East is East and West is West. And they will never meet”, secondo
la celebre affermazione di Kipling.
Sul versante che potremmo chiamare migliorativo, l’esotico e
l’esotismo vengono invece ricondotti alle pratiche di “uscita da sé”
dell’Occidente in direzione delle culture “altre”. Da questo punto di
vista esotico ed esotismo sarebbero motivi di incontro, scambio, dialogo e non c’è dubbio che questo è il modo in cui gli antropologi preferiscono declinare questi termini quando parlano di se stessi. Dunque esotismo “cattivo” ed esotismo “buono”? Forse nessuno meglio
di Victor Segalen ha tracciato il discrimine tra queste due supposti
volti dell’ esotismo. Scrive Segalen nel 1908:
Prima di tutto sgombrare il terreno. Gettar via tutto ciò che la parola ‘esotismo’ contiene di rancido e mistificato: spogliarla di tutti i suoi orpelli: la
palma da cocco e il cammello; casco coloniale, pelli nere e sole giallo... E
nello stesso tempo, sbarazzarsi di tutti quelli che li adoperano con becera
facondia... . E arrivare molto rapidamente a definire, a fissare la sensazione
dell’Esotismo. La quale non è altro se non la definizione del Differente; la
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percezione del Diverso; la conoscenza che qualcosa non è se stessa; il potere dell’esotismo, cioè la facoltà di concepire altro.3
Segalen prende di mira quella che riteneva essere al suo tempo
l’espressione massima dell’esotismo: il romanzo ambientato in contesti coloniali nel quale viene proposta una alterità che ha senso solo
ed esclusivamente in relazione a chi ne parla. Nella “sortita” esotica
del romanzo stigmatizzato da Segalen (se la prendeva soprattutto con
Pierre Loti), esistono solo l’autore e i suoi lettori, i quali sono invariabilmente opposti ad un “altro” completamente passivo e oggetto,
per entrambi, delle proprie ossessioni. Il narratore, spesso coincidente con il protagonista, pensa, parla e agisce “da occidentale”, mentre
gli “altri” sono solo un’occasione per la messa in scena della sua
“volontà di potenza” o delle sue frustrazioni. Contro le mode dei suoi
tempi, Segalen pubblicò invece un romanzo (Les Immémoriaux del
1907) in cui l’io narrante non è più un occidentale, ma un tahitiano
che “vede” con gli occhi di un nativo l’avanzata della cultura europea negli arcipelaghi della Polinesia.4
L’esotismo condannato da Segalen era innanzitutto un esotismo
letterario, perché era proprio nella letteratura che questo atteggiamento trovava allora uno spazio di notevole riconoscimento e un veicolo di forte diffusione. Segalen era convinto che tale esotismo traesse alimento, per dirla con il Sartre di Qu’est-ce que la littérature?,
“dal punto oscuro dell’anima più borghese, dove tutti i sogni si riuniscono e si fondono in un desiderio disperato di impossibile”5. Come
nei turisti “esotici” che Segalen, bisogna dire con e feroce ironia e
straordinaria preveggenza (in fondo siamo soltanto nel 1908), descriveva come “greggi erranti” i quali “in mezzo alle peggiori velocità e
alle peggiori lontananze [...] ritrovano il loro gruzzolo, i loro risparmi, le loro poltrone e le loro sieste”6.
3
Segalen 2001: 43-44.
Segalen 2000.
5
Sartre 1948: 218.
6
Segalen 2001: 67.
4
I quaderni del CREAM, 2006, V
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Segalen amava definirsi “esota”. Ma fu il portavoce di un
esotismo inteso some disposizione a “sciogliersi” nell’incontro con la
diversità, a “compenetrarsi” con essa . Esota era per Segalen chi
pratica un esotismo inteso come “estroversione” nei confronti dell’altro, per cui “l’esotismo – scrive – è tutto quello che è altro”.
C’è una figura celebre della letteratura moderna, per certi aspetti
simile all’esota di Segalen e una sorta di contrappunto (nel senso di
antitetico e al tempo stesso complementare) all’“uomo senza qualità”
di Robert Musil: è il flâneur di Walter Benjamin. Invece di muoversi
“in mezzo alle peggiori velocità e alle peggiori lontananze” senza
ristare mai sulle cose, come sembra invece fare l’uomo di Musil, o
peggio – in quanto non “costretto” – il turista di Segalen, il flâneur di
Benjamin prend son temps: lascia che la città gli venga incontro, si
dispone a recepirla in un atto di vigile passività. Scrive Benjamin:
“Una massima del flâneur è: nel nostro mondo uniformizzato, è sul
posto e in profondità che si deve andare; lo spaesamento e la
sorpresa, l’esotismo più coinvolgente sono assai vicini”7. Pare di
vedere l’esota di Segalen compenetrarsi con il diverso, fondersi con
l’alterità, non importa se spazialmente vicina oppure lontana.
Lo stesso Segalen compiva del resto una svalutazione del viaggio
come fine in sé (ecco un altro motivo per cui se la prendeva con i
turisti). Sempre contro le mode dei suoi tempi, e dei tempi che
sarebbero venuti poi, Segalen rifiutava qualsiasi identificazione dell’esotismo con il “tropicalismo”, collocazione temporanea di un soggetto occidentale autocompiaciuto in uno spazio “diverso” (ci vorrà
il gesto letterario di un antropologo come Lévi-Strauss per rovesciare
l’immagine “esotica” dei tropici e introdurre il tema critico dei
tropici “tristi”).
Segalen ci presenta dunque una duplice connotazione dei termini
esotico e esotismo, ognuna delle quali corrisponde ad un “fare” e a
un “pensare”. Gli antropologi, nei momenti autocelebrativi e senza
averlo (quasi) mai letto, sono stati, in questo, suoi ottimi allievi.
Segalen sembra d’altronde aver avuto un emulo in Roland Barthes.
7
Benjamin 2000: 495.
I quaderni del CREAM, 2006, V
38
Questi distingue tra due modi di rappresentare lo straniero. Da un
lato una modalità endoxale, pertinente all’opinione pubblica, alla
doxa. Dall’altro, una modalità paradoxale, che discende da una
differenza attiva, dall’incontro con l’inusitato e lo sconosciuto, e che
consente di scoprire la propria estraneità. In questo senso, ha scritto
Jean-Marc Moura, “l’opposizione esotismo endoxal/esotismo paradoxal fatta da Roland Barthes fissa un discrimine tra una funzione di
conferma delle ideologie piccolo-borghesi e una funzione di resistenza
alla doxa”8. Alla funzione d’evasione assunta dall’esotismo con finalità di conferma delle proprie certezze (la concezione dell’altro come
copia imperfetta del sé), si oppone l’esotismo paradoxal che, contrastando la doxa, svela il debito etnocentrico dell’esotismo endoxal.
Insomma, tropicalisti e turisti da un lato; esoti alla Segalen, antropologi, e critici dell’ideologia biccolo-borghese dall’altro. Putroppo però le
cose non sono così semplici come potrebbe sembrare.
2. Esotismo, orientalismo e antropologia
La distinzione tra esotismo endoxal e esotismo paradoxal, tra
esotismo cattivo ed esotismo buono, è apparsa meno ovvia da quando, a partire dal celebre e discusso testo di Edward Said, Orientalismo9, si è cominciato a pensare che le immagini dell’Altro (in questo caso l’Orientale generico degli ultimi quattro secoli di storia
europea) fossero comunque e sempre, anche nel caso di stimatissime
opere di storia delle religioni, filologia e letteratura, intrise di stereotipi dell’alterità tendenti a confermare i discorsi (nel senso foucaultiano del termine) colonialisti, egemonici ed etnocentrici dell’Occidente. Per Said si deve prendere atto che l’“Oriente”, così come è
stato costruito dal corpus dei testi e dei motivi estetici che hanno dato
vita all’orientalismo (che per gli epigoni di Said è la forma prototipica dell’esotismo), è frutto di una relazione di potere fatta di
8
9
Moura 1998: 28.
Said 1978 (ed. or.).
I quaderni del CREAM, 2006, V
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pratiche tanto reali quanto discorsive. Questo significa che non
potremo mai sviluppare rappresentazioni dell’Oriente che non siano
prigioniere di una determinazione fatta di storia, atti e discorsi.
Riprodotta nel contesto dell’incontro con le culture genericamente
“altre”, la critica di Said sembra vanificare la portata conoscitiva dei
testi che a queste culture fanno riferimento. Così, secondo numerosi
esponenti dei post-colonial studies l’antropologia può rivendicare fin
che vuole la sua ispirazione esotica di segno positivo, il suo esotismo
paradoxal, per dirla con Barthes: essa sarebbe in ogni caso prigioniera di una modalità di costruzione dell’Altro debitrice del discorso colonialista, egemonico ed etnocentrico dell’Occidente. Di conseguenza, l’esotismo letterario, l’esotismo nell’arte, il turismo, l’orientalismo e l’antropologia sarebbero tutti quanti riconducibili alla doxa
occidentale che presiede alla costruzione delle immagini esotiche. La
distanza tra l’esotismo di segno negativo e quello di segno positivo,
che pareva trovare un possibile fondamento teorico nella distinzione
di Barthes tra le modalità endoxale e paradoxale di rappresentare lo
straniero sarebbe priva di senso, e qualunque discorso sull’altro finirebbe per essere “una conferma della doxa occidentale latente nelle
immagini esotiche”10.
Tuttavia, anche in questo caso, le conclusioni sono definitive solo
in apparenza. È assodato ormai da tempo che qualunque rappresentazione non è mai la riproduzione di qualcosa così come è in sé, ma
una costruzione cognitiva linguistico-culturale. Ed è di conseguenza
scontato che qualunque discorso sull’alterità porti con sé e riproduca
forme di pre-comprensione della realtà che dipendono da schemi e
prototipi propri del soggetto che compie l’atto di rappresentare.
Qui allora si aprono due strade. La prima consiste nel dire che
ogni discorso sull’altro è viziato dal pregiudizio e dall’etnocentrismo, e che quindi la conoscenza dell’altro è impossibile. È una strada
facile da imboccare ma, come si può intuire, destinata a non portarci
molto lontano. Anzi, ci porta dritti verso un relativismo radicale dove
la comunicazione tra mondi culturali diversi è negata fin dall’inizio
10
Moura 1998: 29.
I quaderni del CREAM, 2006, V
40
(e che fa da sponda a tutti quei discorsi che assumono come implicita
la superiorità della propria cultura sulle altre). Oppure verso un “nativismo epistemologico” in base al quale sarebbe possibile parlare di
qualcosa solo se si è quel qualcosa di cui si parla.
La seconda strada è più impervia, certamente più problematica,
ma lascia la speranza di poter comprendere almeno qualcosa. Non
entro nei dettagli e dico soltanto che percorrere questa seconda strada
significa riconsiderare le “forze” epistemologiche, ideologiche e politiche che determinano i rapporti tra i ricercatori e i loro interlocutori, in un tentativo di mostrare le condizioni a cui sottostà la
produzione del sapere relativo alle culture “altre”11. Questa seconda
strada recepisce la critica di Said, ma non la porta a conseguenze di
tipo estremo. Vediamo perché.
Gli antropologi non hanno di solito una formazione di storici, di
filologi o di letterati (il che gioca spesso a loro svantaggio sul piano
della credibilità accademica), ma praticano una disciplina che, rispetto ad altre, è meno legata ad una propria testualità. L’Orientalismo
preso di mira da Said, che per numerosi esponenti dei post-colonial
studies è il padre di tutti gli esotismi, ha invece una specifica testualità, nel senso che secondo Said stesso i discorsi-testi sull’Oriente
traggono la propria validazione da altri testi (anche se non si sa bene
chi abbia scritto l’Urtext... ). Gli antropologi, solitamente, hanno invece esperienza di incontri con soggetti umani reali. Questo significa
che anche se l’antropologia ha una propria testualità (à la Said), la
pratica etnografica fa dell’antropologia una disciplina molto meno
“testuale” di altre, meno “chiusa” rispetto alle esperienze della vita
reale. Ciò ovviamente non sottrae l’antropologia alle costrizioni del
binomio potere/conoscenza, e neppure alle determinazioni della sua
testualizzazione12. Anche se l’antropologia rimane necessariamente
legata alle condizioni di dominio che le hanno consentito di sviluppare un proprio discorso sull’alterità, essa possiede nondimeno capacità
autocorrettive che nascono dal suo incessante misurarsi con l’espe11
12
Fabietti 1998.
Clifford e Marcus 1997.
I quaderni del CREAM, 2006, V
41
rienza (queste capacità autocorrettive, che si riflettono in una accentuata fluidità – per non dire incertezza – paradigmatica, hanno a volte
guadagnato all’antropologia una pessima fama sul piano accademico,
ma la hanno almeno preservata – anche se non sempre – dal diventare lo strumento di sconsiderati atteggiamenti politico-ideologici miranti a dimostrare l’“inferiorità” delle culture “altre”).
3. Lontananza, stranezza e pratica del distacco
Fin qui abbiamo parlato dell’esotismo e dell’esotico come presenze date. Buone o cattive che siano, queste presenze sono punti di
riferimento di un discorso critico che usa i termini “esotico” e “esotismo” per svelare posture, sentimenti, immagini che scaturiscono
dall’incontro con il diverso, lo strano, lo straniero, il “lontano”.
Come si è visto, Segalen aborriva l’idea che esotico dovesse essere necessariamente sinonimo di lontananza nello spazio. Ma sembra
proprio che il significato di lontananza nello spazio, come quello di
stranezza, si siano aggiunti, ad un certo momento, al significato originario di straniero. Una piccola archeologia del termine ci dice infatti che exôticos e exoticus sono, in greco e il latino rispettivamente,
termini traducibili con “straniero”. E che il cambiamento di significato della parola esotico, con i significati aggiunti di lontano e di strano, sembra essersi prodotto tra il XVI e il XVII secolo. Questo cambiamento di significato rivela due cose importanti. Innanzitutto il fatto che è l’Europa a definire ciò che è lontano e strano, oltre che straniero. Lontano non solo in senso geografico ma anche e soprattutto
in senso culturale, fatto che lo rende, appunto, “strano”. Poi il passaggio da un valore oggettivo del termine (straniero, valore contenuto nel prefisso exo-) a un valore impressionistico (strano). Si passa
così “da un significato centrato sulla differenza (naturale o culturale)
ad un giudizio su questa differenza. Poco importa che tale giudizio
sia peggiorativo o migliorativo: ESOTICO dà il via ad una evoluzione che lo porta a designare non più un semplice allontanamento ma il
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carattere strano, bizzarro, seducente o ripugnante, insomma spettacolare, che nasce da questa lontananza”13.
Come si produce questa spettacolarità che fa di qualcosa un qualcosa di esotico? Vi sono forme epocali dell’esotico. Il modo in cui
esso è rappresentato, percepito, immaginato cambia con il tempo,
con la collocazione socio-culturale degli attori, l’immaginario culturale dominante e con le istanze che ne determinano le forme del consumo. Insomma: l’esotismo dei viaggiatori del Cinquecento non è
quello dell’antropologia del XX secolo. Né l’esotismo della Ninfa
del Ghirlandaio che fece “perdere la ragione” (ipse scripsit) ad Aby
Warburg allo scoccare del XX secolo14 ha molto a che vedere con
quel “culto del Tiki” che furoreggiò in America negli anni Cinquanta; né, tanto meno, con la pretesa atmosfera esotica che si sforza di restituire un programma televisivo come L’isola dei famosi. E tuttavia
c’è qualcosa che fa di tutti questi “esotismi” un qualcosa di “esotico”.
Non è possibile soffermarsi sulle manifestazioni epocali dell’esotico (un tema di fatto inesauribile); ma possiamo mostrare certi aspetti del processo di esoticizzazione. Allora l’esotico e l’esotismo potranno apparirci più come il risultato di connotazioni costitutive di
una “somiglianza di famiglia” (Wittgenstein) che non come una
qualche realtà oggettiva (l’Esotico). Presenterò qualche esempio.
Consideriamo Jean de Léry autore, nel 1578, del Voyage au Brésil, a giudizio di Lévi-Strauss il breviario del moderno atropologo.
Giunto in Brasile con altri protestanti per fondare una nuovo insediamento, Léry è un pastore riformato animato dal sincero desiderio
di comprendere quei “fratelli lontani” che sono i Tupi. Fratelli lontani sul piano geografico e non solo. I Tupi sono l’incarnazione di
quanto di più “strano” può concepire una mente europea. Essi sono
quindi distanti culturalmente. Ma non basta. Per Léry i Tupi sono anche lontani nella storia del mondo così come questa affiora dai sacri
testi e dalla successiva Rivelazione. Bisognava dunque recuperare i
Tupi all’interno di una storia del genere umano capace di attenuare il
13
14
Moura 1998: 24.
Gombrich 2003: 103.
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43
senso della loro alterità e far emergere la loro umanità. L’antropologia, dopotutto, non ha perseguito un progetto del tutto analogo,
sebbene distogliendo il proprio sguardo dalla Bibbia?
La struttura del racconto di Léry, ci spiega Michel de Certeau in
un saggio dedicato alla scrittura di questo viaggiatore, è tale da consentire l’operazione: l’allontanamento dall’Europa, l’incontro coi
Tupi, il ritorno a Ginevra sono le tappe, o i dispositivi, attraverso cui
si attua questo “recupero del selvaggio”, la sua restituzione a una
umanità a lungo contestata quando non, addirittura, negata15. Apparentemente il cerchio si chiude. La scrittura consente, nota Certeau,
di inventare la figura del selvaggio come di un essere umano collocabile in uno spazio di discorso preciso ma in una dimensione temporale remota, “altra”. È l’inizio del cliché così caro per lungo tempo
al pensiero antropologico che farà dei primitivi contemporanei i rappresentanti della storia trascorsa dell’umanità. Léry parla di costumi,
di lingua, di ambiente, di tecniche, ovviamente di religione, ma c’è
qualcosa che la sua scrittura non può riportare indietro. Questo qualcosa è la parola tupi. Il missionario si avvicina a un gruppo di Tupi
riuniti in assemblea e ascolta:
[Provai] una tale gioia che non solo rimasi rapito nell’ascoltare gli accordi così ben misurati di una simile moltitudine di persone, e soprattutto la
cadenza e il ritornello della ballata, tutti unendo allo stesso momento le loro
voci dicevano a ogni strofa: heu, heuaure, heura, herauraue, heura, heura,
oueh; ma ogni volta che ci ripenso il mio cuore sussulta, e mi sembra di sentirle ancora.16
È la mancanza di senso di queste parole che fa sussultare il cuore
di Léry, e Certeau giustamente nota che heu, heuaure, heura etc. corrisponde ad una voce qualunque che facesse re re o trallallà. Nulla
di questo heu, heuaure o trallallà può essere trasmesso, riportato o
conservato. Ma si potrebbe anche pensare che sia piuttosto Léry a
svuotare di significato questi suoni, non volendone ritrasmetterne il
15
16
Certeau 2005.
Léry 1972: 197.
I quaderni del CREAM, 2006, V
44
senso nemmeno attraverso lo strumento della traduzione. Infatti Léry
ricorre all’interprete che gli “traduce” il senso complessivo della ballata tupi, ma non le parole: il racconto di una specie di diluvio primordiale che conforta il missionario nella sua convinzione di poter
reinserire i selvaggi in una storia complessiva dell’umanità e che, dice, è certamente “ciò che tra loro è più ravvicinabile alla sacra scrittura”17. Ma che ne è di questa parola non compresa, e forse incomprensibile, che fa sobbalzare il cuore di Léry e la cui eco non si estingue nella sua mente?
Forse non sarebbe sbagliato vedere in questo insieme di elementi
(incomprensibilità, eco, vuoto nella narrazione) l’esotico di Léry e,
per estensione, l’esotico dell’antropologia. Il riesame della scrittura
etnografica che l’antropologia ha intrapreso circa trent’anni fa nel
tentativo di esplicitare le modalità di presentazione dei propri oggetti
ha messo bene in evidenza come la citazione di parole indigene costituisca un potente elemento di validazione dell’autorità etnografica.
La parola indigena citata (tradotta oppure no) rappresenta una specie
di prova che “si è stati veramente là”, che si è effettivamente udito
ciò che viene riportato, indipendentemente dal peso che quella parola
può avere per la comprensione di ciò di cui si parla nel testo. Ma se
la citazione di queste parole può suscitare nel lettore una sensazione
di testimonianza inequivocabile da parte di chi scrive, essa crea anche, nel lettore, un senso di opacità, di estraneità, lontananza, stranezza, proprio tutte le caratteristiche dell’esotico. I testi etnografici,
classici e no, pullulano di queste “citazioni indigene”.
Estraneità, lontananza, stranezza sono, e non soltanto in Léry, il
prodotto di un quanto mai prosaico processo di decontestualizzazione.
Qualcosa, preso in un altrove lontano, viene trasferito in un contesto
nuovo nel quale non ha un senso (il heuaure heura dei Tupi) o nel
quale viene ricontestualizzato, cioè investito di un nuovo significato.
Dire che l’esotico è l’effetto di un processo di esoticizzazione implica due cose: 1) che l’esotico, di per sé, non esiste e 2) che per capire cosa esso sia bisogna spostare l’enfasi dalla provenienza di ciò
17
Léry 1972: 198.
I quaderni del CREAM, 2006, V
45
che è percepito come esotico al luogo e alle modalità in cui l’esotico
viene percepito come tale. Consideriamo il caso dell’iconografia delle Americhe e dei suoi abitanti così come questa si sviluppa in Europa a partire dai primi del Cinquecento. Uno degli elementi simbolo
del carattere esotico del Nuovo Mondo che subito si affermò in Europa a pochi anni dallo sbarco di Colombo fu il “gonnellino piumato” degli amerindi. Già dal 1505 – in una incisione su legno di provenienza tedesca – compaiono i primi soggetti così abbigliati18. Non
esiste tuttavia alcuna prova etnografica che l’uso delle piume per
fabbricare gonnellini sia mai stato conosciuto in tutto il continente
americano. Ma in seguito, forse per analogia coi copricapo aztechi o
con le mantelle piumate degli imperatori inka, e poi probabilmente
per “assonanza” coi copricapo di alcuni nativi nordamericani, questo
genere di abbigliamento “esotico” avrà una ripetizione infinita e costante nell’iconografia delle Americhe, fino alle soglie del Novecento. Inoltre, la sua utilizzazione iconografica riguarderà tutto ciò che
gli Europei immagineranno “lontano”, “strano” e “bizzarro”, e cioè
l’iconografia asiatica come quella polinesiana, dove troviamo soggetti così abbigliati al di fuori di ogni plausibile veridicità etnografica19.
L’esportazione dell’esotismo americano andrà ben oltre, e si estenderà anche sul piano linguistico: gli Indiani del Nuovo Mondo, già così
chiamati per un iniziale “errore geografico”, vedranno riprodotto il
loro appellativo nei polinesiani, che appunto in questo modo venivano chiamati (Indians) dal Capitano Cook e dai suoi accompagnatori...
Nell’Europa del Cinquecento prende infatti il via una produzione
iconografica che spesso non potrà essere riferita a questa o quella regione del globo. Si assisterà così a una impressionante mescolanza di
elementi che ricorda un po’ il lavoro del bricoleur. Trombe antiche,
costumi olandesi, archi amazzonici, copricapo tartari, animali europei, nonché uomini con orecchie appuntite, si mescolano non per
creare quadri descrittivi o per fornire una documentazione di genti o
di paesi precisi. Per lunghi anni i critici si sono arrovellati nell’in18
19
Mason 1998: 17.
Mason 1998: 16-26.
I quaderni del CREAM, 2006, V
46
tento di accertare la referenzialità geografico-culturale di certi dipinti
del Cinque-Seicento (Mostaert, Eckhout etc.), quando invece è assai
probabile che l’intento dei loro autori fosse quello di creare un effetto che possiamo a buon diritto chiamare “esotico”.
Quando le conoscenze etnografiche si fecero più approfondite, riproduzioni veritiere di oggetti provenienti da una certa regione del
globo vennero inserite in contesti figurativi (dipinti, incisioni etc.) che
con quella regione non avevano nulla a che vedere. La veridicità di
quelle riproduzioni induce anche oggi l’osservatore a ritenere il contesto figurativo in cui tali riproduzioni sono inserite come una rappresentazione del vero, un tentativo di documentare in maniera fedele
una qualche realtà umana o geografica, mentre lo scopo di tali riproduzioni invece solo quello di assegnare alle raffigurazioni (dipinti, incisioni ecc) un carattere di veridicità slegato da ogni contesto reale.
Hanno dunque ragione quanti vedono l’esotismo caratterizzato da
una “pratica del distacco”20. E questo almeno in due sensi. Produrre
frammenti distaccandoli dalle altre parti di un oggetto, di un discorso, di una istituzione, di un sistema religioso etc. e, al tempo stesso,
allontanare qualcosa dal suo contesto originario per inserirlo in un
contesto diverso. Dall’esibizione delle “meraviglie americane” nel
Cinquecento alle mostre contemporanee di arte “tribale”, “primitiva”
o “etnica”, corre un filo comune individuabile, appunto, nella pratica
del distacco, ciò che fa di quelle “meraviglie”, o di quelle “arti”,
qualcosa di esotico. Ma questo lavoro dell’immaginazione attraverso
distacchi e frammentazioni non è una pratica confinata alla presentazione degli oggetti o alla loro rappresentazione. Investe anche dei
luoghi capaci di evocare il lontano e il diverso, luoghi non visti e tuttavia presentificati dalla scrittura.
Prendiamo adesso un passo di Tristi tropici, uno dei capolavori
della letteratura del Novecento (e forse, come tale, un po’ misconosciuto). Dopo aver stigmatizzato duramente il consumo del primitivo
attraverso album di foto a colori e racconti di viaggio dozzinali, Lé-
20
Mason 1998.
I quaderni del CREAM, 2006, V
47
vi-Strauss sembra abbandonarsi ad una confessione (che beninteso
sarà poi seguita da riflessioni estremamente rigorose):
Il sogno, – scrive Lévi-Strauss – ‘dio dei selvaggi’ a detta dei vecchi missionari, come un filo di mercurio mi è sempre sfuggito fra le dita. Dove ha
lasciato qualche traccia luminosa? A Cuiaba, ricca un tempo di pepite
d’oro? A Ubatuba, porto oggi deserto, dove duecento anni fa si caricavano i
galeoni? Nei deserti d’Arabia, rosa e verdi come la madreperla? O forse in
America o in Asia? Sui banchi di Terranova, sugli altipiani boliviani o sulle
colline della frontiera birmana? Scelgo a caso un nome avvolto ancora di
prestigiosa leggenda: Lahore” etc. etc.21
Questi nomi, Cuiaba, Ubatuba, l’Arabia, non suscitano forse nel
lettore un effetto di opacità, estraneità, lontananza, ma anche stranezza e attrazione simile a quello suscitato dalle parole indigene inserite
nel testo etnografico o dagli heu, heuaure, heura dei Tupi di Jean de
Léry? Quei nomi hanno il potere di evocare qualcosa verso cui si
prova un desiderio più che un timore, una volontà di vedere, toccare,
sentire piuttosto che di prendere le distanze e fuggire. Qui Cuiaba,
Ubatuba, l’Arabia e le colline birmane non sono luoghi reali. Né è
intenzione di Lévi-Strauss descriverli come tali. Sono invece luoghi
evocativi di un altrove che non è un luogo vero e proprio, ma qualcosa che sta per se stesso e che fa riferimento solo a se stesso.
L’esotico si presenta, in fin dei conti, come qualcosa che non può
essere veramente detto. Ma questa indicibilità dell’esotico non è ciò
che rimane inspiegato dopo che si è spiegato tutto il resto. Se
l’esotico è residuale non è perché si tratta di un residuo oggettivo,
qualcosa che non può essere tradotto dopo che si è tradotto tutto il
traducibile (come heu, heuaure, heura, o quel che “resta” dell’Arabia
dopo che la si è dovutamente descritta). L’esotico è invece il frutto di
un processo di esoticizzazione ottenuto, certo, a livelli diversi di consapevolezza e di dignità ma sempre e comunque mediante la frammentazione, lo spostamento, la decontestualizzazione. In questo senso non mi pare troppo azzardato indicare come il ritornello intraduci21
Lévi-Strauss 1960: 40.
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bile del canto tupi, la parola non tradotta nel testo etnografico,
l’immagine di un luogo favoloso , come del resto gli strani ciondoli
provenienti dal sud del mondo e la collocazione in un ambiente poco
noto di quattro celebrità televisive del momento che mettono in scena
le loro idiosincrasie, siano tutti esempi di esotismo.
Bibliografia
Benjamin W. 2000, I “passages” di Parigi, Torino, Einaudi.
Certeau M. de 2005, La scrittura dell’Altro, Milano, Cortina.
Clifford J. e Marcus, G. E. 1997, Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Roma, Meltemi (ed. or. 1986).
Fabietti U. 1998 (a cura), Etnografia e culture. Antropologi, informatori e politiche dell’identità, Roma, Carocci.
Foucault M. 1971, L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli (ed. or. 1969).
Gombrich E. H. 2003, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Milano, Feltrinelli.
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au XXe siècle, Paris, Champion.
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Segalen V. 2000, Le isole dei senza memoria, Roma, Meltemi (ed. or. 1907).
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Sartre J. P. 1948, Qu’est-ce que la littérature? Paris, Gallimard.
I quaderni del CREAM, 2006, V
49
I quaderni del CREAM, 2006, V
50
MARIELLA PANDOLFI* AND PHILLIP ROUSSEAU•
LOOKING FOR ANTHROPOS.
WITH A LITTLE HELP FROM
1
PIRANDELLO’S INFINITE ABSURDITY
Setting the scene
AUTHORS: In 1921, Luigi Pirandello wrote the comedy Six
Characters in Search of an Author and put the theater and the
backstage processes in the performance itself to emphasize the underlying mechanisms at the basis of the theatrical experience. The
next few pages borrow Pirandello’s brilliant artistic scheme to interrogate some founding elements of anthropology but, even more importantly, some of its recurrent theoretical incongruities.
Pirandello’s comedy starts as follows: upon arrival the audience
faces a stage as it usually is in the daytime: empty, half dark, curtain
raised. The stage is set for a regular rehearsal. The actors arrive and
inform the manager that they have an unfinished drama to perform
and that it only needs an author to complete it. Silence on stage...
The manager senses danger and answers that he has no time to waste
with mad individuals. One of the actors replies that he knows life is
*
University of Montreal
University of Montreal and EHESS Paris
1
A shorter and previous version of this paper was presented by Mariella Pandolfi at the
2006 Canadian Anthropology Society (CASCA) meeting held in Montreal (CAN) on
May the 13th 2006 during a session entitled “The Disciplining of Human Nature? A Debate.”
•
I quaderni del CREAM, 2006, V
51
full of “infinite absurdities” but that these do not even need to appear
plausible since they are true.
Let us transpose Pirandello’s endeavor onto another imagined
scene. Let us surround a fictive character (a perplexed manager) with
an infinite absurdity; an impossible philosophical dialogue between
Thomas Hobbes, Michel Foucault, Giorgio Agamben, Claude LéviStrauss, Clifford Geertz, Pierre Bourdieu, Marshall Sahlins and Michael Taussig, calling therefore upon eight actors to search for a
common Author: Man (or human nature).
This peculiar artifice, we hope, will permit a privileged access to
what creeps backstage, thus laying bare not just some methodological technicalities or professional mannerisms that might obscure the
anthropologist’s understanding of “human nature” (a task which we
will leave upon others to pursue). Instead, we will try to draw pieces
of the blueprint underlying recurring difficulties inherent to both naturalism and culturalism. Paradoxically, such epistemological difficulties seem to be exactly what holds the discipline together.
