lorenzo rocci - Società Editrice Dante Alighieri

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lorenzo rocci - Società Editrice Dante Alighieri
ELEONORA MAZZOTTI
LORENZO ROCCI
IL PADRE, IL MAESTRO, L’APOSTOLO
PARTE PRIMA
LA BIOGRAFIA
PREMESSA. UN GIGANTE DI NOME ROCCI
Le pagine spesse ingiallite dal tempo, pregne dell’odore intenso dell’inchiostro. I minuscoli
caratteri ravvicinati, confusi in una grafia continua nella quale sembra essere racchiuso il senso
ultimo della nostra civiltà. Le parole fascinosamente desuete come frammenti di un parlare arcaico,
relitti di un’Italia che non esiste più. Il periodare intricato e complesso a formare arcani messaggi
dal vago sapore di antico che promettono l’accesso ad una sapienza esclusiva, sommersa dagli anni
ma mai del tutto perduta. Così si presenta davanti ai miei occhi, sul tavolo della mia scrivania, il
mitico vecchio Rocci, lo storico dizionario greco-italiano che nel lontano 1939 un gesuita
dottissimo ed eccezionalmente tenace consegnò a generazioni di adolescenti dalle belle speranze,
impegnati a tessere i propri destini sui duri banchi dei licei italiani.
Sulle dense e ardue pagine del vecchio Rocci si sono formati il brillante avvocato che oggi
patrocina cause nel Tribunale di Napoli e il medico che salva vite nelle corsie di un ospedale di
Milano. Su quel fitto intreccio di caratteri greco-italiani ha versato sudore e lacrime l’insegnante
che oggi si sforza di conquistare alla cultura sedicenni rassegnati alla disperazione in qualche scuola
della periferia dimenticata di Palermo, così come l’anziana signora che ora vive in un lussuoso
appartamento nel centro di Roma e che all’alba della sua giovinezza, dopo un dignitoso percorso
liceale, scelse semplicemente di svolgere al meglio il ruolo di moglie e di madre.
Pochi libri hanno unito l’Italia come quel ponderoso volume uscito dalla penna infaticabile di un
milite della Compagnia di Gesù. Ed è per questo motivo che non si pecca di esagerazione se lo si
accosta alla Commedia dantesca o agli intramontabili Promessi Sposi del grande Manzoni.
Per decenni il vecchio Rocci ha iniziato alla cultura e educato al sacrificio classi di ginnasiali
scalmanati, mentre l'’Italia risorta dalle rovine della guerra costruiva il suo futuro repubblicano, in
anni in cui non era follia credere che l’avvenire sarebbe stato migliore del presente. Pagine
complesse e crudeli, quelle del vecchio Rocci, che hanno decretato inesorabilmente il fallimento di
tanti giovani che sembravano destinati a radiosi successi, ma che hanno anche favorito l’ascesa di
chi, venuto dall’esercito degli ultimi nell’Italia di tanti nuovi ricchi, affidava alle fatiche dello studio
le proprie ambizioni di riscatto. Perché c’era qualcosa di profondamente democratico
nell’aristocratica complessità del Rocci: il richiedere a tutti, senza distinzione di origine e di censo,
il massimo tributo di impegno e dedizione per offrire in cambio le chiavi della sapienza antica, il
prezioso segreto della tenacia come arma per vincere le sfide della vita. A nessuno il Rocci faceva
sconti, ma a nessuno negava la gratificazione in cambio di impegno e sacrificio. E su quelle pagine
che con il passare del tempo diventavano sempre più incomprensibili e sempre più lontane, tanti
giovani hanno appreso un messaggio di vita che avrebbero per sempre custodito come una delle
eredità più preziose della giovinezza trascorsa sui banchi di scuola.
Dagli scaffali delle biblioteche di tante famiglie italiane il vecchio Rocci ha assistito, testimone
discreto, al crollo del fascismo e al collasso dello Stato, alla furia della guerra e alla ricostruzione
postbellica, alla stagione solare del boom economico, alle contestazioni studentesche, allo shock
petrolifero, all’agonia della Prima Repubblica e alla faticosa nascita della Seconda. Oltre
settant’anni di storia d’Italia. E mentre i fatti si accavallavano e si alternavano epoche di ottimismo
e cupe fasi di depressione, lui era sempre lì, sempre al suo posto, sulle scrivanie dei ragazzi italiani,
nelle biblioteche delle scuole, nelle vetrine delle librerie, fedele e tenace, severo e rassicurante come
un padre, a insegnare, a dispetto di tutto, il valore della classicità, a far capire ai più giovani perché
avesse ancora un senso studiare il greco antico.
Nessuno potrà mai dimenticare ciò che il vecchio Rocci ha rappresentato per la scuola italiana,
per tanti insegnanti, per generazioni di studenti, per tutti noi che abbiamo frequentato il liceo
classico e che siamo impazziti su quelle pagine così difficili e dense, che le abbiamo anche
maledette, ma che inconsapevolmente le abbiamo sempre amate e le amiamo tuttora. Perché sono
una parte di noi e della nostra storia. Perché la nostra capacità di analisi e di riflessione è stata
plasmata anche da lunghi anni di consultazione paziente di quelle pagine. Perché grazie a quella
faticosa opera di decifrazione siamo divenuti più maturi, più riflessivi, siamo diventate forse
persone migliori.
Oggi il vecchio Rocci non è più in commercio. È andato in pensione per sopraggiunti limiti di
età. La sua scomparsa ha rappresentato un evento doloroso, ma inevitabile. I libri scolastici nascono
per insegnare e, se non sono più in grado di farsi capire da chi deve imparare, perdono la loro ragion
d’essere. Può sembrare cinico, ma è così. Il vecchio Rocci come testo di scuola non esiste più.
Ciononostante esso non morirà mai come opera d’antiquariato, come prodotto di cultura, come
capolavoro del classicismo italiano. E in questa veste acquista un valore nuovo anche quel
linguaggio arcaico, intriso del purismo arcaizzante di Padre Rocci che tanto ha fatto disperare i
ginnasiali delle ultime generazioni nelle fatiche della traduzione.
