L`uomo e il cavallo

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L`uomo e il cavallo
“L’uomo e il cavallo”
Scultura bronzea a tutto tondo
Per la piazza del quartiere di S. Ignazio di Regalbuto
È l’espressione dinamica della forza di un giovane puledro in lotta con la forza dell’uomo. Le fasce
che avvolgono le figure rendono evidente l’immane sforzo tra due diverse espressioni di forza e di
intelligenza. Il corpo dell’uomo che vibra nella sua vitalità forzando l’animale ad essere domato e il
cavallo in ribellione che si contorce nello sforzo di rifiuto, alla fine si sublimano in una sola figura in
cui si fonde a tutto tondo una rappresentazione di potenza. Caratteristica del modellato, sono le
fasce che avvolgono le figure, fasce che si ripetono nei lavori più recenti dell’artista e che danno
originalità e valore alle sue sculture. La tecnica è quella della fusione del bronzo a cera persa,
metodo tradizionale che non consente il riutilizzo della cera per altre colate. Secondo tale tecnica
la scultura viene prima modellata in creta oppure in gesso. L’opera è stata modellata dall’artista
direttamente col gesso, ne è stata ricavata la forma di cera ed infine la fusione metallica.
Fra le arti figurative quella che più si adatta ad anticipare il mistero di una civiltà avveniristica
spogliata dal colore dei sogni e ci lascia intravedere quale possa essere l’anello di congiunzione tra
le parvenze di un passato sepolto nelle stanze della confusa memoria ancestrale e l’immaginario di
un futuro accessibile solo alla fantasia degli spazi e dei volumi di cui si compone l’universo nella
sua atemporale dimensione, la scultura è certamente quella meglio deputata a conservare e
trasmettere i segni della perennità come testimonianza di immagini respirate e respirabili in un
contesto planetario che, al ribollire del suo potenziale energetico, vuole opporre una quietudine
pervenuta allo stadio metafisico del godere per immobilità introspettiva, che postula
l’immutabilità del visibile. Questo va detto per un certo tipo di scultura: di quella ispirata ai
primordi, sgravata dalle figurazioni attinte al transitorio, che diviene espressione cosmica dell’atto
in cui, pur conservando la sua matrice creativa, penetra nella futurità emotiva di un finalismo
contemplativo aderente al pulsare di entità esistenziali definitivamente incorruttibili dentro
l’involucro di un’essenza che è cifra remota, inesauribile e inestinguibile dell’umano sentire.
Voglio dire di quel tipo di scultura che tende a possedere i ritmi di un’archeologia
dell’immaginario, restando fortemente ancorata ai più indispensabili contrassegni della visione
storica dei ricordi. Di essa vuole essere testimonianza ed è esempio probante il modello
espressivo con cui Gesualdo Prestipino delinea la finzione dei suoi reperti atemporali, sulla traccia
di un ellenismo purificato della cosiddetta sublimità estetica e con lo slancio penetrativo di una
dinamica interna alla materia, maggiormente intensa, dove occhi di luce la aprono all’infinito e gli
incavi umbratili restituiscono gli echi delle udienze dilagate, in perpetui equilibri ondulari. Dalla
linea al volto e dal volto alla linea, nella pendolarità di questo marchingegno intellettivo, che si
fissa al centro di un’estaticità ininterrotta, scorre il senso significante di un trapasso illusorio dal
relativo all’assoluto e viceversa, in una concatenazione di scoperte relative concentrate dall’ieri al
sempre, che defluiscono immancabilmente nell’alveo di una architettura in estrinsecabile nei suoi
processi compositivi, se avulsa dalla realtà del pensare predominante pur anche nel nesso
armonico. E’ sempre una misura del reale, un’aderenza al suo possibile dilatarsi, una proiezione
nell’universalità, il motivo conduttore delle inenarrabili sculture di Prestipino, qualunque sia ed
appaia il di viluppo delle sue pagine statuarie, che imprigionano il senso della rivelazione
incompiuta ma inalteratamente sogguardata come incominciamento e fine di una perennità
radicatà e insieme distante dal conosciuto e dal conoscibile. Pertanto, la possibile lettura delle sue
monadi globulari ci restituiscono frammenti di una epocalità vasta e indissolubile, riflessi di una
meditata, corporeità ambientale, rispecchiatesi in un urbanismo pseudo-spirituale che è proprio
della fantascienza, quando per essa si intenda non la ricreazione modulare del leggendario ma la
esplorazione di una misticità extrasensoriale recuperata. Difatti dalla necessità del mito è nata la
scultura e la sua meta permane mitica, così come asserisce Prestipino che ne persegue le finalità
commutative attraverso il fondersi degli evi e dei coevi nella visione riflessa di un deserto stellare
costipato di pietre parlanti, che nella fattispecie sono arenarie, docili al costruttivismo di un
probabile dettato entro e oltre i limiti del presente. E le forme, che sbocciano nuove al cospetto di
una natura alimentata da millenari viscerali sconvolgimenti geologici, appaiono antropomorfiche
quintessenze di immortale presenzialità temporale.
