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BIBLIOTECA DI RIVISTA DI STUDI ITALIANI
CONTRIBUTI
IL FUTURISMO E LE AMERICHE.
INFLUSSI DEL MOVIMENTO ITALIANO OLTRE ATLANTICO
FRANCA ZOCCOLI
Università degli Studi di Roma Tre
M
arinetti fu un promotore sagace e instancabile del movimento da lui
creato, durante l’intero arco del suo percorso. Fece ben pochi errori
tattici. Uno di questi, certamente il più clamoroso, fu quello di
rifiutare l’invito alla Armory Show, storica mostra che a New York, nel
1913, dette l’avvio alle ricerche sperimentali d’oltre Atlantico. L’inizio fu
dunque disastroso. Ciò nonostante, il futurismo ha esercitato influssi di
grande importanza sull’arte nord-americana, e anche su quella del continente
meridionale. Non solo e non tanto nell’immediato, quanto a distanza, e fino
ai nostri giorni, in modo diretto o indiretto, talvolta per vie impensate e
bizzarre, nei settori più disparati, dalla pittura alla scultura, dalle ricerche
verbo-visuali alla musica. Tutto questo si è verificato per una serie di
circostanze, ma in primo luogo per la ricchezza di sollecitazioni esercitate dal
movimento. Solo alcuni aspetti del fenomeno sono noti, molti altri invece
sono conosciuti solo da un ristretto numero di specialisti. Esistono poi
tangenze, derivazioni e talora quasi dei plagi mai osservati finora negli scritti
sull’argomento.
Sembra che il vero responsabile della decisione negativa circa la mostra di
New York sia stato Boccioni, già dimostratosi esclusivista e accentratore in
altre circostanze1. Resta il fatto che Marinetti avallò il suo parere e si lasciò
convincere dall’amico-seguace invece di dar retta al vecchio detto popolare
secondo cui gli assenti hanno sempre torto. A Manhattan non fu esposto
dunque neppure un dipinto futurista ma, per uno scherzo del destino – o forse
per una specie di risarcimento – proprio il quadro che doveva diventare il
simbolo della grande mostra, il celebre Nude Descending a Staircase (1912)
di Duchamp, esemplificava alcuni dei caratteri del movimento d’avanguardia
italiano. Opera etichettata come cubo-futurista, il Nudo possiede l’austerità
dei toni, spinta fino alla monocromia, del cubismo analitico, ma è incentrato
sulla rappresentazione del movimento in atto, con la figura che scende le
scale scomposta in posizioni successive. La prima comparsa dei futuristi in
USA avvenne due anni dopo, a San Francisco, in occasione della Panama391
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Pacific International Exposition che non ebbe certo la risonanza della
Armory Show, anche perché si era in tempo di guerra, e dove comunque i
nostri non suscitarono un grande interesse2.
Ci fu in qualche modo un recupero negli anni Venti, quando il futurismo,
ormai esteso a tutto il territorio italiano, veniva apprezzato in molti paesi
europei dove forniva stimoli a nuove ricerche d’avanguardia (con dadaisti e
surrealisti in prima linea fra i ‘debitori’). In Sud America nacquero correnti,
talvolta con relativi manifesti ma, come vedremo in seguito, è solo a distanza
di tempo che il movimento avrebbe esercitato influssi davvero importanti.
Solo oggi, attraverso gli esiti più imprevedibili, possiamo apprezzarne le
molteplici capacità di accendere l’immaginazione e di incoraggiare scelte
spericolate.
Il manifesto di fondazione scritto da Marinetti e apparso il 20 febbraio 1909
sul quotidiano francese Le Figaro ebbe risonanza mondiale e venne tradotto e
pubblicato anche sui maggiori periodici del Nord e Sud America. Suscitò per
lo più indignazione e sconcerto, ma anche qualche reazione positiva,
spingendo verso nuove ricerche. Tuttavia gli unici due paesi nei quali il
futurismo stimolò – a distanza di tempo – correnti e movimenti
profondamente innovativi furono il Brasile e gli Stati Uniti.
Per quanto riguarda le ‘risposte’ immediate nei paesi latino-americani, mi
limiterò a pochi esempi. In Brasile gli influssi del futurismo non portarono
alla nascita di uno specifico gruppo ma servirono piuttosto a rafforzare
l’atteggiamento contro la tradizione e in favore della modernità, come nel
caso del “futurismo paulista” di Oswald de Andrade3, il quale riconosce al
movimento italiano il merito di aver contribuito a un ampio rinnovamento
artistico (ma considera il futurismo “morto da tempo” già all’inizio degli anni
Venti).
L’interesse era in declino quando nel 1926 Marinetti effettuò con la moglie
Benedetta il famoso giro promozionale di tre paesi latino-americani – Brasile,
Argentina e Uruguay – un tour che prevedeva 35 conferenze con
declamazioni. Fu sicuramente un successo, anche dal punto di vista
commerciale, che precedette però di appena un paio d’anni il distacco delle
ricerche brasiliane avanzate dalla linea di quelle italiane. L’impatto del
movimento viene generalmente racchiuso dentro l’arco di un ventennio 4, cosa
vera solo in parte poiché, molto più tardi, negli anni Cinquanta, una pianta
cresciuta in Brasile ma nata da un seme futurista avrebbe dato un “frutto
tropicale” dal “delizioso succo” come potremmo dire parafrasando Marinetti.
Si tratta della Poesia Concreta, fondamento di tutte le sperimentazioni verbovisive, sulla quale mi soffermerò in seguito, per non allontanarmi troppo da
un ordine cronologico, sia pure approssimativo.