Come testo scolastico il vecchio Rocci soggiaceva ineluttabilmente alle leggi ferree del mercato e
alla regola altrettanto severa del buon senso e dell’opportunità. Perseverare nell’ostinata volontà di
proporre ai quattordicenni del XXI secolo un così complesso condensato di fine erudizione avrebbe
più nuociuto che giovato alla fama del grande Rocci, se non altro perché lo avrebbe crudelmente
esposto al rancore e al dileggio di giovani sempre meno allenati al paziente esercizio della
riflessione, e lo avrebbe reso oggetto dell’ingiusta ironia delle nuove generazioni di insegnanti
talvolta smaniose di ostentare un incontenibile furore modernista. Il nostro amato vecchio Rocci
non avrebbe certo meritato questo. E allora meglio mandarlo generosamente in pensione dopo anni
di onorevole servizio al fianco di studenti e professori e lasciare che al suo posto un nuovo
dizionario, nato dalle sue costole e dal suo sangue, guidi gli adolescenti di oggi e di domani
sull’impervio sentiero della conoscenza del greco.
L’antico dizionario scaturito dalla fine erudizione e dalla penna infaticabile di Padre Lorenzo
Rocci continuerà a vivere la sua nobile esistenza di capolavoro del sapere, amorevolmente
conservato ed esibito nelle biblioteche di quei numerosi italiani che, in anni più o meno remoti,
sulle sue pagine hanno imparato ad apprezzare il valore dello sforzo intellettuale. Allora forse anche
i più giovani, vedendo quel misterioso tomo dall’aspetto antico fare mostra di sé sugli scaffali della
libreria di casa, con la sua seriosa copertina scura e la grafia minuscola impressa sulla carta segnata
dal tempo, saranno indotti ad aprirlo e a sfogliarlo, e nella rassicurante penombra dell’intimità
domestica, lontano dalle grida degli insegnanti e dal terrore del compito in classe, sapranno meglio
valutarne il pregio. E quei tanti nostalgici del greco che, pur portati dal flusso della vita ad
occuparsi di altro, non hanno saputo dimenticare la sublime bellezza di un verso di Omero o di un
brano di Platone, potranno di tanto in tanto riaprire il loro vecchio Rocci per riallacciare le fila di
uno studio interrotto e per trovarvi forse, tra le righe, anche qualche traccia di ciò che sono stati e di
ciò che hanno sognato. Per tutti loro il vecchio Rocci è vivo più che mai e nessun nuovo prodotto
del mercato potrà usurparne il posto.
Chi invece si accinge oggi ad iniziare un percorso di formazione sui banchi del liceo troverà un
nuovo Rocci accanto a sé, un dizionario che non avrà certamente il meraviglioso odore di antico
dell’edizione originaria, ma che saprà meglio accompagnare i più giovani nel loro lungo percorso
scolastico, parlando una lingua più accessibile e attuale, spiegando con amorevole cura costrutti e
reggenze, agevolando la ricerca con rimandi interni ed esplicitazioni varie. Elementi che il vecchio
Rocci non poteva avere, perché per una diversa scuola e per una diversa Italia esso era stato
concepito.
La nuova edizione, che della vecchia riproduce l’impaginazione e il formato, pur migliorandone
il carattere e la grafica, si pone anche concettualmente su una linea di ideale continuità con l’opera
di Lorenzo Rocci. Non ha l’ambizione di sostituirla, ma di garantirne la sopravvivenza nel liceo del
domani e di far sì che essa possa continuare a vivere non solo sugli scaffali polverosi delle
biblioteche, ma anche sui banchi e sulle scrivanie dei nostri figli. Questa è la vera e unica missione
del nuovo Rocci: perpetrare, come un figlio, la memoria del padre.
Ai numerosi nostalgici che in questi mesi ci hanno scritto manifestando la propria tristezza per la
scomparsa del vecchio dizionario, vogliamo semplicemente consigliare di non contrapporre il
nuovo al vecchio, ma di ricercare con pazienza la mano maestra del vecchio tra le righe del nuovo.
Se cercheranno con amore e rispetto, la troveranno. I curatori della nuova edizione non hanno
voluto violentare o uccidere l’antica, ma solo darle nuova vita, se non altro per offrirle la possibilità
di una rinascita in un formato elettronico moderno, il primo presupposto per sottrarla all’oblio del
tempo.
Chi rimpiange la vecchia edizione forse non sa che essa era solo parzialmente digitalizzata e che
il supporto su cui viaggiava di ristampa in ristampa versava in condizioni sempre peggiori. Di lì a
qualche anno del Rocci non sarebbe stato possibile realizzare più alcuna copia, né nuova né
vecchia.
Chi biasima la scelta di una nuova edizione, forse non sa delle infinite proteste degli studenti
contro il carattere troppo minuscolo, l’italiano arcaico incomprensibile, l’esiguità delle didascalie
morfo-sintattiche, la scarsa presenza di rimandi, le citazioni non tradotte, i lemmi abbreviati,
l’essenzialità delle indicazioni di costrutti e reggenze. Se fossimo stati sordi alle loro proteste,
quegli studenti sarebbero andati a cercare altrove quell’aiuto che nel Rocci non riuscivano più a
trovare. E ciò avrebbe significato lasciare che il Rocci soccombesse alle vili leggi del mercato. Non
potevamo permetterlo. Sarebbe stato troppo ingiusto nei confronti dello stesso Rocci e della sua
storia.
Occorre semplicemente prendere coscienza del fatto che la scuola di oggi non è più quella del
1939, e nemmeno quella degli anni ’50 e ’60. L’Italia è cambiata. Il mondo è cambiato. Chiudersi in
un’ostinata difesa del vecchio avrebbe significato accompagnare dolcemente alla morte uno dei
massimi capolavori degli studi classici. Con il nuovo Rocci, pur con tutti gli aspetti di esso che
ancora dovranno essere migliorati e che certamente miglioreremo, ci si propone di offrire ai nostri
figli uno strumento più fruibile e moderno, che, pur concepito secondo gli standard editoriali
contemporanei, conservi tuttavia molto di quella meravigliosa ricchezza che ha fatto dell’opera di
Lorenzo Rocci un inestimabile tesoro della cultura italiana.
In fondo vecchio e nuovo Rocci condividono lo scopo e la ragion d’essere: fornire agli
adolescenti italiani le chiavi magiche che aprono il mondo della classicità, il mondo da cui
proveniamo e che oggi più che mani, con il suo patrimonio di valori e di bellezza, può indicare la
via per la rinascita ad un’umanità smarrita, troppo spesso incline a confondere il progresso con la
civiltà.