Se, infine, si tien conto che la sede ispirativa di Prestipino è il lago di Persa, cioè la più remota
polla d’acqua della Sicilia pagana e divinatoria , appare chiaro quanta solarità si
condensi nelle sue obliate reminescenze e quanta se ne rinvenga nelle sedimentazioni di quei
ricreati reperti di archeologia di là venire, che Prestipino tende a catturare dalle latenze
dell’invisibile vibrante dentro le minime cose imperiture.” Allora tu non sai chi ti guida la mano”
confessa Prestipino “e comunque cerchi di rubare al mistero il suo ignoto respiro denudandolo
alla luce terribile e dolce della creatività, di cui diventi, o ti illudi di diventare, causa efficiente”. E’
senza dubbio una considerazione assiomatica aristotelica. Ma chi meglio di Aristotile seppe
intuire l’interminabilità del trapasso dell’arte dalla potenza all’atto? Ecco, quello aristotelico è un
arcaismo: ma lanciato verso il vertice coseguenzialità materico-formali esso assume la valenza
delle categorie cogitate ultimali, dove le esemplarità evocative e quelle inventive si fondono e
confondono nell’elementare primitivo senso di smarrimento che conosciuto e conoscibile
trasfondono al marmo, alla pietra, all’arenaria, a tutto ciò che consente di elaborare immagini sul
mero tutto che circonda l’essere esistenziale.
Vincenzo Di Maria
U carusu da surfara
Surfara: EMOZIONI E SUGGESTIONI
L’emozione del telo levato pari è stata all’emozione del telo che del telo che copre. Prima fu
l’immaginazione, nutrita dalle forme indelebili delle sculture evocate. Poi fu la sorpresa di un’idea
rubata all’anima e consegnata al metallo. Di Gesualdo Prestipino è l’occhio, è la mano. Il dolore
scolpito è circolare. E’ giro di vento dentro l’armatura, è coppa di fonte prosciugata, è onda in
incipiente caduta, è palla ed è ruota al piede carcerato. Le cavità viscerali della Terra, con forma di
bende e scodelle, modellano l’uomo minerale, esule, dentro una stella, dalla luce del giorno. Ora
mostri soltanto la cresta che il rumore di storia rende sonora. Lo spirito dorme sepolto tra i fiori di
zolfo.
Totò Chiello
“U CARUSU DA SURFARA”:
FORME PLASTICHE TRA ETICA ED ESTETICA
Raccontare le disumane condizioni di vita dei minatori significa ricordare, significa non
dimenticare l’eterna e infinita lotta tra oppressi e oppressori, tra poveri e ricchi, tra deboli e
forti.
Gesualdo Prestipino, artista ennese, materializza, tramite soluzioni sintetiche e astratte, tale
crudele violenza nel suo bronzo “ U carusu da surfara”, attualmente collocato in Piazza della
Legalità e donato dal Lionsi club di Enna. Il travaglio artistico dura ben quattro anni, dal 1999 al
2003, e vede l’elaborazione di tre bozzetti. Il risultato finale una figura a tutto tondo, la cui
identità risulta totalmente anonima, elevando così il caruso ad emblema e simbolo universale di
tutti i carusi minatori. Prestipino, infatti, si allontana dai canoni classici, rifiutando così di conferire
enfasi alla figura. Questa mancanza di pathos, scelta non solo estetico- stilista, ma anche e
soprattutto profondamente artistica, è ulteriormente confermata dall’uso di enormi fasce, che,
compenetrandosi l’una sull’altra, chiudono e imprigionano il personaggio. Di conseguenza
l’attenzione si concentra nel tipico gesto dello zolfataio, ovvero il portare sulla spalla lo stirraturi, il
cui eccessivo peso non può che costringere u carusu ad essere ricurvo. Diverse le tematiche in cui
spazia l’artista ennese, il cui sfogo artistico non si canalizza solo nella scultura, ma anche nella
pittura, nella grafica e nei carboncini su carta. Il bronzo “Il ratto di Proserpina”, il cui originale in
gesso è stato collocato al Museo Guttuso a Bagheria, è un esempio del suo amore per le radici
mitologiche della nostra terra, confermato anche, ma non solo dal pastello ad olio “ L’ira di
Cerere”. I suoi interessi mitologici sono tanto ampi da ricordarci una figura cara al nostro Euripide,
stiamo parlando di, Ifigenia, la cui condanna al sacrificio è esemplarmente raffigurata nel bronzo
“Ifigenia”, forme plastiche che sintetizzano la contradizzione di Agamennone tra l’onore e
l’amore. Non manca all’interno delle sue opere una riflessione sulla condizione umana di perenne
prigionia, sulla aspirazione di ogni individuo ad una felicità e ad una libertà che forse non esistono,
simbolo di questa contemplazione esistenzialistica l’arenaria “Prigione”, “Fuga”, il calcare “In cerca
di libertà” e altri. Dopo una lunga attesa per l’apertura di Piazza della Legalità possiamo finalmente
ammirare l’opera di Gesualdo prestipino, che eleva ad una maggiore dignità una piazza colma di
cemento.
Simona Malaguarnera
Pietro Mosca
La Nostra Domenica
Bergamo, 1987.
Non si tratta sempre di dichiarare o esprimere i concetti attraverso metafore o strumenti
simbolici, ma qualsiasi predisposizione emozionale si completa nei mezzi congeniali alla cultura,
all’esperienza dell’artista che concepisce il mondo esterno in relazione ai bisogni inconsci.