Of course, any human science has to play around, at least to some
extent, in the nature/culture debate. It just seems that anthropology,
the Science of man, placed itself in the more difficult position of
wanting to be the one bridging the two. This underlying fantasy seems based on an old mechanism that deserves our fullest attention:
the recognition of man.
Scene I
In which we encounter the humanist perspective and discuss its
basic dialectics between man and animal. Hobbes, intent on expressing himself on the subject of recognition, speaks here with some authority.
HOBBES: Nosce te ipsum, Read thy self!2
2
Hobbes 1991: 10.
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52
MANAGER: Could you elaborate a bit more on this old philosophical adage?
Hobbes, quite happy to have the opportunity to do so, executes.
HOBBES: [Whosoever] looks into himself, and considers what he
does, when he does think, opine, reason, hope, fear, etc., and upon
what grounds; he shall thereby read and know, what are the thoughts,
and Passions of all other men, upon the like occasions.3
Timidly raising his finger, Lévi-Strauss interposes himself.
LÉVI-STRAUSS: Could I please interrupt?
LÉVI-STRAUSS: [Take structuralism for example], by following
procedures that have been criticized as being too intellectual, [it] rediscovers […] and brings to the surface of the consciousness, profound organic truths. Only its practitioners can know, from inner experience, what a sensation of fulfillment it can bring, through making the mind feel itself to be truly in communion with the body.4
The manager, a bit suspicious, decides he should reply.
MANAGER: The notion that structuralism is a sort of communion between body and spirit or a fusion between nature and culture
sounds a bit too mystical for me. All of us surely accept that something we would call “recognition” is a natural faculty (although certainly not unique to humans). This “recognition” seems like a necessary first step to any science of man. However, this does not mean, in
any way, that human nature isn’t obscured by our discipline’s practices or biases, it only means that the human sciences pretend to have a
privileged access to man. “How so?” inevitably becomes a key que3
4
Ibidem.
Lévi-Strauss 1971: 695.
I quaderni del CREAM, 2006, V
53
stion here, although answering this question is not as simple as one
might think.
The fact is both Hobbes and Lévi-Strauss seem to slide a bit too
hastily in a particular form of idealism. Bluntly speaking, what they
seem to be saying is this: if men are equal in reason, a common method, an organic method, of thinking surely should serve as a foundation for any metaphysical edifice such as an academic discipline
(or form of government in Hobbes’ case). Of course, a struggle necessarily emerges between the different attempts at defining reason
(or even the refusal to define it for the sake of not wanting to impose
a biased view on this quite sensible subject). But this is also what one
could call a quick fix: the reliable old humanist perspective – a moral
grounding that seeks to achieve the status of a scientific axiom or, if
one prefers, an attempt to legitimate, morally and scientifically, an
epistemological bias.
Furthermore, should the methods of academic disciplines (or
schools of thought like structuralism) be evaluated on their similarities with human nature? Is this, even remotely, possible? I do not
think so. If this were the case, academics would be stuck in a constant search for the most natural school of thought or discipline (or
even political system)... This seems quite absurd and tautological; we
would thus be defining man in our attempt to find for him. As if, somewhere within all of us, lies the true organic method which could
lead us to knowing Man. But I think Foucault wants to add something on the matter of recognition.
FOUCAULT: [Yes,] in the sixteenth century resemblance was the
fundamental relation of being to himself, and the hinge of the whole
world, in the Classical Age it is the simplest form in which what is to
be known appears, and [at the same time] what is furthest from knowledge itself.5
5
Foucault 1973: 68.
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54
The manager nods in complete accordance with what as just been
said and eagerly adds a complementary remark.
MANAGER: This is interesting; “recognition” is sort of a necessary ontological disposition that almost immediately erases itself. For
there to be a “human science”, recognizing man seems to be more
the recognition that he his right there yet that he somehow always
eludes us. Furthermore, that we need to find him. Foucault’s comment also poses a very interesting question: when did man start reading man properly or, to be more precise, when did he start thinking
he did? Why this sudden need to know man? Better yet, why the need to emphasize the fact that we had a privileged way to know man?
Giorgio Agamben raises his hand.
AGAMBEN: I would say that the humanist discovery of Man is
the discovery that he lacks himself, the discovery of his irremediable
lack of dignitas.6
Foucault, looking interested by Agamben’s take on things his quite impatient to take the floor again.
FOUCAULT: The first thing to be observed is that the human
sciences did not inherit a certain domain, already outlined, perhaps
surveyed as a whole, but allowed to lie fallow, which it was then
their task to elaborate with positive methods and with concepts that
had at last become scientific; the eighteenth century did not hand
down to them, in the name of man or human nature, a space, circumscribed on the outside but still empty, which it was their role to cover
and analyze. The epistemological field traversed by the human sciences was not laid down in advance: no philosophy, no political or moral option, no empirical science of any kind, no observation of the
human body, no analysis of sensation, imagination, or the passions,
6
Agamben 2004: 30.
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had ever encountered, in the seventeenth or eighteenth century, anything like man; for man did not exist (any more than life, or language, or labour); and the human sciences did not appear when, as a result of some pressing rationalism, some unresolved scientific problem, some practical concern, it was decided to include man (willynilly, and with a greater or lesser degree of success) among the objects of science – among which it has perhaps not been proved even
yet that it is absolutely possible to class him; they appeared when
man constituted himself in Western culture as both that which must
be conceived of and that which is to be known.7
Agamben nods and then speaks.
AGAMBEN: [Yes, absolutely,] Linnaeus’s genius [, for example,] consists not so much in the resoluteness with which he places
man among the primates as in the irony with which he does not record – as he does with the other species – any specific identifying
characteristic next to the generic name Homo, only the Old philosophical adage: nosce te ipsum [Read thy self]. Even in the tenth edition, when the complete denomination becomes Homo sapiens, all
evidence suggests that the new epithet does not represent a description, but that it is only a simplification of that adage, which, moreover, maintains its position next to the term Homo. It is worth reflecting on this taxonomic anomaly, which assigns not a given, but rather
an imperative as a specific difference.8
The manager looks puzzled. Collecting his thoughts, he tries to figure out what, exactly, is taking place here.
MANAGER: Let me try and resume some of the things that have
been said. If we follow Foucault, this recognition of resemblance as a
basis of knowledge or, if we take Hobbes’ words, reading in one’s
7
8
Foucault 1973: 344-345.
Agamben 2004: 25.
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self, has a particular history. That’s an interesting point, which ultimately leads to a sort of history of the recognition of man as a continuous production of knowledge. If we add to this Agamben’s point
of view, it is as if the basic recognition of man is fundamentally the
recognition of a lack, therefore a constant misrecognition (albeit a
very productive one). But I think Agamben wishes to elaborate a bit
more on the subject.
AGAMBEN: [Yes, I would add that] to define the human not
through any nota characterestica, but rather through his selfknowledge, means that man is the being, which recognizes itself as
such, that man, is the animal that must recognize itself as human to
be human.9
Clifford Geertz, impatient and tapping his fingers on the side of
his chair has had enough of these philosophical meanderings.
GEERTZ: [Isn’t it simply] that man is, in physical terms, an incomplete, an unfinished, animal; that what sets him off most graphically from nonmen is less his sheer ability to learn (great as that is)
than how much and what particular sorts of things he has to learn before he is able to function at all.10 [?]
Agamben grimaces in disagreement.
AGAMBEN: [No, not really, in] our culture, Man as always been
thought of as the articulation and conjunction of a body and a soul, of
a living thing and a logos, of a natural (or animal) element and a supernatural or social or divine element. We must learn instead to think
of man as what results from the incongruity of these two elements,
and investigate not the metaphysical mystery of conjunction, but rather the practical and political mystery of separation. What is man, if
9
Ibidem.
Geertz 1973: 46.
10
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57
he is always the place – and, at the same time, the result – of ceaseless divisions and caesurae?11
Sahlins, surprised by his own intuitive need to come to the defense of Geertz, raises his hand and with an ironic grin on his face intervenes in the discussion.
SAHLINS: [Ah yes, the old perspective:] Man is double, Durkheim said, double and divided: composed of a moral cum intellectual self, received from society, struggling to hold in check an egocentric and sensual self that is essentially pre-human. But Durkheim
is not really modern. This idea of man as half angel, half beast is archaic.12
Geertz, intent on making his point come across, reiterates.
GEERTZ: [I would still argue that we] are, in sum, incomplete or
unfinished animals who complete or finish ourselves through culture
– and not through culture in general but through highly particular
forms of it […].13
The manager, again, realigns his thoughts and tries to figure out
the implication of such a strange discussion on the animal in man.
MANAGER: The separation of man and beast in Man may well
be archaic. But it is the occidental or even “modern” fantasy which
first separates in Man an “animal” part and a “man” part and then
dreams of conjoining the two. This, of course becomes quite a difficult task. Those who wish to tackle let’s say “the nature of Man” usually base their theories on some form of innate/acquired predisposition. This means, and I think it is Agamben’s point, that there never
11
Agamben 2004: 16.
Sahlins 2002: 64.
13
Geertz 1973: 79.
12
I quaderni del CREAM, 2006, V
58
can be a juncture, it is always not just imperfect but impossible, since
we are always cutting away at man in one way or the other. This is
exactly where and how our academic discipline functions, trying to
put nature and culture in their place, thinking this would help, in the
end, in grasping the ultimate link between the two (all the while just
cutting away).
So, if I interpret correctly here, we would be producing Man, first
by simple recognition, then by comparing him with some basic animal nature – this is exactly what gives us “man” as the symbolic animal. This is the absolute, the primordial split: on one side they are
those of us who are trying to give man it’s dignitas by repeating constantly it’s diversified and incommensurable cultures, on the other
those who are bent on discovering it’s proper nature. These don’t seem necessarily contradictory positions, but both are reductive. When
one searches for man without recourse to an underlying Nature we
end up with man looking at himself as a series of infinite malleable
signs (a set of mirrors) – the danger is having metaphysics and ontology implicit to the whole enterprise and coming back as the return
of the repressed. Whereas, if one searches constantly for the underlying nature we tend to end up with reducing complexity in the form
of the biological and the psychological. As if the monkey in all of us
would be the stabilizing element permitting the ultimate characterization of man. This profound split enables us to misrecognize man while recognizing him constantly.
A complementary disposition wouldn’t be of any help in resolving the split; it would only illuminate the basic struggle, where each
position would be pulling the covers (whether it be naturalism or culturalism) on their side. This is where Anthropology, as an academic
discipline, situates itself: there is no easy way out... unless one decides to get rid of the whole enterprise. But few, I guess, would go there.
Geertz nods.
GEERTZ: [I see that] an uneasy drifting into perilous waters begins. Perilous because if one discards the notion that Man with a
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capital “M,” is to be looked for “behind,” “under,” or “beyond” his
customs and replaces it with the notion that man, uncapitalized, is to
be looked for “in” them, one is in some danger of losing sight of him
altogether. Either he dissolves, without residue, into his time and
place, a child and a perfect captive of his age, or he becomes a conscripted soldier, in a vast Tolstoian army, engulfed in one or another
of the terrible historical determinisms with which we have been plagued from Hegel forward. We have had, and to some extent still have, both of these aberrations in the social sciences – one marching
under the banner of cultural relativism, the other under that of cultural evolution. But we also have had, and more commonly, attempts to
avoid them by seeking in culture patterns themselves the defining elements of a human existence which, although not constant in expression, are yet distinctive in character.14
Foucault sighs.
FOUCAULT: “Anthropologization” is the great internal threat to
knowledge in our day. We are inclined to believe that man has emancipated himself from himself since his discovery that he is not at
the center of creation, nor in the middle of space, or even, perhaps,
the summit and culmination of life; but though man is no longer sovereign in the kingdom of the world, though he no longer reigns at
the centre of being, the “human sciences” are dangerous intermediaries in the space of knowledge. The truth of the matter is, however,
that this very posture dooms them to an essential instability. What
explains the difficulty of the “human sciences”, their precariousness,
their uncertainty as sciences, their dangerous familiarity with philosophy, their ill-defined reliance upon other domains of knowledge,
their perpetually secondary and derived character, and also their
claim to universality, is not, as is often stated, the extreme density of
their object; it is not the metaphysical status or the inerasable transcendence of this man they speak of, but rather the complexity of the
14
Geertz 1973: 37.
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60
epistemological configuration in which they find themselves placed,
their constant relation to the three dimensions that give them their
space.15
GEERTZ: Whatever else modern anthropology asserts – and it
seems to have asserted almost everything at one time or another – it
is firm in the conviction that men unmodified by the customs of particular places do not in fact exist, have never existed, and most important, could not in the very nature of the case exist […]. This circumstance makes the drawing of a line between what is natural, universal, and constant in man and what is conventional, local, and variable extraordinarily difficult. In fact, it suggests that to draw such a
line is to falsify the human situation, or at least to misrender it seriously.16
MANAGER: Absolutely! That’s what some of us have been
trying to say for some time now. But if we do not draw any line does
it save us from the primordial cut or are we simply putting it off for
later (or for other disciplines to define that line)? Can we really call
this the science of man if what we are doing is basically getting rid of
man as much as possible?
Scene II
Where knowledge loses all its bearings. The manager scratches
his head.
MANAGER: We encounter here another very troubling question:
can we call knowledge what is essentially based on misrecognition?
He rubs feverously his forehead.
15
16
Foucault 1973: 348.
Geertz 1973: 35-36.
I quaderni del CREAM, 2006, V
61
MANAGER: I mean, so many questions emerge: can we do otherwise than misrecognize man? Do we want to do otherwise?
Could the discipline even exist if this wasn’t the case? Have we lost
man for good?
Lévi-Strauss, silent ever since his take on organic structuralism,
lifts his finger and decides to take the floor again.
LÉVI-STRAUSS: [But shouldn’t it simply] be agreed that the
symbolic faculty is essentially human?17
Geertz, at the edge of his seat, waves his hand impatiently.
GEERTZ: [I agree] Man is so in need of such symbolic sources of
illumination to find his bearings in the world because the nonsymbolic sort that are constitutionally ingrained in his body cast so diffused
a light.18
The manager is showing signs of despair.
MANAGER: As we have already mentioned, the symbolic faculty therefore becomes the all-encompassing element that legitimates the fact that we do not need “human nature” to go about our disciplinary business. We can then try to elaborate a science of signs. I
don’t necessarily disagree with this disposition – in fact I think most
anthropologists generally, whether explicitly or implicitly, accept
this view –, but I do think it seems like an easy way out. Separating a
symbolic (or cultural) field, trying to render it autonomous from nature tends to become a trick, a gimmick that obfuscates our profound
historicism. How so? Well, in the end, don’t we want to explain religion, don’t we want to explain politics and wouldn’t we love to e17
18
Lévi-Strauss 1971: 681.
Geertz 1973: 45.
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62
xplain culture? Unless we prefer to niche ourselves in History or a
contemporary History of signs! This is a very acceptable and defendable perspective, but one I don’t think most anthropologists are willing to accept just yet.
Michael Taussig emerges from nowhere, looking quite surprised
to find Hobbes, Lévi-Strauss, Foucault, Bourdieu, Geertz, Sahlins and
Agamben in the same room talking to each other. He shakes his head
in disbelief.
TAUSSIG: [It seems to me that you are talking about the mimetic
faculty. And the wonder of mimesis] lies in the copy drawing on the
character and power of the original, to the point whereby the representation may even assume that character and that power. In an older
language, this is “sympathetic magic,” and I believe it is as necessary
to the very process of knowing as it is to the construction and subsequent naturalization of identities.19
The Manager sighs, he feels that he his losing grip here.
MANAGER: The problem we encounter here is that if knowledge
and identity making share a same matrix, how in the world does one
delimitate something like an academic knowledge in the first place.
Isn’t this a problem? I mean if the researcher and its object of research are mimicking each other, what differentiate them? Should we
differentiate them?
Bourdieu, quite discreet until now, raises his hand.
BOURDIEU: [I agree with Taussig, take Piaget’s example,] it is
not so much that children don’t know how to talk: they try out many
languages until they find one their parents can understand. Ethnology
will have taken a giant step forward when all ethnologists understand
19
Taussig 1993: xiii.
I quaderni del CREAM, 2006, V
63
that something similar is taking place between their informants and
themselves.20
Lévi-Strauss, looking a bit annoyed as to where this conversation
is headed decides to intervene again.
LÉVI-STRAUSS: The social sciences, following the example of
the physical sciences, must grasp the fact that the reality of the object
they are studying is not wholly limited to the level of the subject apprehending it.21 [Don’t you think so M. Bourdieu?]
Bourdieu, surprised by the fact that Lévi-Strauss is interested in
his opinion on the subject, accepts the invitation and responds.
BOURDIEU: [Au contraire, one must] operate [a] turning of the
interpreter toward himself and toward interpretation – this is to render fieldwork, often constructed as an initiation rite surrounded by
secrets and mysteries, its proper dimension : a work of construction
of a representation of social reality.22
Lévi-Strauss, very annoyed now.
LÉVI-STRAUSS: [You mean the] self-admiring activity which
allows contemporary man, rather gullibly, to commune with himself
in ecstatic contemplation of his own being.23
Bourdieu, with venom in his eyes, calmy responds .
BOURDIEU: [At least this] marks [a] decisive break with the positivist conception of scientific work, with its exaltation of ”naïve”
20
Bourdieu 1977: 166-167.
Lévi-Strauss 1971: 638.
22
Bourdieu 1977: 163.
23
Lévi-Strauss 1971: 640.
21
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observation and its innocent confidence in what Nietzsche called the
“dogma of immaculate conception,” the foundation point of a science
without scientists, one which reduces the knowing subject to a registering device.24
Raging from the inside, Lévi-Strauss wants the last word.
LÉVI-STRAUS: [M. Bourdieu, I see in your perspective more] an
ideological Café du commerce where, within the four walls of a human condition cut down to fit a particular society, the habitués spend
their days rehashing problems of local interest, beyond which they
cannot see because of the fog created by their clouds of dialectical
smoke.25
Sahlins following the last few exchanges of this bout between the
two French intellectuals raises his eyebrows.
SAHLINS: [I agree, no] good ethnography is self-contained. Implicitly or explicitly ethnography is an act of comparison. By virtue
of comparison ethnographic description become objective. Not in the
naïve positivist sense of an unmediated perception – just the opposite: it becomes a universal understanding to the extent it brings bear
on the perception of any society the conceptions of all the others.
Some Cultural Studies types […] seem to think that Anthropology is
nothing but ethnography. Better the other way around: ethnography
is Anthropology, or it is nothing.26
MANAGER: Yes, I do fear that the ethnographer who refuses to
pursue any theoretical enterprise in the name of the incommensurability of his and others subjective experience only tends to cover up
some of the fundamental fissures in the edifice. But Bourdieu tells us
24
Bourdieu 1977: 163.
Lévi-Strauss 1971: 640.
26
Sahlins 2002: 12.
25
I quaderni del CREAM, 2006, V
65
that this is also the case with more positivist postures. Again, a compromise seems totally irrelevant. Being a little more subjective or a
little more objective (whether we choose Bourdieu or Lévi-Strauss)
only seems to lead to faulty wiring.
Smiling adamantly, Foucault rejoins the discussion.
FOUCAULT: When Nietzsche speaks of the situated character of
knowledge, he points to the fact that there can only be knowledge by
a certain number of actions which are, by essence, multiple and different: actions by which the human being violently seizes a certain
number of things, reacts to a certain number of situations, imposes
certain power relations. This means that knowledge is always a strategic relation in which Man is situated. The perspective character of
knowledge doesn’t, therefore, derive from human nature, but always
from this situated character of knowledge, because there is a struggle
and because knowledge is an effect of this struggle. Therefore knowledge his always a form of misrecognition.27
Marshall Sahlins shakes his head with an ironic look in his face.
SAHLINS: Power, power everywhere,
And how the signs do shrink.
Power, power everywhere,
And nothing else to think.28
The Manager, impressed by Sahlins wit and poetic verve intervenes once again.
MANAGER: This is probably what Habermas would also reply to
Foucault, although probably not in such a poetic style. As Sahlins
points out, the problem here seems to be that these practices, these
27
28
Foucault 2004: 1419-1420. This is our translation of the French version.
Sahlins 2002: 20.
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66
power relations, have the tendency of becoming a transcendental mechanism by which one can explain everything. “Power” becomes the
ultimate cause, even if presented as a field of diversified microrelations. But who can object to the fact that the recognition of Man
is tightly woven with the political? Furthermore, who wouldn’t assert
that the knowledge of Man always entails a privileged access into identifying the common good? Certainly not our friend Hobbes!
That’s why human nature (usually identified using the animal in man
as a starting point, as the sort of stabilized mechanism in man) becomes a key factor, a very sensible political lieu as we have already said.
Everyone turn their heads toward Hobbes and find him immersed
in a profound sleep as if the years had finally caught up with him.
Taussig raises his hand.
TAUSSIG: [Yes,] when it was enthusiastically pointed out within
memory of our present Academy that race or gender or nation... were
so many social constructions, inventions and representations, a
window was opened, an invitation to begin the critical project of analysis and cultural reconstruction was offered. And one still feels its
power even though what was nothing more than an invitation, a preamble to investigation has, by and large, been converted into a conclusion – eg. “sex is a social construction,” “ race is a social construction,” “nation is an invention”, and so forth, the tradition of invention. The brilliance of the pronouncement was blinding. Nobody
was asking what’s the next step? What do we do with this old insight? If life is constructed, how come it appears so immutable? How
come culture appears so natural? If things coarse and subtle are constructed, then surely they can be reconstrued as well? To adopt Hegel, the beginnings of knowledge were made to pass for actual knowing.29
29
Taussig 1993: xvi.
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67
The manager intrigued by this last point feels the ground slip beneath his feet.
MANAGER: Yes, nobody was also asking what would anthropology be like without the underlying separation in the first place?
Nobody wishes to answer these questions left open. The actors looking at each other in complete disbelief realize that this whole dialogue was a sham, an unreasonable act of creation. Each one of
them finds a different reason to leave the vicinities. One by one they
disappear backstage leaving the manager all alone on stage. Since
every show as its closure, he feels compelled to conclude.
Curtain call
The manager, in complete disarray, eagerly awaits his own exist
from the stage. He now faces the empty seats and tries to find the authors, whom, he very well knows, are right there in front of him yet
seem to be hidden by the spotlight lighting the stage.
MANAGER: There is no moral to this absurdist tale. No message
to convey to the discipline except a very fragmented and small sample of excerpts concerning our tormented intellectual heritage.
AUTHORS: That’s not exactly true. We encountered, at the outset of this intriguing dialogue a particular derivative of the humanist
(mis)recognition of man: man reads in himself only to find that this
provokes a distance towards himself. The recognition therefore takes
the form of a primordial lack; where man must recognize himself as
man to be so, yet cannot achieve it. We then saw that the basic feature of this (mis)recognition was the ultimate separation of animal and
man in man himself. This locus of misrecognition – the fact that there is always a basic cut in the human sciences between man and animal in Man, whether we choose to center our attention on the “animal” in man or whether we choose to concentrate on the “man” in
man –, ends up amputating man. This happens even if we try to rein-
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68
tegrate the two parts (we then tend to reduce one to the other, keeping the initial cut quite alive).
MANAGER: But what’s the point of this? Isn’t this all a bit selfevident?
AUTHORS: We are not so sure if this is so evident. If anthropology’s role is simply reduced to historicizing and culturalizing different aspects of man it will be stuck in a very instable academic zone
where it can only serve to confirm or infirm other academic disciplines hypothesis and conclusion. Shouldn’t this be a legitimate question? We are not sure if this question is often asked?
MANAGER: How do we end this?
AUTHORS: Let us end by paraphrasing one of Pirandello’s character: the general folly may well be the search of resemblance under
the pretext of giving the illusion of truth. The problem is that this
particular folly, is, quite paradoxically, the only raison d’être of our
profession. We therefore are waiting for Man to arrive. The problem
is, if he’d be here, maybe we’d be lost.
Bibliography
Agamben G. 2004 [2002], The Open. Man and Animal, Stanford, Stanford
University Press.
Bourdieu P. 1977, Afterword, Reflections on Fieldwork in Morocco, by P.
Rabinow, Berkeley, University of California Press.
Foucault M. 2001 [1974], La vérité et les formes juridiques, Dits et Écrits I,
Paris, Gallimard.
Foucault M. 1973 [1966], The Order of Things, New York, Vintage Books.
Geertz C.1973, The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books.
Hobbes T. 1991 [1651], Leviathan, Cambridge, Cambridge University
Press.
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69
Lévi-Strauss C. 1971, The Naked Man. Introduction to a Science of Mythology: 4, New York, Harper & Row.
Sahlins M. 2002, Waiting for Foucault, Still, Chicago, Prickly Paradigm
Press.
Taussig M. 1993, Mimesis and Alterity. A Particular History of the Senses,
New York and London: Routledge.
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70
ROBERTO MALIGHETTI*
IDENTITIES IN THE QUILOMBO OF FRECHAL.
FIELDWORKING
IN A BRAZILIAN RURAL BLACK COMMUNITY
Investigating the political, linguistic and cultural areas of exchange where I defined identity in a rural black community of Maranhão
(Brazil)1, I tried to grasp the modifications and uses of this concept.
Identity was constructed through the way in which I progressively
gained access to its knowledge, reflecting on my epistemological
models, the field experience and the dialogic relation with my interlocutors. It emerged as the product of a negotiation, conducted from
the anthropologist’s point of view with the perspectives inscribed by
me in the history of the social actors and in the temporality binding
the observer and the observed.
Dealing Wittgensteinially with the “net” and not with a hypothetical reality (“idol of the scribe” rather than “idol of the tribe”2) the
concept did not configure itself as a space external to me, object of
my discourses. Rather it constituted a global space of which I was an
integral part and from which I could write. As such, its existence was
purely theoretical, being precisely what Lévi-Strauss defined – almost 30 years ago – “une sorte de foyer virtuel auquel il nous est in-
*
Università di Milano Bicocca
Malighetti 1998 e Malighetti 2004.
2
Boon 1982.
1
I quaderni del CREAM, 2006, V
71
dispensable de nous référer pour expliquer un certain nombre de choses, mais sans qu’il ait jamais d’existence réelle”3.
The process of research clearly showed how, as Benoist maintains, the notion of identity has indeed a spurious content and a
hyperbolical meaning, suggesting a nominalist and scientistic optics.
Yet, it nevertheless constituted a theoretical instrument indispensable
to comprehend reality. As such, identity represented the Wittgensteinian branch on which I rested and which I could not avoid4. As a sort
of Weberian ideal type, it allowed me to isolate in the multiplicity
and polysemy of the empirical data, some meaningful elements, coordinating them into an interpretation. In this sense it functioned as
one of the possible conceptual models on which the anthropologists
are ontologically founded and to which also they, as biologically defective animals, cannot renounce5.
However perspective, artificial and relative, the concept of identity constituted just the “limite à quoi ne correspond en réalité aucune
expérience”6 indispensable for comprehension. Precisely that limit
which opens from the inside the space of a possible knowledge. Without this background that roots the anthropologist in his or her culture, there could not be points of view to experience “Otherness”.
Grounding myself in my own culture, the limit showed that the
experience of the “Other” can be realized only starting from myself.
The discourse on identity points out bifocality and reflexivity as intrinsic characteristics of the anthropological work, exhibiting the negotial and processual nature of the construction of the anthropological knowledge.
3
Lévi-Strauss 1977: 332.
Wittgenstein 1953: 41.
5
Remotti 1996.
6
Lévi-Strauss 1977: 332.
4
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72
The Quilombo of Frechal
My fieldwork in the Quilombo Frechal7 started from a collaboration with the Italian Foreign Ministry. During a mission in Guimarães to evaluate a program of agricultural development, I came to know
of the existence in the area of a community officially recognized as
descending from an ancient quilombo. More precisely, the land
which it occupied had been declared Reserva Extrativista do Quilombo Frechal8. A Federal Decree of 1992 combined two Constitutional devices, ordering – after complex events overshadowed by
tension and violence – the expropriation of about 10.000 hectares
bought in 1974 by a entrepreneur of São Paulo with the precise intent
to forcibly expel the local population. On the one hand it acknowledged the secular harmonic relationship between the population and
the natural resources protected by Article 225 of the Constitution of
1988; on the other it recognized the rights of the remanescentes of
quilombos granted by Article 68 of the Atos das Disposiçoes Consitucionais Transitorias. According to this article “to the descendant of
the communities of the quilombos which are occupying their land is
recognized the definitive property, having the state to emit the respective titles on their behalf”9.
Deriving from the term bantu-quimbundo kilombu that originally
indicated the camp or the tent and in the seventeenth century the Western African concentration camps of the slaves to be shipped overseas10, the term quilombo had been initially used by the Portuguese
authorities to juridically define the flights of the Brazilian slaves.
With this legal meaning the name passed through Brazilian history,
from the legal dispositions of the colonial period to the repressive
7
Malighetti 1998 e Malighetti 2004.
For the reserves of ecological and social interest see also the article 9, VI of the laws n°
6.938 (31/8/1981) and n° 7.804 (18/7/1989).
9
On the basis of this article: “To the descendant of the communities of the quilombos
which are occupying their land is recognized the definitive property, having the state to
emit the respective titles on their behalf”. Translation by the author.
10
Freitas 1976 e 1984; Moura 1988 e 1993.
8
I quaderni del CREAM, 2006, V
73
policies of the imperial age, the Republican legislation and the Constitution of 1988.
Developed as an instrument to fight against the slave rebellions, all
the conceptions of the term quilombo have their fundamental reference
in the definition of the Conselho Ultramarino, dated 2.12.1740 which
juridically considers as quilombos “all the dwellings with more than
five slaves escaped, in part depopulated, even without constructions”11. The Constitution of 1988 took on this original meaning without establishing who had the duty to identify the communities remanescentes dos quilombos and how. As in many other cases, it
combined in very abstract terms a great liberality of principles with
the lack of mechanisms to implement them. It ratified the juridical
elements of the definition, revoking the wide comprehensive capacity of Article 68 with the absence of norms disciplining the matter.
As it is structured the article seems to express the will of the Constitutional Assembly to prevent its application, conscious that its free
interpretation would entail a real agrarian reform.
For this reason, having considered the difficulties with the reception of a claim which was new in Brazil, the lawyers of the
community, together with the public prosecutor, modified the procedural strategy: “This was the result of a juridical and political strategy that fostered the results: that is the acquisition of the land […].
We forgot the academic discussions, we forgot the perplexities of the
Movimento Negro […]. We forgot all the political discourses and
that of the non-governmental organizations, to privilege the interest
of the community that was, in short, the acquisition of the land”12.
Appealing to the fact that the land of Frechal had already been inserted in a vast area of environmental preservation13, the community
further availed itself of the favourable conjuncture represented by the
Conferençia das Naçoes Unidas sobre o Meio Ambiente e Desenvol11
Translation by the author.
Dimas Salustiano da Silva - lawyer of the community in the trial - 14.04.96, tape n. 20,
notebook n. 26, p. 37.
13
Decreto Estadual n° 11.900, 11.07.1991, published in the Diario Oficial of Maranhão
9/10/1991.
12
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vimento Sustentado, held in Rio de Janeiro that same year. It thus addressed the petition to the Ministry of Environment, asking for the
recognition of the area as Reserva Extrativista of ecological and social interest. On the eve of the Conference, in a moment in which the
international community concentrated its attention on Brazil and on
the environmental matters, it obtained from President Collors a decree creating the ecological reserve of Frechal. This granted the village the use of the land and of the natural resources. The decree was
then converted in law only one day before its lapse, following the
occupation of Ibama (Istituto Brasileiro do Meio Ambiente) by the
people of Frechal in a dramatic series of events which mobilized public opinion and brought the case of Frechal to the attention of the
media.