INTRODUZIONE. IL PERCHÉ DI UN VOLUME DEDICATO A PADRE ROCCI
L’idea di questo libello è scaturita dalla fitta corrispondenza intercorsa tra la Società Editrice
Dante Alighieri e il variegato mondo degli studenti, degli insegnanti, degli accademici, dei cultori
delle materie classiche nei mesi successivi all’uscita della nuova edizione del Vocabolario GrecoItaliano Lorenzo Rocci e al conseguente ritiro dal mercato della precedente pluridecennale edizione.
In molti ci hanno espresso il loro cordoglio per la dipartita del vecchio dizionario, come se
all’improvviso fosse venuto a mancare un anziano maestro o un remoto compagno di studi, e nelle
loro lettere si coglie la stessa commossa partecipazione con cui talvolta assistiamo alle esequie di un
lontano conoscente che magari non frequentiamo da anni, ma che ha lasciato un’impronta indelebile
nel nostro presente e, con essa, il dolce ricordo di una stagione della vita che non tornerà più.
Certo, non sono mancati i messaggi di apprezzamento per la nuova edizione del Rocci e gli
auguri al nuovo nato per un radioso futuro. Ma sempre all’augurio si è unita una vena impalpabile
di nostalgia per quel vecchio tomo ingiallito dall’incomprensibile eloquio che ha iniziato tanti
trepidi adolescenti al magnifico mondo delle lettere.
Leggendo i numerosi messaggi che ci sono pervenuti in questi mesi, si ha quasi l’impressione di
trovarsi a presenziare alla successione al vertice in una vecchia fabbrica della sana e robusta
provincia italiana, una di quelle fabbriche storiche che in passato sono state in grado di segnare la
vita di un’intera comunità. Quando il vecchio nonno, vinto dall’inesorabile carico degli anni, cede il
campo al giovane figlio, o all’ancor più giovane nipote, educato nelle migliori accademie d’Europa,
tutti i dipendenti sanno in cuor loro che è giusto così, che ciò rientra nella dura logica del mondo,
che le nuove generazioni rinnoveranno l’azienda introducendovi le infinite meraviglie del progresso
e della tecnica e avanzatissimi modelli di organizzazione del lavoro. Eppure permane in molti,
soprattutto nei veterani, negli operai più anziani che hanno visto crescere e prosperare la fabbrica e
che di tutta quella prosperità si sentono in qualche modo artefici, un impalpabile senso di tristezza,
una malinconia che stringe la gola e riempie gli occhi di lacrime. Il vecchio padrone era certamente
burbero e scontroso, un tipo irascibile e forse anche poco raffinato, ma era in fondo uno di loro,
formato, come loro, alla severa scuola della vita, e la sua scomparsa di scena non può che
rappresentare la fine di un’epoca, fatta di fatiche e sacrifici senza dubbio, ma anche di impagabili
soddisfazioni.
Al suo posto arriverà un giovane brillante, che saprà meglio interpretare le esigenze dei tempi
moderni e che senz’altro sperimenterà strategie per alleviare le fatiche del lavoro. Ma a loro, ai
vecchi, la fatica del lavoro in fondo non dispiaceva affatto, perché il lavoro è fatica – loro, i vecchi,
lo sanno bene – ma una fatica sana che irrobustisce e fortifica e sulla quale soltanto è possibile
costruire la propria libertà. E nell’immagine dell’anziano padrone che cede il testimone al giovane
erede i vecchi operai non possono fare a meno di vedere i segni della storia che avanza, non
necessariamente verso il meglio. La nuova era porterà senza dubbio mezzi più sofisticati e
tecnologie all’avanguardia, ma trascinerà via con sé ideali e valori di un passato in fondo felice,
quella robusta umanità nutrita di sentimenti semplici e di attaccamento alle piccole cose che quasi
mai riesce a convivere con le raffinate logiche del progresso.
Ecco, a molti il nuovo Rocci deve essere apparso proprio così, come il nipote rampante venuto a
scalare l’azienda, mentre il vecchio nonno – lo storico Rocci – abbandonava sommessamente la
scena, sopravanzato dalle crudeli dinamiche della modernità e del mercato. E l’immagine cinica del
nuovo che scalza il vecchio non può che tingersi oggi di un’inconsolabile tristezza, se ci si sofferma
a riflettere sulle tante certezze degli anni trascorsi e sulle tante angosciose incertezze del domani. Si
aggiunga che coloro che per anni hanno messo a dura prova gli occhi e la mente sulle pagine
ingiallite del vecchio dizionario e che oggi con fierezza rivendicano ciò, perché la cultura è anche
fatica e sacrificio (e loro lo sanno bene), non possono astenersi dal rivolgere uno sguardo
compassionevole alle schiere di giovani adepti che dal nuovo dizionario si aspettano ogni sorta di
semplificazione.
Ogni rammarico è comprensibile e giusto. Si chiede però a coloro che maggiormente sono
affezionati al vecchio nonno di non essere troppo severi con il giovane nipote, il quale in fondo,
anche se si è formato in qualche elegante college europeo anziché alla catena di montaggio, non per
questo dovrà necessariamente rinnegare i nobili valori della sua famiglia e forse, nel ricordo del
nonno, riuscirà a coniugare quei valori con le esigenze della modernità.
Il nuovo Rocci viene al mondo per proseguire la storia del vecchio, anzi per dare al vecchio la
possibilità di avere ancora una storia da costruire nella cultura italiana. Inevitabilmente dovrà usare
strumenti più avanzati, dovrà semplificarsi e rinnovarsi, perché il suo pubblico è cambiato (e di
questo, certo, lui non ha colpa), ma in fondo è sempre lui, il buon maestro che tende la mano a chi,
oggi come ieri, chiede di essere aiutato a scoprire le bellezze della classicità.