Prestipino è uno scultore appunto che concepisce l’arte sotto una dimensione umana, sanguigna e
talvolta ancestrale rivolgendosi continuamente alla terra alla quale chiede il permesso di capire
forme e momenti sfociando in una espressività neoromantica sulla quale si innestano motivi sociali
ed umani di grande interesse analitico. L’uomo soffre la sua dimensione quando ha perso la sua
libertà o quando è ostacolato nelle sue funzioni e viene limitato nei suoi bisogni: il potere riesce
appunto a creare queste immense difficoltà e attanaglia l’uomo in cerca della sua dimensione e
della sua libertà. L’artista, con mente lucida e con animo vivido, fa la sua denuncia, grida il suo
sdegno, esorta agli incerti proponendo problematiche interessantissime caratterizzate da un alto
valore plastico e strutturale dell’insieme compositivo: la pietra informe allora parla un suo
linguaggio, esprime sentimenti, canta nenie antiche, evoca ricordi, propone situazione e
dissepellisce archetipi; non si dimentica il contadino, non si allontana la forza plastica dell’uomo
che trattiene la vacca mentre le catene legano le aspirazioni e i desideri di libertà. Su tutto aleggia
il pensiero approfondito e sofferto dello scultore che riesce ad elaborare programmi antichi ed
attuali con una forza grafica veramente originale. L’artista di Enna che ha allestito numerose
mostre personali in Italia e all’estero, non disdegna il racconto della terra e accentua la sua analisi
sul mondo contadino esaltando gli umili che sono quelli che soffrono maggiormente il potere e la
repressione: sono sculture vive ed umane concepite energicamente e ben risolte secondo un
armoniosa simbiosi di vuoti e di pieni: l’arenaria scalpellata e lasciata in certe parti incompleta, si
presta mirabilmente alla tematica del Prestipino che riesce ad essere originale senza ricerche
astruse e concettuali, amando particolarmente la scultura concepita secondo antichi canoni: una
scultura diretta secondo un confronto e lo scontro continuo fra l’artista ed il materiale duro come
la pietra…
PRESTIPINO O DELLA FORMA DEL SENTIMENTO
Dalla pittura alla scultura, sino all’incessante attività grafica (non sempre e non solo preludio di
opere maggiori) tutto l’esercizio artistico di Gesualdo Prestipino si fonda su un rigenerante
messaggio di modernità artistica e di originalità intellettuale. Basterebbe osservare la straordinaria
scioltezza di ogni elaborazione per rendersi conto che egli pratica l’esercizio dell’arte con sapienza
e consapevolezza. Prestipino coniuga e fonda, in un unico testo, la concretezza oggettiva della
realtà visibile ed i valori metaforici di immagini capaci di trasferire l’esistenza in un’altra
dimensione percettiva, attraverso una intenzionalità protesa ad intrecciare razionalità ed
emozioni. Del resto Prestipino è fortemente legato ad una grammatica figurale che lo spinge ad
una esigenza di controllo e di dominio del vero che ci circonda. Ecco: il sentimento della realtà è
proprio il baricentro della poetica e sorregge queste immagini che quando queste si avvicinano ai
limiti della sintesi metafisica facendosi vettori di luce, simboli di forza e di speranza vissute come
fremiti di energia, come fuoco vivo. Una realtà trasfigurata in virtù della consumata conoscenza
dei linguaggi adottati e che consente all’artista ardite licenze poetiche capaci di stemperarsi in una
cifra stilistica sintetizzata nell’andamento largo e arioso di ogni suo intervento facendosi lirica di
musicale leggerezza, di astratto nitore. Siamo di fronte a forme spontanee eppure ricercate,
varianti naturali di aspetti conosciuti che vivono di somiglianze, di richiami: l’artista si rimette
all’esperienza interiore per arricchire cose, figure e paesaggi. Costruisce, cioè, interpretando la
forma, il gesto, il segno, accogliendone suggestioni e suggerimenti, pervenendo, infine, a opere di
estrema sensualità, sagome dell’emozione e degli affetti, in definitiva, icone del sentimento.
Marcello Palminteri
Ciò che Gesualdo Prestipino
ricava dalla pietra non è solo forma ma spazio interno.
Incavi che creano mobilità sulla forma. Dalla idea classica di scultura, perviene all’artista un forte
senso della composizione che la cifra del suo segno trasfigura in sentimento in espressione di
pathos fino alla asemanticità musicale. La metafora rimane come traccia di senso, titolo che anima
un intreccio di vita, umanità e immaginazione. La materia pulsa attraverso i vuoti lasciati dalla sua
assenza, le sue fasce mobili che non coprono né scoprono. La pietra è attraversata dall’ombra e
dalla luce, dalla musica e da un canto che incanta.
Vincenzo Salsetta
Mauro Riva
Presidente Centro Nicola Vella
Il bravo artista Gesualdo Prestipino, rappresenta in ogni sua opera la professionalità dello scultore,
il quale si presenta con un notevole bagaglio culturale nel difficile mondo delle arti. Egli non sfugge
al contesto del nostro tempo, ma ne attualizza il contenuto, cercando di coglierne il momento
bucolico e quello drammatico, non affaticando mai l’osservatore in particolari inutili. Forse è tutta
qui la forza espressiva di questo scultore: nella sua essenzialità concettuale. E sono ben felice di
presentare questo artista, perla del nostro gruppo.