In Argentina il manifesto del futurismo venne pubblicato sul giornale La
Nacion con un certo rilievo, ma non destò troppo interesse negli ambienti
culturali. L’unico artista del paese considerato futurista è Emilio Pettoruti
(argentino di origine italiana), il quale però non volle mai firmare manifesti e
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rifiutò qualsiasi appartenenza codificata. Aveva conosciuto Marinetti,
Boccioni e compagni durante un lungo soggiorno in Europa (1913-1924),
trascorso quasi interamente in Italia; durante quegli anni fece parte del
gruppo, partecipando a varie mostre con i futuristi (come anche più tardi a
esposizioni del movimento negli Stati Uniti). Rientrato in patria, portò avanti
la sua battaglia per una pittura moderna5.
In occasione delle due visite di Marinetti a Buenos Aires, fu lui a ospitarlo
e a fargli da guida. Ma anche se il lider maximo del futurismo suscitò
curiosità e venne accolto con entusiasmo, il territorio non era adatto a far
attecchire e germogliare le sue proposte. E furono tutto sommato vani gli
sforzi di Pettoruti che lo introdusse negli ambienti più avanzati e lo presentò,
fra l’altro, a personaggi della rivista d’avanguardia Martin Fierro. Non tutti
si mostrarono interessati. Jorge Luis Borges si defilò (con rammarico di
Marinetti); forse era rimasto dell’idea espressa in gioventù, quando aveva
definito i futuristi “brodaglia di poeti milanesi”6.
Nel 1921, a Città del Messico, venne pubblicato il manifesto dello
Stridentismo, movimento che intendeva includere, oltre alla letteratura, arti
visive e musica. Il proposito di “esaltare…l’attuale bellezza delle macchine”,
dichiarato nell’articolo di fondazione, ne palesa l’ascendenza futurista. Per
altri aspetti invece, come ad esempio il rifiuto della guerra, lo Stridentismo si
dissocia dal movimento italiano7. Fra gli artisti si possono ricordare Ramón
Alva de la Canal, Jean Charlot e Fermin Revueltas, accomunati dal fatto di
essere considerati tra i primi a dipingere ad affresco sui muri messicani.
Il discorso è assai più complesso per quanto riguarda gli Stati Uniti, dove
influssi e stimoli hanno avuto un peso sostanzioso fin dai primi tempi. Se la
critica e il pubblico si dimostrarono tiepidi all’inizio8, alcuni fra i maggiori
artisti del tempo annusarono le novità dirompenti e ne restarono soggiogati.
Svolse a New York la sua carriera Joseph Stella, l’unico pittore di rilievo di
tutto il continente americano ritenuto “futurista”: una denominazione che va
virgolettata poiché il pittore condivide solo alcuni punti dell’estetica
marinettiana e se ne distacca per altri aspetti.
In parte potremmo considerare la sua una scelta etnica, poiché Stella era
nato in Italia (il suo vero nome era Giuseppe), a Muro Lucano, un paese di
montagna non lontano dal confine con la Campania (ubicazione che spiega
come mai l’artista venga spesso considerato in America più o meno
napoletano). Giunto nel nuovo continente quando aveva 19 anni (1896),
scelse presto la via dell’arte e, secondo una ben consolidata tradizione
americana, cominciò la carriera come illustratore. Era già un pittore
abbastanza affermato quando, nel 1909, intraprese un viaggio a ritroso per
visitare i luoghi di origine, proseguendo poi per Parigi. Qui si trattenne fino
al 1912, conobbe il cubismo e vide la mostra dei futuristi alla galleria
Bernheim-Jeune. Fu una conversione.
Tornato nella nuova patria, Stella si mise subito al lavoro. I futuristi non
parteciparono alla Armory Show, ma il futuro-futurista americano c’era, con
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due quadri. Poco dopo dipinse Battle of Lights, Coney Island, Mardi Gras
(1913), una delle sue opere più vicine al movimento italiano per il dinamismo
convulso, le linee-forza, i colori squillanti. Celebra la città moderna, con le
sue luci, i grattacieli, i ponti. “Acciaio ed elettricità – afferma – avevano
creato un mondo nuovo…L’acciaio è balzato ad altezze iperboliche e si è
esteso a vaste latitudini con i grattacieli e con i ponti fatti per congiungere
mondi”. Allo scopo di esaltare i bagliori e i colori dell’illuminazione
artificiale, Joseph Stella predilige soggetti notturni. Vagava di notte per le vie
di Manhattan, annusandone gli odori, gustandone i suoni, registrando sulla
pelle gli sbalzi di temperatura e le variazioni di umidità, per carpirne ogni
segreto e impadronirsene interamente, come facevano ed avrebbero fatto
anche in epoche successive tanti artisti innamorati di New York: da John
Sloan a Edward Hopper, fino a Woody Allen.
Fu soprattutto il Ponte di Brooklyn a diventare per Stella “un’ossessione
sempre crescente” sin dal suo arrivo in America. Lo rappresentò moltissime
volte, dapprima con un linguaggio formale prossimo a quello di Coney Island
poi, nella celeberrima serie intitolata New York Interpreted (cinque pannelli,
1920-22), in uno stile più complesso e personale, ricco di valenze simboliche.
