L`arte di Scaldaferro: miele, mandorle e parole di Gian Antonio Stella
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L`arte di Scaldaferro: miele, mandorle e parole di Gian Antonio Stella
Profili L’arte di Scaldaferro: miele, mandorle e parole Marco Scaldaferro fondatore del Torronificio Scaldaferro di Gian Antonio Stella “Istante, sei così bello, fer mati!”. É forse lì, in quella scritta che lesse su un muro di Losanna in un momento difficile di tanti anni fa, la chiave per capire Franco Scaldaferro. E con lui la sua poesia. E il suo mandorlato. Perché tutto si tiene e tutto si impasta e tutto prende forma come le mandorle con il miele. Al punto che voi non potrete mai capire davvero l’anima di questo torrone straordinario se non leggete prima “Diario di un povero capitalista”. Un romanzo edito qualche anno fa da Neri Pozza nel quale l’erede di quella che è probabilmente uno dei gioielli mondiali dell’industria dolciaria, spiega il suo rapporto con lo zucchero e la filosofia, la frutta secca e la letteratura, la febbre produttiva del Veneto e lo scorrere del tempo. ha fatto della campagna veneta uno dei poli industriali più importanti d’Europa: “Valeva la pena di dedicare gran par te della mia esistenza a que ste macchine o altrimenti per cos'altro invecchiare? Scopro ora di odiarle, peggio, le sento estranee, mi sento estraneo: e pensare che ho accorciato i miei giorni in frenesia di pezzi di ferro! ‘Chissà quan do potremo acquistare l'im Perché il “Torronificio Scalda ferro Marco” è sul serio uno dei miracoli del Nordest. I geni bocconiani teorizzano la diversificazione dei prodotti? Lui fa solo mandorlato. I soloni del marketing sdottoreggiano sull’obbligo assoluto di massicci investimenti pubblicitari? Lui non ne fa. I cantori del Veneto sgobbone vantano la portentosa capacità della “razza Piave” di correre, correre, correre? Lui ama la pedalata lenta e traccia, nella vita e nella poesia e nel mandorlato, l’elogio della lentezza. E scrive di ciglia imperlate “come gocce di rugiada appese ad esili fili di erba” e ironizza sui suoi amori ripescando l’antico adagio che “baso no fa buso ma serve par andar più in suso” e si pone domande inimmaginabili per la maggior parte dei protagonisti dell’accelerazione che 38 39 pastatrice rapida inglese, e la incartatrice svizzera o la dressomatic belga!’ Ho visto i miei orizzonti ridursi, a fug gevoli rivolte, a struggenti rimpianti e rinunce, fino a consumare ogni possibilità o voglia di felicità e di assoluto, per cieli di ghisa, di allumi nio, per galassie di ingranag gi in bagno d'olio”. Dura da vivere, una vita in cui ti senti sempre fuori posto. Scaldaferro è qui a far l’mprenditore di successo e dice che in realtà “vorrebbe vivere in India” e si sogna in meditazione sotto il gigantesco albero di Auroville o a Puttaparthi dove nacque Sai Baba. É assediato dal frastuono delle auto e dai camion che sfrecciano rombando lungo la Riviera davanti al suo capannone tra Mira e Dolo e lui vorrebbe sedersi in riva alla Brenta per vedere scorrere lento quel fiume di cui da ragazzo imparò a conoscere “in una sorta di affettuosa intimità, di inno cente nudità” tutti i segreti, compresi “l’umore dell’acqua e in certe mattine di sole per fino il numero dei pesci”. É costretto a passare ore a leggere di corsa i registri dei conti e invece preferirebbe soffermarsi, pagina per pagina, lento lento, “bloccandomi a volte per tornare indietro e rileg gere e pensare e metabolizza re”, libri di poesia e romanzi e saggi di grafologia, una delle sue passioni. Così grande che un giorno, pur essendo cresciuto dentro un’etica del lavoro inculcatagli dal padre così polentona da spingerlo ad ammalarsi “solo di sabato e di domenica”, arrivò a chiudere la fabbrica per tre giorni pur di seguire un convegno sullo studio delle grafie. E ne ricavò un tale senso di colpa da finire 40 steso a letto con una polmonite doppia. Per la fabbrica, ha scritto, “io rappresento la terza genera zione, il suo momento critico. Pur nutrendola del medesi mo amore e filosofia di vita, ho commesso l'errore di non identificarmi in essa, inde bolendo le sue difese con il batterio della poesia”. E si sa come vanno, queste cose: “Non è facile essere poeta tra i poeti, ma è follia compor tarsi come tale nel mondo del capitalismo”. Non se l’è scelta lui, questa vita: “É tutto scrit to. Il libero arbitrio consiste solo nel come vivi le prove che la vita ha deciso di farti affrontare”. Presa dopo la maturità classica la laurea in legge (da avvocato ha fatto solo cinque cause: “Tutte per l’azienda. Tutte vinte”), dice che sentiva la