Lino Lazzari
L’Eco di Bergamo 1987
(…) Prestipino si rivela un artista dotato di singolare predisposizione al raccoglimento interiore,
all’esame dei drammi che ci vedono protagonisti o nei quali sono particolarmente coinvolti molti
di noi. E così le sue sculture riflettono le angosce dell’inquietudine, le paure dell’isolamento le
ansie della libertà, il tutto in una cornice di profonda partecipazione e con l’intento di proporre un
messaggio autentico di umanità e solidarietà. La scultura contemporanea è da tempo orientata a
studiare determinati temi che vanno ben oltre il semplice stile estetico, per cui ogni opera
presenta un concetto preciso su cui riflettere. E’ il valore dell’arte che si vuole perseguire con
strutture nuove e più confacenti alle esigenze degli stessi artisti contemporanei. Gesualdo
Prestipino non viene meno a queste nuove proposte dell’arte e si rileva più che mai all’altezza del
suo compito. Le sue sculture rilevano in primo luogo una scrupolosa diligenza nella ricerca di
armonie formali preziose, eleganti, suggestive nel loro, sviluppo, mentre la pietra usata offre una
immagine di calore in una pastosità monocroma quasi si trattasse di una materia malleabile e
duttile. In realtà si tratta di un “lavoro” che Prestipino riesce ad attuare con delicatezza ma anche
con sicurezza, il che dimostra che l’artista non procede per tentativi bensì per mezzo di una
preparazione diligente che nulla concede alla casualità. Ne vengono delle opere che invitano ad un
contatto immediato, personale, diretto, quasi a rendersi partecipi delle problematiche
interpretative e vissute dai soggetti. E per meglio comprendere la preziosità delle sculture,
Gesualdo Prestipino espone pure una serie di disegni e dipinti nei quali ritornano i temi tradotti in
immagini poi dalla pietra, ma dove balza all’evidenza la sicurezza del segno e l’incisività del tratto
tipici di chi è portato, come il bravo Prestipino, alla scultura in modo preminente. (…)
(…) Individuare il compito specifico dell’arte, in un contesto di sottosviluppo qual è quello di Enna,
è stato ed è uno dei problemi più assillanti di (…) Gesualdo Prestipino. (…) In realtà, il rifiuto di
concepire l’arte come espressione di una volontà di liberazione individuale, ha dimostrato come in
concreto l’artista sia coinvolto nel processo di scontro con la realtà, che, lontana dall’essere un
dato estraneo all’elaborazione artistica, è con essa in un continuo rapporto dialettico di tesiantitesi. (…) Prestipino passa (…) alla ritrattazione della sofferenza, scende tout-court nella sua
“materia”, che solo indirettamente è sua dal momento che questa è la realtà stessa nella sua
dimensione umana, ridotta al grado zero. Si tratta di una riduzione non forzata e non voluta in
quanto il ribaltamento dalla realtà all’arte avviene (…) per una forma di individuazione logica che
lo porta inizialmente alla constatazione di ciò che esiste “ in un certo modo”, e conseguente alla
denuncia e alla proposta del nuovo.
Giuseppe Casarrubea
(dalla presentazione della mostra
Malaguarnera e Prestipino”
Centro d’arte “Il Grifone”.
Caltanissetta, 1974 “
I nostri figli!
I nostri figli, all’alba della vita, sepolti sotto un fiume di colpe nascoste e potenti, travolti dal fango
delle nostre miserie, dei nostri egoismi e della nostra incuria. La, sotto infami macerie, tante
innocenti vite mai più vedranno il sorgere del sole e non ascolteranno il canto degli uccelli che
salutano la vita mattutina che risorge. Essi sono morti. Ma, come un albero spezzato che ancora
tende al cielo l’ultimo ramo con i suoi germogli, quei bimbi ci indicano la via e ci infondono la
speranza che forse non tutto è perduto.
Procedimento tecnico per la fusione della scultura di bronzo.
1° La scultura proposta viene modellata in argilla o gesso.
2° Dall’opera finita si forma il calco con uno strato di silicone rivestito in gesso.
3° La colata di bronzo nel calco è eseguita con la tecnica della fusione a cera persa.
Ignazio viola
(Galleria Hatria, Bergamo, 1987)
(…) L’artista siciliano è stato sedotto, affascinato e dalla sua disponibilità a ricevere forme. La sua
vocazione ad essere demiurgo è garanzia di autentica arte. Egli dichiara ancora: “ sento il bisogno
di scoprire materiali e forme, vedere i miei oggetti a tutto tondo, possederli girandogli in continuo
colloquio.” Sarebbe a dire che l’artista domina la materia e per incanto la rende multiforme, a
seconda dell’estro, del capriccio, in piena libertà operativa. Prestipino, dalle sue creature non si
stacca mai, intrattenendo con loro un eterno rapporto di maternità, attraverso un continuo
colloquio d’amore. Le sue opere nascono dalla materia e vivono nella materia. (…) Prestipino, da
attento osservatore, coglie e analizza l’evento o fenomeno che può essere provocato dalle leggi di
natura, o dalla libera volontà degli uomini, o da un complesso di circostanze che si chiamano,
comunemente, caso. Se ne impossessa, lo modella secondo le proprie intuizioni estetiche e lo
ripropone, storiograficamente e artisticamente, alla sensibilità e alla comprensione dei suoi simili.
Il nostro scultore, da produttore e da storico, crea e racconta. La sua arte non è una semplice e
pedissequa imitazione della realtà, come sensibile percepito e intuibile folgorato. Ma, una
reinvenzione di figure, di forme, trasfigurando e anche deformando. (…) Quanto più dura, pesante,
fredda, grigia, povera è la materia che plasma, tanto più morbida, leggera, colorata, calda, ricca di
poesia e d’amore è la forma, l’anima che vi infonde. (…) A differenza della scultura, la pittura di
Prestipino è drammatica, quasi infernale. Osservandola, affiorano alla memoria descrizioni e
immagini dantesche: esseri deformati, dilatati, aggrovigliati in spasmodici amplessi che non
consentono speranze di liberazione. Masse vaganti senza sosta che vivono immerse in un
pastoso, oleoso liquido amniotico e scorrono affogate in un incandescente fiume lavico, peggio
dello Stige, il mitico fiume infernale. Il tutto è creato dall’artista con grande maestria, in una
sapiente scelta di colori e in un equilibrato dosaggio degli stessi. Colori foschi, brumosi, caricati di
blu notte, d’arancione cupo, di rosso sangue stemperato dopo un antico coagulo. Coagulo di
anime in pena impastoiate, incapaci di emergere dal ventre della grande Madre Terra.(…)
GESUALDO PRESTIPINO, SCULTORE
Sono anni che Gesualdo Prestipino muove e rimuove, nelle sculture che enuclea, semiplastici in
tensione vitale, espansiva e germogliante. Il mistero della genesi si accompagna in lui alla
stupefazione per il suo instancabile riprodursi, al di là del tempo, al di là della sua stessa scultura.