Del futurismo Stella condivide l’apologia dell’industria, il mito della
modernità, l’esaltazione dell’energia; rifiuta invece la rappresentazione della
velocità, del movimento in atto, la glorificazione della violenza. Il suo ponte
si trasforma in una cattedrale gotica, maestosa e silente nonostante il pulsare
delle luci: i piloni formano il dittico di una pala d’altare, i grattacieli
disegnano splendenti vetrate nella loro frammentazione cubista, il panorama
lontano suggerisce una predella. Con questa interpretazione lirica
misticheggiante, l’artista vuole rendere omaggio alla metropoli, ammantando
la realtà di romantico ottimismo.
Se Stella fu l’unico americano etichettato come futurista, parecchi altri
pittori statunitensi furono influenzati dal movimento italiano, benché in modo
transitorio, durante un tratto del loro percorso o limitatamente ad alcune delle
opere. È il caso di Max Weber, acclamato rappresentante americano del
cubismo, nella sua fase sintetica. Proprio nel 1915, data del suo quadro più
noto Chinese Restaurant (“un’interpretazione caleidoscopica” di quanto da
lui percepito nell’entrare dentro il locale) Weber dipinse anche Rush Hour,
New York, opera nella quale vuole rendere il movimento convulso e la
tensione mentale dell’ora di punta. Si resta colpiti da quanto questo lavoro sia
vicino – sotto il profilo formale, ma anche come concezione – al dipinto di
Boccioni intitolato Le forze di una strada (1911-1912). Troviamo in
entrambe le opere linee vettoriali oblique, ruote, scale e triangoli; questi
ultimi assumono in Weber una geometrizzazione appena più spinta, ma è
analogo l’intreccio di dinamismo e psicologia.
Per quanto riguarda John Marin si può parlare al massimo di consonanza
ma non di un influsso diretto. Come gli artisti italiani, Marin voleva
“esprimere l’energia dinamica della città”, la quale resta a lungo il suo
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soggetto preferito. In modo simile a quanto aveva fatto Stella con New York
Interpreted, anche lui dedica alla metropoli un ciclo di dipinti New York
Series (1927). “Vedo grandi forze in azione” dichiara, manifestando il
desiderio di rendere visivamente gli influssi che esercitano l’una sull’altra.
Queste forze che il pittore definisce ‘pull forces’ sono paragonabili alle ‘linee
di forza’ balliane9.
La vicinanza sembrerebbe dimostrata da una curiosa analogia fra un’opera
dell’americano eseguita nel 1922, Lower Manhattan, e un quadro
dell’aeropittrice Barbara, La città che ruota del 1935, entrambi con edifici
che sembrano esplodere a corona intorno a un nucleo centrale10. Certamente
la futurista non aveva neppure sentito nominare John Marin; e, in senso
inverso, è altrettanto vero che per l’artista statunitense il principale punto di
riferimento europeo non è il futurismo ma l’Orfismo di Robert Delaunay11 –
anche se senza dubbio aveva letto il manifesto di Marinetti durante uno dei
suoi soggiorni a Parigi (fra il 1905 e il 1911).
Con altri artisti ci sono invece casi di influssi immediati e diretti – da opera
a opera – e numerose derivazioni, talora con sviluppi proiettati in anni
abbastanza lontani. A questo proposito è cruciale una data: il 1928.
Quell’anno approdò a New York Fortunato Depero, non per una breve visita
in occasione di una mostra o altro evento. Depero intendeva lavorare nella
moderna metropoli trattenendosi un paio d’anni. Era la prima volta che un
futurista in carne ed ossa sbarcava in terra americana per piantarvi le tende,
sia pure temporaneamente. Restò fino al 1930 ed è ben nota la sua
produzione del periodo, specie nel campo della grafica e della scenografia.
L’importanza di questo soggiorno non è stata sinora valutata a sufficienza.
Appena giunto iniziò un’intensa attività espositiva, presentando dipinti,
arazzi e produzione pubblicitaria, anche se non in sedi prestigiose 12. La
critica, le istituzioni e il pubblico si dimostrarono tiepidi, a volte sarcastici,
ma alcuni fra i maggiori artisti del tempo furono attratti dalle novità che
seppero apprezzare. Nessuno si è accorto che opere del roveretano
(probabilmente esposte in qualcuna delle mostre newyorkesi) sono servite di
modello a pittori statunitensi sia per l’ideazione sia per gli schemi
compositivi. Citerò due casi di particolare evidenza anche per le date: I Saw
the Figure Five in Gold (1929) di Charles Demuth e City Activities with
Subway (dipinto murale, 1930) di Thomas Hart Benton.
Demuth è uno dei due principali Precisionisti – l’altro è Charles Sheeler –
così detti per lo stile levigato, a contorni netti, con il quale raffigurano il
nuovo paesaggio tecnologico americano. Macchine e strutture industriali
sono glorificate con distacco intellettuale, in una sorta di sospensione
metafisica. Negli artisti di questa corrente è implicita la conoscenza delle
ricerche cubiste, ma resta pragmaticamente americana l’acutezza dello
sguardo. Per quanto riguarda Demuth in particolare, si riscontrano poi
tangenze con Lyonel Feininger sul piano formale e con i futuristi, oltre che
per la tematica (la quale include la pubblicità stradale), per l’uso di fasci
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luminosi – assimilabili a linee-forza – cui è affidata la funzione di far
interagire oggetto e ambiente. Demuth elabora questo stile intorno al 1916-17
(era tornato da Parigi nel ’14). Successivamente comincia a realizzare, in
parallelo con il resto della produzione, una serie di ritratti-manifesto dei suoi
amici, composizioni astratto-simboliche fatte di numeri, lettere dei rispettivi
nomi ed altri elementi a ciascuno associabili, spesso di non facile
decifrazione.