In cambio del giusto tributo di affetto per la nuova edizione, offriamo questo libello come
minuscolo omaggio. In esso potrete trovare, oltre ai ricordi superstiti della storia personale di Padre
Lorenzo Rocci, qualche gemma preziosa del volume originario, qualche estratto della fine
erudizione del suo dottissimo autore. Nelle pagine seguenti potrete infatti rileggere, in un’accurata
selezione, alcune delle traduzioni e delle spiegazioni più tipiche del vecchio Rocci, ancora intrise di
quell’irresistibile fascino di sapienza antica che il giovane erede solo in parte può esibire, ma che –
questo ve lo possiamo assicurare – orgogliosamente custodisce nell’intimo della propria identità.
PADRE LORENZO ROCCI: LA FEDE E LO STUDIO
Quando si cercano tracce dell’esistenza di Padre Lorenzo Rocci, l’autore del celebre Vocabolario
Greco-Italiano, poco o nulla si riesce a trovare: l’albero genealogico della sua famiglia; una vecchia
foto di quando, non ancora trentenne, fu Prefetto di Camerata a Mondragone; un’immagine più
recente dei suoi ultimi anni; qualche rara annotazione tra i documenti della Compagnia di Gesù; un
vecchio certificato che attesta la sua iscrizione all’Accademia dell’Arcadia nel lontano 1920. Nulla
di più.
Non si rinviene traccia alcuna, per esempio, dell’enorme lavoro preliminare alla pubblicazione
del dizionario né della pluridecennale attività d’insegnamento, della quale si conserva memoria solo
nelle testimonianze degli allievi, ormai anch’essi ridotti a pochi superstiti. E così, con il trascorrere
degli anni, i contorni della biografia di Padre Rocci diventano incerti e sfumati, e il personaggio
sembra ormai appartenere più alla leggenda che alla storia. Complice l’aura di mistero che circonda
la sua figura di uomo di fede e di lettere e che ha tratto alimento nel tempo dalle voci sulla sua
prodigiosa memoria e sulla sua sovrumana resistenza alle fatiche dello spirito. Complice la sua
naturale riservatezza, che lo ha sempre portato a vivere lontano dai clamori della ribalta, a proprio
agio solo nelle vesti dello studioso e del maestro, irremovibile nel portare avanti con amore e
semplicità la sua scelta giovanile di totale consacrazione alla preghiera e alla cultura.
Chi ebbe il privilegio di conoscerlo lo descrive come «formidabile intreccio di saperi» e si
compiace di elencarne le svariate competenze: grecista, latinista, poeta, grammatico, metricista,
storico, agiografo, memorialista, oltre che confessore e pastore di anime.
Il gesuita Emilio Spranghetti, suo discepolo nonché noto latinista, nelle sue memorie ci consegna
di lui un ritratto inedito, dipingendone l’immagine e il carattere con pochi tratti di sicuro effetto: «P.
Rocci: un venerando vecchio, alto di statura, ritto della persona e solenne, quando l’estrema
vecchiaia non l’aveva ancora reso un po’ curvo e cadente. Una bella testa di antico romano, ornata
di capelli ancora folti, canuti, un po’ arruffati. Un volto pieno e illuminato, all’avvicinarsi di un
amico, da un sorriso appena abbozzato, dolce e quasi soffuso di bonaria ironia. Signorile nel tratto,
inesausto nell’erudizione e nel ricordo di lontane esperienze. Qualche volta apparentemente
burbero, ma in realtà generoso, cordiale, indulgente, costante nell’amicizia sincera e ingenua, come
sanno esserlo i cuori nobili».
Simile fu l’impressione che trasse dall’incontro Max Taggi quando, dopo il Noviziato e un
periodo di Magistero, ebbe l’occasione di frequentare Lorenzo Rocci a Roma: «Già la sua presenza:
era alto, massiccio, con dei bei capelli bianchi, un viso aperto, bonario, uno sguardo profondo e
calmo. Era autorevole, ma accogliente; s’indovinava in lui una persona serena, equilibrata, di
grande cultura, ma semplice in senso positivo, uncomplicated si direbbe in inglese». Del Rocci
sacerdote Padre Taggi ricorda come la dimensione pastorale e una profonda vita spirituale fossero
evidenti nella sua personalità: «Era un piacere servirgli la messa. Celebrava con calma, non aveva
nulla di sentimentale o di bigotto, ma era raccolto, era lì, ben presente al mistero che si celebrava».
Del Rocci religioso Padre Taggi rileva particolarmente l’assoluta fedeltà ai valori del fondatore
Ignazio di Loyola: «il tendere all’eccellenza, a fare bene quello che si fa; la ricerca costante,
istintiva, d’integrazione fra spiritualità (vita di fede) e serietà professionale; l’assillo del magis,
dell’andare oltre; il senso della frontiera […], il tendere ad innovare, a fare qualcosa in più del
banale, dell’esistente; e questo, non per capriccio, ma per due scopi ben precisi: per essere di aiuto
al prossimo, alla gente, e per dare gloria a Dio, in armonia col celebre motto ignaziano ad maiorem
Dei gloriam».
Un altro gesuita, Padre Giuseppe Peri, ricorda di averlo conosciuto proprio negli anni in cui egli
lavorava alla titanica impresa del Vocabolario. In quel periodo, infatti, sul finire degli anni Venti,
mentre un più noto gesuita, Pietro Tacchi Venturi, si adoperava per tessere le relazioni tra Stato e
Chiesa che avrebbero dato luogo ai Patti Lateranensi del 1929, Padre Rocci, nel chiuso della sua
umile stanza arredata di libri, con devota pazienza si dedicava a far nascere il suo dizionario. Padre
Giuseppe Peri, che all’epoca era un giovane novizio, lo ricorda assorto negli studi in un caldissimo
agosto romano, con in mano minuscole schede dattiloscritte che servivano alla stesura dell’immane
opera, tanto immerso nel proprio lavoro da dimenticare persino di togliersi il soprabito nonostante
le roventi temperature estive.
Altri amano ricordare di lui, oltre alla tenacia dello studioso, anche la profonda umanità
dell’uomo consacrato a Dio. Il gesuita Paolo Bachelet, giovane studente di Lettere classiche al
tempo del suo incontro con Padre Rocci, rammenta non solo la cura con cui l’anziano professore lo
aiutava a tradurre dal greco, ma anche il bene da lui fatto a tante anime dentro il Confessionale della
Chiesa del Gesù a Roma. Peraltro anche dopo la morte Padre Rocci ha continuato ad agire come
operatore di bene, perché grazie ai diritti d’autore del suo Vocabolario per decenni la Compagnia di
Gesù ha sostenuto finanziariamente le attività missionarie e gli studenti poveri.