Prima della scultura c’è infatti il sentimento di un’entità sorgiva ed energetica che spinge, preme e
pulsa, e di quando omette forme anonime, fin quando noi non le conferiamo nome, solo per
necessità.
La temporalizzazione delle cosmologie presenti in tutti i pensieri è il fondamento di meravigliosi
racconti, ma è anche motivo dell’innaturale isolamento oggettivante dell’aspetto ciclico e
dinamico del fenomeno vita, che è di inconcepibile grandezza e non culturizzazione, mistero.
E su questa soglia precaria del trapasso di essenza, che confonde la vita con la morte, che
Prestipino non colloca solo le sue sculture in quello stato inclassificabile in termini dualistici di
essere e non essere, ma, appunto, colloca in prima istanza se stesso.
Il rituale scultoreo, per l’artista, è spettacolare confessione, plastica autobiografica, ritrosa
autointagine di una dimensione ineffabile che la mente non può vagliare, ma la scultura, l’arte, si.
Prestipino scolpisce per ricordare ciò che altrimenti potrebbe svanire, dissolversi in molte nascite,
anche se mai morire.
Il suo è un rituale severo, un omaggio senza risparmio, al passato che si attualizza al presente.
Cristian Germak
Aldo Prestipino oggi
Di Cinzia Farina – agosto 2009
Lo vedi nel suo laboratorio, all’opera, e il suo sorriso felice ti contagia mentre ti mostra, ancora
fresca di sogno e di destino, l’ultima forma nascente. Una barca. Oggetto-scultura, in attesa di
colore e, sembra, dettagli imprevisti. Lunghi frammenti di fasce giocati in superficie, rilievo
minimo. Limpidamente cartesiano, negli assi compositivi, l’impianto. Semplice compensato e
bacchette di metallo, la struttura. Sottile e leggerissima, ti sorprende. Talmente gaia, dritta e
acuminata come una freccia verso il bersaglio, pronta più al volo che al galleggiare.
Entri in casa e, nella luce che viene dal gesso bianco delle ultime sculture, incontri di nuovo la gioia
di Aldo. E ancora di nuovo ti contagia. Nella permanenza di un segno personale, forte e
inconfondibile, un passaggio ulteriore si racconta. Ci sono le sue “fasce” (le vedi già splendere nel
bronzo), prima più robuste poi sempre più leggere e sottili, che si intrecciano, ora in forma di
colonna, ora di cono o di spirale, ora di sfera. Ora in alternanze semplici quasi simmetriche, ora in
articolazioni complesse e moltiplicate. Ora lisce, ora finemente corrugate. Ma non c’è più massa,
né peso. Non c’è più figura. Le fasce avvolgono uno spazio vuoto di materia. Resta una dinamica di
linee, una tensione di energie. Resta, platonicamente, la forza basilare dell’idea. Forme aperte
tanto leggere, da divenire talora basculanti. Le vedi nomadi, fluttuare annusando, come la barca,
l’infinito.
Superato il senso classico, antropocentrico e affermativo, di una scultura fulcro dello spazio in cui
si cala, questa scultura non prevarica lo spazio. E non offre resistenza. Lo spazio le si accorda, entra
con il vento liberamente ed esce e, con il vento, canta. Per una via intuitiva, per nulla influenzata
dalle mode, assolutamente interna al suo mondo artistico ed esistenziale, Prestipino giunge alla
saggezza orientale del Tao. E a ben vedere, sta qui la gioia.
Ti affacci sul giardino e vedi che il più era già in quelle grandi pietre degli anni ’90 che guardano il
lago: Il Viaggio, Idillio, e soprattutto Amanti. C’era negli studi preparatori a carboncino, in quelli
degli anni ’80, già astratti. C’era, nonostante la figura, perfino nei pastelli e nei bronzi del mito.
Nelle ultime cose, carboncini e crete monocrome su grandi fogli di carta speciale fatta a mano in
Sicilia, quella tendenza kandinskiana all’astrazione presente fin dagli inizi (vi si intravede anche
Klee e perfino il Mondrian iniziale della serie degli Alberi), matura attraverso un processo
progressivo e inarrestabile di semplificazione e purificazione. Sia che si tratti di linee sottili, fluenti
come capigliature in larghi movimenti, sia che si tratti di fasce come correnti di tensione e di
energia, sia che si tratti di grandi intrecci in campiture senza confini.
Da qui in poi è libertà. Dalla scultura vuota, come snodo di forze nello spazio, a uno spazio
minimale, apparentemente compresso, ma invece rarefatto come l’aria d’alta quota.
Smaterializzato e del tutto spirituale. Opere nuovissime che utilizzano in sovrapposizione ritagli di
legni sottili e soprattutto quella bellissima carta siciliana, per la prima volta assunta non come
semplice supporto, ma nella sua oggettiva, specifica qualità materica. Le fasce divenute segni di un
grafismo in cui mutano gli spessori, le proporzioni, la scansione ritmica. Ripetizioni e differenze, in
variazioni impenetrabili. Strati sottili, gli uni sugli altri, trafori, applicazioni, in profondità minime
con ombre leggere, infinitesimali. Un bassissimo rilievo (fino ad affioramenti di forme sullo stesso
foglio ottenuti col torchio calcografico) che, annullando la distanza tra pittura e scultura, recupera
d’istinto un secondo genius loci. Quella cultura araba che dal mondo classico ci transita nel
medioevo mediterraneo: tutto si fa vicino e si stringe, dice Erri De Luca, in quel sottosuolo
mischiato dei “sangui” che è la nostra cultura meridionale.