Il più noto di questi ritratti è proprio I Saw the Figure Five in Gold,
dedicato al poeta William Carlos Williams (il nome BILL compare in alto) e
si riferisce a una sua poesia The Great Figure nella quale Williams descrive
come una sera a New York vide passare veloce e strepitante un carro dei
pompieri rosso con il numero 5 in oro13. Il titolo è la citazione di due versi,
ma la formulazione visuale deriva senza dubbio dall’arazzo di Depero Cifre
4455 (panno di lana applicato su canovaccio di cotone, 1926-27). Nel
pannello dell’artista italiano il 5 campeggia come protagonista assoluto,
ripetuto quattro volte in un giallo-arancio squillante, accostato al rosso (il 4 è
poco evidente e serve soprattutto come contrasto di colore). Nel quadro del
precisionista abbiamo lo stesso protagonismo del numero e una eguale
impostazione cromatica; inoltre, anche nell’opera americana il numero viene
ripetuto, in questo caso tre volte.
Con queste opere si è verificata una curiosa concatenazione di influssi.
Depero aveva cominciato a ‘giocare’ con i numeri, concepiti come elementi
decorativi, verso la metà del terzo decennio, ispirandosi a un noto dipinto di
Giacomo Balla, Numeri innamorati (1920-23)14; a sua volta l’opera di
Demuth doveva ispirare, fin nel titolo, un quarto di secolo più tardi, il
materico Figure Five (1955) di Jasper Johns, l’artista che qui, come nei
quadri-bandiera, propone la materia pittorica quale unica giustificazione in sé
del dipingere.
Presero idee da Depero anche personaggi che non ci aspetteremmo di
trovare fra i suoi estimatori. Ad esempio il regionalista Thomas Hart Benton,
acerrimo nemico delle sperimentazioni d’avanguardia, da lui ritenute
aridamente intellettualistiche. Il 1929, data del Numero 5 di Demuth, è l’anno
del crollo di Wall Street. Per gli Americani, che avevano una fiducia
sconfinata nella stabilità economica del loro paese, lo shock fu tremendo.
Inizia il periodo noto come Depressione: “un tempo di sogni infranti”, come
quegli anni sono stati definiti. La nazione si piega su se stessa nella necessità
di ridefinire la propria identità culturale.
In questo clima di isolazionismo, nazionalismo, autarchia, nel campo
dell’arte il realismo conosce un nuovo momento forte. Si afferma un
movimento chiamato Regionalismo, polemicamente centrato lontano da New
York, nel Midwest agricolo. Thomas Hart Benton ne è il più tipico
rappresentante. Nel 1930 ricevette l’incarico di eseguire dipinti murali per
“The Equitable Life Insurance Society of the US” sul tema “America
Today”. In un momento in cui si cercava di arginare lo sconforto della
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nazione, anche il pittore regionalista usufruì del sostegno fornito agli artisti
tramite commesse per lavori che illustrassero i più vari aspetti della vita
americana. In quel periodo il muralismo, dopo i successi di quello messicano,
godeva di grande fortuna. Proprio nei dipinti di questo ciclo, come City
Activities with Subway o Steel, Thomas Benton ricorse all’espediente di
separare le diverse scene con linee spezzate costituite da segmenti di cornice
modanata. Era un’idea di Depero.
L’artista italiano l’aveva elaborata a lungo. Già in Marinetti temporale
patriottico (1924) i fulmini scandiscono lo spazio del quadro. Depero se ne
rese conto e due anni dopo dipinse Fulmine compositore (1926), un’opera
nella quale gli zig-zag delle saette incorniciano le varie figurazioni. Questa
soluzione arrivò al suo apice con Subway. Folla ai treni sotterranei (1930) in
cui scale piranesiane, tubi e varie strutture racchiudono le straripanti masse
umane. Il futurista era a New York quando realizzò quest’opera. Quella di
Benton prima menzionata ha titolo e soggetto analoghi.
Naturalmente il linguaggio formale è assai diverso e i personaggi
allampanati dell’americano nulla hanno in comune con quelli di Depero.
Tuttavia certe composizioni vorticanti di Thomas Benton, come ad esempio
Arts of the West (1932), quell’impianto dinamico che lui chiama “uno spazio
di mia creazione”, debbono forse qualcosa alla suggestione del futurismo.
Ciò è soprattutto interessante se ricordiamo che Benton fu il maestro di
Pollock15 e quest’ultimo – come vedremo – ha dichiarato esplicitamente il
suo debito nei confronti del movimento italiano.
Nel futurismo si può individuare un antecedente dei ‘mobiles’ di Calder,
anche se non si tratta di un influsso diretto. All’inizio degli anni Trenta
l’artista, che a quel tempo soggiornava a Parigi, si recò a visitare lo studio di
Mondrian e lì ebbe una folgorazione: immaginò il sistema neoplastico, con i
suoi colori primari, in movimento. Nacquero così le sue opere azionate da un
motorino in un primo tempo e poco dopo mosse liberamente dall’aria. Era
una rivoluzione del concetto di scultura: non più volumi fissi, ma pluralità di
rapporti formali costantemente variabili.
Ci avevano già pensato i futuristi. Nel Manifesto tecnico della scultura
futurista (1912) Umberto Boccioni, che ne è l’autore, afferma che “… se una
composizione sente il bisogno d’un ritmo speciale di movimento… si potrà
applicarvi un qualsiasi congegno che possa dare un movimento ritmico
adeguato a dei piani o a delle linee”; tre anni dopo, Balla e Depero nella
Ricostruzione futurista dell’universo propongono fra l’altro “complessi
plastici dinamici” che possono ruotare e trasformarsi grazie a “congegni
meccanici”. Non se ne fece niente, ma Boccioni era giunto a progettare una
scultura mobile, anche se poi abbandonò l’idea.