La storia di Padre Lorenzo Rocci è tutta qui, testimoniata da poche tracce sopravvissute all’oblio
prodotto dal tempo, racchiusa nel ricordo di tanti allievi che lo hanno ammirato e sinceramente
amato per quel modello di uomo di fede e di studioso che egli ha saputo incarnare. Forse il suo
merito più grande, al di là della sua immane opera lessicografica, al di là del suo enorme contributo
allo sviluppo degli studi classici in Italia, è stato quello di aver dimostrato che la fine erudizione può
convivere con la semplicità dello spirito, perché gli studi classici non allontanano affatto dalla fede
più autentica, anzi – come spesso ripeteva Padre Rocci – essi danno all’uomo quel senso profondo
di umanità senza il quale anche la fede, specialmente quella dell’intellettuale, è povera e fredda.
LA LUNGA VITA DI PADRE LORENZO ROCCI
Lorenzo Rocci nacque a Fara in Sabina, piccola località a nord-est di Roma, attualmente nella
provincia di Rieti, l’11 settembre 1864, figlio di Domenico, originario di Perugia o più
probabilmente di Piacenza, e di una giovane donna laziale, Eustochio Corradini, nativa di Fara o di
Roma.
Da vecchie testimonianze risulta che la famiglia di Lorenzo viveva in modo povero ma dignitoso,
traendo sostentamento dall’onesto lavoro del capofamiglia, verosimilmente un artigiano.
Tuttavia fonti piacentine, che rivendicano di aver dato i natali a Domenico, attribuiscono alla
famiglia Rocci una remota nobiltà, in quanto l’avo Gian Carlo Rocci sarebbe stato creato Nobile di
Piacenza dal duca Francesco Farnese con diploma del 14 maggio 1703 e lo stesso Gian Carlo
avrebbe sposato la nobile Lucia Bagarotti. Da Gian Carlo e Lucia sarebbe nato Giacomo, morto nel
1770, e da Giacomo sarebbe nato Domenico, morto nel 1814. Domenico avrebbe avuto due figli,
Maria Giuseppa e Vincenzo. La prima sarebbe andata sposa a Gherardo Palmieri e avrebbe da lui
generato due figli, Francesco Gregorio, divenuto poi benedettino, e Domenico (Piacenza 1829 –
Roma 1909), gesuita, professore presso la Gregoriana nonché docente di Sacra Scrittura a
Maastricht in Olanda, filosofo, teologo, moralista, membro della commissione per il Codex iuris
canonici, autore di numerosi scritti, tra i quali un pregevole commento alla Commedia dantesca.
Vincenzo invece ebbe tre figli maschi: Giuseppe, i cui discendenti risiedono tuttora in parte a
Genova e in parte in Spagna; Giacomo, la cui discendenza si è estinta a Podenzano, presso
Piacenza, nel 1956; Domenico, il padre di Lorenzo, il quale si sarebbe stabilito a Fara in Sabina
dopo il matrimonio con Eustochio Corradini, nativa del luogo o comunque del Lazio. Lorenzo ebbe
un fratello, Filippo, dal quale nacque Domenico, morto nel 1978 e ultimo esponente del ramo dei
Rocci di Fara.
Le fonti piacentine tramandano memoria anche dello stemma nobiliare della famiglia Rocci,
costituito da un’aquila nera in campo d’oro, con sottostanti grappoli violacei e tralci rossi in campo
d’argento. Capostipite accertato della famiglia fu Giovanni, vissuto nel XVII secolo.
In ogni caso, senza perdersi nei rivoli di una genealogia complessa e remota, si può senz’altro
accogliere il dato, ampiamente testimoniato, che il nucleo familiare composto da Domenico,
Eustochio, Lorenzo e Filippo visse a Fara in assoluta semplicità, segnalandosi per l’integrità dei
principi e l’onestà della condotta.
Dopo aver frequentato il seminario diocesano di Anagni, il 18 ottobre 1880, all’età di sedici anni,
Lorenzo entrò nella Compagnia di Gesù a Napoli. Un decennio più tardi, nel 1890, dopo tre anni di
studi teologici e filosofici alla Gregoriana e un solo anno di studi classici alla Sapienza, conseguì la
laurea in Lettere presso la Regia Università di Roma, con una prova tanto brillante da meritare
persino le lodi del grande Giosuè Carducci, membro della commissione esaminatrice. Questi,
infatti, nonostante le sue note posizioni filomassoniche e anticlericali, che certo non lo inducevano
ad un atteggiamento di simpatia nei confronti di un giovane gesuita, non poté astenersi dal
riconoscere la competenza del laureando Lorenzo Rocci, esprimendone vivo apprezzamento in
questi termini: «Lei non solo ha fatto bene, ma molto bene!». Lorenzo completò poi la propria
formazione con un anno di studio in Francia, ad Angers.
Nel 1892 fu ordinato sacerdote a Cortona (Arezzo) e dal 1891 al 1901 fu Prefetto di Camerata in
uno dei più prestigiosi collegi della Compagnia di Gesù, il Collegio Tusculano di Mondragone,
presso Frascati. Risale proprio al 1891 una vecchia foto che lo ritrae, giovane e serio, seduto in
prima fila in mezzo a undici adolescenti iscritti al Collegio; lo sguardo diretto, i tratti decisi del
volto e l’espressione umile ma ferma rivelano già, nonostante la giovane età, tutta la determinazione
del suo carattere, unita a una bonaria semplicità, che traspare chiaramente dalla postura e
dall’atteggiamento dimesso. Nello stesso Collegio di Mondragone Padre Rocci prestò la propria
opera anche come insegnante di latino e greco, dal 1903 al 1920, e infine come Preside, dal 1939 al
1946, negli anni terribili della guerra, quando Villa Mondragone fu trasformata in rifugio per ebrei e
sfollati.
Negli anni che precedettero il suo periodo di presidenza nel Collegio Mondragone, tra il 1920 e il
1939, Padre Rocci visse a Roma, dove, lasciato l’insegnamento, si dedicò totalmente al progetto di
un Vocabolario Greco-Italiano, già da tempo concepito. Per circa vent’anni egli lavorò con
infaticabile zelo alla stesura dell’immane opera, avvalendosi esclusivamente di schedine e appunti
dattiloscritti, oltre che della sua prodigiosa memoria e della sua cultura sconfinata, acquisita
attraverso un’assidua frequentazione degli autori classici, tardo-antichi ed ecclesiastici.