Bianco, nero, tracce o grovigli di rosso primario. Ma soprattutto nero su nero e, ancora più, bianco
su bianco, in forme d’uovo metafisico, dove lo spazio rinvia solo a se stesso e perciò si fa zen,
mistico e meditativo. Azzerate natura e soggettività, superata l’arte come espressione, viaggiamo
alti nelle regioni dello spirituale, dove abita la purezza solitaria, autoriflettente, del pensiero.
Il momento presente di Aldo sposa la gioia con la filosofia. E’ sapienza ed è gioco. Ricerca e
sperimentazione. Per la prima volta manipola materie povere di scarso valore, industriali, come il
compensato, la rete plastica, l’ovatta sintetica, il polistirolo, tessuti sdruciti, con cui interfacciano
gli intrecci mobili di segni, i nodi di fasce, i cubi. Intanto, vitalmente attratto e incuriosito da una
contemporaneità altra che cortocircuita la sua fantasia, progetta intrecci giganteschi di lamiera.
“U carusu da surfara”
E’ sorprendente come Gesualdo Prestipino, nella sua lunga carriera artistica (oltre un
quarantennio), abbia saputo coniugare le diverse tecniche della pittura, della grafica, della scultura
in pietra e del modellato in argilla o in gesso con la conseguente fusione in bronzo, con le diverse
esperienze tematiche e stilistiche. La diversità, come ci ha insegnato Ricasso, non è indice
d’incoerenza, ma di ricchezza dialettica interna al principio di comunicazione anch’essa variegata e
articolata capace di adattarsi ad un modello di vita che presenta svariate sfaccettature, in un
mondo nel quale tutto cambia velocemente e l’uomo non ha il tempo di osservare o di valutare
con esattezza i fenomeni e le cause che li determinano. Tuttavia in una precedente riflessione
sull’opera dell’artista ennese, abbiamo osservato com’egli, pur nella diversità tecnica e con
un’articolazione tematica molto ampia, abbia trovato una linea unificante e un linguaggio
armonizzante che gli permette di entrare a pieno titolo fra gli artisti del segmento
dell’espressionismo.
Questo mi sembra, finora, il consuntivo che possiamo tracciare su Prestipino, specie se
consideriamo l’ultima sua fatica della scultura monumentale bronzea al minatore: “Il Caruso”,
emblema del lavoro in miniera della solfara nella Sicilia interna (altezza cm 250 circa) del giugno
2003.
L’opera nasce dall’elaborazione di bozzetti in argilla, nel primo dei quali l’espressione si
concentra sul simbolismo luce-tenebre, in un aggrovigliato procedere di piani che si compenetrano
a vicenda nei quali il personaggio sembra uscire dal buio della galleria della miniera per
guadagnare, con fatica, la luce e l’aria. Scartata quest’ipotesi, forse legata ad un’idea di tipo
simbolista, probabilmente superata nell’arte d’oggi, il Prestipino si accinge a spogliare la statua di
sovrastrutture incomprensibili e, gradatamente, in un secondo e poi in un terzo bozzetto, ma
soprattutto nell’opera finita, sintetizza al massimo la forma delle masse plastiche, rendendola non
solo semplice ed armoniosa, ma facilmente leggibile.
La forma, infatti, non imita la natura, ma la muta facendo sì che nella percezione non sia
impegnata la vista, ma l’intelletto, perché la presenza d’elementi astratti, fasce intrise d’enigmi,
che, avviluppando l’immagine, non permettono una facile e scontata interpretazione, ma
rendono necessario la sua ricostruzione nella mente, appunto, con tutte le possibili implicazioni,
sviluppi o soluzioni che riconducono essenzialmente alla storia.
Il Prestipino, dunque, ci presenta la figura vera, ma non verista, modificata nella natura,
cercando nel gesto essenziale del corpo ricurvo dal peso millenario de carico di zolfo sulle spalle, di
superare il dramma, ma non la storia; tuttavia quello che l’artista ci presenta non è altro che un
frammento della storia, è come un tassello di una complessa e intricata composizione in cui
ciascuno col pensiero ricostruirà i fatti, secondo il proprio punto di vista, inserendoli nello spazio e
nel tempo, risalendo con la memoria, all’intera vicenda nella quale l’immagine stessa è parte attiva
ed emblematica. Essa, però, nonostante la forte sintesi operata sui piani plastici e dalla ricusazione
di qualche particolare formale, non pare scevra da suscitare emozioni e sentimenti, ponendosi,
dunque, perfettamente nell’ambiente e nella vita di cui non è altro che il riflesso indelebile della
nostra storia: esistenza tragica e dolorosa della vita, vissuta in un ambiente duro e ostile.
L’artista volutamente omette alcuni dati e segni naturalistici per inserirne altri astratti e fare sì
che l’osservatore entri per empatia nell’immagine, infatti, secondo la teoria estetica
espressionistica, le opere d’arte non sono espressive per se stesse, ma tutto è riconducibile ad
un’affinità fisio-psicologica di ciascuno nel momento in cui si entra in rapporto con l’opera che
abbiamo di fronte; così come giustamente insegna il filosofo Nicco Fasola, il quale scrive: “ Nulla di
ciò che percepiamo agisce su noi puramente per se stesso, tutto agisce insieme, come risonanza
dell’affine che è in noi “. Sono sicuro, per quest’assunto, che l’opera di Prestipino riscuoterà
consenzi e approvazione da parte di molti cittadini che, entrando per empatia nell’immagine e
rapportandosi con quel semplice gesto di torsione e contrapposto del busto-testa-arti, in una sorta
di chiasmo, non solo saprà emozionarsi, ma conservarla gelosamente nella memoria della storia e
della vita.