Opere almeno parzialmente movibili vennero invece realizzate da Gino
Severini e da Rougena Zatkova. Il primo tra il 1915 e il 1916, poco prima di
allontanarsi dal futurismo, creò Danseuse articulée (un olio su tela, con
elementi collegati da spaghi) che i fruitori potevano mettere in movimento
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tirando gli spaghi e soffiando. Alla Zatkova dobbiamo un polimaterico Acqua
scorrente sotto ghiaccio e neve (1918 circa) con perline che rotolano, se il
quadro viene mosso, e con un disco fessurato che crea effetti ottici, se viene
fatto girare (a questo scopo un bordo del disco sporge dalla cornice). Come
ulteriori precedenti, in un ambito più allargato, si possono ricordare lo
scultore ucraino attivo a Parigi Aleksandr Archipenko, per i bilanciamenti
ritmici di alcune sue opere e, fra gli artisti dell’avanguardia russa, Liubov
Popova (cubo-futurista poi costruttivista) che ha creato alcune forme
scultoree appese al soffitto, ad esempio Costruzioni dinamico-spaziali e
Costruzioni, opere entrambe del 1920-21.
Nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale
esplose a New York un movimento travolgente, l’“espressionismo astratto”,
che attrasse su di sé l’attenzione del mondo. Nato da semi europei (le
sperimentazioni delle avanguardie storiche) e nutrito da linfe americane, è la
risposta rivoluzionaria alla complessità terrificante e agli interrogativi
drammatici della civiltà contemporanea. In quegli anni, la metropoli sottrae a
Parigi il ruolo di città-guida nel campo dell’arte e, per la prima volta, la
pittura statunitense influenza altri continenti. La figura centrale di questa
corrente è Jackson Pollock.
Alla base del linguaggio estetico elaborato dal maestro ci sono astrattismo e
surrealismo (soprattutto per la scrittura automatica), ma anche il futurismo,
con il quale Pollock sentiva una profonda affinità: per l’accento posto su
energia e azione – intesa in senso eroico e spinta fino alla violenza – per
l’interesse centrato sulla contemporaneità. Tutto è dinamismo, e non soltanto
virtuale, nei dipinti dell’artista, secondo il quale il messaggio estetico si
consuma nel suo farsi: un atto del dipingere frenetico come un ballo tribale.
Né va dimenticato che nel 1952 il critico Harold Rosenberg propose un nome
diverso per l’espressionismo astratto, “action painting”, individuando un
denominatore comune nella gestualità.
Durante quel periodo si era diffuso negli Stati Uniti un crescente interesse
per la cultura italiana in tutti i suoi aspetti, dalla moda al design, dal cinema
all’arte. Di questa fortuna beneficiò, sia pure nell’ambito di una cerchia
ristretta, anche il futurismo, le cui istanze – dinamismo, esaltazione del
progresso tecnologico, enfasi sul contemporaneo – erano in sintonia con la
modernità e con i ritmi accelerati del continente nord-americano. Nel 1949 il
Museum of Modern Art di New York (noto come MOMA da quando le sigle
hanno imposto il loro arrogante dominio sulle parole) allestì la storica mostra
intitolata Italian Art of the Twentieth Century16 che portò all’affermazione
definitiva del futurismo oltre Atlantico. Il contrario di quanto stava
accadendo in Italia dove perdurò a lungo una forma di ostracismo nei
confronti del movimento a causa di motivi politici.
A questo proposito non va dimenticato l’infaticabile impegno di Benedetta,
l’artista vedova di Marinetti, la quale, dopo la morte del marito (1944),
abbandonato il proprio lavoro, svolse un’attività instancabile per mantenere e
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diffondere la conoscenza dell’avanguardia da lui creata. In Italia ebbe scarsi
successi, ma all’estero i suoi intensi contatti e i fitti epistolari con critici e
collezionisti si rivelarono fondamentali. Fra i suoi compiti c’era quello di
trovare per i capolavori futuristi che i Marinetti avevano in casa una
destinazione che ne assicurasse, nei tempi futuri, la visibilità e la
storicizzazione. “Nonostante le ristrettezze economiche non liquidò perciò al
migliore offerente, ma ebbe l’accortezza di vendere a prestigiose raccolte
private, come quella dei Winston Malbin, poi confluita nel Metropolitan
Museum of Art”17.
In Brasile, a San Paolo, nel 1956, apparve sulla rivista Noigandres, ad
opera dei fratelli Haroldo e Augusto De Campos e di Decio Pignatari, il
manifesto della Poesia Concreta18. Tale movimento è il capostipite di tutte le
successive sperimentazioni verbo-visive, in ogni parte del mondo, basate sul
comune concetto che la parola non è solo supporto di significato o suono ma
è anche, essa stessa, immagine. Anche se non mancano antecedenti, il
paroliberismo futurista è il primo esperimento estetico che, sfruttando questa
intuizione, esalta appieno le qualità visivofoniche della parola scritta.
Marinetti definisce la teoria delle ‘parole in libertà’ – mettendola in pratica
lui stesso – con tre successivi manifesti pubblicati fra il 1912 e il 1914:
Manifesto tecnico della letteratura futurista, Distruzione della sintassi –
Immaginazione senza fili – Parole in libertà, Lo splendore geometrico e
meccanico e la sensibilità numerica. Scardinata la linearità gutenberghiana,
le parole (sia in grafia manuale sia in caratteri a stampa) sciamano sullo
spazio del foglio, si gonfiano, si contraggono, esplodono, imprimendo
dinamismo alla pagina scritta ed evocando allo stesso tempo il suono delle
lettere dell’alfabeto, ogni volta diverso a seconda della loro forma, misura e
collocazione.