A Roma Padre Rocci non ricoprì cariche importanti. Egli trascorreva tutto il suo tempo nello
studio, nelle pratiche di pietà e nell’esercizio del ministero sacerdotale, soprattutto come direttore
della Congregazione Mariana dei Nobili presso la Chiesa del Gesù e come confessore degli studenti
universitari nella cappella di Sant’Ivo alla Sapienza. Il 10 marzo 1940 sarebbe stato ammesso alla
solenne professione dei quattro voti per i suoi alti meriti.
Il Vocabolario Greco-Italiano vide la luce nel 1939, e nello stesso anno copie del prezioso
volume rilegate in pelle bianca furono consegnate al re Vittorio Emanuele III, al duce Benito
Mussolini e a papa Pio XII, che in un messaggio autografo indirizzato personalmente a Padre Rocci
ne lodò gli alti meriti per la sua dottrina e l’ampiezza del suo lavoro:
«Al Diletto Figlio
Lorenzo Rocci
Sacerdote della Compagnia di Gesù,
Salute ed Apostolica Benedizione
PIUS PP. XII
Altamente accetto Ci riuscì l’omaggio, che con filiale devozione Ci volesti
presentare, del tuo ampio Vocabolario Greco-Italiano: omaggio tanto più degno e significativo in
quanto rappresenta il lavoro di gran parte della tua vita, tutta dedicata del resto alla santa
missione della cristiana educazione della gioventù. Ne ammiriamo la mole cospicua e pur non
eccessiva, congiunta all’eleganza e chiarezza della presentazione, com’era da aspettarsi dalle due
benemerite Case che in comune ne avevano assunto l’edizione. Ma ancor più ammirammo
l’abbondanza della materia lessicale abbracciata e il talento pedagogico con cui è stata trattata e
redatta.
E veramente il tuo lavoro, diletto Figlio, benché attissimo per gli scolari, non
è un semplice manuale scolastico, ma si presenta con tali caratteri di ampiezza e di dottrina, anche
nuova e recondita, da spiccare fra quanti simili libri si sono pubblicati sinora in Italia, anzi da
vincerli facilmente. Non si limita esso a questo o quel periodo della letteratura greca, ma tutta
l’abbraccia nei suoi molteplici aspetti, dai primi albori sino al pieno bizantinismo; degli autori di
tutta questa lunga serie di secoli non hai scelto solo i più importanti o le voci e i costrutti più degni
di nota, ma pur lasciando da parte, saggiamente, termini troppo strettamente tecnici o formazioni
eccessivamente sporadiche, hai voluto che tutta la favella greca si spiegasse in queste pagine,
anche quella che di giorno in giorno va risorgendo dalle sabbie dell’Egitto, o rivelandosi dai
marmorei monumenti di quelle antiche età.
Provammo poi particolare soddisfazione e compiacenza nel vedere con
quanta cura e pienezza vi siano registrate le voci e i costrutti proprii dei nostri Libri sacri non solo,
ma anche di tutti gli autori ecclesiastici che hanno segnato una fase tanto importante nella vita e
nell’evoluzione della lingua greca. Così anche gli studiosi italiani della sacra Teologia e delle altre
Facoltà ecclesiastiche troveranno d’ora innanzi nel tuo libro uno strumento adatto ai loro studi,
uguale, anzi per certi aspetti superiore, a quelli che per il passato dovevano cercare dagli
stranieri».
Curiosi aneddoti si tramandano anche circa l’incontro fra Padre Rocci e Benito Mussolini. Si
racconta che nell’anno 1939 il dotto grecista, chiamato a presentare al Duce il frutto delle proprie
fatiche intellettuali, nella cornice di un appuntamento ufficiale a Palazzo Venezia, assecondando le
ambizioni autarchiche del suo potente interlocutore e rivelando in questo tutta l’abilità diplomatica
del gesuita, esordì con queste parole: «Eccellenza, finalmente oggi questo vocabolario di greco
potrà degnamente sostituire quelli pubblicati in inglese e in tedesco».
Il riferimento alle pubblicazioni estere era più che fondato, dal momento che all’epoca gli unici
dizionari di greco antico in uso nei licei italiani erano traduzioni dell’inglese Liddell & Scott o del
tedesco Passow. Tuttavia in quel particolare contesto e alla presenza di un simile personaggio, la
sottolineatura dell’italianità dell’impresa culturale ed editoriale appena realizzata fu evidentemente
espressa da Padre Rocci con la precisa consapevolezza del fatto che, toccando quelle corde, avrebbe
ottenuto il massimo dell’attenzione dall’interlocutore, e soprattutto avrebbe conquistato il diritto di
vedere spalancarsi al suo lavoro le porte delle scuole del Regno. Abile mossa diplomatica che
rivela, più di molte parole, quanto acume si nascondesse dietro l’apparenza bonariamente ingenua
dell’anziano gesuita.
In effetti l’astuta allusione all’italianità dell’impresa non cadde nel vuoto. Secca e fulminea fu la
replica del Duce, il quale – secondo quanto riferisce il gesuita Franco Rozzi, all’epoca giovanissimo
allievo di Padre Rocci – battendo i pugni sul tavolo in un istintivo slancio di orgoglio nazionalista,
avrebbe esclamato: «Bene! Domani tutta l’Italia saprà dai giornali il valore di quest’opera».
Al di là degli aneddoti, quel che è certo è che il lavoro di Lorenzo Rocci, primo dizionario di
greco antico concepito in lingua italiana, ebbe un successo immediato nelle scuole e nelle
Università prima del Regno e poi della Repubblica, imponendosi rapidamente come il “Vocabolario
di greco” per antonomasia.
Gli anni successivi furono interamente consacrati da Padre Rocci alla sua duplice vocazione
erudita e sacerdotale. Profuse infatti grande impegno nel limare e perfezionare la sua creatura fino
all’edizione definitiva del 1943 e contemporaneamente rivestì con la massima dedizione il ruolo di
Confessore nella Chiesa del Gesù a Roma. In quel periodo risiedeva alla Gregoriana e collaborava
attivamente con la cappellania della Sapienza, lavorando ogni giorno fino a tardi con la sua
consueta tenacia, nonostante l’età ormai avanzata.