Structures
Exhibiting an identity dynamic crystallized in the course of the
fight against the fazendeiro and in the acquisition and production of
juridical documents, the case of the community could be easily considered a paradigmatic example of the political theory of identity.
According to this concept, identity emerges in the contraposition
among groups and in the competitions for the access to scarce resources. It reflects political intents and manifests itself, in its operative and instrumental character, in defence of collective interests.
The political connotation of identity in Frechal could be traceable
back to external processes, founded on the contingent competition
for material and symbolic resources: the threat to structural and territorial borders had strengthened the symbolic circumscription of identity. In this sense identity could be thought of as expressing a consciousness of interests and rights which broke with a past of alienation. It favoured the recovery of a dignity devastated by the domination of other identities. Appealing to an idea of cultural authenticity
and mobilizing a symbolism capable of legitimating their claims and
of giving them a legal weight, the people of Frechal had transformed
I quaderni del CREAM, 2006, V
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themselves from object of slavery, discrimination and racism to ethno-political subjects.
The quilombola self-definition constituted a strong model of identity founded on a primordial symbolic texture. Its patterns underlined
the bond with a cultural and material legacy with an heroic past,
grounded on a tangible reference of belonging to a common origin
and to a defined territory. The language of the quilombo was the guiding principle regulating the repartition of both time and space. On
the one hand time unified the origin and destiny in relation to a territory on which the ancestors lived and for which they fought. On the
other hand territoriality founded the identification with an historical
and cultural tradition.
The antiquity of the occupation of the land, rooted in genealogy
and in the belonging to the group, consolidated a history sedimented
in the present and made relevant for it. A recurring expression during
the interviews justified the legitimacy of the property of the land
with the fact of having been “born and brought up” in Frechal: “We
are sons of the land. We were born here and we grew up here. Our
navel is buried in this place […] in the houses from which he [the fazendeiro] wanted to throw us out. We were born on this land and we
grew up here, like our grandparents, our fathers”14. Genealogy was
strictly linked to the idea that the ancestors did not live in any other
place beside Africa. The reality of the place and of the quilombo were founded on the common descent from a few families15, tight kinship relations and endogamic practices. The narrations of my interlocutors underlined the common descent from a single family, called
Cohelo from the name of the ancient masters, Cohelo da Souza, according to the customs of the slave regime: “We are all relatives,
cousins. We descend from one single family, Cohelo. Because the
master was Cohelo […]. The people thought that the persons who
were born and worked for them had to have their signature. After14
Jovina Silva Gomes (1939), 29.3.96, tape n. 12, notebook n. 14, pp. 73-74.
The most numerous were recognized as the most ancient, named Cohelo and Silva.
Later joined other families: the Araujo and the Carneiro, and more recently the Ferriera,
the Mondego and the Ribeiro.
15
I quaderni del CREAM, 2006, V
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ward the Silvas and Carneiros arrived”16. The village seemed to follow an endogamic logic, favouring unions among members of the
community, hence among cousins: “People here marries only with
people from here […]. They marry with their cousins. There weren’t
people coming from the outside17 […] They are used to stay only
with the pretos [blacks]. There were colour prejudices. The people
from Frechal did not dance… did not go to the feasts in Mirinzal […]
We did not want to spread the family. We wanted to stay united”18.
In the memory of Frechal genealogy was strictly linked to the
land. The members of the village considered themselves as a group
from an identity founded on a territory occupied for centuries. They
seemed to see themselves as “identical” in relation to a land constituting the space of a common history and configuring the positive identity of moradores [inhabitants]. The current term terra comun
[common land] was used as an element of an identity indissociable
from the territory and from the rules of its appropriation. The common use was a defining characteristic founded on the collective use
of the land and on its indivisibility, the kinship relations, the participation in the cultural practices, the specific features of solidarity and
reciprocity.
Persuaded that identity could not pre-exist, as a structure, before
the process of its formation, I tried to avoid the essentialist connotation implied in the political interpretations of identity. I did not concentrate on analyzing the political-economic factors implied in the
processes of identity construction, indicating how the competition
over scarce resources had produced the emergence of identity. On
the contrary I wished to characterize my approach with the removal
of the structural and objective marks of identity, underlining its discontinuous, invented and contractual character.
From this perspective identity constitutes a real fiction, a hybrid
construction by means of which it is possible to attribute to the group
16
Jovina Silva Gomes (1939), 29.3.96, tape n. 12, notebook n. 14, pp. 79-80.
Maria da Paz Santos Gomes “Cota” (1942), 22.05.96, tape n. 27, notebook n. 31, p. 63.
18
Tomaz Ribeiro “Bauta” (1932), 28.04.96, tape n. 24, notebook n. 28, p. 2.
17
I quaderni del CREAM, 2006, V
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different definitions of the collective self, continuously reinvented
and reinterpreted according to the circumstances and the objectives.
More than mirroring immutable and “natural” realities, it comprehends the circumstantial and fragmentary nature of different strategies, actively pursued at various levels: constructions, interpretations
of the past, inventions of tradition or of culture.
I thus proceeded to analyze the mechanisms of ethno-genesis, wishing to deconstruct the processes of construction. For this purpose I
dialogically related my constructive conception of identity with the
reification of the concept performed by my interlocutors. I attempted
to show, Wittgensteinially, how the work of crystallization of identity had been contingently elaborated in the course of the fight against the fazendeiro and in the acquisition and production of the documents in the judicial phase, powerful filters in the process of identity construction. The legal proceedings inexorably capture the identity dynamics inside the rigid categories “true” or “false”, promoting
substantial and essential concepts like territoriality, genealogy, race
and the cathartic eliminations of impurities and contradictions19.
They invite the researcher to look for authenticity and to adopt a positive logic of verification, putting him in front of the risk to collude
with them and to crystallize not only the natives’ point of view, but
also his own.
Processes
Relying on historical documents and on bibliographical sources,
the petition was founded on the argument that the present-day comunidades negras or terras de preto were, according to the formulation
of the Constituent Assembly, Remanescentes das Comunidades dos
Quilombos. Hence they were eligible the entitlement of the land on
which they were living.
19
Kilani 1994: 208; Remotti 1996.
I quaderni del CREAM, 2006, V
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The construction of the conceptual field of the term quilombo had
its starting point in the social situation at that time. It was conceived
as a political and organizational instrument whose main goal was the
securing of the land. It proceeded from the actual realities, localized
and defined by the social actors as terras de preto and it ended up
identifying them with the quilombos. Given the difficulty of finding
factual evidence, archaeological or palaeontological proofs on the
existence of the quilombo – being impossible to prove that the land
on which the communities supposedly remanescentes dos quilombos
live today is the same as the one originally occupied by their ancestors – they proceeded on the assumption that all the rural black
communities were descendants from the ancient quilombos. According to Ivan Costa – militant of the Sociedade Maranhense de Defesa dos Direitos Humanos – the conceptualization of the term quilombo acquired the meaning to make the formal recognition of the territoriality of the rural black communities possible:
It was clear that the quilombo was that of the fugitive slaves, and that we
do not have any possibility, now in the 20th century, to succeed in finding
any community which really was remanescente dos quilombos […]. We call
this word remanescentes ‘straitjacket’... because it is very difficult to prove
that a black community is really a quilombo or not. For us this word remanescentes is a little complicated. For this reason we of the Movimento Negro
think that all the black communities are remanescentes dos quilombos […].
Well, for us it is difficult to prove an area as remanescente do quilombo according to historical or anthropological parameters […]. It is impossible to
prove that the community A or B is remenescente do quilombo. It is difficult this name remanescentes, because it includes and benefits very few
communities. Extending the meaning of the quilombolas black communities
the term applies much better, because it grants the right to all the communities having a major group of pretos. We consider that they are all quilombos.20
The Movimento Negro intended to relate the fight against the slave regime with the fight of the contemporaneous black workers a20
Ivan Rodrigues Costa, 7.3.96, tape n. 8, notebook n. 3, pp. 249-251.
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gainst the exploitation of the great landowners. To this end they were
looking for a paradigmatic case that would allow them to elaborate
and test their strategies:
We have ascertained the need to find a paradigmatic instance, a situation
that could serve as an example for others [...] Frechal was chosen [...] we
had a thesis of which they were an actual example [...]. The thesis was on
the applicability, on the feasibility of a purview referring to the black communities remanescentes dos quilombos [...]. We chose Frechal. The people
there lived under the pressure of an owner [...] about to be expelled from
their land. There were a lot of stories of violence [...] perpetrated by gunmen hired by Mr. Tomás de Melo Cruz.21
The procedural petition inferred the necessary existence of various quilombos from the great concentration of slaves in the State, in
particular in the region of the Baixada Occidental, a place of first colonization and one of the major economic centres of the country from
the 18th to the first part of the 19th century22. Founded – for its easy
and wide applicability – on the already mentioned answer of the
King of Portugal to the Conselho Ultramarino, it came to the conclusion that “it was sufficient to have six negros in Frechal, even without a place to inhabit... to claim the existence of a quilombo”23.
The thesis was supported by the argument that since the region of
the Baixada Occidental Maranhense had been a major economic centre, and hence one of the places importing the greatest number of
slaves, it also had to be a place of great prolification of quilombos24.
21
Avv. Dimas Salustiano da Silva, 14.04.96, tape n. 20, notebook n. 26, pp.1-3.
The area of Guimarães, a municipality that until 1964 comprehended the village of
Frechal, was one of the areas of major concentration of plantations, described by the
sources of the period as particularly rich and productive (O Diario do Maranhão,
6.5.1857). In 1860 the number of factories to treat sugar-cane was above 100 unities, putting Guimarães at the second place in Maranhão, which had 410 factories on the whole
(Viveiros 1954; Lima 1981). In the Municipality of Guimarães, the datas of Marques
(1870) indicate that in 1870, on a popuation of 14,500 souls, 5,000 were slaves.
23
Petition p. 58.
24
The institution in 1682 of the Companhia do Comércio do Maranhão (1682-1755) is
considered the official beginning of the introduction of slaves in Maranhão (Amaral
22
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80
The petition criticized the intellectual production which had always
denied the existence of quilombos in the region and had ignored the
insurrectional activities of the slaves. To this it opposed a series of
documentary evidence starting from 1832, mainly the messages of
the Presidents and Vice-Presidents of the Province and the alarmed
reports of the Chiefs of Police that testified to the relevance of the fight
against the quilombos. Moreover it pointed to the existence of an important correspondence of the Judge of Turiaçù dated 20/04/1834 and
addressed to the Vice-President of the Province of Maranhão, in which
a quilombo named Frechal was explicitly mentioned.
Oral and written
The evocative power of the documents, directly linked to the prestige accorded to the written culture, constituted a central point in the
natives’ symbolic system and in their rhetorical strategies. Usually
the discourses of my interlocutors emphasized the function of the do1897; Viveiros 1954; Meireles 1960; Dias 1970). The traffic intensified with the new
Companhia Geral do Comércio do Grão-Para e Maranhão (1755-1778), which monopolized the trade for the next 20 years. Numes Dias (1970) holds that during its existence
the total number of slaves sold in Maranhão was 10,616. In general, Castro (1892) thinks
that the flux was of 3,000 slaves before 1755; 12,000 in the period of the Companhia do
Comércio; 15,000 until the end of the 18th century. The data of the census of 1799 indicate 31,722 blacks and 18,573 mulattos (Goulart 1975). Father Francisco de Nossa Senhora dos Prazeres (1891: 4-27) and Josè Amaral (1897), estimates that in 1818 the population of the Maranhão – indios excluded – was of 160,000 inhabitants and that the number of slaves for every free man was of two against one. Alfonso de Taunay reports that
in 1822 of the 200,000 inhabitants of Maranhão the 66,6% were slaves, the highest percentage in Brasil (Dantas 1988). Similarly, Dunshee de Abranches (1941: 47) affirms that
in 1822 there were 130,000 slaves in Maranhão, more than half the population of the
state. The area of Guimarães, a municipality that until 1964 comprehended the village of
Frechal, was one of the areas of major concentration of plantations, described by the
sources of the period as particularly rich and productive (O Diario do Maranhão,
6.5.1857). In 1860 the number of factories to treat sugar-cane was above 100 unities, putting Guimarães at the second place in Maranhão, which had 410 factories on the whole
(Viveiros 1954; Lima 1981). In the Municipality of Guimarães, the data of Marques
(1870) indicate that in 1870, of a population of 14,500 souls, 5,000 were slaves.
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cuments in assuring the claim of the quilombola origin, the ancient
occupation of the land and the harmonic use of its natural resources.
Their relation to the documents was characterised by patterns of
knowledge and action that had a decisive efficacy in the local system
of representation and of identification, founding a certain number of
spaces inside which memory could unfold. The invocation of the document intervened in the conversations as a guarantee of authenticity:
They [the lawyers] had to see a historic thing, a thing that would realize
the truths we were talking about. And this was the document: the origin of
the document, of the first owners, the writings about the document, the writings about the land. Through this they justified... to realize our discourses
[…] After the interviews, they really found that what was in the writings
coincided with our discourses. It showed them.25
In the interactions of the village, the invocation of the documents
passed the limits of the oral memory. The discourses mutually strengthened and gained confidence because of their common reference to
them:
The old men said some things. The fact is that they could not say what I
say, what Inácio says, or another person says. At that time, people relied on
words. The word was part of a document. Today it is not like this. Today it
is in writing. Today the justification which we found was in the archive
[…]. It is for this reason that I tell you many of the things that people say...
because they [the lawyers] found them, they met them in the archives. We
already knew, in different ways, because our fathers spoke. But they did not
know everything, because it was a thing more ancient than them, and it was
in the archive that they [the lawyers] had the opportunity to discover it.26
My interlocutors did not enter in the contents of documents that
they quoted in support of their words. To my queries they used to an25
Inácio de Jesus Ribeiro (1943), 22.05.96, tape n. 08, notebook n. 1B, p. 88.
Manuel da Cruz Cohelo da Silva “Bié” (1928), 31.03.96, tape n. 14, notebook n. 18,
pp. 65-66.
26
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82
swer that the details were in documents they did not possess. The ignorance and the imprecision about the contents was concomitant
with assertion of their existence and importance. The mystery and
the secrecy surrounding the documents – as Kilani suggests27 – were
part of their very functioning, producing a reinforcement on the belief on their contents and guaranteeing their acceptance. The oral
memory used the documents to develop its rhetorical effects of persuasion and verisimilitude, apart from verifications, checks and from
the very possibility to see them. The necessity and the efficacy of the
local knowledge did not spring from the fact of pretending an objective relation with history and with the documents. Rather it derived
from the fact of establishing itself against objective knowledge. The
use of the written document participated in a modality of action that
modified the usual function of the written in favour of a purely illocutionary one. What counted in the natives’ rhetorical strategies was
not much the designation of a content. Rather it was the very linguistic act of designating.
The document could thus be considered according to the mechanisms of the belief, as “social bond”28. The mere appeal to unobtainable documents, often non-existent and whose content was, in any
case, almost unknown, had a real performative efficacy and an own
self-sufficiency – inferable from Inácio’s meaningful expression “the
document lives with me”29.
The documents thus constituted what Kilani considers “complete
references”30, which, having definitively freed their sense, become
indisputable. Their mere invocation – which Kilani defines as incantatory31 – was sufficient to produce a persuasive effect and to support
the belief in what they enunciated32. The importance and the power
27
Kilani 1994.
Lenclud 1990.
29
Inácio de Jesus Ribeiro (1943), 21.04.96, tape n. 2, notebook “A”, p. 118.
30
Kilani 1994: 243.
31
Kilani 1992: 307.
32
In this way operated the fundamental document, repeatedly quoted but never shown by
the lawyers in the trial, i.e. the already mentioned correspondence of the Judge of Turiaçù
28
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of the written trace took its force from the oral, inverting the relation
usually drawn between the oral and the written registers. The rhetoric
of my interlocutors attributed to the oral the foundation of the written. Indeed it was the narrative that created the document and not the
contrary. This construction revealed what Kilani considers a sort of
synecdoche turned upside down: the whole (the constructed speech)
represents the part (the document)33.
O preconceito de não ter preconceitos 34
As in the case of the Ilgonot studied by Rosaldo35, the events of
Frechal become intelligible overcoming the distinction between documents and natives’ point of view and comprehending how these
latter appropriated the documents.
In general the narrations of my interlocutors showed themselves
to be rather contradictory and incomplete. The concept of quilombo
itself was very little used by the community. Some, mainly the oldest, ignored its meaning, identifying it – like Durvalino – with the
land or – like Mauricio – with the unit of length (kilometre): “[Quilombo] is to divide the land [...] I am not able to explain it well. Inácio is the one who knows. He is more practical [...] The quilombo are
the divided lands [...] The quilombo are the hectares of land, the land
which he [the fazendeiro] took away.36 [...] The quilombo that I heard
of is the distance [...] From here to the other place there are so many
quilombos”37. In many peoples’ words there were no references to
the terms quilombo nor mocambo, addressing my requests of expladated 20/04/1834 and addressed to the Vice-President of the Province of Maranhão,
which explicitly mentioned a quilombo named Frechal.
33
Kilani 1992: 313.
34
“The preconception of not having preconceptions”. Translation by the author.
35
Rosaldo 1980: 37.
36
Durvalino Raimundo Nonato Carneiro “Doti” (1910-2001), 15.2.1996, tape n. 1,
notebook n. 1A, p.71.
37
Mauricio Martins Araujo, (1910-2002) 21.2.96, tape n. 2, notebook n. 3, p. 142.
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nations to Inácio, who was thought to know how to answer because
“he was always called to the reunions”38.
Regarding the origins of the quilombo the positions were also distinct. The majority did not know. Some maintained that the quilombo had preceded the fazenda and provoked its rise:
There were four pretos who came here. They made this mocambo [...]
From Africa. They came from there. From there they escaped and settled
here. These four pretos: they were... benguela... mandinga... and... and...
No. I forgot the other two names. Before I was remembering them... benguela... I forgot. If I remember them I’ll tell you. […] It was after they made
this mocambo that Torquato Cohelo da Souza came here. They were hidden
in the forest. Later they arrived and built the fazenda39. […] The mocambo
arose from another fazenda of Manuel: at that time he was the owner of
Pindobal as well. The beginning was like this: they escaped from the mocambo of Manuel Coelho de Souza and came here […]. From there the hunters came searching for fugitive slaves […]. They found that it was a place
of mocambo […]. And here they formed a fazenda.40
Various discourses underlined that the fugitives were in contact
with the slaves of the fazenda. Some said that they were working for
the fazenda during the day, returning to the quilombo at night:
When the pretos worked whipped by the whites, they would pick up the
beans or the rice at noon. At night they were always doing little escapes...
taking refuge... talking. They gave it the name quilombo. It is the same thing
of mucambo. They were doing that den and stayed there... talking. Then it
was time to go back to work... and immediately they were going back to
work... fighting... fighting”.41
38
Raimunda Silva “Mundica” (1943), 30.03.96, tape n. 13, notebook n. 16, p. 24.
Jovina Silva Gomes (1939), 29.3.96, tape n. 12, notebook n. 14, pp. 65-66.
40
Hélio Inácio Silva Ribeiro (1970), 24.2.96, tape n. 5, notebook n. 3, pp. 199-201.
41
Luís Fernando Cohelo Silva (1973), 3.3.96, tape 5, notebook n. 6, pp. 126-127 and pp.
158-160.
39
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85
Durvalino, connoting negatively the fugitives and not believing
they could be from Frechal, distinguished between the slaves of Frechal and those from Africa:
Some time they were going to the forest […]. In order not to work […].
And Zé Coelho sent people to catch them [...] The capitão42 from here went
to catch them […]. Those from Frechal did not escape […]. Those from here did not go to the forest. They accustomed to it. Only those brought from
Africa went to the forest […]. Those who escaped were the lazy slaves that
didn’t want to work. But those who were obedient came back […]. Those
from Frechal didn’t [escape]. They stayed in Frechal because they liked it.
They had animals, food, milk. They had a school... medicines.43
Actually some narrations were rich of remembrances emphasizing
the reality of slavery in a positive manner:
If we needed a bicycle the master bought it... and then we paid him
back. If we needed a hat, the master bought it... and then we paid him back.
In this way there were many workers obtaining many things: oxen, cows.
Like my grandparent. He was a man with 4 or 5 carts of oxen with 4 oxen
every cart […]. He used to work in the great sugar cane plantations. The cane, in general in this region it was half and half. Half to us and half to the
master […]. They gained money to go and buy things. They were called
pretos ricos […]. When it was harvest time the carts stopped there... the oxen carts... going in and out. There were many carts. I didn’t see this […].
All had oxen, cows, many pigs, many chickens, the cachaça at home to cure. Nobody bought sugar.44
Different stories asserted the harmonic life with the masters of the
past. One in particular – similar to some heard also in other black
communities – told of an owner who, having mortgaged the fazenda,
succeeded in discharging his debts and in saving his property, with
the help of the blacks. These increased their productivity and solved
42
Capitão do mato: term referring to the salve-hunters.
Durvalino Raimundo Nonato Carneiro “Doti” (1910-2001), 15.2.1996, tape n. 1,
notebook n. 1A, pp. 22-25 and p. 12.
44
José Silva Arauju (1930), 22.2.96, tape n. 2, notebook “A”, pp. 9-25.
43
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86
the emergency, receiving in exchange, part of the land. The versions
of this story, divergent for what concerns the historical period and
the identity of the protagonists, were various. For some persons the
central character of the event was Manuel Cohelo de Souza, the first
Lusitanian to arrive in the area and to found the fazenda Frechal in
179245. According to other versions it was José Junior Cohelo de
Souza, son of José and grandson of Manuel Cohelo de Souza, who
donated the land to the blacks in a period that should be dated between 1858 and his death (1894). In other discourses the main character
was Artur, José Junior’s son and last heir of the family, judge in the
province of Vitoria de Mearim and major of Guimarães from 1919 to
1922. Artur received the fazenda after his brother Francisco Sotero
(1871-1907), keeping it until his death (1922) when it passed to his
wife Raimunda Fernandez Bogea. She administered it for more than
thirty years before leaving it to her sister Zuleide who sold it to Adam Van Bulow, the last owner before Tomas de Melo Cruz, the protagonist of the conflict with the community46.
This story of a master living peacefully with the blacks was stressed in the accounts collected in Frechal. Indeed, I found in the archives that during the period of slavery Manuel Cohelo’s sons, Torquato
and José, worked with former slaves and with the Portuguese47. In
1852 they made a contract with the Portuguese crown to introduce
free men in the fazenda Frechal and later founded the Colonia S. Izabel, which in 1864 had 95 inhabitants (59 Portuguese and 33 Brazilians)48. An article in the local newspaper written on the occasion of
Torquato’s death, points out the good relations between the slaves
and the owner in this way:
He treated his slaves with much charity. These, in illnesses, received
from him consolation and cares that alleviated their sufferings. And not only
on unfortunate occasions, but also in times of health, he always sought to
45
Cohelo da Sousa 1974.
Cohelo da Sousa 1974.
47
The abolition of slavery in Brazil dates May 13, 1888.
48
Viveiros 1954: 305.
46
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nourish them in the best way. For this it is possible to say that in the area of
Guimarães there weren’t slaves treated so well. When they heard of the death of their good master, they could not keep back their tears for the pain
that afflicted them, and much weeping was done in his name.49
These narratives seemed to confirm Freyre’s myth of the bom
senhor that has characterized apologetically the studies on Brazilian
slavery50. These, representing the master as a benevolent friend of a
submissive and loyal slave, considered slavery as a form of release of
the blacks, taken from a cruel place and from the yoke of barbarous
masters and brought into an harmonic land and in more human living
conditions. Supported by the ideology of the democracia racial and
by the homologizing policies of abrazileiramento it brought to consider Brazil as a paradigmatic case of well-balanced racial relations.
According to these principles the blacks seduced by the idea of belonging to the system, adopted the same models created by the whites to discriminate them. Conformably, the dominated would have
refuted their own cultural roots, participating in the process of removal of a past which discriminated them and continued to do so51. Inserted in the colonial formation as labour-force devoid of their histories, their languages and their cultures, by policies founded on the division and the dispersion of the same group as a precaution against insurrections, they remained – as Bastide e Fernandes maintained – “historically neuter”52, unable to elaborate an alternative and contrastive
culture. In this way the blacks did not articulate an ethnic identity
capable of creating a counter-culture opposed to that of the white53.
The Abolition had then produced ‘free’ men who did not have any
49
Publicador Maranhense, São Luis, 9 novembro 1860. Translation by the author.
Freyre 1936.
51
Rodrigues 1932; Ramos 1943; Carneiro 1950; Bastide e Fernandes 1959; Fernandes
1965; Bastide 1971; Kilson 1975; Freitas 1980; Borges Pereira 1984; Berriel 1988;
Moura 1977 e 1988; Bacelar 1983; Fry 1982; Costa 1987; Carneiro da Cunha 1985;
Munanga 1986 e 1988; Consorte 1991.
52
Bastide e Fernandes 1959: 107
53
Moura 1988: 69. Translation by the author.
50
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88
physical or symbolic places within society from which to articulate an
adequate comprehension of the new situation created from the top. The
subsequent phagocytation of black culture, generically “folklorized”
inside the national culture as Afro-Brazilian, would have neutralized
the possibility of black mobilization on the basis of an identity dangerous qua antagonistic.
These arguments which I rather attributed to what Florestan Fernandes defined more correctly o preconceito de não ter preconceitos54 are totally inadequate to comprehend the violent Brazilian reality, racist and discriminatory. Above all they cannot explain the contradictions, dramatically expressed in Frechal in the narrations about
the hard racial discrimination:
It was a criminal form, a hard discrimination […]. Colour is racism. In
ancient times racism existed. It exists also today, among the people that do
not know the things. In Mirinzal the preto didn’t exist. The preto didn’t live
in Mirinzal and didn’t participate in anything... in the feasts. He didn’t go
there. He didn’t dance there […]. When you arrived to a feast and you were
preto... you could also be white with a very white skin but if you had the
curly hair you couldn’t take part. You were preto. They know the preto not
for the colour. But for the hair. […]. This hair, the curly hair... they are hair
of the blacks, of the negros. In this way the caboclos55 didn’t allow the pretos to participate in their feasts […]. They were spitting, they were giving
nasty looks. At that time the pretos for the caboclo were like poo-poo, shit
[…]. We used to wear a wig... with animal hair... we put a bowl on our head
that looked like hair... hair of white men […]. The caboclo considered the
black as a wild animal, as an irrational animal, that did not have any value,
because he was slave. He was discriminated, maltreated, whipped, sold, negotiated […]. They used a system for which he was worthless. He was a beast, poo-poo. When a negro passed, they criticized. They called him urubù
[vulture]. They said that we were all sorcerers, that we did the evil. They
54
Fernandes 1965: 25.
The term caboclo derives etymologically from kari’boka, a Tupi word whose meaning
is “deriving from the white”. In the modern Brazilian language it indicates the results of
the unions between whites and Indios. Today, especially in the North of the country, it
indicates also the unions between blacks and whites. According to Sansone (2003) it
represents the complete realization of the ideology of the democracia racial.
55
I quaderni del CREAM, 2006, V
89
talked like this because there were only pretos in Frechal and they thought
that from pretos only bad things can come, diabolical things. Also for the
victory against the fazendeiro they say that we are sorcerer. Because we kicked him out.56
The hierarchization of the differences through the negative consideration of the colour preto had produced, also in the discriminated subjects, what Cross calls anti-black feeling57, dominated by racist stigma:
At that time the negros were more hidden... because they were ashamed
to say they were negros […]. Before the struggle against Tomás […] it is
logical that they didn’t like to say ‘preto from Frechal’ […]. We are pretos
of ourselves […]. Because we didn’t do what we wanted. Up to humble
ourselves, our person. We are slaves of ourselves58. […] You see, when
they were discriminated, they weren’t persons who knew what they wanted.
They weren’t persons who knew to determine themselves. They had no education. When they had no education, they even thought this, for example:
‘Why was I born preto?’ […]. Some didn’t like this. They thought that the
word was discreditable. This lasted for a long time. […]. Previously the preto didn’t know that he was preto.59
These sentiments were reinforced by a cultural system which was
white-oriented, ignorant of the culture, the history and the role of the
pretos in the national development: “I see on television, in my school... people talk about the nice history of the white man. And they
talk about mine... which is ugly. And I am left with this in my head:
that I am preto, ugly, wretched. It is evident that I end up feeling ashamed”60.
56
Inácio de Jesus Ribeiro (1943), 05.05.96, tape n.5, notebook “C”, p. 35; 07.05.96, tape n.
6, notebook “D”, pp. 10-13 and pp. 27-29; 21.5.1996, tape n. 8, notebook n. 1B, pp.77-79
57
Cross 1995: 54.
58
Maria da Paz Santos Gomes “Cota” (1942), 22.05.96, tape 27, notebook n. 31, pp. 5356.
59
Inácio de Jesus Ribeiro (1943), 6.5.1996, tape n. 5, notebook “C”, pp. 84-85.
60
Hélio Inácio Silva Ribeiro (1970), 30.05.96, tape n. 31, notebook n. 38, pp. 4-5.
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Live history
The contradictions, the oblivions, the hesitations of the native’s
memory did not constitute a mere ignorance of their history. On the
contrary, they were constitutive elements of the memory as such,
points of view on the past and, above all, signs of the perspective of
the present. In this sense the past, in being comprehended, became
part of the present that originated it61. This did not mean to consign
the truth to the past, considered as a true history. Rather it meant to
consider the past as live history, according to the meaningful words
of Inácio:
Because for us it wasn’t dead. What they said in the past century. What
happened in the past century, during slavery, at the time of slavery... they
passed it from father to son, from son to grandson, from grandson to greatgrandchildren. And it is a thing that remained live, a thing that lived and until today is living. Hence for us, in our knowledge and in my way of thinking, it was a living historic history, an historic history that was a lesson for
us […]. It is for this that I say that it is a live history, historic [...] because it
was a history that came to strengthen us, that comes to strengthen us, that
came to support our struggle.62
In Frechal the reorganization of the historic memory was done
through chronological cuts and the selections of features considered
relevant in the contemporary perspective. The partial and often contradictory character of the informants’ narratives was well anchored
in the circumstances of the present and in the ideological patterns organizing them. These were flexible enough to incorporate and integrate new elements and divergent interpretations. The demands of
the structuring contemporary context determined the performance of
the ethno-genetic structure, its permanence and its changes.
Opposite to historical naturalism, the history told by the
community of Frechal, could not be considered as an entity fixed in
61
Lindstrom 1982; Kilani 1992.
Inácio de Jesus Ribeiro (1943), 21.4.1996, tape n. 1, notebook “A”, pp. 51-52; tape n.8,
notebook 1B, pp. 65-73.
62
I quaderni del CREAM, 2006, V
91
time, and having an ontological autonomy from the present and from
those who adopted it, granting its continuity and persistence. On the
one hand it was something constantly reinvented by the projective
imagination turned backwards63. On the other, the memory of the events was restructured and transformed into an account by the structuring processes of the narrative64. In this way tradition in being preserved was altered and, in being altered, was as well preserved.
Frechal’s history, like a myth, did not register a past to preserve,
but it was a selective account of it. History, like a myth, adapted the
past to the conditions of the present. As such it was not pure memory. Rather it consisted in a work on memory that, aiming pragmatically to convince, was grounded on the removal of any manipulation.
The natives’ memory, in the process of identity construction, often drew from the great reserve of the learned history deposited in
the documents. In accordance with their possibilities and through the
aid of the intellectuals and the activists, my informants combined the
events of the great history with local meanings. The universal history
was inside the local event and in turn, the local event took the form
and the pretensions of the great tradition, becoming itself universal
or national history. The main reference was to the figure of Zumbi
and to the quilombo of Palmares – in many ways the place of reappropriation of their own history and identity65.