In un passato remoto i pittogrammi rinviavano a una realtà percepibile, ma
poi con l’alfabeto questo contatto tra scrittura e cose esterne si era perduto.
C’erano stati – è vero – i ‘calligrammi’ con cui alcuni poeti, fin dall’antichità
classica, avevano reintrodotto la figura, disponendo le parole in modo da
creare un disegno. Ma lo scopo era raggiunto soltanto grazie alla lunghezza e
al collocamento del verso; il risultato visivo non cambierebbe se al posto
delle parole si mettessero numeri o altri segni. Marinetti e gli altri avevano
davvero lanciato una sfida: che venne raccolta al di là dell’oceano.
La nascita della Poesia concreta è una fertile eredità del futurismo che,
spento il suo influsso diretto sulla cultura brasiliana intorno alla metà degli
anni Venti, riavvampa all’improvviso, giunto di nuovo per rivoli indiretti e
alimentato dall’esubernza del locale folclore afroiberico. Quello che
accomuna i concretisti brasialiani (ai fondatori altri se ne affiancarono) è la
conoscenza delle parolibere futuriste e l’interesse per la produzione
popolare19. Il nome del movimento era preso in prestito dalle arti visive, per
le quali il termine, Art Concret, era stato coniato nel 1930 in Francia, per poi
diffondersi nel secondo dopoguerra, divenendo più o meno sinonimo di
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astrattismo20. I brasiliani invece erano tutti di provenienza letteraria, poeti che
avvertivano la sclerosi del verso e la perdita di incisività del linguaggio e
perciò cercavano vie diverse per rivitalizzare la parola.
Fecero da tramite il tardo futurista Carlo Belloli e il protoconcretista Eugen
Gomringer, nato in Bolivia e formatosi in Svizzera (era stato, fra l’altro,
collaboratore di Max Bill), il quale costituiva dunque un ponte ideale fra
Europa e Sud America. Nei primi anni Quaranta Belloli, con i suoi ‘poemi
stradali’ elabora un autonomo linguaggio interdisciplinare distaccandosi in
modo definitivo dalle avanguardie storiche. Circa dieci anni dopo Gomringer
crea opere di grande semplicità e pulizia formale, per lo più usando una sola
parola a caratteri tipografici.
Nei maggiori rappresentanti del concretismo brasiliano, dai fratelli De
Campos a Ronaldo Azeredo, a Decio Pignatari, ritroviamo queste
caratteristiche, condite da “umori satirici” e ritmate da un “assaporamento
latino della vocalizzazione”. Vi è inoltre un esplicito impegno sociale che
spinge la sperimentazione verso sbocchi interclassisti, come ad esempio in
certi innesti di poesia concreta e musica popolare 21; ciò è confermato dal
frequente ricorso al ricco patrimonio interrazziale dal quale sono tratti
numerosi elementi. Fu un movimento pregno di sviluppi che a partire dagli
anni Sessanta si diffuse in ogni parte del mondo, dal Giappone agli Stati
Uniti, all’Europa. Con il nome di Poesia Visiva ebbe una storia
particolarmente vivace in Italia, quasi per una sorta di simbolico viaggio di
ritorno.
Negli stessi anni nei quali in Brasile fioriva la poesia concreta, negli Stati
Uniti nasceva e si affermava il movimento New Dada che introduce alla Pop
Art. Come dichiarato dal nome stesso, il punto di riferimento è il dadaismo
storico, ma non mancano elementi di tangenza con il futurismo, che del resto
aveva preceduto sotto molti aspetti la corrente battezzata in Svizzera. Le
affinità diverranno eclatanti con la Pop Art, ma già ora si possono
evidenziare alcuni caratteri comuni: l’importanza attribuita all’oggetto
banale, appartenente alla quotidianità; l’adozione del polimaterico (teorizzata
dai futuristi, anche se scarsamente praticata); l’interesse per alcuni strumenti
della comunicazione di massa; infine l’identità arte-vita che, già implicita nel
primo manifesto, viene codificata dalla ‘Ricostruzione’ per essere poi
ereditata dal dadaismo.
La Pop Art è un fenomeno tipicamente americano, anche se la corrente e il
nome che la designa (pop da popular) hanno origine in Gran Bretagna.
Esprime la civiltà dei consumi e dunque un mondo ben diverso da quello del
nostro paese durante tutto l’arco del futurismo: un’Italia autarchica,
risparmiosa, che sognava mille lire al mese. Eppure il movimento di
Marinetti ne costituisce un precedente per molti aspetti, soprattutto la fertile
mescolanza di cultura alta e bassa, il riscatto dell’oggetto di uso comune,
l’attenzione per la pubblicità. Si pensi a Depero (ma non soltanto) con i suoi
burattini e giocattoli, con le sue réclame anche tridimensionali, fino alle
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audacissime architetture alfabetiche.
Va però fatta una distinzione: mentre il futurismo ‘alimenta’ la pubblicità e
contribuisce a ridefinirla mettendo al suo servizio creatività e
immaginazione, la pop ‘se ne nutre’ in quanto vede il mondo attraverso di
essa, in una catena di finzioni: la fetta di torta non raffigura la torta ma
l’oggetto (o l’immagine) che la reclamizza. Pop e futurismo sono correnti
entrambe visivamente aggressive, all’insegna di esuberanza ed eccesso.