vocazione a fare il grande viaggiatore e aveva la testa così piena di curiosità umane e intellettuali che avrebbe voluto mettersi nella scia di Odorico da Pordenone e Ibn Battuta e Giovanni di Pian del Carpine. Finì invece per farsi carico del figlio (“Sono un ragazzo padre, come quello cantato da Enzo Jannacci”) e dei mandorlati. Come gli sia riuscito il primo, che ora lavora con lui, lo dirà il futuro. Come gli riescano i secondi, lo dice l’apprezzamento dei consumatori. Alcuni dei quali non nascondono per il leggendario Scaldaferro una specie di venerazione. Amore, ecco il trucco. Scartata ogni ipotesi di incrementare la produzione cedendo qualcosa sul piano della qualità, Franco Scaldaferro impasta il mandorlato così come scrive: ci mette l’anima. Cercando le parole e le mandorle migliori, la prosa e il miele giusti. Le prime, che compra in Puglia pagando “in contanti e senza discutere sul prezzo”, le tosta direttamente lui nello stabilimento sulla Riviera seguendo le ferree regole della tostatura tradizionale. Il secondo (“No, non posso dire quali api e quale tipo di alberi frequentino: è un segreto”) lo acquista nell’America Centrale. E potrebbe passare delle giornate intere a spiegarti come ogni mandorlato viene fatto artigianalmente e ogni pallina viene preparata a mano e accostata mentre è ancora morbida alle altre sul cartoncino della confezione “perché così va fatto” e che se il torrone industriale delle grandi marche è fatto e finito in tre ore lui di ore ne impiega trenta: dieci volte di più. Ma non chiedetegli troppi dettagli. Vi risponderà come rispondeva Ruggero Bauli a chi voleva conoscere i segreti del pandoro: “Un po’ più e un po’ meno, un po’ prima e un po’ dopo”. Gian Antonio Stella 41 Il Torronificio Scaldaferro ha una lunga tradizione, che risale ai primi anni del 1900. Nel 1919, presso il piccolo stabilimento di Mira Porte (cfr. lapide 23a, pag. 75), venne avviata da Marco e Pietro Scaldaferro la prima produzione artigianale in grande scala di focacce, mostarde e biscotti. Attraverso i decenni Marco si specializzò nella produzione artigianale del mandorlato affinando la ricetta nel solco della tradizione e privilegiando la qualità. Successivamente vennero sviluppati autonomamente dai figli Germano e Bianca il settore delle marmellate, del mandorlato e delle caramelle menta, anice e liquirizia e dal figlio Franco il settore biscotti, amaretti e wafers. La ricetta del mandorlato Scaldaferro, che viene prodotto nei periodo di raccolta delle mandorle e del miele che va da settembre a gennaio, è tramandata oralmente di padre in figlio. Custodita e perfezionata con passione dai figli Germano e Bianca, la ricetta del mandorlato è stata trasmessa ai nipoti Marco e Pietro, che continuano la tradizione. L'azienda è volutamente rimasta a carattere familiare, in quanto il prodotto necessita di un processo naturale di cottura, di tostatura e di lavorazione che risulterebbe impossibile a livello industriale. Per questo motivo ogni confezione di Mandorlato Scaldaferro è unica nel suo genere ed il suo gusto ci restituisce in un attimo il sapore del passato. L'azienda, che oggi continua ad operare nello stabilimento di Dolo, ha mantenuto come marchio il cognome della famiglia Scaldaferro, indice della serietà e dell'impegno personale nella realizzazione del dolciume in maniera tradizionale. 42 43 Foto d’autore in Riviera Pubblichiamo tre fotografie di proprietà del Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze. Due furono scattate da Vittorio Alinari all’inizio degli anni venti del secolo scorso per illustrare il libro “Paesaggi italici nella Divina Commedia”, un raro volume stampato dagli Alinari in soli 500 esemplari numerati. La terza, una veduta della villa di Andrea Palladio detta La Malcontenta, è stata scattata nel 1960 dal fotografo Pietro Ronchetti. 44 Pietro Ronchetti, 1960 ca. “Villa Foscari detta la Malcontenta, realizzata dal Palladio, a Oriago” Firenze, Museo di storia della fotografia, n° inv. RAD-A-000015-0089 Dall’artigianato, all’arte la parabola degli Alinari a cura della Fondazione Vittorio e Piero Alinari La parabola degli Alinari si svolge fra le botteghe e i laboratori di Oltrarno, popolare quartiere fiorentino, e l’arte, nuova e appassionante, della fotografia. Sullo sfondo, un mondo che cambia, un secolo che si spegne, un’epoca che se ne va. Il capostipite, Sebastiano, secondo l’uso del tempo nelle famiglie umili, avvia ben presto al lavoro i figli Romualdo, Leopoldo e Giuseppe, avuti da Scolastica Pagnori. Il secolo diciannovesimo è cominciato da una cinquantina di anni, a Firenze