The past, inserted in the present as political language and as
foundation myth, functioned as a model for reality and as an instru63
Hobsbawn and Ranger 1983; Hastrup 1985; Tonkin, Mc Donald and Chapman 1989;
Papi, 1994.
64
Ricoeur 1983.
65
This great concentration of slaves, localized between Algoas and Pernambuco, had a
centralized government, led by the historical figures of Ganga-Zumba and of Zumbi. The
Quilombo de Palmares already existed at the beginning of the 17th century, as it is possible to infer from the fact that the Governor Diego Botelho prepared, between 1602 and
1608, an expedition commanded by Bartolomeu Bezzerra against it. It grew during the
Dutch domination, when the war loosened the vigilance of the masters, reaching the
25,000 inhabitants before being destroyed by the military troops at the end of the 17th
century (Freitas 1984).
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ment to claim the ownership of the land. The inconsistencies of historical knowledge were thus recovered and used as strategic weapons to ground identity claims. It founded the right to property on
different trajectories, interwoven in often contradictory ways: the
quilombo, the ancient occupation of the land, the story of the mortgage and the harmonious use of natural resources.
Inversions
In the case of Frechal the problem of identity was understandable
as a problem of racial relations inside a discriminating social and political order. It expressed the pertinence of the members of the group,
overturning the negative identities produced by more powerful
groups. Identity could be comprehended as the symbolic inversion of
the characteristics of identification defined by the racist and slave
society66.
The terms negro or preto67 themselves had been transformed into
positive marks of identity. They passed through the enhancement of
the body:
I am proud to be preto. Satisfied with my colour. I take it upon myself
[…]. I shout it loud […]. Because we are negro, we are preto, we are coloured […]. In any cabocla family there is a negro, because they are more dark
than my son, who is yellow […]. My family likes the curly hair, my family
likes these plaits. At least I like it. My family likes the negro, all of the negro, everything. I like the preto from Bahia […]. They are negros with fine
skin, true negros, strong, with nice teeth. I adore them. Roberto, when I see
the negro on television, nobody knows how I feel. I feel... satisfied... I feel...
proud. I feel full of happiness. For me it is as such... it is like a starry sky. I
like negros. I don’t know whether it is because I very often go to the meetings, but I like negros a lot.68
66
Banton 1979; Seyeferth 1983; Balibar and Wallerstein 1990.
In Frechal the two terms were used as synonyms.
68
Jovina Silva Gomes (1939), 29.3.96, tape n. 12, notebook n. 14, pp. 108-109.
67
I quaderni del CREAM, 2006, V
93
The identity construction inserted itself in a praise of the cultural
qualities and in the redemption of slavery which, in its turn, passed
from being considered an element of shame to a factor of pride. The
emphasis on black identity was founded on a dignity linked to the
fight against discrimination. It was constructed inverting the negative
characteristics stigmatized by the slave society. As I discussed with
Hélio on different occasions, the articulation of identity implied an
appropriation of the experience of slavery:
Now I know the other side of the story […]. This came from me, starting
from some reflections with myself. And here I discovered this: ‘Am I alone
to think this way?’ Afterward the groups and the movements rose, discussing the question. There I started to free myself with truth […] ‘Do I consider myself as a slave? Wasn’t it the work of the slaves to make this country
called Brazil a rich country? Wasn’t it the slave to do all this? Did he contribute to the development of the entire country? Can’t I then be considered
as a hero?’ […]. Because if it exists a country built by the hands of the negros, then, we all are heroes […]. Why should I feel humiliated? No. I must
feel proud to have a country today, Brazil, built by my ancestors […].
People say that the preto is this... that he is a dunce. And you think that it is
not good. No. I say no. I thus started to feel proud with this, to discover
what these persons want me to go through... in order that I remain there, at
the bottom […]. So, let’s invert the matter. Today we thus consider the pretos the most important persons […]. I wanted to be preto. My head hesitated: now I accepted myself as preto; now I didn’t want to be preto. When I
didn’t want to be negro, it was the moment in which I lived afflicted... with
the other persons and with myself. In these moments I was asking myself:
‘Is it true or not? What people say. Why yes and why not?’ Afterwards I
started to learn and to think differently. My positive thought was that I was
negro, that I am negro, and I should be proud to be negro, not to be ashamed, that I should take my identity upon myself as a negro. Starting from
this moment, I began to criticize the friends that were ashamed to be preto
[…]. I thus started to study the books talking about the question of the negros. I started to study and to see that it was a history that wasn’t told by the
slave, but it was told by the white historians. I asked myself: ‘Was it the
slave who wrote this? Who did this? Was he preto? A new historian?’ I kept
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94
on asking myself. I asked questions at school: ‘Professor, who wrote this
book? […]. Was he a negro?’69
The appropriation of the term negro was part of the struggle for
the conquest of an economic basis on which to found subsistence
practices. Black identity, not passively endured but accepted with
pride, emerged as a main factor of cohesion and mobilization:
Identity in Frechal is to be of an origin of traditional race... negra. Traditional as rural workers, with their fishing, their breeding practices, their
struggle for their rights. From here we have become recognized persons,
interviewed persons, persons seen by the Brazilian population. And our identity means that we have […] a whole tradition of preto origin. The Negritude is the sign of the negros, of the pretos... Previously in Africa it wasn’t
called preto but negro... negro of Afro... negros from Africa... the Negritude
means preto, negro.... Negro from Africa... the race from Africa.70
Different from the Movimento Negro which supported an identity
policy founded on the term negro, the people from Frechal used the
terms preto and negro interchangeably. Above all they seemed to identify them with the socio-economic condition of the rural worker.
As Alfredo Wagner de Almeida maintained, “In the first reunions
with the people from Frechal, the leading categories were preto and
rural worker. The categories negro and quilombo weren’t prevalent.
The group, its identity, passed through the idea to be preto, pure opposition to the white, different from the discourse of the Movimento
Negro which wanted to use the word negro. Because preto is the colour”71.
The term quilombo as well, inverted its formal negative attribution
classifying crimes, and became a positive category of self-definition.
The narratives recovered the legal sense of the term, extending its ori69
Hélio Inácio Silva Ribeiro (1970), 30.5.96, tape n. 31, notebook n. 38, pp. 4-6; 24.2.96,
tape n. 5, notebook n. 4, pp.37-43.
70
Inácio de Jesus Ribeiro (1943), 06.05.96, tape n. 5, notebook “C”, p. 74.
71
Almeida de – a very active anthropologist in the first research phase in Frechal –
23.04.1996, tape n. 22, notebook n. 27, pp. 29-32.
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95
ginal meaning produced by the exterior representations of the dominant group which held the learned lexicon of the juridical culture.
The claim of quilombola identity was used as a lever to institutionalize a group produced by the colonialist and slave legislation. For the
same wide applicability it originally possessed, the legal definition
lent itself to be a useful instrument to consider quilombo any case of
flight and hence to prove the existence of the quilombo of Frechal.
The stigmas of the legal thought (disorder, indiscipline, marginality)
had been overturned and made positive.
The theoretical implications and the practical translations of the
concept invited to consider quilombo what was outside the system.
More correctly it referred to the periphery of the plantations and referred to economic activities considered marginal. The definition established a division: on the one side it put solitary places, uninhabited lands under the absolute dominion of nature, a synonym of wild,
criminal and undisciplined life; on the other it classified those situations in which the slave regime established productive unities, oriented by the principles of civilization ruling the sphere of the master
house.
Before the promulgation of the Constitution of 1988, nobody, comprehensibly, aimed to self-define himself or herself as quilombola. In
Africa because it meant capture and deportation. In Brazil because it
was a sign of criminality. This could explain the reticence and the
lack of self-definition in terms of quilombo by the rural black communities. It also clarified the social actors’ narratives on identity that
rather used the term terra de preto or comunidade negra rural:
The Article 68 came to give priority to the descendants, the remanescentes. It was from 1988 […]. Until then we did not know this article. What
made us know the article was the struggle against Tomás. […] The conflict
had a form which provided a juridical advisor who recognized us as descendants from slaves and as remanescentes do quilombo. Because there... Article 68 says that who lives in the land as remanescentes do quilombo has the
right that the state issues a definitive title. And we gained consciousness of
what was sustaining us together with the word that we used... that it was
I quaderni del CREAM, 2006, V
96
terras dos preto, land of slaves. And it became a stronger voice, our decision more guaranteed.72
The position of my interlocutors confirmed Paul Gilroy’s perspective according to which black identity doesn’t exist before political action, in a pre-political or a-political way73. The claim of quilombola identity functioned as lever to institutionalize a group produced by colonialist and slave legislations, whose conceptualizations
of the quilombos deliberately negated the slave system and placed
the quilombos at the margins of society. In Frechal the term quilombo, from formal negative category passed to be considered a positive
mark of self-definition:
For me, I became proud... more as quilombo. We are talking a lot of quilombo because the negros started to discover the importance of the identity
we have […]. Today the identity of quilombo is a nice thing, excellent […].
The quilombo is a new thing for me. I had already heard talks about it. But I
didn’t exactly know what a quilombo really was […]. Also because I had
my doubts on the matter.74
Actuality
The constitutive elements of the term quilombo thus comprehended the collective actions which deliberately negated the slave
system, placing its actors at the margins of society. They founded
themselves on the criminal classification of the escapes, seen as a
way to refuse and negate the domination of the monoculture. The
transition from slave to free worker did not only pass through the experience of the quilombo. The process of freedom from slavery
could comprehend an identity founded on the expression terras de
preto that could be constructed from the myth of the bom patrão who
72
Inácio de Jesus Ribeiro (1943), 24.5.1996, tape n. 10, notebook “F”, pp. 17-18.
Gilroy 1995.
74
Hélio Inácio Silva Ribeiro (1970), 24.2.96, tape n. 5, notebook n. 4, pp. 37-43.
73
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97
gave the land in a critical moment of the fazenda. This identity, implying the autonomy of the group vis à vis the dominion of the fazendeiro, contradicted anyway the dominion of the master and enunciated the formation of a free group that had known different situations, beside the experience of the quilombo: mainly the circumstance of the legacy and the capture and the return to the senzala near the
casa grande. What wasn’t conceived in the place where there was
the quilombo, it was obtained with the crisis of the power of the casa
grande: the independence which characterized the quilombo passed
to represent the sensala in a situation of economic crisis which reduced the coercive power of the great owners, forcing them to grant
concessions to the slaves in order to escape destruction75.
According to Wagner de Almeida, Frechal denoted the contemporary challenge of the rural black communities of the whole country:
The strong kinship relations, the exercise of endogamy and the practice
of the collective appropriation of the resources, proved the indivisibility of
the land, preventing its use as a commodity. The inhabitants of Frechal, aided by the abandonment of the land due to the bankruptcy of the old masters, giving continuity to the quilombo, created an economic system founded on practices different from the capitalist model.76
75
The fluctuation in prices of the primary products on the international market produced
the crisis of the productive system of the plantations. The cotton crisis, whose price –
starting form 1819 – fell on the world market and the consequences of the civil war in
the United States, caused a process of decay of the great land properties intensified in the
second half of the XIXth century. This was further pushed by the lack of agricultural
modernization, incapable to stand the competition with the United States (in which it was
diffused the use of machinery in the cotton industry) and by the impossibility of the sugar
cane cultivators to compete with the firms of the south of Brazil, which took benefit from
the State financing policies (privileging the South to the detriment of the North – Law
6/11/1875). The informal dismemberment of the great plantations, resulted in the formation of rural workers relatively free. They didn’t live enslaved onr immobilized in the
ancient productive units, but in a galaxy of little autonomous units, based on the family
work, on the cooperation among the different domestic groups and on the collective use
of the natural resources (Abranches 1822; Almeida de 1874 e 1989; Castro 1892; Ferreira
1913; Viveiros 1954; Lisboa 1972; Lima 1981; Oliveira 1984; Panini 1990).
76
Almeida de, 23.04.96, tape n. 22, notebook n. 27, p. 37.
I quaderni del CREAM, 2006, V
98
The autonomy of the productive process and the relative independence from the authority of an owner, saw the formation of a free
group which did not pay any rent for the land.
From these perspectives the concept of quilombo does not allow
for localizations. Rather it refers to the relations of production: the
quilombo is where the social actors produce autonomously creating
an economic and social system founded on the collective appropriation of the resources:
Now from our point of view we don’t have a geographical definition of
quilombo, nor we have a definition historically frozen […]. Because the
quilombo is not where this document indicates […]. This could be the
position of an archaeologist. But it is not ours. The archaeologist digs where
it [the quilombo] was. I am not worried about this. I worry about where the
social actors influenced by that situation are. If in that moment they deployed themselves very far and then were captured in the quilombo and
brought near the casa grande, the historical phenomenon taking place –
from our point of view was the aquilombolamento of the casa grande […].
Because the imperial troops withdrew the quilombos from their places.
They are not monuments […]. Frechal is a live thing. Everybody produces.
They are not monuments, they aren’t part of the artistic patrimony. They are
part of the productive life of the country […]. The quilombo was there,
where they stayed. They took it away from there and they brought it here.
Now they want to take it away from here and bring it there, saying that here
isn’t theirs, that the quilombo can only be in the forest. Before it wasn’t
theirs there, where there was the quilombo. Now it isn’t theirs here. […]
Now, if they were producing autonomously here, the quilombo was here
[…]. Even at one hundred meters from the casa grande, it is quilombo […].
The quilombo is not the sphinx, it is not a pyramid77. […]. It is not a frozen
social reality. […]. The quilombo expresses a whole of relations. Hence the
quilombo is where those that are producing and living this relation, selfdefining as such are.78
From this point of view the quilombo couldn’t be reduced to a
place. Rather it pointed to the relations of production: the quilombo
77
78
Almeida de, 23.04.1996, tape n. 22, notebook n. 27, pp. 53-55
Almeida de, 23.04.1996, tape n. 22, notebook n. 27, pp. 16-18
I quaderni del CREAM, 2006, V
99
was where the social actors autonomously produced, creating a social
and economic system founded on the collective appropriation of the
resources in opposition to the system of the plantations. The case of
Frechal became thus paradigmatic for the whole Movimento Negro:
Starting from the current social processes and from the localized reality,
designed as Frechal, we succeeded obtaining elements that could consolidate the concept of quilombo, transcending the archival documentation […]. A
new interpretive schema that shows the social situation designed with the
“open” concept of quilombo began to be elaborated […]. The idea of quilombo are the social relations: when the productive unit produces autonomously […]. Now, this is a problem that doesn’t concern only Frechal. This
is a problem concerning 400 or 500 communities in Brazil.79
Proceeding from its historical content, the term had thus been “resemanticized” in order to be applicable to the contemporary situations of the Afro-Brazilian population. The quilombos were seen not
only as a national manifestation of the fight against slavery, but as
true projects of a new political order. The quilombos became forms of
the collective desire of freedom, subversive and revolutionary. They
showed the pretos’ capacity for mobilization and organization of an
alternative society. Hence they were not interpreted as isolated survivals of the past to honour in the memory of the heroes that fought against slavery. Rather they were considered as nuclei of the contemporary resistance founded on the collective property of the land, and
as such, real counterpoints to the logic of the capitalist expansion in
the rural areas. This was the actuality of the term quilombo, transferred from its original juridical meaning of colonial matrix.
79
Almeida de, 23.04.96, tape n. 22, notebook n. 27, pp. 39-44.
I quaderni del CREAM, 2006, V
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I quaderni del CREAM, 2006, V
102
HASHEM SEDQAMIZ*
IL TEMPO DELLE COSE, IL TEMPO DEGLI UMANI:
PERCEZIONE DELLA TEMPORALITÀ E FORME DI VITA
A SHIRAZ
Questo saggio e quello che segue sono il prodotto di un lavoro di
elaborazione ed etnografia che Setrag Manoukian ed io abbiamo condotto insieme in diversi periodi e poi in modo sistematico nell’agosto e
settembre 2003 a Shiraz, una città di circa un milione e duecentomila
abitanti nel sud dell’Iran. Entrambi da anni interessati alla storia ed
alla vita sociale di questa città, discutendo abbiamo a poco a poco
compreso come una analisi delle cose ci avrebbe potuto aiutare a descrivere alcuni processi sociali che riteniamo particolarmente significativi per Shiraz ma anche per l’Iran e per altri luoghi. Etnografia e
analisi teorica si sono definite vicendevolmente nel corso delle conversazioni e della ricerca.
Invece di scrivere un unico saggio com’è d’uso, abbiamo deciso di
elaborare due scritti differenti anche se essi sono per intero il risultato
delle nostre discussioni ed etnografie. I due saggi sono complementari, nel senso che discutono di argomenti contigui e perseguono una
comune visione d’insieme. Il mio saggio, tradotto dal persiano da Setrag Manoukian, discute i cambiamenti avvenuti negli ultimi cinquant’anni nelle relazioni tra cose ed esseri umani, ed utilizza tale
cornice per descrivere relazioni interpersonali e percezione della temporalità. Il saggio di Setrag Manoukian descrive diversi aggregati di
cose ed esseri umani nello spazio domestico e mette in rilievo una par*
Università di Darab, Iran.
I quaderni del CREAM, 2006, V
103
ticolare modalità espressiva, l’esposizione, che a suo avviso è particolarmente rilevante nella costruzione della soggettività. Allo stesso
tempo i lettori noteranno anche gli interessi, le insistenze e le “passioni” di ciascuno di noi, tracce delle nostre infinite discussioni e del nostro continuo ed infaticabile confronto.
1. Le cose sono eterne
“Ieri sera la signora Ma‘suma Farajinejad ci ha mostrato alcune
stoviglie che ha ereditato dalla madre, dalla nonna e dalla bisnonna.
Sorur, la sua giovane nuora che era a fianco a me e Setrag Manoukian, le guardava con stupore ed ha detto: “Allora è proprio vero
quello che dicono gli anziani: la vita delle cose è più lunga di quella
degli esseri umani!”1.
Sì, le cose che noi abbiamo visto quella sera hanno vissuto molto
più a lungo dei loro proprietari. Alcune di queste hanno assistito alla
morte di tre generazioni ed ora la donna che le possiede ha circa sessant’anni. Quattro generazioni nella stessa famiglia hanno usato queste cose, ed è quindi corretto dire che la loro vita è più lunga di quella degli esseri umani. Ma non è così per tutte le cose. A Shiraz infatti, ci sono due punti di vista, due prospettive completamente differenti sulle cose. Secondo la prima, la vita delle cose è più lunga della
vita degli esseri umani: le cose sono eterne e l’essere umano è mortale. Secondo l’altra, le cose sono mortali e la vita degli esseri umani è
più lunga della vita delle cose. Questi due prospettive opposte corrispondono a due diverse generazioni di esseri umani e di cose che vivono oggi a Shiraz. I nonni e le nonne considerano le cose eterne,
mentre i più giovani considerano le cose come mortali. Questa differenza nel considerare le cose tra la generazione che è nata cinquanta,
sessanta o settant’anni fa e le generazioni nate dopo è legata per certi
versi alla differenza tra le cose di settant’anni fa e le cose di oggi. Si
può distinguere la vecchia generazione da quella giovane sulla base
1
Note del 18 Agosto 2003.
I quaderni del CREAM, 2006, V
104
della differenza che c’è tra la vecchia generazione di cose e quella
nuova.
La prospettiva che considera le cose eterne, ha fatto sì che gli anziani conservassero per sempre ogni cosa che capitava loro in mano,
eccetto il cibo, il combustibile ed altre materie di consumo. Il poeta
Mansur Ouji è nato a Shiraz nel 1938, ed è quindi uno degli uomini
della vecchia generazione. Nel 1972, a 34 anni, Ouji costruì una casa
a Shiraz nel quartiere Bagh-e Eram. Quando nel 2002, trentun’anni
dopo, Ouji dovette traslocare, visitai questa casa per l’ultima volta e
notai che gli oggetti e i mobili erano quelli che erano stati acquistati
nel 1972. Da quando aveva costruito la casa e fino al giorno del trasloco Ouji non aveva cambiato nulla. I mobili ed il tavolo da pranzo
del secondo piano erano gli stessi che Ouji aveva comprato 31 anni
prima: nella casa di Ouji ogni cosa era pulita ed a posto, ma vecchia
(qadimi). Al primo piano c’era un televisore di marca National con
mobile in legno a quattro porte, rimasto al suo posto nonostante non
venisse usato da molto tempo; c’erano anche una vecchia radio, un
ventilatore che aveva più di trent’anni, un vecchio registratore, mobili e sedie: tutte cose che erano state tra i primi acquisti che Ouji aveva fatto per la casa. Oltre a queste, c’era anche un gran numero di cose vecchie che Ouji aveva ricevuto in eredità da suo padre e che secondo lui risalivano a sette generazioni prima. Queste cose erano
conservate in una stanza la cui finestra dava sul vicolo dietro la casa
e la cui porta era sempre chiusa a chiave.
Negli anni in cui ho frequentato la casa di Ouji, mi sono chiesto
spesso cosa ci fosse in quella stanza. Vi erano conservate una gran
quantità di brocche (kuza), ceramiche, vecchie bottiglie di diverse
forme, bottiglioni (qaraba)2 e bauli di legno pieni di cose grandi e
piccole. Negli ultimi trent’anni Ouji non ha quasi mai usato le cose
imprigionate in questa stanza: sono cose che appartengono alla prima
parte della sua vita nella casa di suo padre. Ma queste erano le cose
che, anni prima, nella casa del padre, avevano trasmesso ad Ouji
l’idea che le cose erano eterne. Per questo quando nel 1972 Ouji co2
Contenitore di vetro di grandi dimensioni, di capienza attorno ai 10 litri in genere usato
per conservare succo di limone, di uva acerba e distillati d’erbe.
I quaderni del CREAM, 2006, V
105
minciò ad acquistare cose nuove come il televisore, il registratore, il
ventilatore ed i mobili, si comportò con questa nuova generazione di
cose come aveva imparato a fare con le cose eterne. Per la nuova generazione di esseri umani invece, dopo trentuno anni queste cose sono diventate vecchie (kuhna). Ma Ouji insisteva per conservarle.
Un giorno Ouji mi ha contattato e mi ha chiesto se lo aiutavo a fare il trasloco. Sono andato da lui. Dopo un’ora, è entrato il socio di
Ouji, un giovane di trentadue anni. Si erano messi d’accordo che il
giovane demolisse la casa di Ouji, costruisse al suo posto una palazzina di quattro piani e desse in cambio due appartamenti della palazzina ad Ouji. L’accordo prevedeva che durante la costruzione della
palazzina nuova Ouji andasse ad abitare in uno degli appartamenti di
proprietà del giovane socio. Per questo dovevamo portare le cose di
Ouji nell’appartamento del socio. Il giovane si dava da fare più di
tutti nel raccogliere oggetti e mobili.
Il grande televisore in legno National era nel soggiorno (mehmânkhâne) ed Ouji ha detto: “Prendete anche quello”, ma il giovane gli
ha risposto: “Signor Ouji, questo televisore ormai è vecchio e non
serve, se è possibile non portatelo” e Ouji, in tono serio ha ribadito:
“Bisogna portare il televisore!” ed è uscito dal soggiorno. Il giovane
mi ha guardato, e con un sorriso mi ha detto: “Non so perché il signor Ouji voglia questo televisore inutile... ”.
Forse il giovane si era stupito perché oggi ormai nessuno, neppure
Ouji, usa un televisore in bianco e nero di 30 anni fa. Quindi perché
Ouji insisteva per tenerlo? Le cose della casa del padre imprigionate
per trentuno anni in quella stanza – se non si rovinavano o si rompevano – potevano ancora essere utilizzate, anche se avevano vissuto
più di mille anni. Nel mondo della vecchia generazione, brocche, bacili, qaraba, taghâr3, e contenitori in vetro non perdevano il loro valore d’uso con il passare del tempo. Ouji aveva trascorso i primi
trent’anni della vita con questo tipo di cose e per questo aveva la
stessa prospettiva anche nei confronti delle cose della nuova generazione come il televisore, la radio, il frigorifero... ma queste cose, an3
Contenitore di ceramica grande, simile ad una pentola, in cui si conservano yogurt, latte
cagliato (dough) o concentrato di melograno.
I quaderni del CREAM, 2006, V
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che se non si rompono, passato un certo tempo, perdono il loro valore d’uso. Nella vecchia generazione il primo e fondamentale principio che regolava i rapporti tra gli esseri umani e le cose era la cura
nel custodire, conservare e mantenere intatte le cose. In questo modo
il periodo di vita di una cosa era connesso con il modo in cui gli esseri umani la maneggiavano e l’attenzione che vi ponevano. Se si
trattava con cura una cosa, questa veniva trasmessa da una generazione a quella dopo e le cose vivevano più dei loro proprietari. Benché una parte delle cose scomparissero per mancanza di cura o per
eventi fortuiti, una buona parte delle cose continuavano a vivere ed
erano gli esseri umani a considerarsi caduchi (fanapazir) rispetto alle
cose.
La vecchia generazione si interrogava spesso su come accettare la
mortalità (fanâpaziri), tema che ha infatti un particolare riscontro
nelle opere di Ouji. Dai primi lavori fino ad oggi, il poeta ha messo
in rilievo la brevità della vita umana. Nella poesia Racconto della nostra vita (Hekâyat-e zendegi-ye mâ) ha scritto:
Come è felice e breve
Il racconto della nostra vita:
Un bocciolo nel becco
di un colombo.
Un respiro.4
In questa poesia l’essere umano è paragonato ad un bocciolo e la
durata della vita umana è paragonata alla brevità della vita del bocciolo nel momento in cui un colombo lo strappa. In una poesia composta anni prima dal titolo Breve come un respiro (Kutâh mesl-e âh)
Ouji ha scritto:
Sotto questo cielo all’alba
noi orientali sempre
abbiamo intonato quest’inno
4
Ouji 2000: 78. In persiano la parola âh, con richiamo onomatopeico, significa “respiro”,
“sospiro” [NdT].
I quaderni del CREAM, 2006, V
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con una lama sulla gola:
“Sul prato verde
noi siamo farfalle,
la nostra vita
breve come un respiro”.5
La parola respiro non si riferisce solamente alla durata della vita
umana ma indica anche la tristezza del poeta per questa brevità. Ma
che cosa ha prodotto la nostalgia e l’ansia di Ouji per la brevità della
vita degli esseri umani paragonata alla lunghezza della vita delle cose? Ouji come misura la brevità della vita umana? Tempo fa l’ho
chiesto ad Ouji e mi ha risposto: “Guarda, una pietra vive mille anni,
diecimila anni. Ma l’essere umano, l’essere umano che cosa è?”. Così scrive nella poesia Iscrizione:
Il disegno dei cipressi sulla pietra,
I chiodi fioriti6 sulla porta,
Il motivo delle farfalle nell’ordito
– come durano a lungo
sull’antico tappeto.
Ma
La vita del fiore
La vita dell’uomo?7
La poesia presenta al lettore una scena in cui si contrappongono
diversi elementi. Da un parte tre immagini di cose eterne, dall’altra,
introdotte da “ma”, immagini di esseri mortali: in particolare la poesia contrappone il disegno del cipresso scolpito sulla pietra di una
tomba e l’essere umano. La comparazione tra il disegno del cipresso
sulla pietra della tomba e l’essere umano è espressione poetica del
reale confronto tra esseri umani e cose nel mondo in cui vive Ouji. Il
vecchio cimitero di Shiraz è pieno di tombe con sopra scolpito un ci5
Ouji 1989: 22.
Un tipo di chiodo con la capocchia a forma di semicerchio, spesso decorata, usata per
ornamento delle porte in legno delle case.
7
Ouji 1993: 30.
6
I quaderni del CREAM, 2006, V
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presso, mentre sotto vi sono sepolti esseri umani: alcuni di questi sono morti più di due secoli fa ma le pietre e i disegni sono ancora intatti. Ouji ha visto molte volte questo contrasto tra la pietra ed i morti. Egli e tutti gli esseri umani delle vecchie generazioni di Shiraz
non la vedevano solo al cimitero ma in ogni luogo, ogni giorno, nella
Shiraz di settanta, sessanta o cinquanta anni fa. La città era piena di
contrasti tra cose eterne ed esseri umani mortali, a casa, nel bazar,
per strada, in moschea... Con l’arrivo delle cose di nuova generazione, giorno per giorno diminuirono le occasioni in cui era possibile
paragonare concretamente esseri umani e cose. Ma in alcuni posti a
Shiraz, si possono ancora vedere scene di vita reale in cui c’è un forte contrasto tra i mortali e le cose eterne. Una sera della fine di settembre 2003, passavo per via Qa’ani Kohne ed ho notato la sartoria
per uomini Tayyebi. L’interno del negozio era diverso da tutte le altre sartorie che avevo visto: c’erano un vecchio tavolo, un vecchio
ferro da stiro, un vecchio ventilatore ed una vecchia macchina da cucire Singer che si azionava muovendo i piedi. Tutte queste cose erano di un’altra epoca, forse cinquanta o sessanta anni fa. Due uomini
stavano in piedi in mezzo a queste vecchie cose: uno era il sarto,
l’altro un cliente. Il vecchio sarto sembrava avere più di ottant’anni.
La cosa che mi colpì subito fu il contrasto tra il vecchio e la macchina da cucire Singer. La macchina da cucire Singer era rimasta sana e
bella più o meno come sessant’anni fa, mentre il vecchio, accanto a
quella, pareva consunto. Quella sera vedendo questo contrasto, ho
pensato che in quel negozio il tempo non passava per le cose, mentre
trascorreva per gli esseri umani.
Avevo avuto la stessa sensazione anni prima, entrando per la prima volta a casa del poeta Ouji. Quel giorno ebbi l’impressione che il
tempo si fosse fermato per le cose di casa sua e passasse solo per me
e per Ouji. Il pensiero che il “tempo è qualche cosa che passa” si
forma nella mente contemplando una scena in cui sembra che le cose
non muteranno mai fino alla fine dei tempi mentre gli esseri umani e
la natura vivente invecchiano. Forse il “desiderio di eternità” è stata
la prima reazione degli esseri umani alla sensazione del passaggio
del tempo. Ma come poteva l’essere umano rendersi immortale? La
religione e la mistica sono sempre state due vie fondamentali per la
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costruzione dell’immortalità degli esseri umani. Le religioni abramitiche temperano il desiderio di immortalità degli esseri umani con la
promessa del paradiso eterno, mentre la mistica irano-islamica lo acquieta con l’esortazione all’abbandono del sé e all’unione con Dio8.
Ouji come tutti gli shirazeni della vecchia generazione desidera
l’immortalità che è uno dei temi fondamentali delle sue liriche. Ha
affrontato il tema dell’eternità dell’essere umano per la prima volta
nella poesia Rose di Shiraz della raccolta Solitudini Terrestri:
All’apice dello stordimento
Era come se sapessi
Di rimanere vivo
Fino alla fine del mondo.9
Qualche tempo dopo aver composto questa poesia, in un altro libro dal titolo Poesie Corte come la vita (Sh‘erhâ yi be kutâhi-ye
‘omr) elaborò una prospettiva mistica innovativa per l’Iran dell’epoca. I temi centrali di questa mistica erano il ritorno degli esseri umani
alla natura e l’unione con l’essenza naturale. Nei primi componimenti su questo tema l’essere umano traspare in ogni elemento naturale.
Nella poesia Questo e quello (In va ân) così si esprime:
Questa terra!
Questo alto e brillante cielo!
Questo fieno!
Vento che soffia sulla tua nuca!
Dura e solida pietra!
Acqua, che scorre!
8
Accanto a religione e misticismo dall’antichità prese anche forma una via terrena: “la
sorgente dell’acqua della vita” situata in un luogo sconosciuto, faceva diventare immortale chiunque ne bevesse. Il profeta Khezr fu uno dei pochi a bere l’acqua di questa fonte.