Proprio per queste caratteristiche si è osservato che il nostro movimento ha
precorso il Postmoderno. Al contrario di altre analogie, passate inosservate,
questa somiglianza è stata sottolineata più volte22.
Anche se l’analisi da me proposta è dedicata alle arti visive, mi sembra
opportuna una brevissima incursione nel campo della musica. Nel 1913 Luigi
Russolo pubblica il manifesto L’arte dei Rumori, dedicandolo al maestro
Pratella, e inventa spettacolari macchine sonore che chiama “intonarumori”
(tutte andate distrutte). Russolo non era musicista, ma pittore, e proprio
questa circostanza, lasciandogli maggiore libertà, gli consente di avanzare la
sua proposta rivoluzionaria: “sostituire alla limitata varietà dei timbri degli
strumenti…l’infinita varietà dei timbri dei rumori, riprodotti con appositi
meccanismi”23. Solo in questo modo – afferma nel manifesto – si possono
rendere le “atmosfere fragorose delle grandi città” (dovute al moltiplicarsi
delle macchine), ma anche le atmosfere delle campagne, non più silenziose.
Russolo anticipa molte sperimentazioni sonore del secondo dopoguerra, in
Europa ma anche in America. Fra i compositori statunitensi a lui in qualche
modo debitori il più noto è John Cage che ricorre all’utilizzazione del rumore
fin dal 1951 riconoscendo – però solo all’inizio – l’influsso del futurista24.
Ad esempio ‘capta’ suoni da trasmissioni radiofoniche, come avviene in
Imaginary Landscape n. 4, una composizione per la quale usa 12 radio e 24
“captatori di suoni”. A questo proposito non va dimenticato che Marinetti nel
manifesto La radia del 1933 (il sostantivo era allora femminile) suggerisce
continui cambi di canale per ottenere spericolate sovrapposizioni di suoni
appartenenti a contesti diversi, da interpretare nei modi più fantasiosi. Aveva
inventato così lo zapping25. Di tutto ciò Cage era probabilmente a
conoscenza.
Perfino stelle del rock hanno nutrito la loro musica di linfe futuriste. Come
Jimmi Hendrix, fra i maggiori innovatori nell’ambito della chitarra elettrica,
o un altro chitarrista sperimentatore Duane Eddy il quale, in una celebre
registrazione del 1986 ha eseguito un suo vecchio best-seller “Peter Gnn”
insieme al gruppo Art of Noise. Il nome è un esplicito omaggio a Luigi
Russolo; si è parlato di ‘futurismo pop’ dato che il gruppo precorre il pop
sperimentale26. Nel mondo moderno la gamma dei suoni continua ad
arricchirsi. Ci si può impadronire anche di rumori provenienti da spazi
stellari. Terry Riley, autore di Sun Rings, composto per il “Kronos Quartet” e
David Harrington, violinista fondatore del quartetto hanno sfruttato materiali
raccolti dalla Nasa sull’attività e i suoni dei corpi celesti per creare
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componimenti musicali cosmici27. Questa attualissima “musica delle sfere”
avrebbe mandato in visibilio i seguaci di Marinetti, tra i quali molto forte era
la spinta a travalicare i confini della Terra e i limiti del possibile.
Con il sorgere del Decostruttivismo e grazie all’uso dei nuovi materiali,
l’architettura diventa libera di articolarsi nello spazio come una scultura,
nonostante i vincoli della funzione. Suggerimenti, spunti, illuminazioni
possono giungere agli architetti da opere tridimensionali e perfino da disegni
visti in un museo. È il caso di Frank Gehry. Come lui stesso ha dichiarato in
una conversazione con Richard Serra, la prima idea del Guggenheim di
Bilbao gli è venuta osservando Sviluppo di una bottiglia nello spazio (1913)
di Umberto Boccioni28. Non si tratta di un caso isolato; possiamo trovare
analoghi esempi anche da questo lato dell’Atlantico. Nel concepire il
MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo), appena inaugurato a
Roma, Zaha Hadid ha trovato uno stimolo nell’opera che è diventata quasi il
logo del futurismo: Il pugno di Boccioni di Giacomo Balla29.
La spinta innovativa e le intuizioni precorritrici dell’avanguardia italiana
non hanno esaurito la loro azione con la fine del Novecento. Basti pensare al
campo di happening e performance. Altre premonizioni erano così avanzate
che solo ora possiamo apprezzarle. Le riflessioni sul rapporto reale-virtuale,
sul pensiero artificiale e sugli incerti confini tra l’uomo e la macchina hanno
precorso la mitologia cyborg della nostra era, definita post-biologica, ed
hanno avuto importanti ricadute specialmente su espressioni artistiche del
Nuovo Mondo. Ma non intendo inoltrarmi nel secolo attuale. Ad altri lascio il
compito di esaminarle.
__________
NOTE
1
Fabio Benzi, Il Futurismo, Milano: Federico Motta Editore, 2008, pp. 16066; vedi anche Livia Velani, “La fortuna di Boccioni in Italia”, in Sul
Dinamismo / Opere di Umberto Boccioni, catalogo di mostra, Galleria
Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, Roma: Edizioni De
Luca, 1999, p. 15.
2
Fabio Benzi, op. cit., p. 166.
3
Annateresa Fabris, “Futurismo in Brasile”, in Futurismo & Futurismi,
catalogo di mostra, Palazzo Grassi, Venezia, Milano: Bompiani, 1986, p.