regnano i Lorena, l’Italia e l’Europa sono percorse dalle prime vibrazioni di passioni nazionali e repubblicane. Leopoldo va ‘a bottega’ dal noto calcografo Giuseppe Bardi, Romualdo nel laboratorio Batacchi, mentre Giuseppe impara il mestiere dall’intarsiatore Falcini. Giovanissimi, gli Alinari mettono in luce quella dote innata che li condurrà, entro breve, alla grande avventura della fotografia: l’intraprendenza. Sarà infatti Leopoldo ad aprire un proprio laboratorio in via Cornina. E’ il 1852. Dall’arte del calco a quella della fotografia: i tre giovanissimi fratelli si avviano assieme verso questa nuova frontiera. La fotografia a Firenze è patrimonio esclusivo di pochi tecnici civili (Officine Galileo) e militari (Istituto Geografico Militare). Gli Alinari se ne appropriano in fretta, cominciando a riprodurre i monumenti e le opere d’arte della città. Lastre fiorentine che i fratelli Bisson, noti fotografi a Parigi, venderanno alla borghesia illuminata d’oltralpe, nel cui spirito positivista ha facilmente attecchito l’in- venzione di Nièpce e Daguerre. Le crescenti ordinazioni costringeranno i tre fratelli a cercarsi locali più ampi e più idonei in via Nazionale: è il 1863, una data storica per gli Alinari. Nel 1865, a soli trentatre anni, Leopoldo muore ed i due fratelli assumono la guida dell’ azienda ormai florida. Il loro nome e la loro fama circolano ormai per tutta Europa. Giuseppe e Romualdo girano l’Italia ad immortalare le bellezze artistiche e paesaggistiche del paese per gli appassionati di tutto il mondo. Non sono gli unici fotografi italiani, ma certamente i primi ad organizzare accuratamente la produzione e a curare meticolosamente l’archivio. Fautori e fondatori, nel maggio del 1889, della Società fotografica italiana, gli Alinari saranno premiati nello stesso anno all’Esposizione internazionale di Parigi. Quando l’azienda sembra essere al culmine del prestigio internazionale, i due fratelli muoiono, a distanza di quattro mesi l’uno dall’altro E’ il 1890: la responsabilità del laboratorio e della trentina di persone che ormai vi lavorano, passa a Vittorio, figlio non ancora ventenne di Leopoldo Alinari, il fondatore. Vittorio Alinari è forse meno tecnico dei suoi predecessori, ma è un giovane dai molteplici interessi artistici e letterari. Pienamente inserito nel clima culturale del suo tempo, in capo a pochi anni trasforma la villa di Quarantino a Fiesole, nel salotto buono dell’intellighenzia fiorentina e non solo. E’ amico dei più brillanti intellettuali del tempo da Renato Fucini, a Giosuè Carducci, da Isidoro Del Lungo a Giuseppe Vandelli, da Giovanni Poggi a Guido Spadolini. Vittorio frequenta ed incoraggia i Macchiaioli, di molti dei quali è amico, pittori che parteciperanno ai concorsi da lui stesso indetti. Come nel 1900, quando chiama a raccolta gli artisti migliori per rappresentare una Madonna con bambino ed una madre con figlio. O l’anno successivo, quando proporrà di illustrare la Divina Commedia. Alle due iniziative parteciperanno pittori come Fattori, Zanardel, Spadini, Zardo, Muccioli. Nel frattempo Casa Alinari immortala le opere dei musei più belli d’Europa: fotografi fiorentini nel 1905 sono a Dresda, Parigi, Atene. Nel 1909 e fino al 1915, l’azienda di via Nazionale inizia a pubblicare il Decamerone, con illustrazioni di Tito Lessi, e negli stessi anni Vittorio comincia un’impresa nuova e appassionante: fotografare tutti i paesaggi italiani citati da Dante nella Commedia. Il paesaggio italico nella Divina Commedia vedrà la luce nel 1921 con prefazione di Giuseppe Vandelli. E’ quasi un testamento artistico e visivo di Vittorio Alinari che, proprio l’anno precedente l’uscita dell’opera, stanco e provato per alcune vicende familiari (la morte del figlio Carlo), decide di lasciare il timone della Casa fondata dal padre ottant’anni prima. Vende l’azienda ad una società anonima, l’Istituto di edizione artistiche - Idea. Quando il grande fotografo passa la mano, la Fratelli Alinari ha immortalato oltre 70.000 soggetti. Arte, natura, architettura, storia: il genio degli Alinari ha raccontato al mondo la bellezza. Vittorio Alinari muore a Livorno il 28 agosto del 1931. Il presente testo è tratto dal sito <http://associazioni.comune.firenze. it/fondalinari/default.htm> 45 46 Vittorio Alinari, 1921. “Paesaggi italici nella Divina Commedia: Mira (Purg. V, 79)” Firenze, Museo di storia della fotografia, n° inv. BAF-A-003720-0043 47 Vittorio Alinari, 1921. “Paesaggi italici nella Divina Commedia: Oriago (Purg. V, 79-‑80)” Firenze, Museo di storia della fotografia, n° inv. BAF-A-003720-0044 48 49