Angelo Malaguarnera
Indoratevi ancora nell’erba e nel cielo sereno!
O vita, rifà primavera delle tue mille fibre diverse!
Non voglio ormai che un veleno:
bere, sempre bere i miei versi.
V. Majakovskij
Da: canti di libertà
Era inevitabile che ci arrivassi!
Che tu, Aldo, partigiano espressivo dell’intima sofferenza umana, arrivassi a questo atto di
scultura monumentale.
E ciò non tanto per amore d’enfasi – o forse non solo per questo- né di grandezze d’ingombro
proprie del monolite rappresentativo che è nel senso oscuro del monumentalismo celebrativo e
osannante, quanto per la opportunità che questo offre di poter sviluppare l’idea di un tema che da
sempre, tarlo di cervice insanabile, cerca breccia nel corpo della irruente propulsione del tuo
essere
e fare: lo zolfataio, meglio il “ caruso” della zolfara, l’imberbe minerario fragile d’anni ma già carico
di pesi e foschie vitali che gli derivano dall’essere infossato nel cuore di quella terra –eppure
madre! - che avrebbe dovuto sostenere e accorare.
Quella terra che tu quasi castigo ad una colpa insostenibile, raffiguri qui, ricca di
sforacchiamenti e uscite d’arieggiamenti e tagli come ferite inferte dal gesto profetico del fare
scultoreo da cui tende a sorgere – o insorgere – e sollevarsi pure, dal profondo inferico, l’icona
spiritata, il fantasma del tuo “caruso” che giace sepolto fra la polvere di una storia che non ha
compreso ed escluso.
Già, il “caruso”: metafora della eterna, carnale sparizione; creatura assente di presenza e
dunque di presente storico, senza passato da raccontare perciò, e dunque privato dello strabilio di
un futuro consolante; bagaglio sulfureo appena, invece, di una vita invisibile che, se appieno
posseduta, serve al ritrovamento di sé oltre lo sfondamento incolpevole (forse) della nascita, nella
scena delle effettuazioni cosmiche che, in testa alla suprema ragione, tentano l’accordo armonico
con il resto universale.
Appare la tua creatura, imbrigliata nella morsa di un mondo che azzera e obnubila: nulla
concede alla maestà dell’essere e aspirare.
Ma l’urlo della liberazione vi è, seppure contenuto, nel tuo scolpito – in raccordo perfetto col
tuo temperamento – muto di furie ma nutrito di racconto: breccia si fa fra vie di contegnose
sinapsi e accensioni visuali della memoria; fra pronunciamenti volumetrici sterogenei e ammicchi
di cromie rifugiate in corpo ad un espressionistico vagabondare in tatto alla materia che, benda di
affluvi sanguigni coagulati, controlla, in peso, la spirale evolvente del moto spaziale di
accadimento non solo fisico di ciò che in esso è raffigurato: nel lume della speranza si dibatte per
uscire dall’affanno di un enigma esistenziale insondabile; Una analogia qui mi si accende
improvvisa: la sollevazione del Cristo di Michelangelo nella parete della Sistina.
Lo sguardo ho tante volte rigirato, durante il tuo eseguire, all’intorno del sistema plastico –
nessun punto di vista può essere omesso durante la ricognizione di una scultura – quasi
costruzione di un edificio babelico, con te protagonista del gesto modulante, liberatorio di moti
aerei accerchianti, accaniti spesso, vorticanti e incentranti sulla precarietà gravitazionale di un asse
di per sé rigido ma portante postulati concettuali, avvolgenti ed evolventi come intrecci vegetali di
boscaglia che imbrigliano, nervi formali di superfice, quasi trama di un destino accanito,
avvinghiato attorno all’umanoide che non sa – ma forse non vuole – se tirarsi fuori dalla sorte
segnata o rimanervi annegato come in una monumentalità d’eterna mummificanza che è ad un
tempo fiore di un sogno incontaminato e ingovernabile sensazione di liberazione estetica dalle
catene opprimenti della realtà e della fatale predestinazione.
Alberto Cacciato
Il ratto di Proserpina (per Aldo)
Da un punto nella terra, da un foro, sale un turbine che cresce. Da una fenditura del tempo
irrompe la forza originaria del mito, l’attimo rapinoso che fonde in uno l’uomo-dio, i cavalli, la
fanciulla. Epifania di un istante, appena concreta e subito pronta a dileguarsi in cielo. Senza
sciogliersi in racconto, né diminuire.
Pura energia di un vortice d’aria ascensionale che, solidificato, simula corpi.
La forma è cava e ancora una volta-cifra di un’originalissima dialettica astratto/concretocostruita per fasce nascenti l’una dall’altra, capaci di evocare potentemente le figure senza
descriverle, la natura senza imitarla. Linee di forza robuste, mai decorative, generatrici-sotto lo
sguardo di chi osserva-di spazio e significato.Un “unicum” che agglutina le figure tra loro, il tempo
e la materia. Persino l’aria del luogo che si incunea fra i vuoti, con occhi di foglie verdi, di cielo e
acqua.
La struttura è circolare. Ma per curve eccentriche, ellissi e spirali. La composizione, ascendente.
Moto avvitato e tensione verso l’alto non estranei alla lezione del costruttivismo russo. Forme
dinamiche e geometrie del curvo che non possono prescindere dai futuristi e da boccioni.
Lui, Plutone, la testa coronata del dio al centro. Motore possente dell’azione, incarna il
movimento e lo orienta, attraverso la torsione michelangiolesca del suo corpo. Dal basso,
saldamente divaricato, verso sinistra e verso l’alto, reggendosi al cavallo con un braccio, con l’altro
sollevando di peso da terra la fanciulla. Volitivo e fulminante il gesto maschile che afferra.