Gli shirazeni della vecchia generazione credono ancora che se ci si sveglia il mattino prima del sorgere del sole e si bagna il vicolo di fronte a casa con l’acqua, Khezr possa passare di là. Ci sono perfino quelli che credono di averlo visto di fronte a casa loro. Per questo Khezr a Shiraz è stato ed è ancora per alcuni un segno di speranza per gli esseri umani
di fronte al passare del tempo ed alla mortalità.
9
Ouji 1992: 149.
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110
E quello che arriva al sorgere dell’alba dalla strada
È l’uomo
Sotto la luce della luna
La cavalla e il suo occhio nero
In coppia stanno di fronte alla strada
Finché arriva l’alba.10
In questa poesia la natura è un riflesso dell’esistenza degli esseri
umani. Ouji compose questa poesia il 28 marzo 1976 ma sette mesi
dopo, il 15 ottobre nella poesia Che voce felice (Çe Âvaz-e sabz i)
descrive un uomo che dentro un albero si è ricongiunto con la natura.
Due passeri sulla mia spalla
Che voce felice!
Ho preso il cesto
Il cesto che andava sull’acqua
E ho tolto la ceralacca
Che uva! Alta e matura!
Mi sono seduto e all’ombra con appetito e sete ho bevuto
Che uva! Fresca e dolce!
Matura
Matura
All’improvviso
come acqua che venga versata sul fuoco
uscí vapore dalla testa e dal corpo
... che ubriacatura!
(non rimase né un io né un noi)
e sulle mie spalle quest’epoca era felice
Quella corona di vecchie foglie
E all’orizzonte sorse un arco rosso
Non era sole quello
Né luna!
Che cosa era?
E cominciò a piovere...
10
Ouji 1989: 74-75.
I quaderni del CREAM, 2006, V
111
Non ero più quel fuoco assetato
ero fatto di terra, di terra, e di radici di terra
e sotto la pioggia
nudo dalla testa ai piedi
ero un albero pieno di foglie
preso nella sua danza
con due passeri sulle spalle.
Che voce felice... !11
In questa poesia la natura non è più un’immagine dell’esistenza
umana, ma al contrario è l’essere umano che si unisce con la natura e
diventa uno con essa. Ouji mostra solamente come l’essere umano si
ricongiunga con la natura e si trasformi in un essere naturale eterno.
Ma ventiquattro anni dopo nell’inverno 2000 nella poesia Quanto ha
affrontato il tema della metempsicosi e della rinascita, descrivendo la
trasformazione di ogni cosa in un’altra nel corso dell’esistenza:
Quanto
deve aver vissuto questa terra
prima che arrivi alla prima rosa?
E quanto tempo
Perché tu più bella dell’uccello del mattino possa cantare?
E quanto
Perché io mi innamori della tua voce e
Muoia
Per
Te
Io?
E quanto
Perché io diventi terra e giunga alla prima rosa
E quanto
Per arrivare a te uccello del mattino?12
Con questa poesia la mistica naturale di Ouji raggiunge la sua
piena formulazione. L’essenza è il risultato di un itinerario attraverso
11
12
Ouji 1989: 70-72.
Ouji 1993: 104.
I quaderni del CREAM, 2006, V
112
cui, con il trascorrere di tempi molto lunghi, ogni cosa si completa
trasformandosi in un’altra cosa. Allo stesso tempo c’è qui una concezione circolare secondo cui ogni cosa dopo essersi dissolta entra di
nuovo in quel lungo processo di trasformazione fino al momento in
cui non raggiunge di nuovo la sua prima essenza. Attraverso una
“mistica naturale” Ouji ha reso eterno l’uomo mortale. Ad oggi questo è stato l’ultimo tentativo degli esseri umani di vecchia generazione di Shiraz per raggiungere l’eternità, ma forse la comparsa della
nuova generazione di cose, la cui vita è più breve di quella degli esseri umani, soddisfa la sete di eternità.
2. Contenitori e contenuti
Si possono dividere le cose secondo diverse tipologie. Spesso la
gente di Shiraz distingue cose consumabili (masrafi) e cose non consumabili (gheir-e masrafi). Negli ultimi cinquant’anni il significato
di questa divisione è in parte cambiato; per la vecchia generazione di
shirazeni le cose consumabili erano cose la cui materia si consumava
con l’uso oppure si trasformava. Le cose consumabili erano principalmente materie prime come acqua, combustibile, gesso, pietra, legno, ferro, oro e così via. Le cose non consumabili invece erano cose
che dopo il loro uso non cambiavano nella materia o nella forma. La
vecchia generazione considerava un certo numero di queste ultime
come mezzi per utilizzare cose consumabili. Per questo, in genere,
una cosa consumabile ed una cosa non consumabile erano in relazione diretta tra loro, mentre ciascuna di queste da sola era senza valore
poiché non era possibile usarla.
Non tutte le cose consumabili e quelle non consumabili avevano
tra loro lo stesso tipo di relazione. Si possono enumerare diversi tipi
di relazioni, ed una delle principali era quella contenitore/contenuto:
la brocca (tong) e l’acqua, l’otre (kusa) ed il vino, la pentola ed il ci-
I quaderni del CREAM, 2006, V
113
bo, la stilografica e l’inchiostro, la pala e la terra, dulçe13 e l’acqua
etc. L’acqua e gli altri contenuti potevano essere usati solo se inseriti
in una cosa non consumabile ma d’altro canto l’acqua era una cosa
distinta dalla brocca: il contenitore era una cosa ed il contenuto
un’altra.
Il contenuto, l’acqua, era forse dipendente da qualcosa? Il contenuto era forse dipendente dalla brocca o da chi lo beveva? No,
l’acqua versata nella brocca era indipendente, poiché toccando il
fondo e le pareti della brocca acquisiva una forma. Quando l’acqua
toccava la brocca diventava indipendente dal mondo e perfino dalla
brocca: la brocca era il confine tra l’acqua ed il mondo. Per tutto il
tempo in cui l’acqua (contenuto) era nella brocca, era ospite del contenitore (brocca) e quando era stata bevuta diventava parte dell’esistenza dell’uomo e quindi non esisteva più come cosa. L’acqua nella
brocca era “ospite” poiché era stata versata nella brocca per essere
utilizzata come cosa indipendente per mezzo della brocca. Il contenitore (la brocca) era solo uno mezzo per il consumo del contenuto14.
L’acqua era una cosa indipendente, sebbene con un alto tasso di mortalità. Ma la brocca poteva essere dipendente poiché era stata costruita sostanzialmente per essere il mezzo per inghiottire il mondo: la relazione delle materie prime come l’acqua con gli esseri umani era
una relazione centrata sull’inghiottire. La brocca stava dalla stessa
parte dell’essere umano nella relazione con l’acqua. La brocca aiutava l’essere umano a consumare una parte di mondo. Cose simili alla
brocca aiutavano gli esseri umani a separare parti del mondo, a conservarle, a fargli cambiare forma e destinarle ad essere inghiottite. La
brocca come le altre cose non consumabili costituivano un sistema
completo insieme agli esseri umani. Le cose non consumabili e gli
13
Una sacca di cuoio di dimensioni piuttosto grandi che veniva costruita in varie misure e
poteva contenere circa 15 litri d’acqua. Era appoggiata a terra per mezzo di tre legni che
venivano utilizzati come sostegni.
14
Questo paragrafo come i successivi dialogano col saggio di Heidegger sulla cosa (Heidegger 1976), ma non sempre ne seguono l’argomentazione, distanziandosene per perseguire una linea analitica differente, volta per lo più ad offrire descrizioni orientate etnograficamente.
I quaderni del CREAM, 2006, V
114
esseri umani erano sempre dalla stessa parte, mentre le cose consumabili erano dalla parte opposta o di fronte.
Il rapporto tra cose non consumabili ed esseri umani era un rapporto che si può definire di amicizia, ma non paritario. Era un rapporto simile al rapporto tra aristocrazia e servi nell’Iran premoderno
o nel sistema feudale dell’Europa occidentale. Da un lato le cose non
consumabili aiutavano il loro proprietario ad inghiottire il mondo,
dall’altro il proprietario proteggeva la cosa. Per questo, riparare e
conservare le cose non consumabili era una delle preoccupazioni
principali della vita sociale della vecchia generazione. La vecchia
generazione di Shiraz quando deve descrivere qualcuno o enumerare
le qualità di una persona modello usa ancora l’espressione “che si
prende buona cura delle cose” (çi-negahdâri).
D’altra parte, allo stesso modo in cui il proprietario di una cosa
non consumabile la custodiva e ne garantiva l’eternità, la cosa non
consumabile completava il suo proprietario. Gli shirazeni della vecchia generazione, senza le loro cose non consumabili, si sentono assolutamente incompleti. Un giorno ero ospite di un architetto di Shiraz e qualcuno suonò alla porta. Uno dei figli uscí dalla stanza per
aprire la porta e dopo alcuni minuti tornò nella sala (mehmânkhâne).
Il padre gli chiese: “Chi era?” Il figlio fece il nome di uno dei vicini
ed il padre chiese che cosa volesse. Il figlio rispose: “Aveva bisogno
della carriola per la sua officina e glielo ho data”. Il padre si arrabbiò
molto e cominciò ad urlare contro il figlio: “Non dovevi dare la carriola al vicino, gli dovevi dire che non l’avevamo” ed il figlio replicò: “Ma dalla fessura della porta il vicino vedeva la carriola nel cortile, non potevo dirgli una bugia!”. Il padre disse: “Questi vicini si
danno parecchio da fare per prendere una cosa che vogliono, ma poi
sono pigri nel restituirla. Domani devi andare a riprenderti la carriola”, poi si voltò verso di me e disse: “Quelli sono gli strumenti del
mio lavoro, e i miei attrezzi sono parte della mia mano, se domani ne
ho bisogno cosa dovrei fare? Devo prenderli in prestito da qualcuno?” L’espressione “la cosa è parte della mano del suo padrone” si
sente ovunque a Shiraz, nelle case come nelle grandi officine e nei
piccoli laboratori.
I quaderni del CREAM, 2006, V
115
Secondo questa prospettiva allo stesso modo in cui il bastone
completa l’uomo zoppo, la cosa non consumabile completa l’essere
umano che vuole compiere un lavoro. Senza le cose non consumabili, soprattutto gli shirazeni di vecchia generazione, si sentono incompleti. Per questo nella vecchia Shiraz e tra le vecchie generazioni ci
trovavamo sempre di fronte ad un composto essere umano-cosa. Il
rapporto tra l’essere umano e la cosa non consumabile era di unità
permanente. Questi composti dovevano rimanere sempre uniti per
poter inghiottire il mondo. Mentre le cose consumabili venivano inghiottite da questi composti permanenti. È importante notare che il
consumo delle cose consumabili, dentro o per mezzo di cose non
consumabili (o contenitori), non causava la diminuzione della vita
delle cose non consumabili (o contenitori). La durata della vita delle
cose non consumabili era connessa con le modalità di utilizzo da parte degli uomini.
Ma da cinquant’anni a questa parte, una nuova generazione di cose con caratteristiche nuove, è stata gradualmente importata in Iran.
Una delle loro peculiarità è la combinazione continua di contenuto e
contenitore, di cose consumabili e cose non consumabili. Gli abitanti
di Shiraz per divertirsi hanno l’abitudine di recarsi nei giorni di festa
nei giardini o nei dintorni della città ed uno dei passatempi principali
in queste occasioni è quello di cucinare e poi mangiare cibi molto elaborati. Per questo devono portare con sé un fornello a gas. Che tipo
di fornello si portavano trent’anni fa e che tipo di fornello si portano
oggi? Uno dei primi giorni d’inverno del 2003 ero seduto nel negozio “Riparazioni di fornelli Eqbal” che si trova nella zona detta Goud
‘Araboun di fronte alla moschea di Nasir al-Molk. Arrivò un giovane
uomo di circa 35 anni, amico di Muhammad Eqbal proprietario del
negozio e gli disse: “Voglio un fornello da picnic (pic-nic)”, e indicando con la mano un piccolo fornelletto da picnic blue aggiunse:
“Voglio uno di questi modelli”. Muhammad Eqbal rispose: “Questo
modello non va bene per te” e l’uomo ribattè: “E perché?” Al che
Eqbal: “Perché la bombola di quel modello è usa e getta. La usi una
volta e il gas finisce, devi buttare via la bombola e devi comprare una
bombola nuova e montarla. Una capsula nuova costa 600 touman. Se
invece al posto di quel modello ti compri uno di questi vecchi modelI quaderni del CREAM, 2006, V
116
li, quando finisce il gas non devi comprare una bombola nuova: con
una spesa di 100 touman puoi ricaricarla”.
Il fornello da picnic che Muhammad Eqbal suggeriva al suo amico di comprare era un vecchio modello, da circa 35 anni sul mercato.
Questo vecchio modello è fatto di due parti: il fornello e il serbatoio
del gas. Il fornello deve restare acceso ininterrottamente tre giorni e
tre notti per consumare il gas nel serbatoio. In questi vecchi modelli,
lo svuotamento del serbatoio non causa la morte della bombola, si
consuma solo il gas; la quantità di gas nel serbatoio non ha effetto
sulla vita del fornello o del serbatoio. Invece, nel modello nuovo, arrivato sul mercato da circa 10 anni, la bombola del gas viene riempita dalla fabbrica che costruisce il fornello; quando finisce il gas finisce anche la vita del serbatoio e bisogna comprarne uno nuovo e
montarlo sul fornello. Nel nuovo modello quindi, la vita della bombola
dipende dalla vita del gas che è una materia consumabile. In questo
modo la bombola, una parte che nel vecchio modello era non consumabile, nel nuovo modello si è trasformata in cosa consumabile.
Forse questo cambiamento favorisce il produttore. Nei vecchi
modelli il produttore produceva un fornello da picnic e questo veniva
usato come fosse eterno. La durata del fornello, il fatto che le sue
parti non si consumassero, lo separava dal produttore. Soltanto la
produzione dei pezzi di ricambio connetteva la cosa eterna al produttore. Ma con la produzione dei nuovi modelli, ogni volta che il gas
del fornello finisce, il proprietario del fornello ha bisogno di un nuovo pezzo che la fabbrica produce. Per cui ogni fornello da picnic
prodotto offre la possibilità al produttore di produrre decine di bombole. Il guadagno nella produzione di ogni nuovo modello sta nella
produzione delle bombole usa e getta, poiché ciascun fornello implica la produzione di innumerevoli bombole.
Circa quarant’anni fa accadde qualcosa di simile al mezzo con cui
allora si usava scrivere. La signora Ma’sume Farajinejad, nata nel
1947, racconta che quando era bambina e andava a scuola usava una
stilografica a pompetta; all’estremità della penna c’era un serbatoio
di plastica con una pompetta che azionata caricava l’inchiostro. Samad Gholamzade che ora è un impiegato del tribunale ed è nato nel
1954 ed ha studiato nella scuola Sharqi nel vicolo Qavam, racconta:
I quaderni del CREAM, 2006, V
117
“Quando andavo a scuola i primi anni usavamo il pennino e l’inchiostro
e la penna stilografica. I pennini si potevano cambiare, a quei tempi c’era un
tipo di pennino chiamato Senatur, era un ottimo pennino ma mi riempivo
comunque sempre di inchiostro e i miei vestiti erano sempre sporchi, finché
un giorno ho sentito che i bambini raccontavano che era arrivata sul mercato
una cosa nuova che scriveva da sola senza bisogno di intingere il pennino
nell’inchiostro. Dicevano che si chiamava Bic, la penna a sfera Bic, e da
quando è arrivata la penna a sfera, siamo a posto (rohat shodim)”.
Prima che fosse inventata ed introdotta in Iran la penna a sfera,
c’era una netta separazione tra il pennino o la penna a stilografica,
cose non consumabili, e l’inchiostro, materia consumabile. Il pennino e la penna stilografica erano eterne, e l’inchiostro mortale. Il
grande poeta iraniano Mansur Ouji ha ancora i pennini e le stilografiche che usava quando andava a scuola. Quando le vecchie generazioni di Shiraz scrivevano con pennini e inchiostro, la durata della
vita del pennino non era direttamente connessa con il suo uso. Con lo
scrivere l’inchiostro prima diminuiva e poi terminava. Ma il pennino,
dopo aver scritto, rimaneva una cosa ed era sempre pronta a svolgere
il suo compito insieme all’essere umano. Quando invece si costruirono le penne a sfera, l’inchiostro divenne parte della cosa che compie
l’atto di scrivere. La combinazione dell’elemento consumabile con lo
strumento di consumo è una delle caratteristiche delle cose di nuova
generazione. Questo ha reso le nuove cose complete e indipendenti.
Le cose di vecchia generazione erano incomplete. Il pennino era incompleto: era necessario aggiungere l’inchiostro perché potesse scrivere. L’inchiostro non era una parte dell’essenza del pennino ma una
parte del sistema che espletava la funzione di scrivere. Ma la nuova
tecnologia fornisce all’utilizzatore cose complete e indipendenti in
cui contenitore e contenuto erano combinati insieme.
La combinazione di contenitore e contenuto ebbe come effetto la
produzione di cose complete al posto di cose essenzialmente incomplete. In questo modo la cosa completa come sistema unico prese il
posto di due cose. La penna a sfera, come sistema semplice, prese il
posto della stilografica e dell’inchiostro, due cose incomplete della
vecchia generazione. Da allora, le nuove generazioni si trovarono di
fronte un nuovo tipo di merce consumabile in cui l’essenza della coI quaderni del CREAM, 2006, V
118
sa è dipendente dal materiale consumabile che vi sta dentro. In effetti
ogni volta che due cose, una consumabile ed una non consumabile si
combinano insieme e nasce una nuova cosa, l’essenza della parte non
consumabile precedente diventa dipendente dal materiale consumabile, e la cosa nuova sarà una cosa consumabile. Prima quando si scriveva si consumava inchiostro ma la stilografica non si consumava.
Ma da quando l’inchiostro è diventato una parte inseparabile dell’essenza della cosa attraverso cui si scrive, quando finisce l’inchiostro
della penna a sfera, finisce anche la vita della penna a sfera e la penna a sfera muore. Una penna sfera il cui inchiostro sia finito non serve più a nulla. Quanto più scende il livello dell’inchiostro (materia
consumabile), tanto più si accorcia la sua vita. Se fate delle tacche da
uno a cento sul tubetto che contiene l’inchiostro della Bic, potete determinare con precisione la vita della penna a sfera. Se scrivete ininterrottamente, dopo alcune ore la vostra penna muore. Allora voi salutate per sempre il corpo della vostra penna a sfera e la buttate nella
spazzatura.
Il corpo della penna stilografica che la generazione precedente
usava per scrivere era eterno e non se ne poteva misurare la vita dal
punto di vista del consumo. Se si rompeva un pezzo, si poteva riparare. La cosa nuova, la penna a sfera, ha un corpo che si è animato in
virtù del materiale consumabile che vi è dentro. La nuova penna a
sfera è un corpo con l’anima. La combinazione di una cosa consumabile con una non consumabile ha reso la nuova cosa vicina agli
esseri che hanno un’anima. Queste cose, come gli esseri viventi, come gli esseri umani, hanno acquisito una vita. Ma c’è una differenza
fondamentale tra la vita di queste cose e quella degli esseri umani e
degli altri esseri viventi. Se scrivete in modo continuato e poi smettete di scrivere, fermate il tempo della vostra penna a sfera. Per esempio, se avete scritto fino alla tacca 20 che avete segnato sulla penna,
avete consumato due quinti della sua vita e vi restano ancora tre
quinti della vostra penna a sfera. La vita della penna a sfera dipende
dalla misura del tempo stabilito tra il materiale consumabile che vi è
dentro, la vostra voglia di usarla: ciò che fa muovere questa piccola
macchina è il tempo.
I quaderni del CREAM, 2006, V
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Senza che voi ve ne accorgiate, scrivendo e poi smettendo di scrivere state compiendo un’azione sacra. Questo tipo di azione competeva agli dei: il vostro potere nei confronti della penna a sfera è assoluto, simile a quello di un dio, mentre la penna a sfera ne è sprovvista. Il legame sacro che c’era prima tra Dio e essere umano, oggi, con
la nascita della nuova generazione di cose, si è stabilito tra l’essere
umano e le cose. Oggi la posizione degli esseri umani rispetto alle
cose è simile alla posizione di Dio che determinò il destino dei sette
dormienti. Un’antica storia cristiano-musulmana racconta di un gruppo di sette persone tra i primi fedeli cristiani all’epoca di Diocleziano
potente imperatore di Roma, che si nascosero in un caverna vicino
alla città di Efeso per paura delle torture dei soldati e chiesero a Dio
di proteggerli dalla malvagità dell’imperatore. Dio allora prese le loro vite o li addormentò profondamente e le guardie dell’imperatore
che li trovarono, chiusero la porta della grotta con un muro. Circa
duecento anni dopo, all’epoca dell’imperatore Teodosio (401-450
d.C.) qualcuno ruppe il muro e quelli si svegliarono dal sonno a causa della luce. Dopo che uno di loro si recò in città per raccogliere informazioni, compresero il loro destino: avevano dormito per decine
di anni per volere di Dio.
I sacerdoti e l’imperatore vollero portarli in città per edificare un
monumento in loro memoria, ma essi dissero: “Gesú ci ha svegliato
affinché voi vediate la resurrezione e crediate”15. Anche nel Corano
si fa riferimento al medesimo evento. Il Corano dopo aver raccontato
la storia nel versetto 21 della sura dei dormienti, afferma che la storia
viene narrata affinché gli uomini riconoscano come vera la promessa
di resurrezione nel giorno del giudizio. La storia ha diverse varianti
ma sia la tradizione cristiana sia quella musulmana la interpretano
come un monito per i fedeli che il tempo breve della vita degli esseri
umani è contenuto in un lungo tempo senza fine. Dio con la sua volontà assoluta può mettere in moto, fermare e far ripartire il tempo
breve ogni volta che vuole. Forse fino a cento anni fa era impossibile
per l’uomo immaginare di dominare il tempo, ma oggi, con la co15
Setari 1997: 7-10.
I quaderni del CREAM, 2006, V
120
struzione delle cose di nuova generazione gli esseri umani sono in
grado, senza che se ne rendano conto, di mettere in atto sulla vita
delle cose proprio quel potere che il Dio dei sette dormienti metteva
in atto sugli esseri umani. Ogni shirazeno che abbia a che fare con
una penna a sfera o con una cosa che è un composto di un contenitore e di un contenuto, interviene sul tempo della penna a sfera o della
cosa. L’estensione del tempo breve corrisponde al tempo lungo
dell’essere umano che utilizza la cosa, ed è questo utilizzatore che
ogni volta che vuole può mettere in moto o arrestare il tempo breve.
La durata del tempo lungo, in relazione agli esseri umani e alle
cose corrisponde al tempo della vita dell’essere umano ed il tempo
breve coincide con la mortalità delle cose. L’essere umano di vecchia
generazione di Shiraz, quando usava contenitori e contenuti si rapportava a due cose che avevano due dimensioni diverse del tempo. Il
contenitore viveva un tempo lungo ovvero il tempo sacro che dava
forma al mondo, e il contenuto viveva un tempo breve che galleggiava come una boa nel flusso del tempo lungo. Il tempo breve era il
tempo delle cose consumabili e degli esseri viventi del mondo. Usare
una cosa consumabile consisteva nell’inghiottire una parte della materia cruda del mondo. Gli esseri umani non avevano alcuna sensazione di potere sulla vita e sulla morte. In effetti essi venivano usati
nell’ambito della volontà degli dei. Ma da quando si combinano una
cosa consumabile ed una non consumabile, un contenitore ed un contenuto, l’essere umano, quando consuma il contenuto dentro la cosa,
è divenuto colui che mette gradualmente fine alla vita del corpo della
cosa che sta nelle sue mani o di fronte a lui. Quanto più diminuisce il
gas della bombola del fornelletto da picnic nuovo modello, tanto più
la bombola è vicina alla morte.
Oggi a differenza di cinque anni fa la maggior parte degli abitanti
di Shiraz beve acqua dalle bottiglie invece che dal rubinetto. Quando
si apre il tappo della bottiglia e si versa un poco di quell’acqua nel
bicchiere, quella parte di bottiglia che si svuota si trasforma in un
corpo morto poiché le nuove bottiglie e barattoli, al contrario della
brocca di cui discute Heidegger (1976), vengono riempite e svuotate
una sola volta. Invece le cose della vecchia generazione come la
brocca, si potevano riempire e svuotare di continuo, e “mondeggiaI quaderni del CREAM, 2006, V
121
vano”16. Per cui nel mondo della vecchia generazione in cui viveva
Heidegger, le cose non morivano, ma nel mondo in cui sono nate le
nuove generazioni di cose, le cose muoiono poiché l’acqua nella bottiglia è ciò che dà vita alla bottiglia. L’acqua entra nella bottiglia una
sola volta, ovvero entra in rapporto con il mondo una sola volta e si
trasforma in cosa utile. La nuova generazione di cose può mondeggiare solo una volta e quindi è mortale. Le nuove cose sono come gli
esseri umani creati dagli dei, ottengono la vita solo una volta. Le cose della nuova generazione hanno un tabù fondamentale: non si può
riempire due volte un barattolo di conserve o una bottiglia di acqua
minerale. Prima questo tabù non esisteva per cui le cose erano eterne.
Forse allora aveva ragione Heidegger, ma oggi la realtà è cambiata.
Come il sangue è la materia che dà vita all’essere umano, così
l’inchiostro dà vita alla penna a sfera, l’olio all’oliera, la vernice alla
latta di vernice, il profumo alla bottiglia di profumo, il veleno alla
bomboletta insetticida etc. Forse spingendo un poco il paragone, si
può dire che gli esseri umani combinando due cose, una eterna ed
una caduca, contenitore e contenuto, hanno potuto attribuire un corpo
ed un anima alle cose. Le cose nuove sono diventate simili agli esseri
viventi poiché più si consuma il materiale in esse contenuto, più perde valore la parte non consumabile utensile, finché alla fine la cosa
stessa muore. Dopo il consumo ci si trova di fronte al corpo morto
della cosa che non serve più a nulla poiché l’acqua e la bottiglia sono
entrambe parte della stessa materia. Prima l’acqua nella brocca non
moriva, veniva inghiottita e cambiava essenza. L’inchiostro nella
penna stilografica non moriva, ma per mezzo della scrittura cambiava essenza. Ma ora un barattolo di vernice o di profumo quando è
svuotato muore e dopo il consumo sta di fronte a noi ed è ancora un
barattolo di vernice, una bottiglietta di profumo, una bottiglia
d’acqua, ma morta. Prima, le cose non consumabili si combinavano
con gli esseri umani per inghiottire le cose consumabili, ma oggi gli
esseri umani quando ingoiano il mondo ammazzano una cosa: il suo
cadavere dopo l’omicidio viene abbandonato in qualche luogo. Oggi,
16
Heidegger 1976.
I quaderni del CREAM, 2006, V
122
quando gli esseri umani usano la maggior parte dei loro utensili, si
scatena una sorta di azione sadica nell’essere umano, il cui risultato
inevitabile è la combinazione di contenitore e contenuto.
3. Cose ed energia
Per fortuna le nonne di oggi conservano ancora in qualche angolo
delle loro case una gran parte delle cose e degli utensili di cucina di
quando erano giovani. Una sera sono riuscito a vedere un gran numero di cose ed utensili che la signora Ma‘sume Farajinejad aveva da
giovane. Come è ovvio queste cose non erano concentrate solo in cucina; alcune erano collocate come soprammobili nelle vetrine e nella
credenza (buffet). C’erano diversi tipi di recipienti in terracotta ed
altri di cristallo con più di cinquant’anni di vita. Una varietà di utensili di rame erano stati riposti in un ripostiglio sopra il bagno: pentole
grandi e piccole, una collezione di portavivande (majmu‘e)17, di scolapasta piccoli e grandi, diversi tipi di vassoi, bacili, assom18, padelle,
cucchiai, forchette e coltelli; mentre altri erano in una piccola stanza
al secondo piano della casa: bottiglioni ed altri tipi di bottiglie di vetro, brocche, pestelli di ottone, che a volte si usano ancora – ed in un
angolo del cortile un mortaio di pietra (jouqan)19. Tutte le cose che
vidi quella sera erano in buono stato e si potevano utilizzare, tuttavia,
a parte qualche eccezione, non vengono mai usate. Queste cose non
si usano per vari motivi, ma soprattutto perché la nuova generazione
di cose ha preso d’assalto la casa della signora Farajinejad: le cose
nuove svolgono i compiti che un tempo svolgevano le cose vecchie.
La signora ricorda che iniziò a poco a poco ad acquistare cose di
nuova generazione più o meno da quando nacque Fariba la sua se17
Vassoi di grandi dimensioni (diametro 50 cm.) con bordi, che erano usati per portare
piatti e ciotole di cibo nelle grandi cene o feste.
18
“Un mestolo con piccoli buchi e manico in varie misure per mescolare la zuppa il riso
o altro” (Khadish 2000: 18) [NdT].
19
Un mortaio di pietra grandi dimensioni a froma di cubo o parallelepipedo usato per
sminuzzare la carne o altri alimenti.
I quaderni del CREAM, 2006, V
123
conda figlia che ora ha 38 anni: giorno per giorno il loro numero aumentò. Nella nuova cucina della signora Farajinejad che ha via via
preso forma negli ultimi quarant’anni, si possono notare da una parte
vari tipi di stoviglie di porcellana, cristallo, acciaio e melamina e
dall’altra vari tipi di cose nuove come il frigorifero, il freezer, la cucina a gas, il tritacarne, lo spremiagrumi, il frullatore... Due grandi
cucine a gas ed un fornello singolo stanno a fianco a fianco e in fondo alla cucina c’è un altro fornello che non si usa. La signora Farajinejad ha commentato: “Sono due anni che si è rotto, ma nessuno
vuole portarlo a riparare, al posto di quello rotto, sono stata costretta
a comprare questo fornello nuovo”. In un altro angolo della cucina
c’è un frigorifero ed un freezer – la signora racconta: “Questa è la
seconda coppia di frigoriferi che ho comprato in quarant’anni, ma
sono diventati vecchi anche questi e non raffreddano più bene. Ho
deciso di venderli e comprare un grande freezer con porta orizzontale
e un nuovo frigorifero”. Tra i frigoriferi e gli armadi, in un altro angolo c’è una cosa grande coperta da un telo con sopra un vaso con
dei fiori finti. Quella grande cosa che ora è stata trasformata in un tavolo per il vaso da fiori era una lavatrice Kenwood che si è rotta
tempo fa; quelli dell’assistenza sono venuti più volte a casa per ripararla, ma poi si è rotta di nuovo. La signora Farajinejad ha aggiunto:
“Ho detto ai ragazzi di venderla, ma nessuno mi ascolta”. Nell’anticamera del bagno c’è una nuova lavatrice con cui si lavano i vestiti.
La signora Farajinejad ha ancora la maggior parte delle cose di
casa e di cucina di 50 anni fa ma non ha alcuna delle cose di nuova
generazione che entrarono quarant’anni fa in casa sua. Il primo frigorifero comprato quasi 40 anni fa si ruppe varie volte e dopo 15 anni
fu venduto al rigattiere (semsari)20. Al posto di quello furono comprati i due frigoriferi che ci sono ora. La signora ricorda che comprarono il primo televisore quando nacque Ahmad nel 1968. Circa tre o
quattro anni dopo l’acquisto, il televisore si ruppe e furono costretti a
venderlo ad un prezzo molto basso al rigattiere. Al posto di quel te20
Un tipo di negozio in cui vengono vendute ma piú spesso lasciate in deposito cose ed
utensili di cucina perché vecchie, rotte o perché il proprietario ha bisogno di soldi. Le
cose restano in negozio finché il negoziante non le vende.