Una foto di quegli anni lo ritrae anziano ma non particolarmente invecchiato: il viso sereno e
disteso, per nulla rugoso, e lo sguardo diretto e fermo rivelano l’enorme forza interiore dell’uomo, a
dispetto dei capelli candidi e della figura appesantita. L’espressione bonaria del suo volto, per nulla
intaccata dal passare degli anni, trasmette quell’impressione di calda umanità e di semplicità
naturale che allievi e confratelli hanno sempre unanimemente riscontrato nella sua persona.
Il 14 agosto 1950, all’età di quasi 86 anni, Padre Rocci si spense nella Casa Professa del Gesù a
Roma. Si narra (e qui ancora una volta la leggenda si confonde con la storia) che prima di spirare,
dopo aver ricevuto il sacramento dell’estrema unzione, abbia espresso un piccolo desiderio: fumare
l’ultimo sigaro. Se ne andò così, con la stessa spontaneità non artefatta che aveva contraddistinto
ogni istante della sua intensa vita di uomo di fede e di cultura.
LE OPERE DI PADRE LORENZO ROCCI: OLTRE AL VOCABOLARIO, ANCHE…
La vasta produzione di Padre Lorenzo Rocci spazia dalla lessicografia alla grammatica,
dall’agiografia alla poesia latina. Oltre al monumentale Vocabolario Greco-Italiano, numerosissime
sono infatti le sue opere: non solo manuali scolastici e traduzioni dei classici, ma anche biografie di
santi e di gesuiti illustri, commemorazioni di allievi combattenti, epigrafi e favole latine,
celebrazioni di luoghi illustri.
Nell’ambito degli studi classici e dell’attività didattica si ricordano le opere seguenti.
-
Piccola antologia poetica, Paravia, Torino 1909: antologia preceduta da un rigorosissimo
trattato di prosodia e metrica latina.
-
Primi sei libri dell’Odissea, Dante Alighieri, Milano 1928: «traduzione letterale, con ampio
commento morfologico, sintattico e dialettale» di Odissea I-VI. Ogni libro si apre con un
sommario di una pagina. Le spiegazioni di carattere storico, mitologico e antiquario sono
ridotte all’indispensabile, al fine di non appesantire eccessivamente la lettura dei giovani
fruitori. Ampio spazio viene riservato invece alle spiegazioni di carattere lessicale: le
espressioni greche sono tradotte alla lettera se la loro comprensione lo richiede; ogni
vocabolo viene esaminato alla luce della sua famiglia etimologica; di alcuni termini viene
fornito anche il corrispondente latino, e in molti casi accanto alla forma ionica omerica
viene riportata quella attica. Vengono indicate le interpolazioni e sono poste in evidenza le
corrispondenze di versi tra Iliade e Odissea. Sono invece rare e scarne le notazioni stilistiche
ed estetiche; ridotti all’essenziale sono anche i riferimenti ai luoghi simili presenti in
Virgilio e negli altri epici latini. Dall’impostazione complessiva del commento si desume
che esso è concepito dall’autore non come esibizione di conoscenze ma, conformemente alla
sua funzione propria, come ausilio agli studenti per una comprensione piena e matura dei
poemi omerici.
-
La Sintassi latina, Dante Alighieri, Milano 1934: manuale scolastico in cui la sintassi latina
è illustrata attraverso passi di retroversione desunti dai classici latini con note dichiarative e
con richiamo alle grammatiche dei proff. Schultz, Tincani, Zenoni. Il metodo sembra essere
ispirato alla ratio studiorum dei Gesuiti del 1611, che subordinava lo studio della lingua
italiana allo studio del latino e alla traduzione in latino. L’opera è seguita da un prospetto
relativo alla coordinazione e alla subordinazione.
-
Sofocle, Antigone, Dante Alighieri, Milano 1935: «traduzione letterale, prospetto sinottico,
breve commento del Prof. Rocci Lorenzo».
-
Esercizi greci, Dante Alighieri, Roma 1963 (quinta ristampa): eserciziario «con vocabolario
e copiosa antologia».
-
Grammatica greca. Morfologia, sintassi e dialetti, Albrighi-Segati, Roma 1909; Dante
Alighieri, Roma 1975 (trentanovesima ristampa).
-
Trattato di prosodia e nozioni di metrica latina, Paravia, Torino 1938.
-
Trattato di metrica oraziana, Paravia, Torino 1938: il trattato, della cui seconda edizione si
contano ben trentasette ristampe, include anche trenta odi composte secondo i vari metri.
-
Nuovi esercizi greci, Dante Alighieri, Milano, 1946 (venticinquesima ristampa): eserciziario
concepito per la quarta e la quinta ginnasiali «con vocabolario e copiosa antologia».
Numerose le opere biografiche e commemorative in ricordo di amici, discepoli e convittori del
Collegio di Mondragone:
-
Al cav. Luigi Alberto Trotta dopo la morte del figlio Pio. Parole di un amico:
commemorazione di Pio Telemaco Trotta, entrato nel Collegio di Mondragone come
convittore nel 1897 (in Giorgi Giuseppina, Un convittore di Mondragone, Pio Telemaco
Trotta).
-
Memorie biografiche del P. Giovanni M. Nobili Vitelleschi (rettore nel Nobile Collegio di
Mondragone nel 1908), Manuzio, Roma 1908.
-
Giovanni de’ C.ti Galeotti Ottieri della Ciaja (entrato in Collegio nel 1904, sottotenente dei
cavalleggeri di Alessandria, perito combattendo gloriosamente). Memorie biografiche,
Paravia e Dante Alighieri, Roma 1917.
-
P. Giuseppe Sceberras Strickland S.I. (entrato in Collegio nel 1875, fondatore del ricreatorio
di S. Giuseppe in Firenze, cappellano delle milizie inglesi, morto a Malta il 15 luglio 1917).
Memorie biografiche, Ist. Pio IX, Roma 1917.
Menzione a sé meritano gli scritti agiografici:
-
Cepari Virgilio, Vita di S. Luigi Gonzaga, nuova edizione completamente annotata da P.