Impetuoso il desiderio che sale.
Di qua, Proserpina, Il desiderio divergente. L’abbandono e il vuoto.
Resistenza e gravità di materia verso il basso. E allo stesso tempo curva convessa che si gonfia
avanti e si oppone. In controcampo, un infittirsi veloce e minuto delle fasce, allusivo a lunghi
capelli di giovinetta, ne umanizza la vicenda.
Il richiamo, in diagonale, delle analoghe criniere avvicina di là, col vibrare della luce, il confine
estremo dove, alti, si duplicano i cavalli del carro, bloccando come due colonne nell’eternità del
mito la dinamica violenta del presente. Se non fosse per l’espressionistica, diversa tensione delle
teste che prolunga all’infinito la spirale.
Tutto si da nella rapidità fulminea dell’apparizione.Si stringe lo spazio, compenetrati i piani e le
figure. E’ un attimo. Puntuale ed infinito, duale e unitario al tempo stesso: il maschile e il
femminile, Cerere e Plutone, l’amore e la violenza, il buio e la luce, la vita e la morte, il mito e la
natura, il tempo e l’eternità…
Cinzia Farina
Viaggio attorno ad un “ bronzo”
Il primo contatto è frontale ed è definizione cruda, storia. Purificati ma riconoscibili – stirraturi,
chiumazzata – e la postura di lavoro. Chiara l’esilità acerba del corpo adolescente che piegandosi si
allunga, facendosi dolorosamente uomo. Ma non ci sono mani né dita, non c’è pelle, non c’è faccia
né occhi né bocca. Respinto ogni naturalismo facile, ogni sentimentalismo, resta l’essenza di una
forza contenuta. Evitata ogni dispersione di piccoli movimenti, ogni frammentazione – si pensa
soprattutto a Moore o all’integrità formale dell’arte negra e arcaica – rimane il severo ritmo
“legato” di fasce avvolgenti, quasi bende cerimoniali di una dimensione sacra che trasfigura la
vicenda umana, alludendo anche, nel suggestivo disfarsi, a una resurrezione. Umanesimo asciutto.
E’ qui che la macchia di luce della larga fascia obliqua che parte da sotto stirraturi e sporge anch’essa forma cava, tellurica, come le altre in alto e in basso – cattura lo sguardo guidandolo,
verso sinistra, a un viaggio intorno al bronzo. Dal lato sinistro vedi meglio vedi meglio l’ovale della
faccia che, definita dalle bende come semplice scalare di piani, non può vedere né sentire né
parlare; vedi il corpo che si curva sotto il peso e, dallo spigolo del gomito, la tensione del braccio.
E vedi anche una forza, un’energia dal basso che sembra crescere dalla terra, da dietro, dove sei
spinto a guardare. Niente di superfluo. Solo, nello stretto confine concesso dall’orizzontale
definitivo di una linea continua che unisce braccio testa utensile, una dialettica antica, la lotta tra
ideale e reale. Dietro, estremo è il dolore, il peso e la gravità. Spasmodica la curvatura delle spalle
protese in avanti, possente la quadratura del bacino che trascina faticosamente un passo di
forzato. Ma, mentre il ritmo delle bende si fa più serrato e rigorosamente strutturale, la gamba
destra sprigiona una volontàdi movimento tale da tirarsi la terra appresso, capace di riscatto. La
radice terrestre, così sollevata, si divide e anima in due curve plastiche, orientate a destra come le
braccia – periferia di un chiasma dinamico capaci di trasmettere al centro l’impulso elettrico
dell’ascesa e della rotazione – che accelerano, di là la risoluzione. Infatti a destra, come una
frustata, sale brusca un’ansia di liberazione. Nasce da un buco, un vortice, dalla stessa matrice
dello zolfo, uno sforzo di risalita. Da una forma organica, al modo di Arp, primaria e originaria,
principio vitale e nucleo di ogni possibilità, si genera un’ascensione. E la gamba non è più solo
gamba, ma un continuum elasticamente deformato – ecco Boccioni – che compenetra massa
corporea terra e atmosfera, coagula spazio e tempo in una forma unica. Ma il cerchio, eroico senza
retorica perché gioco tutto fisico di materia, non si spezza. Non cè consolazione: lo slancio subito si
arresta schiacciato dall’ orizzontale. Ed è di nuovo peso, sulla fronte.
Cinzia Farina
Commenti Bronzi Parigi
1. L’homme et le cheval
Chevauché pour la première fois, le poulain tente de désarçonner son maître. Tous les
deux, enveloppés comme un enfant dans ses langes, l’homme et la bête, luttent pour affirmer leur
volonté. L’artiste les surprend dans le déséquilibre qui s’en suit.
2. Le bras et le cerveau
Les bras levés vers le ciel, l’homme poursuit, avec toute la force du corps et de l’esprit, son
rêve de liberté, celle des nobles et secrètes aspirations de la dignité humaine.
3. Visage
L’artiste par lui-même. Un autoportrait de son style unique, fait d’yeux de lumière et creux
ombreux, qui écarte volontairement les proportions anatomiques et traduit l’émotion du mystère.
4. Cora
Perséphone, fille de Déméter, est connue dans la patrie de l’artiste, où elle a été ravie par
son oncle Hadès, surtout sous le nom de Cora, la jeune fille. L’artiste, un fils d’Enna, ne pouvait
que la représenter dans la beauté de la jeunesse imprégnée de majesté divine.
5. Iphigénie
Pour apaiser la colère d’Artémis, son père Agamemnon accepte de la sacrifier à la déesse.
Au dernier moment, Artémis lui substitue, sur l’autel, une biche comme victime. L’artiste voit
Iphigénie enveloppée de brouillard dans l’instant même d’être emportée.