I quaderni del CREAM, 2006, V
124
levisore ne comprarono un’altro che oggi non c’è in casa. Destino
simile ebbero il resto delle cose di nuova generazione. Nessuno degli
oggetti di nuova generazione che si vedono nella casa della signora
Farajinejad ha più di vent’anni. Perché nessuna delle cose di nuova
generazione ha vissuto più di venti anni?
C’e una differenza sostanziale tra la nuova generazione di cose e
la vecchia. La caratteristica principale delle cose di nuova generazione è di essere costituite di parti: ogni cosa di nuova generazione è un
sistema completo mentre ogni cosa della vecchia generazione, di solito si componeva di una o due parti separate. Per esempio, il bacile
(lagan) con cui si lavavano i vestiti era composto da un pezzo unico,
mentre la lavatrice è composta di decine di pezzi grandi e piccoli. Gli
abitanti di Shiraz della vecchia generazione lavavano i vestiti con il
bacile. Bacile ed essere umano insieme costituivano un sistema semplice. Il lavoro di tritare la carne che oggi fa il tritacarne, quarant’anni fa lo facevano esseri umani e mortaio. Le donne tritavano
la carne nel mortaio con un pestello di legno lungo circa cinquanta
centimetri. La signora Farajinejad ricorda che fino a circa quarant’anni fa era costretta a lavare tutti i vestiti del marito e dei bambini il cui numero aumentava. Era un lavoro molto faticoso, le facevano così male le mani che la notte non riusciva a dormire per il dolore; quando poi comprarono la lavatrice, il dolore alle mani cessò.
Quando la signora Farajinejad lavava vestiti, lei e il bacile costituivano un sistema completo in due parti e lei era la parte danneggiabile. Il bacile di rame per quanto vi si lavassero vestiti, non si danneggiava, mentre invece gli arti e la figura dell’essere umano si danneggiavano. Alla fine, con l’acquisto della lavatrice, il dolore e la
sofferenza ebbero fine. Ma dove sono ora dolore e sofferenza? Il dolore si è trasferito dall’essere umano alla dinamo e alle altre parti della lavatrice che hanno il compito di trasmettere il movimento dal motore al cestello. È importante notare che un gran numero di cose oggi
consumano energia al loro interno, mentre ciò non avveniva settanta
anni fa, se non con qualche eccezione. Durante il primo periodo di
vita della signora Farajinejad l’enegia si consumava dentro gli esseri
umani e gli animali. L’essere umano e l’animale trasformavano
I quaderni del CREAM, 2006, V
125
l’energia in lavoro ed usavano le cose come strumenti per compiere
il lavoro.
La signora Farajinejad che è nata nel quartiere Darvaze-ye Sa‘di
ed ha vissuto lì durante l’infanzia e la giovinezza, racconta: “Un poco fuori città, vicino al quartiere di Darvaze-ye Sa‘di, proprio dove
adesso c’è la scuola media Zohre Bonyanian c’era un campo coltivato chiamato Çab Haji Aqu21 dove si piantavano tipi diversi di verdure. C’era un grande pozzo che irrigava i campi e noi per giocare andavamo là. Per tirare fuori l’acqua del pozzo attaccavano una puleggia al pozzo e legavano un capo di una lunga fune alla puleggia e al
secchio e l’altro ad un cavallo. Il cavallo si moveva in linea retta: lo
spronavano dicendo ‘gov rou’, e tiravano fuori l’acqua dal pozzo con
il secchio”. La signora aggiunge che allora guardando il cavallo
bianco ed il suo padrone si era spesso preoccupata per il cavallo
bianco poiché dalla mattina presto fino a mezzogiorno lavorava senza posa...
Questo antico sistema di irrigazione era usato per in tutti i campi
attorno alla città e a volte anche in città. A Shiraz una parte di questo
sistema, detto gâvçe si può vedere ancora nella moschea Moshir e
nella moschea Nasir al-Molk. Queste due moschee sono state trasformate in luoghi turistici. Nella parte est della moschea Nasir alMolk in un grande seminterrato da cui si accede al vicolo ad est della
moschea, si trova un pozzo profondo otto piedi (zel’i) che all’epoca
della costruzione della moschea serviva per irrigare la grande piscina
d’acqua al centro del cortile. In questo sistema, l’energia si consumava all’interno del cavallo o della mucca e negli altri pezzi del sistema: il secchio, la puleggia, la fune, la piscina e i due pali di legno
posti sopra il pozzo. La mucca o il cavallo erano la parte più danneggiabile di questo sistema. Adesso non c’è più né mucca né sistema
gâvçe. Al loro posto hanno collegato una pompa elettrica per l’acqua.
Ogni giorno il custode della moschea lava il cortile con l’acqua che
viene pompata dal pozzo con la pompa elettrica. La signora Farajine21
Çab era il nome dei macelli fuori Shiraz. La parola çab è composta da çah (pozzo) e ab
(acqua). Vicino a Çab Haji Aqu e all’attuale ospedale Zanbiye c’era un altro macello
chiamato Çab Sarhab.
I quaderni del CREAM, 2006, V
126
jad si ricorda che quando aveva dodici anni, attaccarono una pompa
al pozzo di Çap Haji Aqu. Oggi nello stesso posto del Çap Haji Aqu
c’è il Parco Vali Asr. L’acqua che si usa in questo grande parco arriva per mezzo di una pompa elettrica. Ora non c’è più bisogno del cavallo e della mucca. La pompa funziona come un sistema completo
per tirare fuori l’acqua. Prima il lavoro veniva compiuto per mezzo
di esseri umani o animali, ma ora il lavoro viene compiuto per mezzo
di una cosa. La cosa nuova si è rivelata più danneggiabile delle cose
vecchie. Nel sistema gâvçe le cose erano eterne e la mucca o il cavallo erano mortali. Nella moschea Nasir al-Molk trascorsi 120 anni ci
sono ancora i due pali di legno verticali e quello orizzontale che costituivano l’asse della puleggia insieme alle due piccole piscine di
pietra che completavano il sistema gâvçe della moschea. Ma non c’è
traccia del motore della pompa elettrica di Çap Haji Aqu che fu montato più o meno 45 anni fa. La vita del motore della pompa è molto
breve poiché l’energia si consuma al suo interno e svolge il lavoro.
Per varie ragioni i motori delle pompe nuove sono più danneggiabili
delle cose del sistema gâvçe. Mansur Parvardinejad che è del quaritere
di Darvaze-ye Sa’di ed è tecnico che ripara pompe elettriche dice:
Le pompe meccaniche si inceppavano e si rompevano se non si metteva
l’olio nel motore al momento giusto. Ma nei motori elettrici di solito la
pompa si rompeva poiché si rompeva il cuscinetto (bell-bearing). Bisognava ingrassare (giris-kari) la pompa alcune volte all’anno. Ma poiché di solito nessuno lo faceva, il cuscinetto prima faceva rumore e poi grippava (gripaj): la corrente entra nel motore, ma poiché è bloccato brucia le candele e
smette di funzionare. Un’altra causa di rottura delle pompe è la corrente a
due fasi: le grandi pompe elettriche vanno con la corrente trifasica, quando
la corrente si indebolisce, il motore della pompa si brucia.
Mansur Parvardinejad è convinto che
“il periodo di vita di una pompa a motore elettrico o di una pompa ad acqua
con galleggiante, è legato all’intelligenza dei contadini. Alcuni bruciano la
loro pompa in tre mesi ed altri la bruciano in due anni. Dipende dal grado di
comprensione che il contadino proprietario della pompa ha del modo in cui
funziona il motore. Nei pozzi in cui è stata messa una pompa ad acqua con
galleggiante se l’acqua del pozzo si secca e la pompa è accesa e non viene
I quaderni del CREAM, 2006, V
127
spenta al momento opportuno, dopo alcuni minuti le turbine della pompa si
bloccano. Insomma la dinamo brucia e la pompa smette di funzionare”.
Nel sistema di irrigazione gâvçe la manutenzione o la mancanza
di manutenzione delle cose del sistema non aveva un grande effetto
sulla vita del sistema. Era necessario fare manutenzione alla mucca o
al cavallo. Ma nel sistema della pompa elettrica la manutenzione è
fondamentale poiché gli elementi dentro la cosa si consumano. Se
questa manutenzione non viene eseguita in modo corretto e per tempo, la vita della cosa sarà molto breve. Ma in ogni caso, che la manutenzione venga eseguita o no, la vita della cosa che consuma energia
è molto più breve della vita della cosa che non consuma energia.
Prima il danno era causato dallo spostamento di energia e dalla sua
trasformazione in lavoro nelle giunture, nei muscoli, ai tendini alle
ossa... degli esseri umani o degli animali. Ma oggi si rompono i cuscinetti, l’albero e decine di altre parti.
Questa situazione concerne anche le cose di casa. Una delle ragioni principali per cui le cose dentro casa non sono più eterne è che
l’energia è entrata in loro. Il primo frigorifero che la signora Farajinejad aveva comprato era un frigorifero di marca Arj. Dopo alcuni
anni di uso, un giorno si accorsero che la corrente era entrata nel contenitore del frigo e prendevano la scossa ogni volta che lo toccavano.
Lo vendettero in fretta e comprarono un altro frigorifero. Il primo televisore che comprarono si ruppe perché un giorno Ahmad che a
quell’epoca aveva quattro anni mise le mani nella brocca d’acqua che
stava sopra il televisore quando il televisore era acceso: l’acqua entrò
dentro ed all’improvviso il televisore fece dei rumori forti e poi si
spense. Lo vendettero al rigattiere. La lavatrice funzionò per vent’anni ma si ruppe una delle estremità del tubo di scarico dell’acqua e
poco dopo anche il cestello ed altri componenti, ed alla fine la signora Farajinejad la mise da parte ed al posto di quella comprò una nuova lavatrice. L’aspirapolvere, dopo aver funzionato per alcuni anni, si
continuava a spegnere poiché il motore si surriscaldava, per cui lo
vendettero e al suo posto comprarono un aspirapolvere AEG. Hanno
comprato più di quattro asciugacapelli, quando li usavano troppo il
loro motore si surriscaldava e bruciava...
I quaderni del CREAM, 2006, V
128
Ci confrontiamo con un insieme di cose che si rompono spesso;
tutte consumano energia al loro interno, e questo le ha trasformate in
esseri mortali. Nei sistemi della vecchia generazione il pezzo che
consumava energia era separato: si rovinava solo quella specifica
parte o quell’essere umano o animale. Per esempio nel vecchio sistema per lavare i vestiti, composto da un essere umano e da un bacile, l’essere umano dopo un po’ moriva ma il bacile rimaneva integro
e passava in eredità ai figli. In conclusione le cose in rapporto agli
uomini erano eterne e gli uomini erano mortali. Quando invece la
parte del sistema che consuma energia e quella che trasforma l’energia in lavoro si sono combinate con le parti che fanno funzione di
strumenti, la mortalità si estese a tutto il sistema e tutto il sistema divenne mortale. Questo cambiamento nell’essenza delle cose si traduce in un cambiamento del punto di vista degli esseri umani rispetto
alle cose. Le cose diventano mortali, perfino più caduche degli esseri
umani.
La signora Farajinejad negli ultimi trent’anni ha perso un frigorifero, una lavatrice, due televisori, un tritacarne, uno spremiagrumi,
un aspirapolvere, due frullatori, e quattro asciugacapelli... mentre il
mortaio di pietra che ha ricevuto in eredità dalla bisnonna giace in un
angolo del cortile della casa e tutte o la maggior parte delle cose del
primo periodo della sua vita vivono ancora. Con l’ingresso dell’energia nelle cose, le cose sono diventate più simili agli esseri viventi.
D’altro canto, la possibilità che una cosa compia un lavoro ha generato un cambiamento nel significato del lavoro degli esseri umani.
Quando la vecchia generazione di Shiraz era giovane lavoro significava consumo di energia nel corpo umano e compimento di una azione corporea, orientata alla costruzione di qualche cosa o allo svolgimento di un compito. Forse avevano ragione a pensarla così sul lavoro poiché fino a quando esseri umani o animali non consumavano
energia, il lavoro non era fatto.
Ma permettetemi di riflettere su come veniva svolto un lavoro
dall’inizio alla fine; per esempio, per un essere umano della vecchia
generazione in che modo avveniva il lavaggio dei vestiti? Primo sente il bisogno di lavare i vestiti, secondo, decide se farà questo lavoro
o no, terzo, ordina a sé o a un altro di lavare i vestiti. Quarto, cominI quaderni del CREAM, 2006, V
129
cia a lavare i vestiti. Tutte e quattro le fasi (bisogno, decisione, ordine, esecuzione) avvengono all’interno dell’essere umano e per mezzo
dell’essere umano. Ma ora la maggior parte delle volte il lavoro
dell’essere umano è ridotto a tre fasi, senso di bisogno, decisione e
ordine; tutte fasi organizzative. La fase di realizzazione del lavoro,
tocca alla cosa. Nella vecchia generazione le quattro fasi di solito
non spettavano tutte allo stesso essere umano. In genere le prime tre
fasi le compiva l’essere umano A e la fase di esecuzione ricadeva
sulla persona o animale B. In questo modo i rapporti umani si strutturavano tra l’essere umano A come ordinatore del lavoro e l’essere
umano B come esecutore. Questo rapporto, fuori dall’ambiente familiare e della casa, si traduceva nel dominio del datore sull’esecutore
poiché l’esecutore doveva dare il suo corpo al padrone per ottenere
denaro od altro in cambio. Ma in casa e nei rapporti famigliari la direzione della freccia del potere andava nella direzione opposta. In casa, il compito di eseguire tutti i lavori di casa ricadeva sulla madre.
Lei doveva preparare il cibo, lavare i vestiti e tenere la casa pulita e
calda. La madre per svolgere questi lavori aveva bisogno di vari attrezzi, per tritare la carne, per scopare, per lavare: il sistema per triturare la carne era configurato come mortaio-madre, quello per scopare
come scopa-madre, quello per lavare i vestiti, bacile-madre e così
via. Se un giorno la madre si ammalava tutto in casa andava a rotoli,
poiché la madre era il pezzo centrale ovvero il motore di tutti i sistemi della casa. Tutti i membri della famiglia, il marito, e i figli avevano bisogno dei servizi della madre/motore. La madre non riceveva
nessuna ricompensa per il lavoro che faceva per i figli, svolgeva questi compiti come un creditore generoso che non cercasse mai di incassare il suo credito; in cambio esercitava il suo potere per mezzo di
questo credito e del bisogno che marito e figli avevano di lei. La
morte della madre era un danno per la famiglia, non solo dal punto di
vista emotivo, ma anche perché causava turbamento, confusione e
faceva crollare tutti i sistemi operativi della casa. Per questo il padre
dei figli era costretto a sposarsi in fretta con un’altra donna. Nell’intervallo era possibile che una delle figlie, in genere la figlia più grande, prendesse temporaneamente il ruolo di pezzo centrale dei sistemi
della casa. Ancora oggi un uomo di Shiraz a cui muore la moglie, e
I quaderni del CREAM, 2006, V
130
che dopo un poco di tempo si risposa, spesso afferma: “Mi sono sposato perché [la nuova moglie] faccia da domestica ai miei figli” per
giustificare il secondo matrimonio che potrebbe apparire azione ingrata nei confronti della madre dei suoi figli. Perfino i membri della
famiglia, sia i figli sia le sorelle della donna deceduta, trattano la
nuova moglie come una domestica e la rendono poco partecipe delle
vicende familiari.
Il padre e gli altri membri della famiglia cercano così di esprimere
la sensazione che sia impossibile sostituire la madre. Ma con la nascita della nuova generazione di cose e l’ingresso di pezzi che consumano energia nelle cose, la madre non viene più considerata il
pezzo centrale dei sistemi della casa. Giorno per giorno il suo ruolo
come forza lavoro diminuisce e quindi cala anche il suo potere sulla
famiglia. Oggi la madre a casa cerca di imporre il suo potere prendendo decisioni e dando ordini sull’esecuzione dei lavori. In questo
modo la gestione ha sostituito la sua forza lavoro. Ma questo tipo di
dominio è molto più debole del potere delle madri della vecchia generazione di Shiraz, poiché queste ultime avevano sia la responsabilità che l’esecuzione del lavoro. Le madri della vecchia generazione
che hanno governato per metà della loro vita sulla casa con potere
assoluto, tentano ancora di istituire un legame con i figli, eseguendo
lavori che sono fuori dalla portata delle macchine: preparano sottaceti, cetrioli sotto sale, marmellate, sciroppi e portano questi cibi a casa
dei figli. Anche se non si può dire che le cose dominano tutte le persone della casa come la madre dominava i figli, non si può negare
che le cose nuove che consumano energia al loro interno sono state
in grado di distruggere il dominio di migliaia di anni della madre sulla famiglia iraniana.
Bibliografia
Heidegger, M. 1976, La Cosa, Saggi e Discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano,
Mursia.
I quaderni del CREAM, 2006, V
131
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Markaz.
I quaderni del CREAM, 2006, V
132
SETRAG MANOUKIAN
*
COSE DI CASA:
MODALITÀ DI ESPOSIZIONE E COSTRUZIONE DEI SESSI
A SHIRAZ
Questo articolo discute di cose ed umani a Shiraz1. Prendo il
“punto di vista delle cose” per esaminare una modalità espressiva che
chiamo esposizione, una componente importante della costruzione
della soggettività, a Shiraz ed altrove. L’analisi dell’esposizione permette di ripensare alcune dicotomie spesso presenti in studi sulla società e la cultura iraniana: pubblico/privato, superficiale/profondo,
visibile/nascosto ma anche donna/uomo. Invece di considerare questi
domini come un sistema stabile binario di referenze cercherò nelle
pagine che seguono di concettualizzarli come piani di significazione
congiunturali che acquisiscono forza e quindi capacità riproduttiva
attraverso l’incontro con particolari cose.
Per “cose” intendo le singole materialità che gli esseri umani incontrano nella loro esperienza attraverso i sensi. Scelgo di utilizzare
*
Università di Milano Bicocca.
Come scritto nella nota introduttiva, questo è un lavoro di collaborazione con Hashem Sedqamiz. Tuttavia queste pagine sono per molti versi il risultato di discussioni con Claudia Mattalucci per la preparazione dei nostri corsi di antropologia culturale sulle cose tenuti all’università di Milano Bicocca nella primavera del 2003: la
mia prospettiva teorica deve molto a questi scambi. Ho parlato a lungo di cose con
Domenico Copertino, Aurora Donzelli, Lucia Rodeghiero e le loro osservazioni mi
hanno fatto vedere cose nuove. Gli studenti che hanno frequentato il mio corso di
antropologia culturale nella primavera del 2003 mi hanno dato molti stimoli per pensare ed ho imparato molto sulle cose dalle loro etnografie. La ricerca etnografica si
basa su diversi anni di lavoro a Shiraz ed è stata condotta nell’agosto e settembre
2003 grazie a finanziamenti FARR dell’Università di Milano Bicocca. La traslitterazione del persiano è semplificata e adattata alla pronuncia italiana.
1
I quaderni del CREAM, 2006, V
133
la parola cosa, invece di oggetto, per due motivi. Primo, cosa, nella
sua vaghezza, è un termine più inclusivo e tocca una gran quantità di
ambiti disparati e singolari, dalle pietre ai telefoni cellulari. Le cose
non sono riducibili ad un’unica categoria, ma vanno considerate attraverso le loro classificazioni (pietre, telefoni cellulari) e le loro singolarità (una pietra, quella pietra). Secondo, con la parola cosa intendo prendere distanza da una visione dell’antropologia che tende a relegare le cose in secondo piano, concentrandosi su conversazioni astratte tra interlocutori in cui le cose compaiono solo come oggetti
del discorso, come veicoli o contenitori di significati: l’analisi della
costruzione della soggettività, oggetto privilegiato dell’antropologia
contemporanea, passa attraverso una descrizione delle modalità di
relazione e di costruzione del desiderio tra umani e cose2.
Da un lato si tratta di dare rilevanza alla materialità, intesa come
dimensione cruciale dei processi conoscitivi, in una visione che includa a pieno titolo la sensorialità e che parta da singole concretezze
che rompono e riconfigurano ad ogni piè sospinto l’esperienza conoscitiva3. Questa semiotica cosale considera la posizione delle cose in
particolari regimi di significazione, ma allo stesso tempo non tralascia gli effetti inaspettati che singole cose possono produrre. Si propone di tenere vivo il paradosso del “partito preso delle cose” così
come praticato dal poeta Francis Ponge (1979) che ha descritto una
goccia d’acqua o una sigaretta dal loro stesso punto di vista, per riflettere anche sull’inerzia ed opacità delle cose che ci circondano.
Allo stesso tempo, proprio una considerazione della materialità e
dell’inerzia delle cose rende possibile pensare la relazione tra esseri
umani e cose come costruita per concatenamenti, per aggregati misti
piuttosto che come un sistema di opposizione o di “attribuzione di
significato”. Come Mauss (2000) ha teorizzato, i confini tra cose ed
esseri umani sono tutt’altro che certi e l’analisi sociale incontra
inevitabilmente questi aggregati. Nelle parole di Bruno Latour
“Considerate delle cose avrete degli umani. Considerate degli umani,
2
Manoukian 2003.
Il riferimento generale è all’opera di Charles Sanders Peirce ed in particolare alla
categoria di “secondità”.
3
I quaderni del CREAM, 2006, V
134
derate delle cose avrete degli umani. Considerate degli umani, sarete
proprio per questo interessati alle cose”4.
Sebbene a prima vista questo approccio possa sembrare una celebrazione della reificazione, in effetti, proprio una considerazione etnografica dei concatenamenti di cose ed esseri umani persegue le riflessioni di Karl Marx (1970) sul feticismo delle merci nella società
capitalistica. Marx discute “il mistero” attraverso cui le cose, diventate merci, acquisiscono un’aura che le proietta in un diverso regime
di significazione, che in ultima analisi nasconde la fonte effettiva del
valore, il lavoro umano5. Il concetto di feticismo è stato decostruito
dal punto di vista storico-etnografico, ma l’analisi marxiana della
produzione del valore e del mistero delle merci continua a porre i
termini centrali della questione: come materialità ed umani vengono
a concatenarsi in particolari regimi di significazione che producono
sfruttamento e dominio?
Una lettura di Marx in questi termini non vede necessariamente il
“mistero” della merce come la dimensione nascosta che deve essere
rivelata e il cui svelamento produce una sostanziale trasformazione
nel rapporto con le cose. Il mistero è la dimensione latente, spettrale,
che operando nella logica del capitale genera una dinamica di desiderio tra cose ed umani al centro sia della produzione che del consumo.
Walter Benjamin, discutendo le particolari modalità attraverso cui
le merci osservavano dalle vetrine i passanti nella Parigi del diciannovesimo secolo, definiva questa dinamica “il sex appeal dell’inorganico”6. L’espressione è stata ripresa da Mario Perniola (1984) che
vede nel sex appeal dell’inorganico una sensibilità costruita per aggregati di cose ed esseri umani che egli definisce “cosale”. La sensibilità cosale per Perniola è una particolare costruzione del desiderio
orientata verso una sollecitazione intermittente e prolungata senza
una chiara direzionalità (sesso senza orgasmo) e come tale dislocata
4
Latour 1999:128.
Per una dettagliata discussione del feticismo marxiano che passa in rassegna interpretazioni semiotiche ed economiche cfr. Pietz 1985. Tra i recenti contributi sulla
questione del valore in antropologia, Graebner (2001) spicca per chiarezza e sintesi.
6
Benjamin 2000: 84.
5
I quaderni del CREAM, 2006, V
135
rispetto alla costituzione di un soggetto delimitato definitivamente
nello spazio e nel tempo. Cose ed umani si confonderebbero qui in
una zona indistinta che produce sensorialità e quindi emozioni, comportamenti, atteggiamenti.
Non si tratta semplicemente di “feticismo metodologico”, come
evocato da Appadurai (1986), ma di una prospettiva che possa esplorare il desiderio come dimensione centrale dell’esperienza umana e
quindi “cosale”. Questo desiderio, in quanto processo di produzione
di un certo “sentire”, è un concatenamento di cose ed esseri umani
continuamente attivo nella definizione delle traiettorie attraverso cui
prendono forma comportamenti ed pensieri. Tali concatenamenti giocano un ruolo centrale nella costruzione della sessualità e nella riproduzione dei rapporti di genere7: il desiderio fissa e riproduce particolari connessioni tra cose e sessi, tracciando linee di differenziazione
tra cose “da maschi” e cose “da femmine”, istituendo quella che si
potrebbe chiamare la divisione sessuale delle cose – e quindi degli
umani. Questa divisione è sostenuta dall’investimento immaginale nelle merci che nell’attuale fase di capitalismo globale è una delle traiettorie più solide e concrete di costruzione della soggettività8.
Anche in Iran negli ultimi cinquant’anni il capitalismo, inteso
come sistema di rapporti di produzione ma anche come regime di significazione, ha imposto i suoi ritmi di produzione, circolazione e
consumo e le cose si presentano agli esseri umani soprattutto sotto la
forma della merce9. L’articolazione del desiderio passa sempre di più
attraverso il consumo. Queste trasformazioni hanno avuto un impatto
notevole nell’uso e nell’accumulazione di cose. Anche se in termini
relativi e non assoluti, è possibile sostenere che le cose stanno assu-
7
Da questo punto di vista il saggio di Perniola appare particolarmente androcentrico
ma la sua chiave interpretativa può essere ripensata secondo altri termini, come cerco di fare più sotto.
8
Su desiderio e merci si veda ad esempio Haug (1986) e Miller (1998) per una etnografia del consumo che evidenzia le dinamiche di divisione sociale dei sessi. Per una
disucssione su cose e sesso cfr. Curtis (2004).
9
Di recente anche l’acqua è diventata una merce in Iran. Viene ora venduta in bottiglie di plastica da mezzo litro o da un litro e mezzo, con marche e prezzi differenti.
I quaderni del CREAM, 2006, V
136
mendo un’importanza sempre maggiore nella vita delle persone, nei
rapporti interpersonali, oltre che nell’economia.
L’Iran ed il paradigma binario
Un consolidato paradigma interpretativo a proposito dell’Iran
concepisce la vita sociale del paese e le sue rappresentazioni come
organizzate secondo un sistema binario articolato su due livelli differenti10. Secondo questa teorizzazione (che si ritrova, con varianti significative, nelle scienze sociali e nelle analisi letterarie) tanto le dinamiche sociali che le opere d’arte sarebbero strutturate in Iran su un
doppio livello, spesso tematizzato con le parole zâher e bâten. Queste due parole sono legate al mondo della mistica musulmana11 nel
quale si riferiscono a dimensioni differenti dell’esperienza religiosa,
una più esterna e superficiale (zâher), l’altra più profonda ed interiore (bâten). Nella mistica queste due dimensioni sono organizzate gerarchicamente ed implicano un approfondimento progressivo della
conoscenza del divino. Quando questo modello viene utilizzato in
modo interpretativo per “leggere” la realtà sociale iraniana, questi
due livelli sono stabili e paralleli: un livello superficiale, immediatamente visibile, pubblico ed accessibile ed uno profondo, nascosto,
implicito e difficile da discernere se non attraverso una particolare
familiarità o apprendistato con la situazione/persona in questione. I
due livelli sono visti come due sfere di azione separate che implicano
comportamenti e significazioni diverse, spesso in contrasto tra loro.
Ci sarebbe una discrasia, se non proprio schizofrenia, tra questi due
10
Non è questa la sede per ricostruire la genealogia di questo paradigma, diffuso
anche oggi tra orientalisti, media occidentali ma anche tra commentatori e pensatori
iraniani. Uno degli elementi centrali del discorso è il dispositivo di dissimulazione
(taqiya), teorizzato nelle tradizioni shiite. Tra gli altri, Arthur de Gobinau, il diplomatico ed orientalista francese teorizzatore della differenza razziale ha contribuito in
modo notevole con i suoi scritti allo sviluppo di questo modello interpretativo che
non è scollegato dalla più generica proiezione etnocentrica della “duplicità degli altri” (su questo si vedano ad esempio alcune delle riflessioni di Taussig 1999).
11
Chittick 1989.
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137
contesti e questo sarebbe uno dei problemi sociali più rilevanti dell’Iran contemporaneo. Da un lato una modalità pubblica e visibile,
dall’altro comportamenti nascosti. Una variante di questa interpretazione, che si trova spesso nella stampa e nei servizi televisivi europei
ed americani sull’Iran, vede all’opera una dinamica di controllo/rilascio, severità/sfrenatezza: severità di costumi nel pubblico, sfogo
liberatorio nel privato. Questa dinamica toccherebbe diverse sfere,
tra cui quella sessuale: alla proclamata censura pubblica su immagini
e corpi corrisponderebbe un accresciuto e sfrenato desiderio privato
– alla separazione dei sessi in pubblico, corrisponderebbe una accresciuta liceità nel chiuso delle case, nelle feste private, negli incontri
segreti. Spesso, anche se non sempre, il discorso articola il sistema
binario secondo l’asse del falso e del vero. La società iraniana appare
in un modo ma, in realtà, ovvero nel profondo, nel privato, nel segreto, è in altro modo: l’Iran dissimula.
Tale sistema binario non è disgiunto da un'altra linea interpretativa ricorrente per l’Iran e per altre società a maggioranza musulmana,
che demarca nettamente gli spazi fisici e concettuali in termini di
sesso: l’equazione pubblico=maschile/privato=femminile. Il pubblico
sarebbe il luogo del dominio incontrastato dell’uomo, mentre il privato sarebbe la sfera d’azione della donna. In termini spaziali, all’uomo tocca lo spazio della città, alla donna quello della casa. Diverse
antropologhe femministe hanno ormai da anni decostruito questo approccio, mettendo in discussione sia la presunta “passività” delle
donne che la fondatezza di tali distinzioni assiomatiche12.
Seguendo queste ed altre linee interpretative Afsaneh Najmabadi
(2005) ha evidenziato come la norma eterosessuale in Iran sia un
prodotto relativamente recente. Per la storica, tra la fine del diciannovesimo secolo e la prima metà del ventesimo, un processo di negazione e dislocazione ha “rimosso” la figura del giovane fanciullo imberbe, oggetto principale del desiderio nell’immaginario iraniano
preottocentesco. In congiunzione con lo sguardo europeo sull’Iran,
l’eterosessualità si sarebbe imposta allora come modello pubblico,
12
Si veda per una sintesi Abu-Lughod 1990.
I quaderni del CREAM, 2006, V
138
insieme ad una omosocialità senza sessualità: l’immagine normativa
della separazione pubblica tra uomini e donne sarebbe il frutto “moderno” del riposizionamento delle categorie sessuali. Come ha sottolineato Tavakoli (2001) la “donna” nel corso del ventesimo secolo in
Iran sarebbe stata immaginata come madre, sorella o sposa, immagine del corpo della nazione. Questa donna per Najmabadi diventa
l’oggetto del “matrimonio romantico” e di un discorso di emancipazione costruito sulla negazione dell’immagine della donna silenziosa
ed invisibile che l’orientalismo aveva proiettato sull’Iran. Così nasce
nel corso del ventesimo secolo una donna domestica e moderna, “emancipata” ma anche confinata in ambiti specifici (la casa, i prodotti
di bellezza, e così via)13.
Najmabadi insiste sulla doppia valenza emancipatoria e disciplinare di queste traiettorie che da un lato aprirono possibilità educative
e di vita nuove alle donne, dall’altro le disciplinarono in nuove configurazioni gerarchiche. La Repubblica islamica istituita dopo il 1979
ha ulteriormente demarcato questa norma, istituendo dei domini separati di omosocialità rinforzando così l’eterosessualità e rimuovendo
pratiche sessuali che non si conformano a questo bipolarismo.