480.
4
Joao Cezar de Castro Rocha lo liquida definitivamente intitolando un suo
saggio Futures Past (cioè futuri trascorsi, appartenenti al passato): “`Futures
Past´: On the Reception and Impact of Futurism in Brazil”, in International
Futurism in Arts and Literature, edited by Günter Berghaus, Berlin-New
York: Walter de Gruyter, 2000, pp. 205-21.
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5
All’artista è stata dedicata una mostra a Roma, in occasione del centenario
del futurismo: Due pittori tra Argentina e Italia: Emilio Pettoruti ed Enzo
Benedetto / Un’amicizia futurista (catalogo), Roma: IILA (Istituto ItaloLatino Americano), 2009.
6
Ibidem.
7
Serge Fauchèreau, “Stridentismo”, in Futurismo & Futurismi, op. cit., pp.
588-89.
8
Anche la mostra di Gino Severini alla Galleria ‘291’ di Alfred Stieglitz, nel
1917, passò abbastanza inosservata.
9
Cfr. Liza Panzera, “Italian Futurism and Avant-Garde Painting in the
United States”, in International Futurism in Arts and Literature, op. cit.,
pp. 222-43.
10
Franca Zoccoli, “Barbara e altre aeropittrici”, in Mirella Bentivoglio e
Franca Zoccoli, Le futuriste italiane / nelle arti visive, Roma: De Luca
Editori d’Arte, 2008, pp. 201-12.
11
Viene anche suggerito un possibile influsso di Morgan Russell e Stanton
Macdonald-Wright, i due fondatori del Sincronismo (Synchronism), che
vivevano a Parigi, ammiravano Delaunay e conoscevano bene il futurismo
(anche se lo criticavano); Weber potrebbe aver visto la loro mostra a New
York nel 1914. Frances K. Pohl, Framing America / A Social History of
American Art, New York: Thames & Hudson, 2002, pp. 319-20.
12
Le tre sedi principali furono: 464 West 23rd Street, The Guarino Gallery e
Arnold & Constable. Liza Panzera, op. cit., p. 239.
13
Wieland Schmied, Precisionist View and American Scene: the 1920s in
“American Art in the 20th Century”, catalogo di mostra, Royal Academy
of Art, London; Prestel-Verlag, Munich, 1993, p. 57.
14
I numeri erano già comparsi in quadri di Boccioni, mai però come soggetto
e comunque con un impatto assai minore, simile semmai a quello che già
avevano avuto in opere cubiste.
15
Thomas Benton fu docente per parecchi anni alla Art Students League di
New York, prima di stabilirsi provocatoriamente nel Missouri dove era nato.
16
Alfred H. Barr and James Soby, Italian Art of the Twentieth Century,
catalogo di mostra, Museum of Modern Art, New York, 1949.
17
Franca Zoccoli, Benedetta Cappa Marinetti / L’incantesimo della luce,
Milano: Selene Edizioni, 2000, p. 46, seconda edizione 2009. Franca Zoccoli,
Benedetta Cappa Marinetti / Queen of Futurism, New York: Midmarch
Arts Press, 2003.
18
Mirella Bentivoglio, voce “Poesia Visiva”, Supplemento e aggiornamento
dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, Roma: Unedi, 1978, p. 464.
19
Sull’argomento cfr. Mirella Bentivoglio, “Poesia Visiva”, op. cit.
20
In Italia, negli ultimi anni Quaranta, il MAC (Movimento Arte Concreta)
venne lanciato e sostenuto da Lionello Venturi, appena rientrato dal suo
volontario (e intellettualmente proficuo) esilio politico negli Stati Uniti.
21
Mirella Bentivoglio, ibidem.
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22
La somiglianza è indicata, ad esempio, da Irina D. Costache, la quale vede
un parallelismo con gli interessi dell’età postmoderna anche per la
“ridefinizione del ruolo dell’artista” (Irina D. Costache, “Italian Futurism and
the Decorative Arts”, in DAPA / “The Journal od Decorative and
Propaganda Arts”, 1994, p. 190).
23
Cfr. Luigi Tallarico, “Luigi Russolo e la musica elettronica”, in Un secolo
futurista, Alghero: Nema Press, 2009.
24
Tallarico definisce Cage: russoliano ‘pentito’ “per mero spirito di
protagonismo”, ibidem.
25
Come ha osservato Claudio Strinati.
26
Luigi Tallarico, “Un secolo futurista”, La proprietà edilizia, Roma, n. 4,
aprile 2009.
27
Luigi Tallarico, “Luigi Russolo e la musica elettronica”, op. cit.
28
A New York ci sono due importanti fusioni di questa scultura: una in
bronzo, venduta da Benedetta ai collezionisti Winston nel 1956 e poi donata
dai loro discendenti al Metropolitan nel 1989; l’altra in metallo chiaro al
Museum of Modern Art, che l’aveva acquistata in precedenza, nel 1947. Il
gesso originale si trova invece al Museo dell’Università di San Paolo al quale
Benedetta Cappa Marinetti lo cedette nel 1952, subito dopo il rifiuto da parte
della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Infatti nel 1951 Benedetta
aveva offerto alla Galleria quattro opere di Boccioni: un dipinto e tre gessi
originali di sculture (gli unici a noi pervenuti). Con rammarico di Palma
Bucarelli, allora direttrice del museo, che aveva molto caldeggiato l’acquisto,
il Ministero approvò solo quello di un gesso, Antigrazioso. In breve tempo le
altre opere finirono in musei stranieri.
29
Ibidem, p. 22.
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