Le cose ed i piani
Le indagini di Najmabadi ed altri autori insistono sulla necessità
di storicizzare il paradigma binario e di mostrare come tale doppio
livello non sia una caratteristica stabile della cultura iraniana ma
piuttosto il prodotto contingente di particolari traiettorie legate anche
all’incontro con l’Europa. Come cercherò di descrivere nelle pagine
seguenti, le cose partecipano alla riproduzione della norma eterosessuale, anzi sono uno dei poli produttivi attraverso i quali donne e
uomini diventano tali. Dal punto di vista delle cose però diventa anche evidente come tali processi riproduttivi siano associati alla continua reiterazione di determinate pratiche, piuttosto che ad un modello
13
Amin 2004.
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epocale assunto in modo normativo e quasi assoluto: non tanto quindi la norma eterosessuale come segno della modernità iraniana quanto una intermittente sensibilità cosale che produce particolari concatenamenti14. Le dinamiche cosali sono più fluide, spesso disperse:
riproducono eterosessualità ma in modo posizionale più che assolutamente disciplinare, non delimitano un soggetto univocamente desiderante ma orientano delle congiunture sensibili.
Il punto di vista delle cose evidenzia come piani interpretativi si
costruiscano in particolari incontri piuttosto che costituire una griglia
apriori. In questo modo è possibile pensare alla significazione come
ad un processo di differenziazione attraverso cui diversi piani acquisiscono consistenza, si sviluppano in specifiche congiunture ed a volte generano nuovi piani: tutti eventi in cui le cose incontrano gli umani producendo particolari traiettorie di soggettività15. I piani non
sono determinazioni apriori del significato sociale delle cose ma si
determinano in congiunzione con esse producendo qualità posizionali: una cosa non è pubblica o privata, evidente o segreta, lo diventa in
particolari e singolari momenti, innescando processi di differenziazione che a loro volta possono generare piani di consistenza paralleli,
intersecanti e così via. Prendendo il partito preso delle cose emerge
la posizionalità, il particolare concatenamento in cui una cosa si trova in un singolo evento. Questa posizionalità non è il risultato di una
struttura significante che determina il “significato” della cosa in relazione alla sua posizione. Ma piuttosto il prodotto contingente
dell’incontro di traiettorie diverse.
Al posto della visione che postula un paesaggio sociale in cui individui atomizzati si muovono tra piani diversi con dosi variabili di
schizofrenia, il punto di vista delle cose evidenzia la produzione
14
Si può ad esempio considerare il ruolo che le cose hanno nella poesia persiana
classica. Se, come argomenta Najmabadi, l’oggetto di desiderio in questa tradizione
poetica è per lo più un fanciullo imberbe, altrettanto rilevante è la cosalizzazione di
parti del corpo e la loro trasposizione in ambienti naturali o sociali, con transiti continui tra mondo delle cose e mondo degli umani: più che di “personificazione” del
mondo naturale come è stata spesso interpretata, si tratta a mio avviso della costruzione
di una sensibilità cosale, di aggregati di cose ed umani che producono desiderio.
15
Bateson 1972, Goffman 1974, Deleuze e Guattari 1980.
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140
congiunturale di particolari regimi di segni. La soggettività si va costruendo in queste traiettorie attraverso un processo di differenziazione tra esteriorità ed interiorità: quest’ultima è la risultante di connessioni di desiderio che operano attraverso la delimitazione di una
zona di intimità che diventa centro di irradiazione intenzionale. La
produzione di tale piano “interiore” passa già per la produzione di altri
piani più esterni (superficiali, pubblici etc.) che ne sono i correlati.
Anche la dimensione più specificamente spaziale dei piani risulta
riconfigurata: dal punto di vista delle cose è difficile parlare di uno
spazio pubblico ed uno privato ma si dovrà invece descrivere in quali
eventi una cosa diventa pubblica ed in quali circostanze privata.
Ciò non implica negare la forza normativa dei regimi di significazione. Da un lato ogni cosa è inserita in un regime di segni e contribuisce a strutturarlo. Dall’altro, ogni cosa, in circostanze particolari,
può essere sottratta a questa catena ed entrare in un altro regime di
segni16. Queste transizioni diventano particolarmente importanti perché sono momenti in cui la cosalità emerge con maggior pregnanza.
Le caratteristiche materiali della cosa hanno una grande rilevanza. Il
materiale delle cose è importante, così come la forma, la consistenza
ed i colori. Al limite, una cosa può anche uscire da ogni regime di
segni e rimanere una semplice cosa, silente ed inerte ma pur sempre
efficace17.
Cose di casa
A Shiraz, come nel resto dell’Iran, la casa ha oggi una importanza
fondamentale nella vita delle persone. Si trascorre in casa molto
tempo e si dedicano molte energie e soldi per la casa. Gran parte del16
Appadurai (1986) ha coniato per descrivere queste transizioni il termine “tournament of value”, che egli discute soprattutto dal punto di vista del mercato.
17
Queste osservazioni di Brown (2001) prendono le mosse anche dal testo di Heidegger sulla cosa: anche se ritengo tale riflessione cruciale, non sono troppo interessato a tipologizzarla in termini d’“epoca” moderna o di tecnica, e quindi preferisco
tenermene ad una certa distanza.
I quaderni del CREAM, 2006, V
141
la vita sociale avviene attraverso la casa. Le visite reciproche tra familiari, tra colleghi o tra amici sono una delle principali attività sociali informali in città. La casa è strettamente connessa con l’idea
stessa di vita familiare eterosessuale e quindi con la normalità e la
normatività18.
Attraverso la casa passano alcuni dei piani di differenziazione
della società iraniana. La divisione dei ruoli, l’identità sociale ma anche la costruzione del desiderio di donne e uomini sono per molti
versi connessi allo spazio domestico. Come accennato sopra, questa
è la risultante della traiettoria di costruzione della moderna eterosessualità normativa. Al pari di quanto fanno i media europei, il discorso maschile prevalente oggi a Shiraz assegna alla donna uno “spazio
proprio” più o meno autonomo all’interno della casa che la donna di
fatto controllerebbe, mentre all’uomo toccherebbero i rapporti con
l’esterno. Questo discorso è efficace e caratterizza per gran parte
l’azione sociale a Shiraz. Tuttavia, seppur dominante, non è una traiettoria esclusiva. Se si considerano le cose infatti, tale regime di significazione appare meno stabile e si evidenziano le congiunture in
cui viene prodotto.
Per comprendere quali siano alcuni degli effetti delle cose sulle
linee di differenziazione dei sessi è necessario accennare, seppur
molto in breve, alla configurazione dello spazio sociale nella casa19.
Quest’ultima è connessa con lo spazio disponibile ed ancor di più
con altre traiettorie, come la classe sociale e la religione. Le case costruite fino alla seconda guerra mondiale secondo quella che ora viene definita una modalità “tradizionale” (sonnati) – che si riferisce per
18
Le case dei celibi sono considerate come incomplete o fredde. Una delle principali
preoccupazioni di un ragazzo che vuole sposarsi è quella di trovare una casa (è infatti suo compito provvedere alla casa per la nuova coppia).
19
Oltre alla generale problematizzazione della stabilità della norma eterosessuale e
della sua proiezione sullo spazio, vi sono studi più circostanziati, come quello di
Kave Ehsani (2003) che collega la divisione sociale dei sessi alla pianificazione urbana nella sua analisi sulle “città-azienda” fondate dalla compagnia petrolifera prima
inglese e poi nazionale. Anche se tale storicizzazione non può essere estesa indebitamente al resto del paese essa mette in luce le componenti del processo di divisione
sessuale dello spazio anche in altre realtà urbane dell’Iran.
I quaderni del CREAM, 2006, V
142
lo più a case di ceti sociali medio alti – prevedevano una divisione
tra una parte della casa dedicata al ricevimento degli ospiti (detta biruni, “esterno”) ed una riservata alla vita dei familiari che vi abitavano, o di ospiti molto intimi (detta andaruni, “interno”). Questa divisione si è trasformata oggi per lo più in una divisione funzionale tra
diverse stanze della casa. In particolare per quello che qui ci interessa, c’è una stanza o area detta mehmânkhâne o salon, dove vengono
ricevuti gli ospiti, ed una detta hall dove invece sta la famiglia per
mangiare e/o guardare la televisione, magari con gli ospiti più intimi,
di solito membri della stessa famiglia (khânevade)20. Ad entrambi
questi spazi è contrapposta la cucina (âshpazkhâne), luogo della preparazione del cibo ma soprattutto luogo “interno” della casa per eccellenza, secondo gli uomini “dominio” della donna21.
Dal punto di vista delle cose, questa divisione spaziale è costantemente riconfigurata e la costruzione di spazi esclusivi si scioglie di
fronte ad una diversa traiettoria. Le cose hanno dei luoghi di stazionamento assegnato – le pentole stanno in cucina, il televisore nel
hall, il ventilatore nel salon – ma spesso transitano e si spostano da
un posto all’altro, in occasione di eventi particolari, di riorganizzazioni dello spazio o quando arrivano altre cose a sostituirle. Un ragazzo mi ha descritto così i transiti degli apparecchi televisivi tra i
diversi spazi nella casa paterna:
Avevamo un televisore Pars giallo, funzionava bene, un 17 pollici e stava nel salon. Poi è arrivato un Panasonic più grande nel salon ed il Pars è
20
I nomi salon e hall, come molti altri nelle pagine a seguire, indicano una connessione con l’Europa. Tuttavia, se dal punto di vista etimologico si può argomentare
una provenienza esterna di queste concettualizzazioni spaziali, non si può, se non in
termini molto generici, connettere la funzione di questi spazi con l’assunzione di
modelli europei.
21
La moda recente di costruire cucine o rinnovarle come spazi aperti piuttosto che
come stanze separate da una porta (uno stile chiamato opèn a Shiraz) viene spesso
criticato perché romperebbe tale divisione spaziale dei sessi. Le cucine opèn spesso
di fatto impongono alle donne lo spazio dell’eteronormatività anche laddove altrimenti esse potrebbero operare in autonomia, ovvero senza lo sguardo maschile normativo. A fini comparativi si veda la descrizione di Paola Sacchi dello spazio domestico nelle case dei beduini in Israele (Sacchi 2003).
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andato nel hall. Quando il Pars si è rotto, il Panasonic è andato nel hall ed è
stato preso un Pars da 29 pollici per il salon; poi c’è stata una inversione,
Panasonic è andato nel salon, forse perché non funziona, ed è stato messo lí
come soprammobile.
I movimenti dei televisori tra il salon, luogo della rappresentanza,
e la hall, luogo della socialità degli abitanti della casa e dell’uso continuato del televisore, evidenziano l’intreccio tra criteri di collocazione legati all’uso e criteri connessi con una modalità di espressione
che chiamo esposizione.
Esposizione
L’esposizione è un principio fondamentale nella vita delle cose a
Shiraz. Le cose vengono scelte, acquistate e disposte nella casa per
essere esposte. Esse si offrono agli sguardi accorti dei visitatori e si
fanno garanti della posizione sociale degli abitanti della casa, restituendo informazioni sulle possibilità economiche, sull’organizzazione della vita domestica, sulla pulizia e sull’ordine.
La modalità di esposizione si articola attraverso lo sguardo dell’alterità. Tutte le relazioni con le cose passano attraverso ciò che si
immagina che “gli altri” (digarân) pensino a proposito di queste cose. Gli altri è un soggetto impersonale, una opinione comune che
produce criteri di valutazione delle cose; si concretizza principalmente nel gruppo di parentela ma mantiene spesso una forte valenza di
neutrale anonimato che ne aumenta l’autorità. Lo sguardo degli altri
controlla e definisce le cose, attribuisce loro valore. È un sistema regolativo, che sancisce l’appropriatezza sociale delle cose e definisce
il loro ingresso in casa, la loro collocazione, i loro spostamenti e la
loro eventuale messa a riposo. Il televisore più grande e più costoso,
il Panasonic, deve stare nel salon (anche se viene usato più di rado ed
anche se, alla fine, non funziona più) perché può essere visto dagli
ospiti di riguardo.
La modalità di esposizione è una forza, un obbligo che spinge
all’acquisto, al mantenimento della cosa ed alla sua specifica collocazione nello spazio domestico. La forza dell’esposizione è strettaI quaderni del CREAM, 2006, V
144
mente connessa con la costruzione della necessità sociale di una determinata cosa. Come molti mi hanno raccontato, ci sono molte cose
che “bisogna” (buyad) avere, cose che sono necessarie ovvero considerate indispensabili per la casa e la cui assenza verrebbe interpretata
dallo sguardo dell’alterità come una grave mancanza.
La costruzione della necessità sociale delle cose è un intreccio di
traiettorie che toccano le dinamiche del mercato e quelle del posizionamento sociale. Ciò che “bisogna avere” ha una certa stabilità. Tuttavia ciò che “bisogna avere” è anche connesso con ciò che il mercato offre in un determinato momento. Si possono distinguere merci la
cui necessità sociale è stata già sancita dal mercato e dall’uso e merci
che invece vanno affermando la propria necessità sociale nel presente. Per quelle già socialmente necessarie sono molto importanti differenze nei modelli e nelle forme: data per scontata la necessità di possedere un thermos per il tè o un frigorifero, l’imperativo del “bisogna
avere” si concentra su particolari caratteristiche di forma o funzione
di tali cose, sulla marca, sulla provenienza (nazionale o d’importazione che è di maggiore prestigio). La necessità sociale di altre
merci è in via di consolidamento: sono innanzitutto cose tecnologiche come computer, cellulari o elettrodomestici, “novità” che appaiono dapprima superflue, e a volte socialmente sanzionate (come
nel caso del cellulare) e poi col passare del tempo acquisite e concatenate ad abitudini esistenziali che le trasformano in bisogni.
Queste dinamiche del mercato si intrecciano con una traiettoria
più strettamente socio-economica. Le cose necessarie dipendono dalle possibilità di acquisto; per gruppi sociali diversi le cose necessarie
sono diverse. La traiettoria socio-economica non è lineare. Il mercato
tende ad uniformare il desiderio delle merci; dalle case e dalle vetrine dei negozi le cose guardano tutti e strutturano la propria desiderabilità attraversando differenze di posizionamento sociale. Sono le
merci che producono la rappresentazione più visibile del posizionamento sociale ma lo fanno costruendo un sistema di referenza unico,
attraverso il quale viene misurata la collocazione sociale; il mercato
tende ad imporre la desiderabilità delle stesse cose per tutti – la diversificazione sociale avviene attraverso differenze nella qualità/-
I quaderni del CREAM, 2006, V
145
prezzo delle cose possedute (televisore più grande, stereo più potente, cellulare ultimo modello).
D’altro canto è bene sottolineare come a Shiraz esistano diversi
mercati non isomorfi, per cui certe merci ricoprono una importanza
ed una necessità particolare in certi mercati ma non in altri (considerando in ogni caso che questi mercati sono intercomunicanti). In modo schematico si può dire che esiste una distinzione città/campagna
ed una città alta/città bassa22. Queste distinzioni sono per certi versi
come basate sul potere d’acquisto ma sono soprattutto connesse a
differenti costruzioni di desiderio (un abitante di un villaggio che
viene a Shiraz per acquisti può spendere una grossa somma per qualche cosa che un abitante della città considera inutile, non desiderabile, come per esempio un cappello di quelli usati dai pastori transumanti).
Allo stesso modo è da rilevare che nonostante il potere di acquisto
determini in buona misura le concrete possibilità di acquisizione per
gruppi sociali diversi, è la necessità sociale di una cosa che orienta la
scelta della merce, non la disponibilità finanziaria: se una cosa è percepita come necessaria, essa deve essere acquistata. Anche se spesso,
come mostrerò più sotto, la necessità di una determinata cosa può essere messa in discussione, vi sono parecchie cose a cui è difficile sottrarsi e che in congiunture specifiche – costi quel che costi – è necessario mettere in casa per l’esposizione.
Oltre che attraverso la necessità della cosa, la forza dell’esposizione si sostiene attraverso una modalità di rapporto con le cose parallela all’esposizione, detta aberudari che Sedqamiz descrive come
la pratica di salvaguardia del proprio “onore” (âberu) attraverso l’uso
e la messa in mostra di cose23. Quando viene un ospite, mi dice Sed22
Bâlâ-ye shahr (città alta) e pâyin-e shahr (città bassa) sono espressioni che denotano una collocazione spaziale tra diversi quartieri della città ma anche una collocazione sociale di classe: la megalopoli di Tehran è organizzata socialmente dal sud
(città bassa) al nord (città alta, anche per maggiore altitudine). A Shiraz la divisione
è più frammentaria, segue sia l’asse sud/nord che quello est/ovest.
23
Non entro qui nell’analisi dell’“onore” a Shiraz o in Iran, d’altra parte nelle mie
descrizioni dell’esposizione si potrebbero reperire sotto mutate spoglie questioni che
appartenevano a dibattiti su quel tema, che io ho qui dislocato altrove.
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146
qamiz, si preparano e si espongono cose che nel quotidiano non si
usano. Ad esempio, se arrivano ospiti donne che possono avere accesso alla cucina, le cose subiscono spostamenti, vengono fuori strofinacci e pentole considerate più presentabili, mentre quelle che sono
usate quando non ci sono ospiti scompaiono nei recessi degli armadi.
In questo senso, l’esposizione è legata ad un comportamento esternalizzato e funzionalizzato allo sguardo dell’alterità. Poz dadan, che si
potrebbe tradurre con “darsi delle arie”, è l’azione che qualifica tale
posizionamento. Si tratta, dice Sedqamiz, di un processo, di una pratica di mantenimento che tende a mostrare di più di ciò che si ha
“normalmente”. Il servizio di piatti migliore fa la sua comparsa, ed in
cucina appaiono strofinacci più nuovi. Poz dadan implica esibire una
quotidianità parzialmente diversa da quella esperita in assenza di ospiti.
L’effetto di poz dadan e dei movimenti delle cose attraverso la
casa, è una percepita differenza tra lo stato delle cose “così come sono” nello spazio domestico ed una “messa in mostra” che non corrisponde a questo stato di cose. Ma, invece che dedurre una discrasia
tra due livelli (superficie e profondità), come menzionato sopra e
come tendono anche a fare quelli che potrebbero essere chiamati i
“critici sociali” a Shiraz, io vedo in questo una produzione di desiderio che ha effetto sia sugli umani che sulle cose. Ciò che si produce è
una particolare dinamica relazionale in cui alcune cose e alcuni umani costituiscono una linea espressiva, un modo per definirsi rispetto a
se stessi e agli altri. Non si tratta di un regime scisso, composto di un
livello superficiale, “finto” e di uno profondo più “vero”, di una immagine falsata della quotidianità prodotta per gli ospiti contrapposta
ad una quotidianità più reale. Piuttosto, questi due piani vengono
prodotti come modalità di relazione con se stessi e con gli altri: si costruiscono una “intimità” ed una correlata “esteriorità”, uno modo di
essere per se stessi ed i propri “intimi” ed un modo di essere per gli
“esterni”. Queste modalità relazionali non sono disgiunte dalle cose
attraverso cui si costituiscono; è infatti difficile disgiungere l’azione
di poz dadan dagli oggetti che coinvolge e che, a loro volta, sono
connessi con particolari pratiche (ospitare ma anche per esempio cucinare). Un servizio di piatti con bordi dorati e decorazioni floreali,
I quaderni del CREAM, 2006, V
147
circolando nel salon quando ci sono ospiti, effettua particolari relazioni tra gli umani, partecipa alla costruzione di un determinato piano e delle sue modalità di articolazione. Il servizio di piatti non è solo il veicolo materiale attraverso cui si trasmettono alcuni significati
ma un partecipante attivo nella definizione di relazioni, che, con la
sua presenza, riorienta le azioni degli umani. Il servizio di piatti costruisce l’evento secondo un certo regime di significazione che struttura i rapporti e le conversazioni. Allo stesso modo, gli strofinacci e
le pentole “buone” che compaiono in cucina contribuiscono a strutturare la persona sociale della donna ospitante – sono letteralmente
strumenti che lei utilizza per fare delle dichiarazioni su se stessa e,
nello stesso tempo, cose che dicono molto di lei e su di lei agli “altri”. Queste “esposizioni” hanno un carattere performativo poiché ciò
che conta è l’esposizione e non tanto l’effettiva presenza quotidiana
di certi strofinacci piuttosto che altri. La costruzione di dicotomie
quali esterno/interno o visibile/invisibile non dipende da una spazialità precostruita né è indipendente dalle qualità materiali delle cose in
gioco.
Queste dinamiche cosali sono nella pratica ciò che ad esempio
differenzia e specifica i legami di parentela: le linee di demarcazione
tra i componenti della famiglia che abitano nella stessa casa (oggi
sempre più nucleare: madre-padre-figli), i familiari di primo grado in
linea verticale ed orizzontale (quella che è chiamata khânevâde) e il
resto della parentela (qoum-o-khish) sono definite dall’uso di certe
stoviglie secondo i criteri dell’esposizione, e tale uso non ricalca
semplicemente i legami in quanto tali ma spesso li riconfigura e riposiziona a seconda di specifiche congiunture; un servizio da tè particolarmente delicato instaura rispetto ma anche distanza mentre un bicchiere sbeccato produce “intimità”. Allo stesso modo quando si vuole costruire intimità con persone che non appartengono alla cerchia
dei parenti compaiono cose quotidiane.
La pratica dell’esposizione concerne sia gli uomini che le donne
di casa e in modo cruciale la relazione marito/moglie. La scelta,
l’acquisto e la disposizione delle cose in casa è materia di costante
discussione e l’organizzazione dello spazio domestico occupa una
parte importante nel rapporto di coppia. Anche se a Shiraz l’affetI quaderni del CREAM, 2006, V
148
tività della coppia non passa solo per le cose, come per esempio invece avviene nel romanzo Le cose di George Perec (1966), le questioni intorno alle cose sono cruciali nella strutturazione del rapporto
e della soggettività del marito e della moglie. Secondo il discorso
maschile accennato sopra, è la donna ad essere responsabile delle cose di casa e senza dubbio, come descrivo più sotto, la concatenazione
tra cose ed esseri umani da questo punto di vista è particolarmente
intensa per quanto riguarda le ragazze/donne24. Per molti versi le
donne hanno un rapporto privilegiato con le cose di casa. Tuttavia,
anche i mariti sono parte importante di dinamiche cosali. Da un lato
delegano la gestione dello spazio domestico e l’esposizione delle cose alla moglie, dall’altro utilizzano l’esposizione per sostenere la
propria posizione sociale, le proprie capacità e, soprattutto, le “qualità” della propria moglie – vista come una protesi della propria rispettabilità – incorporate nelle cose messe in mostra. I mariti quindi più
che essere estranei alle cose, proiettano sulle proprie mogli la responsabilità della loro amministrazione per poi ricavarne i frutti. La
costruzione della differenza valoriale di genere si effettua nella produzione di ruoli e responsabilità e nella costruzione di concatenamenti di cose ed umani.
In questa dinamica ha grande rilevanza l’aspetto economico, la
quantità di soldi che viene investita nell’acquisto e nel mantenimento
delle cose di casa. Di solito l’acquisto delle cose di casa (soprattutto
se si tratta di vetri, vasellame o utensili per la cucina) è compito della
moglie, che gestisce soldi che il marito le fornisce per le spese di casa (cibo compreso, anche se molto spesso sono i mariti che fanno la
spesa). Non è raro che la moglie disponga anche di soldi propri che
non entrano direttamente nell’economia domestica e che essa può
decidere di utilizzare per acquisti per la casa o invece destinare a
24
In Iran esiste una distinzione sessuale netta tra il termine dukhtar ragazza e zan
donna. Questa distinzione è effettuata da traiettorie cosali attorno al matrimonio come descrivo più sotto.
I quaderni del CREAM, 2006, V
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spese più personali o investimenti25. Per spese più rilevanti (elettrodomestici, tappeti, mobili) spesso marito e moglie prendono decisioni in comune. La quantità di soldi che viene spesa per tutti questi acquisti è materia di discussione ed è difficile fare generalizzazioni data la varietà di soluzioni che dipendono da una serie di elementi come l’impiego lavorativo dei diversi componenti, il reddito complessivo ma anche le diverse pratiche di gestione ed acquisto. Le tensioni
spesso concernono la quantità di soldi da spendere per una determinata cosa e la ripartizione delle spese. È capitato più volte che giovani mariti mi abbiano raccontato della pressione che le mogli esercitano su di loro perché investano di più in cose per la casa. Questi mariti vedono gli investimenti come parte della dinamica dell’esposizione: le mogli formulerebbero sempre più richieste di “cose necessarie”, in competizione con altre donne del gruppo famigliare, con i vicini di casa e più in generale con tutti coloro con cui si intrattengono
rapporti. Visite in altre case, dicono i mariti, spesso risultano in un
aumento delle richieste: secondo questi uomini, se una moglie vede a
casa di qualcuno qualche cosa che non ha, è facile che chieda al marito di comprarla.
Discutendo di cose, diversi uomini a Shiraz mi hanno fatto notare
la forte discrasia che esiste tra la presenza delle cose in casa e la loro
funzionalità. Prendendo in considerazione un vasto spettro di cose,
dai servizi di piatti ai comodini ed il letto, queste persone hanno
messo in evidenza come le case siano piene di cose che non vengono
usate ma che sono “necessarie” e che richiedono onerosi investimenti. Un giovane appena sposato ma senza figli che lavora nel bazaar
per esempio si lamentava con me dell’inutilità dei mobili e del lettino
per il bambino, sostenendo che di solito i bambini dormono per terra
(come del resto i genitori) ma “guai!” (vayi) se non si ha in casa un
lettino.
Queste posizioni critiche nei confronti del regime di esposizione,
in nome di una sorta di utilitarismo, sono parte del discorso maschile
25
Le donne spesso hanno somme di denaro (ottenute per eredità o per guadagno)
che gestiscono “indipendentemente” dal marito al quale, eventualmente, possono
prestarle.
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di cosalizzazione delle donne. Secondo questi commentatori sono le
donne che richiedono la presenza di certe cose in casa, che sostengono la “necessità” di cose che invece sarebbero inutili, che chiedono
continuamente soldi ai mariti. Gli uomini, altrettanto coinvolti nelle
dinamiche cosali, proiettano sulle donne il desiderio costruendo per
sé uno spazio differenziale di distanza da queste dinamiche, che partecipa alla riproduzione della norma eterosessuale e della divisione
dei ruoli ad essa connessa.
La cosalizzazione della donna, la sua costruzione come soggetto
di desiderio e di mercato avviene anche attraverso le dinamiche della
parentela. I parenti della moglie e i parenti del marito, soprattutto le
donne, giocano un ruolo molto importante. Ho già accennato alla costruzione dell’intimità ed esteriorità per i differenti gradi di parentela
e tale dinamica va intesa anche costitutiva dell’interiorità ed esteriorità della moglie e del marito. Anche se la coppia opera in autonomia, lo “sguardo degli altri” della parentela pesa notevolmente sulle
scelte che concernono le cose e spesso svolge un ruolo diretto. In
particolare c’è una tensione produttiva sulla moglie da parte di sua
madre e delle sue sorelle a cui spesso risponde il marito che, tuttavia,
a sua volta viene “consigliato” da parte delle donne della sua famiglia d’origine. Gli scontri per il dominio sulle cose sono quindi anche
scontri sulle relazioni familiari. La presenza o meno di determinate
cose in casa, la loro posizione, così come la loro eventuale sostituzione sono il risultato di questa dinamica. Il gruppo di parenti di primo grado agisce come un agente normativo in queste scelte. Da un
lato sanziona “ciò che è necessario” mettendo in evidenza eventuali
mancanze – il lettino che manca – dall’altro prende nota di cose che
per una ragione o per l’altra si distaccano dai parametri di accettabilità: un mobile particolarmente vistoso, un tappeto “vecchio” invece di
uno nuovo e così via. Queste esuberanze cosali sono materia di stupore, commento e, a volte, condanna; vengono discusse in occasioni
sociali e familiari e contribuiscono a strutturare l’immagine sociale
delle persone coinvolte, le percezioni del loro carattere, insomma la
costruzione della loro soggettività.
La definizione e la regolazione dei rapporti di parentela è segnata
da dinamiche cosali, da una intensa circolazione di cose (ed umani)
I quaderni del CREAM, 2006, V
151
in cui la necessità sociale delle cose viene proiettata sui legami stessi.
Alcuni riti mettono in evidenza con particolare rilievo la dinamica
dell’esposizione. A Shiraz oggi nelle cerimonie di nozze (‘arusi) i
regali che ciascuno dei componenti delle due famiglie fa alla coppia
di sposi vengono annunciati (con microfono) e mostrati agli invitati
presenti in un lungo e dettagliato elenco di cose, ad esempio: “Una
parure (servis) completa [orecchini, braccialetti, collana] d’oro da
parte del padre e della madre della sposa, un orologio d’oro da parte
del padre dello sposo... ”. I presenti rispondono battendo le mani, esprimendo gioia, a volte cantando ritornelli scherzosi:
“Che la vostra mano non vi faccia male/perché vi siete disturbati? [forme usuali di ringraziamento]/perché non avete dato di più?/perché non gli
avete regalato una villa?/una villa in riva al mare/ Perché non gli avete regalato una Toyota o una [Mercedes] Benz?/Oppure un biglietto aereo per
l’Europa?”26.
Le esposizioni di cose si ripetono anche in altre occasioni come
compleanni, nascite e feste della mamma (che ricorre per il compleanno di Fatima, figlia di Muhammad). Durante questi eventi una persona che non è la festeggiata prende in mano un regalo, annuncia il
donatore o la donatrice, lo scarta e poi lo descrive, seguono applausi
e l’apertura del dono successivo. In queste occasioni la competizione
ed il controllo reciproco giocano un ruolo molto importante ed il
“potere di donare” produce effetti di vasta portata: quanto più importanti sono i doni quanto più si rafforza il potere del donatore che in
questo modo afferma il legame con chi riceve e sarà obbligato a restituire27.
Le azioni e discussioni sulle cose si articolano sul denaro, sul potere e sullo spazio domestico; strutturano i rapporti e segnano le rela-
26
Dast-et dard nakune, çera zahmat keshidid? çera bishtar nadadid? çera villa nadadid? Kenar-e dariya nadadid? Benz o toyota nadadi?Belit-e Ourupa nadadid?
27
Questi riti hanno un’“aria di famiglia” di potlach. Tuttavia vanno considerati come particolari articolazioni di scambio all’interno di un sistema capitalista, non come una dinamica alternativa.
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zioni quotidiane. La suocera (modar-e shouhar) controlla sempre i
piatti della nuora (zan-e pesar).
Buffet
Per comprendere in concreto il posto delle cose nella casa, passo a
descriverne una in dettaglio. Ho visitato insieme ad Hashem Sedqamiz la casa di una sua conoscente, moglie di un rispettato commerciante di vestiti del bazaar. In questa grande casa ho ritrovato le cose
che ho visto in molte altre abitazioni, la scelgo perché è a mio avviso
più o meno rappresentativa, sebbene come ho scritto sopra non bisogna dimenticare la differenziazione di censo che produce dinamiche
cosali differenti a seconda del potere d’acquisto di un gruppo domestico28. Le cose erano per lo più in formazioni di gruppo, ben allineate in insiemi significanti. L’esposizione funzionava come un principio strutturale che regolava il loro posizionamento, anche se le cose
spesso avevano traiettorie del tutto singolari.
In questo sistema regolato di esposizione, la credenza (buffet) occupava un posto particolare. Questi armadi sono composti da ripiani
aperti con o senza vetrine e da cassetti o scomparti con ante, sono
collocati nel salan o nel hall e sono il centro del sistema espositivo
domestico. Essi ospitano per lo più servizi di piatti, bicchieri, bicchierini da tè (fenjan), caraffe e piatti da portata, inframmezzati da
soprammobili ed altre cose “notevoli”.
Al centro della credenza su ripiani aperti c’erano due servizi di
tazzine che in Italia verrebbero chiamate “da caffè”. Entrambi i servizi erano di porcellana bianca con disegni. Uno con decorazioni in
argento e blu, era stato comprato durante un viaggio alla Mecca, l’al28
Uso il tempo passato per descrivere le specificità di questa casa, ed il presente per
considerazioni più generali che collegano la casa ad altre situazioni etnografiche,
anche se non descritte esplicitamente. Come cerco di descrivere di seguito, la modalità dell’esposizione è stata parte integrante dell’etnografia, e la messa in mostra, la
descrizione e l’uso di cose in queste occasioni, così come le conversazioni da esse
generate sono da considerare parte delle traiettorie espositive.
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tro aveva decorazioni in oro e rosso con ritratto di Nasereddin Shah
(che regnò tra il 1848 e il 1896). La signora (khanum) ci ha detto che
questa decorazione con il ritratto dello shah è detta abbâsi (riferendosi quindi a Shah Abbas, XVII secolo, e non a Nasereddin Shah)
come la chiamano anche i venditori nel bazaar, e che questo servizio
era più prezioso dell’altro. Circa trent’anni fa lo aveva pagato 150
touman, mentre quello argentato 70 o 80 touman29. Più sotto nella
credenza, sempre disposti in modo simmetrico, due servizi di
na’lbaki, portabicchieri da tè, entrambi in argento con cucchiaini ed
anche una zuccheriera. Più in alto invece diversi servizi da sei di bicchieri in vetro rosso con decorazioni dorate, intervallati da oliere a
forma di grappolo d’uva30. C’erano anche varie pirofile di ceramica
con il coperchio con frutta, sempre in ceramica, in rilievo; la loro
forma sembrava suggerire una funzione originaria come ceramica da
forno ma la signora le ha descritte come ajilkhari, contenitori per offrire frutta secca agli ospiti. Nel ripiano più alto della credenza alcuni
giocattoli del figlio, ora ventenne, una moto della polizia ed una jeep
entrambe acquistate alla Mecca.
La signora ci ha descritto quasi tutto ciò che si trovava nella credenza come “antico” (qadim). L’antichità è una qualità che aumenta
il valore della cosa, o per affettività o per supposto valore. Non tutte
le cose che invecchiano tuttavia raggiungono lo stato di “antico” e
molte restano semplicemente “vecchie” (kohne) e riposte in angoli
oscuri della casa, se non gettate. Molte delle cose nella credenza erano regali, e portavano con sé i nomi dei donatori o le congiunture del
dono, traiettorie che dalla credenza riverberavano nel paesaggio sociale della casa sia passato che presente, legami sociali una volta importanti ed ora trascorsi a fianco di rapporti tuttora rilevanti. Altri regali nella credenza erano più indefiniti, come un servizio di piattini
29
In modo approssimativo, rispettivamente $ 22, $ 10, $11, calcolando il cambio prima
della rivoluzione del 1979.
30
Le oliere in Iran vengono utilizzate per il succo di limone (ab-limu) o, a Shiraz in
particolare, per il succo di uva acerba (ab-ghure). Si tratta di un caso di trasformazione
di una cosa che viene da altrove – come del resto molte delle cose nell’armadio – che
ha una funziona particolare e di cui spesso non si conosce la funzione originaria.
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in ceramica color marrone con decorazione a grandi frutti, un regalo
di nozze fatto da qualcuno che la signora non ricordava.
Molte altre cose nella credenza erano state acquistate durante
viaggi, per uso o per “ricordo” (yâdegâr). I viaggi, in luoghi di pellegrinaggio come Mashad, Damasco o la Mecca, o nei porti franchi, a
Dubai o, più spesso nell’isola di Kish nell’Iran stesso, sono eventi
centrali nella costruzione di concatenamenti di cose ed esseri umani
in cui le donne hanno una parte fondamentale. Le donne compiono
questi viaggi per lo più in gruppi organizzati, con o senza marito; acquistano di solito molti regali che al ritorno provvedono a distribuire,
e molte cose per la casa, spesso anche utilizzando i propri fondi personali. Nei viaggi verso mete più spiccatamente commerciali a volte
le donne cedono a qualche commerciante tutta o parte della quota di
merci che ciascuna di esse può importare dall’estero o dalle zone
franche ed il commerciante (che poi rivende le merci sul mercato nazionale) in cambio paga loro il viaggio ed il soggiorno. Altre volte le
stesse donne rivendono una parte delle merci in circuiti informali tra
donne parenti e non, di solito con un margine di profitto. Merci che
provengono dai luoghi di pellegrinaggio occupano uno spazio particolare in cui una certo grado di sacertà si mescola con il ricordo del
pellegrinaggio ma anche con il soggiorno “turistico” che lo ha accompagnato31.
Questi viaggi, gli acquisti e gli scambi evidenziano come la costruzione della soggettività femminile passi anche attraverso particolari competenze che ragazze e donne hanno sulle cose. Si tratta di
una conoscenza tassonomica che è in grado di collocare cose particolari dentro schemi di valutazione qualitativa, di una conoscenza del
mercato e dei prezzi delle merci, con approfondite e dettagliate informazioni sulle diverse marche e sulla provenienza. Queste conoscenze fanno parte della socializzazione femminile ma provengono
anche dalle pratiche di acquisto, dalla frequentazione dei negozi e
31
Su alcune di queste dinamiche e sui rapporti tra Iraniani ed “estero” si veda Adelkhah (2003).
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così via32. Perfino dentro i parametri dell’ideale patriarcale menzionato sopra, tali conoscenze e tali pratiche smentiscono l’idea di una
donna confinata in casa. La presenza delle donne nei negozi e nei
mercati, come venditrici e come acquirenti è fondamentale e i venditori, al bazar o altrove tengono parecchio in conto le competenze e i
gusti delle acquirenti33.
Tutti questi elementi contribuiscono alla singolarizzazione delle
cose esposte e non. Sebbene organizzate in un rigido regime di significazione, ognuna di esse ha una storia particolare che non si riduce
all’esposizione. Il nome della persona che ha regalato la cosa, la data
e le circostanze del viaggio, dell’acquisto (il luogo nel bazar straniero dove la cosa è stata comperata, il venditore e la negoziazione sul
prezzo), le difficoltà di trasporto o in alcuni casi le astuzie per passare
la dogana sono racconti che contribuiscono ad individuare la cosa, a
renderla unica ma contribuiscono anche a definirne l’uso ed il valore.
Altrettanto importante è il materiale stesso delle cose che contribuisce a determinare la loro collocazione ed il loro uso. Come abbiamo visto le cose ritenute più “preziose”, più “belle”, usate per gli
ospiti, sono “normalmente” di porcellana e vetro e stanno nella credenza o in ogni caso sono in mostra. Quelle usate ogni giorno dal nucleo famigliare che abita in casa, sono invece spesso di acciaio (esteel) o melamina (melamin) (soprattutto i piatti) ed abitano armadi più
riposti anche se in case meno “esposte” di quella che sto descrivendo
a volte trovano posto (o vengono sbadatamente depositate) anche
nelle credenze.
La presenza di certi servizi di tazzine o piatti nella credenza, oltre
a segnalare la loro importanza, indica anche un loro uso minore. Una
distinzione cruciale per il vasellame ed i piatti (chiamati, nell’insie32
La pubblicità sui quotidiani, le riviste, in televisione e sui cartelloni in giro per la
città svolge un certo ruolo nelle competenze sulle cose ma, a mio avviso, tutto sommato abbastanza limitato soprattutto se paragonato ad altre realtà.
33
Per una descrizione del bazaar della ceramica e porcellana a Tehran cfr. Keshavarzian (in stampa). Secondo quanto raccontatomi da Keshavarzian, in questa sezione del bazaar i commercianti mettono davanti ai loro negozi i giovani più attraenti,
per attirare le clienti. Questa nota etnografica seppur anedottica sottolinea il rapporto
tra sessualità e cosalità.
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me, con termine generico, çini va bolur, porcellana e cristalli) è basata sulla distinzione tra cose destinate all’uso e cose destinate al decor, per decorazione. I pezzi da decor sono ritenuti più preziosi, servizi di piatti o tazzine con profili in oro, decorazioni floreali; oppure
cose non più in uso, o, in casi più rari, cose a cui è attribuito un particolare valore affettivo. Queste cose di solito occupano uno spazio
prominente nella credenza34.
Tra le cose d’uso esiste una rigida gerarchia tra ciò che viene usato per gli ospiti e ciò che viene usato dagli abitanti della casa. Tanto
più gli ospiti sono di riguardo, tanto più il servizio che viene usato
per offrire loro frutta, tè o un pasto completo è “prezioso”: umani e
cose hanno qualità interscambiabili che si producono nelle traiettorie
relazionali, ospiti e cose di riguardo condividono specifiche traiettorie di socialità, mentre la produzione di intimità passa spesso per tazze sbeccate e piattini spaiati.
Nella modalità di esposizione, in questa come in molte altre case
che ho visitato un posto a parte è riservato alle cose che le donne della casa costruiscono. La costruzione della soggettività femminile trova qui una delle sue traiettorie più esplicite. La riproduzione della
“donna moderna” in Iran nel corso del ventesimo secolo è avvenuta
anche attraverso la definizione di tutta una serie di attività lavorative
domestiche (di importanza fondamentale il taglio ed il cucito) volte a
socializzare e disciplinare la vita delle donne, sia attraverso riviste
(nazionali ed estere) e poi anche radio e televisione come attraverso
circoli più o meno organizzati di differente carattere politico e religioso35. Parte di queste attività è andata costruendo un piano autonomo di esercizio di abilità manuale slegato da una funzionalità più
direttamente connessa con la gestione della casa e volto alla coltiva34
La categoria di cose da decor è anche costituita da quelli che in italiano verrebbero chiamati soprammobili. Essi occupano uno spazio importante nella casa e sono di
una gran varietà. Molto importanti sono quelli con riferimenti religiosi (per una analisi importante di questi in Egitto, cfr. Starrett 1995). Si veda anche la sezione sul
tempietto televisivo più sotto.
35
Per Shiraz in particolare si veda ad esempio il romanzo Siyavashun di Simin Daneshvar (1969) in cui la presenza coloniale inglese passa anche per la macchina da
cucire, vista come produttrice di dinamiche cosali e “donne moderne”.
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zione e quindi alla messa in mostra di particolari capacità anche
“creative” di cui determinate cose realizzate diventano poi la “prova”. Una “brava” donna e moglie quindi non solo deve o dovrebbe
cucinare, lavare, stirare, cucire etc. ma anche dimostrare “talento”
(este’dâd) e “stile” (salighe) nella costruzione di differenti manufatti,
insomma avere degli hobby36. Le attività e le cose sono molto varie,
dai pupazzetti di raffia intrecciata ai vetri colorati, e sono legate a vere proprie mode lanciate attraverso e l’esibizione e lo “sguardo degli
altri” ma anche attraverso giornali e televisione. Circa dieci anni fa
andava di moda il ricamo a punto croce, detto kublee (riproduzioni
dell’ultima cena di Leonardo da Vinci, ad esempio, erano un tema
particolarmente popolare), poi è stata la volta delle composizioni con
lo strass (pulak duzi), ora invece sono molto comuni i fiori finti. La
manualità femminile è esibita con orgoglio dagli uomini di casa. Mi
è capitato spesso visitando case a Shiraz che mariti e padri si soffermassero a lungo a descrivere le capacità manuali di mogli e figlie nel
produrre queste cose. Questo ideale patriarcale di domesticità ed abilità – combinata con la capacità creativa di produrre “cose belle” –
incrocia la modalità dell’esibizione: le cose prodotte dalle donne
possono essere esibite come prova del talento delle donne di casa,
come segno del loro essere brave “donne”. Anche qui gli uomini della casa si appropriano delle cose per costruire traiettorie di differenziazione valoriale di cui si ergono a custodi.
36
La questione della tessitura dei tappeti non è completamente separata da queste
dinamiche, per quanto riguarda sia il lavoro sia la costruzione dell’“abilità” femminile – in stretta connessione con traiettorie sociali che differenziano in modo sostanziale sia le pratiche femminili che l’ideale della donna “brava”. A mio avviso, ma
non ho condotto sufficiente etnografia per sostenerlo, la celebrazione delle qualità
creative coincide con un processo distintivo che segna delle traiettorie borghesi, o
almeno di classe media (fermo restando in ogni caso l’importanza, celata, del lavoro
femminile in casa e fuori), di contro ad una più accentuata funzionalizzazione
all’economia domestica in altri gruppi sociali.
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Cucina
La signora, Hashem ed io siamo poi passati in cucina. Come nel
salon regnava una grande organizzazione e tutte le cose erano al loro
posto37. Anche qui l’ordine risponde almeno in parte al criterio di esposizione: la cucina può essere ispezionata38. In cucina c’è una
combinazione di cose per decor e per uso. In una delle vetrine di un
grande mobile ad ante c’era un servizio di tazzine da tè che la signora ci ha detto sarebbe stato parte del corredo per la figlia minore. Era
un servizio pensato per l’uso ma nello stesso mobile, nella parte posteriore dello stesso ripiano, appoggiati in verticale, c’erano diversi
piatti “antichi” decorati con un disegno di una donna con un cappello
di paglia a tesa larga. La signora ci ha spiegato che erano simili ad un
piattino del suo corredo che ci aveva mostrato in precedenza nel salon. Questi riferimenti intercosali sono frequenti, spesso costruiti attraverso la provenienza comune delle cose in questione. La cucina
funziona anche da deposito di cose che non vengono usate, che non
sono degne di essere esposte nel salon ma che allo stesso tempo si
vuole conservare. Con la signora abbiamo passato in rassegna il contenuto di un’altro ripiano chiuso da ante. C’era un servizio di metallo
smaltato con anche il bollitore per l’acqua (che veniva utilizzato nel
quotidiano prima che arrivassero i piatti di melamina), vari termos
per il tè – diversi modelli, in metallo, plastica, di colori e fogge diverse – un servizio di porcellana, dei pezzi sparsi di acciaio, servizi
di posate e molti piattini, tazze, bicchieri. Spesso le cose sono conservate in scatole di cartone e molte hanno sopra etichette (soprattutto il vetro infrangibile, Arcoroc termine che designa tanto il tipo che
37
Questa organizzazione della cucina non può essere generalizzata. A Shiraz ho visto
cucine organizzate in modo molto differente (anche rispetto all’uso del pavimento).
38
È bene ricordare che l’accesso alla cucina degli uomini che non appartengono al
nucleo familiare non è frequente e che le “ispezioni” sono più spesso fatte da ospiti
donne che, per “aiutare” possono entrare in cucina. D’altro canto la visita mia e di
Hashem a questo particolare locale, con l’esplicita motivazione di discutere di piatti,
bicchieri e servizi per un possibile articolo non ha prodotto particolari interventi sulla cucina, che non è stata “preparata” in modo particolare per la nostra visita, si trattava di una cucina sempre pronta all’esposizione.
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la marca). Spesso in Iran le etichette restano sulle cose anche dopo
che queste vengono comprate (televisori, stereo, vetro etc.); l’etichetta non è qualche cosa di superfluo che si toglie quando la cosa viene
usata per la prima volta ma una parte integrante della cosa stessa, che
resta per sempre. L’etichetta resta e continua a segnalare lo stato di
“novità” di una cosa.
Una menzione a parte meritano alcuni utensili per la cucina che
hanno una funzione specializzata come pela-carote, taglia-pomodori,
taglia-uovo, spremi-aglio. La moltiplicazione delle cose attraverso un
processo di specializzazione si intreccia qui con il criterio della necessità, anche se spesso questi utensili sono considerati come qualche
cosa in più, un aiuto, un vezzo per le pratiche quotidiane della cucina
(ma anche, soprattutto se nuove sul mercato, cose da mostrare e con
cui meravigliare le visitatrici della cucina).
Negli armadi più riposti della cucina c’erano anche le cose rotte o
spaiate: servizi di piatti o bicchieri incompleti, ciotole crepate, un’oliera con un buco. La signora ci ha detto che quando qualche cosa si
rompe tutto il servizio non si usa più e va in deposito. Queste cose
scartate restano negli armadi ma proprio perché inerti, sottratte
all’uso ed al decor, mostrano in modo più evidente la loro cosalità.
Sono incrostate di memoria, raccontano storie di una passato cosale,
di figli più giovani, di “altri tempi” fino all’incidente fatidico in cui
si sono rotte, in cui hanno perso la loro funzionalità. In alcuni casi si
sono tentate riparazioni ma, come per l’oliera con il buco, una ceramica tedesca, queste non hanno restituito la cosa alla funzionalità.
Così l’oliera coseggia nel fondo di un armadio in cucina.
Le cose del matrimonio
Come accennato sopra, la cerimonia di nozze è un evento attraversato da traiettorie cosali ma più in generale tutte le dinamiche attorno al matrimonio sono dense di cosalità che raggiunge il suo apice
in processi di accumulazione e soprattutto nella preparazione del corredo della ragazza. Un uomo che intenda sposarsi spesso compie “indagini” sulla futura sposa in modo diretto o indiretto, il più delle volI quaderni del CREAM, 2006, V
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te con l’assistenza se non la guida della madre, delle sorelle o di altre
parenti donne39; la ragazza e la sua famiglia a loro volta si informano
sul pretendente: entrambe le famiglie raccolgono informazioni presso
conoscenti della famiglia del futuro coniuge, negozianti, a volte datori di lavoro o colleghi. In parallelo o a seguito delle indagini, il pretendente e la madre o le sorelle visitano la casa della ragazza per una
o più volte, e se si procede a loro volta i famigliari della ragazza visitano la casa del pretendente. Durante queste visite la modalità di esposizione assume una rilevanza notevole. Le cose mettono in mostra
i futuri coniugi per censo, “cura” e ordine domestico, sono indici di
“gusto”, e “buona condotta”. Non solo, la conoscenza reciproca avviene attraverso dinamiche cosali: la ragazza, come è d’uso per qualsiasi ospite, offre il tè al pretendente e la sua gestualità, il modo in
cui maneggia tazze e zuccheriera, il modo in cui fa circolare queste
cose dedicandosi tanto al ragazzo che alle donne della famiglia che
lo accompagnano (o invece sdegnandoli) istituiscono le prime traiettorie relazionali, esplorano dinamiche di desiderio40. Se le cose vanno bene, le visite proseguono e si trasformano in negoziazioni contrattuali di carattere economico, che includono discussioni sulle cose
che ciascuno dei coniugi porterà. Per questo il matrimonio è per molti versi un aggregato di umani e cose che si presentano insieme e che
costituiscono unità domestiche di affetti e materialità, anche se non
sempre le nozze coincidono con la “fondazione” di una nuova casa
perché per motivi economici la nuova coppia può abitare per un certo
periodo nella casa del padre del marito.
“Normalmente” a Shiraz l’uomo è responsabile dell’abitazione e
la donna del suo contenuto: tocca al marito (ed alla sua famiglia) for39
Nonostante negli ultimi dieci anni si vada diffondendo a Shiraz una pratica (ed
anche un’idea) sempre più individualizzata della scelta del coniuge, resta fondamentale il coinvolgimento delle due famiglie e l’ottenimento della loro approvazione,
anche post-factum. Ad una scelta individuale può seguire una complessa strategia di
dissimulazione che è tesa a presentare la mediazione della famiglia come ciò che ha
originato la conoscenza tra i due futuri sposi. La madre del ragazzo o le sorelle che
ne fanno le veci sono cruciali.
40
Ovviamente sarebbe necessaria una etnografia di questi eventi per descriverne la
fluidità e seria giocosità con tutte le gradazioni di posizione sociale, etc.
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nire la casa mentre tocca alla moglie (ed alla sua famiglia) acquistare
mobili e cose che la rendono abitabile41. Il corredo della sposa comprende tutto il “necessario” per la casa. Il corredo è composto di: diversi servizi di piatti (detti servis composti da piatti, piatti fondi, ciotole, e spesso abbinati con bicchieri per sei o dodici persone), di cui
almeno uno in porcellana, uno in melamina e spesso uno in acciaio
(esteel)42 – gli ultimi due per l’uso quotidiano quando non ci sono
ospiti; servizi di tazze e bicchieri da tè; servizi di bicchieri; posate
(cucchiai, cucchiaini e forchette come parte di servizi, i coltelli di solito sono a parte, oggi molti usano quelli a seghetta con manici di
plastica anche questi in set da 6 o 12); vassoi, spesso di acciaio con
decorazioni floreali incise; thermos per il tè; pentole e padelle di varie dimensioni e tutti gli altri utensili per la cucina; samovar; almeno
un tappeto; mobili da salotto (dast-e mobl) e camera da letto (servis-e
kâmel-e otaq-e khâb) ovvero letto matrimoniale, comodini, tavolo da
trucco con specchio, attaccapanni e armadio, in aggiunta a lenzuola
ed asciugamani43.
La maggior parte delle cose di cucina che vengono portate dalla
sposa al momento del matrimonio, sono state preparate per anni, da
quando si nasce, mi dice una donna che ha appena partorito. La madre della sposa comincia ad acquistare le cose per la cucina e çini va
bolur fin dalla nascita della figlia. L’accumulazione della dote (juz’i)
accompagna la crescita della figlia fino al momento del matrimonio.
Questa collezione di cose si ingrandisce con il tempo; a volte alcune
cose che facevano parte della dote escono dall’insieme perché consi41
Questa ripartizione trova poi le realizzazioni più varie sia dal punto di vista del
reperimento del capitale che dell’appartamento.
42
Fino a circa quarant’anni fa, secondo varie testimonianze, la maggior parte delle
pentole e recipienti per la cucina erano in rame (mes). Poi l’acciaio e la plastica hanno preso il sopravvento. Oggi anche il vetro infrangibile ha un posto importante.
43
Non ho compiuto una etnografia sistematica delle cose che compongono una dote
a Shiraz, ma ho chiesto a diverse donne di raccontarmi di cosa era composta la loro
dote ed anche che cosa la donna deve portare in casa al momento del matrimonio.
C’è varietà di soluzioni che dipendono anche dal censo (in relazione produttiva con
la “necessità”), la lista che propongo è quella che mi pare la più rappresentativa per
la classe media ma non pretende di essere esaustiva e non include gli “eccessi”.
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derate antiquate. Anche se la figlia ha voce in capitolo, la gestione
della collezione è fatta dalla madre, che sceglie “il necessario” e lo
mette da parte. L’accumulazione è fatta soprattutto per cose che si
immagina non saranno superate o fuori moda al momento del matrimonio, mentre le cose tecnologiche e ciò che nel frattempo è diventato “necessario” viene acquistato poco prima del matrimonio. Secondo vari racconti ad esempio, ormai la centrifuga (âbmivegir) è diventata, insieme al frullatore, una componente necessaria del corredo. Le
donne entrano nella casa con le loro cose che le accompagnano nella
quotidianità e attraverso le quali esse vivono, mantenendo allo stesso
tempo un legame affettivo cosalizzato con il proprio passato e la
propria madre.
Una donna di circa cinquant’anni ha mostrato a me e Hashem ciò
che conservava della sua dote, descrivendo ad uno ad uno i pezzi che
la componevano. Ci ha detto che della sua dote non le rimaneva molto, anche perché non era composta da così tante cose come si usa oggi. Si riferiva in parte alle possibilità economiche della sua famiglia
di origine ma ha anche sottolineato come oggi le doti debbano essere
composte di molte più cose di un tempo. Da un’anta dell’armadio ha
tirato fuori un’oliera, dei bicchieri ed una brocca (tong) di vetro infrangibile. Lei dice che sono ricordi (yâdegar): “Questi facevano parte della mia dote”, ha continuato tirando fuori qualche altro pezzo,
dei piattini ed una ciotola di porcellana bianca con decorazione che
ha descritto come gol-sorkhi (a fiori rossi) bordata d’oro. Ci ha detto:
“Questi sono molto antichi (qadim), questi invece – indicando due
piattini “da frutta” di vetro con decorazioni in rilievo – sono meno
antichi”. Questa donna ci ha parlato anche della destinazione di alcune di queste cose: vorrebbe dare una ciotola di porcellana gialla ad una
delle sue figlie, ma lei non la vuole, mentre un’altra figlia le ha chiesto
uno dei servizi di tazzine ma lei non glielo ha dato.
Attraverso le cose passa una delle linee di affettività tra madri e
figlie. Una giovane donna sposata ricorda con commozione un set di
pentole in metallo smaltato che venivano dall’estero e che sua madre
le disse avrebbe messo da parte per lei e le sue sorelle. Quando sua
madre morì prematuramente la donna mise da parte le pentole per dar-
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le un giorno alle sue sorelle minori quando si sarebbero sposate: “Ogni
volta che le guardo, mi viene in mente mia madre”, ci ha detto.
La costruzione di concatenamenti di cose ed esseri umani si trova
anche in modo emblematico in un rito che si pratica qualche settimana prima della nascita del primogenito (maschio o femmina). A Shiraz è chiamato sismuni. Alla presenza della famiglia allargata, in casa
della coppia (in genere si tratta di coppia sposata di recente), la madre della partoriente e le sue sorelle offrono a lei “tutto il necessario”
per il futuro neonato: culla, lettino, passeggino, infant seat, un armadio, almeno una decina di completini di diverse misure fino ai
tre/quattro anni, scarpe, cappelli, giocattoli (triciclo, peluche ed altri
a seconda del sesso del neonato) creme, shampoo, saponi. Si tratta di
una vera e propria festa riservata per lo più alle donne (dove spesso
si danza). Le donne della famiglia del marito scrutinano le cose.
Messa in mostra e costruzione della soggettività si combinano in
questo evento che segna la costruzione di una nuova concatenazione
cose/umani: le cose arrivano in casa prima del bambino, che una volta nato avrà già, nelle parole di una Shirazena “tutte le sue cose”.
Il tempietto televisivo
Il mobile del televisore occupa un posto a parte nello spazio domestico. È un mobile in legno, spesso nero, alto settanta, ottanta centimetri con vetrine e scaffali, sull’ultimo dei quali poggia il televisore. Ci sono una varietà di modelli, più o meno elaborati. È un mobile
“necessario” e la sua eventuale assenza si fa notare. Mobile e televisore formano un aggregato che occupa un posto rilevante nella casa.
Le vetrine del mobile spesso contengono oggetti connessi con il televisore: videoregistratore, apparecchio ricevente per il satellite, lettore
CD. Oppure soprammobili di vario genere o parti di servizi come
teiere, tazzine. Il mobile del televisore, nelle famiglie più povere è il
fulcro dell’attività soprammobiliare: è spesso l’unico mobile a ripiani
in tutta la casa e funziona da deposito e da centro di esposizione. In
altri casi è solo una delle zone di esposizione. Non sempre le cose
negli scaffali di questo mobile sono predisposte per l’esposizione: a
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volte sono ammassate, depositate, stipate dietro le vetrine. Cose in
vetrina e televisore condividono la costruzione di uno spazio di osservazione, un centro che attira l’attenzione di chi sta in casa. Anche
se le cose nelle vetrine non sono predisposte all’esposizione, la loro
collocazione nel mobile del televisore (apparecchio dell’esposizione,
della produzione di “pubblico” per eccellenza) le colloca dentro quel
regime di significazione.
Il televisore campeggia in modo eloquente nello spazio comune
della casa. È collocato per lo più nel hall, nello spazio comune ma
più intimo della casa. Ci possono essere due televisori, uno nel hall
ed uno nel salon. Il televisore ed il telecomando spesso scandiscono
la vita quotidiana della casa. Il televisore resta acceso per molte ore,
e fa funzione di partecipante anche se nessuno lo guarda, accompagna le chiacchiere, le visite, i pranzi e le cene. A volte tra un argomento di conversazione e l’altro l’occhio cade sulle immagini trasmesse che possono generare un commento.
La signora ha tirato fuori ad una ad una le cose dal mobile del televisore e di alcune ha raccontato la provenienza. È il trionfo del soprammobile, del souvenir, della cosa che coseggia. Se la credenza
conteneva un ordine dell’esposizione rigidamente organizzato, qui
c’è l’eccesso, il surplus, l’esposizione per l’esposizione, il vezzo. Ha
notato che erano impolverate e ha tirato fuori una coppia di cigni in
ceramica bianca con decorazioni rosa ed oro, dicendo che erano portaceneri e che lei vi aveva aggiunto dei cestini di fiori finti appendendoli al collo dei cigni. C’erano delle lampade ad olio in miniatura
con un piccolo specchio per ampliare e diffondere per rifrazione la
luce del lume. Un set di forchettine a forma di banana con la scritta
in caratteri latini plantinos. Un carillon a forma di violoncello. Un servizio di mini tazzine e brocca in rosso e oro con immagine di Nasereddin Shah, simile a quello nella credenza ma di minor valore. Diversi
piccoli vasetti. Dei pomodori di terracotta. Animali in porcellana.
Il mobile del televisore di una coppia di giovani sposi offre un
buon paragone per contrasto. Dominava la tecnologia ed un design
aggressivo. Lo stereo occupava un posto prominente. Una riproduzione in plastica di una chitarra elettrica, una brocca nera ed oro, un
maialino di plastica che muove le braccia ed altre cose a colori accesi
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completavano il tempietto. Posto al centro del loro appartamento, il
mobile dichiara la coppia: le cose coseggiano stati di allegria, di originalità e novità. Ci sono anche alcuni piattini che la giovane moglie
ci ha detto erano di suo nonno paterno. Ma la disposizione delle cose
puntava al futuro più che alla memoria. Le cose si distinguevano per
le loro qualità tecnologiche e non per la loro preziosità decorativa.
Sono state scelte con cura e selettività, la loro ricercatezza mette in
rilievo un desiderio di distinzione44. La coppia coseggia la propria
distanza dalla generazione dei genitori, mette in mostra la propria
differenza ma la articola attraverso la modalità di esposizione, lasciando che le cose parlino per loro.
La modalità espressiva di esposizione non è l’unica modalità di
articolazione del concatenamento di cose ed esseri umani a Shiraz45.
Tuttavia essa segna in modo rilevante la vita quotidiana e partecipa
alla costruzione di particolari soggettività. Le traiettorie che si intrecciano nella modalità dell’esposizione (mercato, casa, parentela, desiderio) effettuano una particolare configurazione dell’intreccio tra cose ed esseri umani, al quale tuttavia si connettono particolari qualità
delle cose stesse: colori, materiali, forme, buchi. La modalità dell’esposizione partecipa alla produzione di un regime di significazione
che produce piani differenziali (superficie/profondità, falso/vero, esposto/nascosto) in cui cose ed esseri umani trovano una collocazione. La
formazione congiunturale di questi piani, messa in evidenza dal punto
di vista delle cose, smonta il paradigma binario di interpretazione
dell’Iran che tanta parte ha nei media e nell’accademia.
Più in generale, le cose forse suggeriscono anche una direzione
differente nello studio della “costruzione della soggettività” nell’antropologia contemporanea. La tendenza attuale, si veda ad esempio
Mahmood (2005), sembra essere quella di reperire i processi attraverso i quali il soggetto si articola in coerenza ed unità attraverso
pratiche disciplinari che, seppure contingenti, disegnano una appar44
Bourdieu 1983.
Importante correlato è anche l’esposizione fuori di casa, ovvero la produzione di
“pubblicità”. Una visione cosale di tale dinamica forzerebbe un ripensamento della
“sfera pubblica” e delle sue dinamiche.
45
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tenenza. Il partito preso delle cose invece sembra indirizzarci verso
una dissoluzione della coerenza e dell’unità, verso un soggetto sempre parziale e in dispersione, proliferazione cosale.
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Stampato presso Maja – Torino
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