Lorenzo Rocci, Università Gregoriana, Roma 1926.
-
I sei martiri del Libano (uccisi nel 1860), Macioce e Pisani, Isola Liri 1927.
-
S. Andrea Bobòla S.I., martire polacco. Sui recenti lavori critici del P. Martino Czerminski
e su un nuovo studio dei processi, Università Gregoriana, Roma 1938 (seconda edizione).
Copiosa è la produzione di versi latini, che egli solitamente presentava all’Accademia
dell’Arcadia, di cui era membro:
-
Mondragone. Cenni storici e due carmi latini, Tip. Pio IX, Roma 1916 (poi confluiti in
Carmina varia, Dante Alighieri, Milano 1926): celebrazione di Villa Mondragone.
-
Carme latino in onore di Luigi Rizzo, Dante Alighieri, Milano 1918: Luigi Rizzo partecipò
all’affondamento della corazzata guardiacoste austriaca Wien, avvenuto al largo di Trieste il
10 dicembre 1917 e, nello stesso mese, per le missioni compiute nella difesa delle foci del
Piave, venne decorato di una Medaglia d’Argento al Valore Militare ed ebbe la promozione
a tenente di vascello per meriti di guerra.
-
Mare nostrum, Dante Alighieri, Milano 1918: carme latino in 417 versi, che celebra le
imprese dei marinai italiani nell’Adriatico durante la Prima Guerra Mondiale.
-
La fiducia in Cristo, Dante Alighieri, Milano 1925: ode saffica letta nel bosco Parrasio nella
tornada degli Arcadi per l’ottava di S. Pietro, 6 luglio 1924.
-
Nuove favole latine in versi senari secondo la maniera di Fedro, Dante Alighieri, Milano
1927: raccolta di favole composte in versi senari alla maniera di Fedro, le quali si segnalano
per l’originalissimo espediente di dare voce non solo agli animali e alle piante, secondo
l’antica usanza risalente ad Esopo, ma anche agli oggetti dei tempi moderni, come il
telegrafo, l’automobile, l’aeroplano o il sottomarino. Le favole sono da molti considerate
come il capolavoro di Padre Rocci in lingua latina.
Padre Rocci compose inoltre eleganti epigrafi latine nelle più svariate circostanze.
Si ricorda infine un discorso in prosa da lui tenuto in occasione della solenne distribuzione dei
premi agli alunni dell’Istituto Massimo il 12 dicembre 1901: La repubblica romana nel possesso
delle sue conquiste, Unione cooperativa editrice, Roma 1902. Il discorso suscitò grande impressione
tra i presenti per l’intensa oratoria che lo sosteneva, tanto che fu poi pubblicato sulla Rivista
internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie.
I LUOGHI DI PADRE LORENZO ROCCI
La vita di Padre Rocci fu inscindibilmente legata a quattro luoghi; quattro magnifiche cornici per
la sua attività di studioso e di pastore d’anime, quattro gioielli dell’arte italiana. Il primo di questi è
il suo paese natale, Fara in Sabina, con la splendida millenaria abbazia di Farfa. Il secondo è Villa
Mondragone, una delle dodici celebri Ville Tuscolane, il Collegio in cui si svolse il suo decennale
lavoro di insegnante. Il terzo è la Chiesa del Gesù a Roma, dove egli, ormai anziano, rivestì il ruolo
di Confessore. Il quarto luogo, infine, è la Gregoriana, sempre a Roma, dove egli risiedette negli
ultimi anni e alla quale sono dunque legate le sue ultime immagini, almeno nel ricordo di chi lo
conobbe.
A ciascuno di questi luoghi, tanto significativi per la vita di padre Rocci quanto per la storia della
Chiesa e dell’arte in Italia, è sembrato giusto dedicare un piccolo spazio, nella convinzione che
conoscere questi preziosi gioielli, tuttora immersi nella quiete profonda del loro remoto passato,
aiuti non poco a capire alcuni aspetti della personalità mite e cordiale del grande gesuita.
Fara in Sabina e l’abbazia di Farfa
Fara è un toponimo di origine longobarda, derivato da un termine – fara appunto – che in molte
lingue germaniche significa “clan”. La fara era sostanzialmente l’equivalente della gens latina, un
gruppo familiare inteso come insieme di individui discendenti da uno stesso capostipite. Essa
costituiva la cellula dell’ordinamento longobardo e l’unità di base della conquista militare. La fara,
infatti, era anche il territorio che veniva assegnato dal re ad un gruppo familiare, a seguito della
conquista, affinché questo vi desse vita ad un insediamento stabile e organizzato. La centralità della
fara nel sistema politico e sociale longobardo spiega il perdurare del toponimo Fara in molte
località dell’Italia centro-settentrionale, che furono interessate, tra il VI e l’VIII secolo, da una
significativa presenza longobarda.
Tra le numerose Fare del territorio italiano si trova dunque anche Fara in Sabina, il paese, oggi
nella provincia di Rieti, dove nel lontano 1864 vide la luce Lorenzo Rocci. La Sabina è una terra
antica e fiera, che si estende tra Lazio, Unbria e Abruzzo, attraversata dalla via Salaria e abitata già
in epoca pre-romana da una popolazione di stirpe osco-umbra. Qui i Longobardi s’insediarono
stabilmente, costituendovi un avamposto militare cui diedero appunto, secondo la loro
consuetudine, il nome di Fara.
Nello stesso territorio sorge anche la celebre abbazia benedettina di Farfa, che dominò il borgo di
Fara in Sabina, facendone uno dei suoi presidi militari più importanti, dopo che il regno longbardo
crollò. Tuttora incerte sono le origini dell’abbazia, che molto probabilmente si erge sulle rovine di
un complesso architettonico di epoca romana. La leggenda, in parte confermata dagli scavi
archeologici, identifica il fondatore del luogo di culto sabino con Lorenzo Siro, vescovo di Forum
Novum intorno alla metà del VI secolo. A lui si dovrebbe la costruzione della basilica e di alcuni
edifici monastici già esistenti al tempo dell’invasione longobarda. In seguito, però, il luogo sarebbe
caduto in uno stato di abbandono, finché non si verificò un’autentica rinascita, nella quale la
leggenda popolare vede un chiaro segno della volontà divina.
Iste est quem tibi promiseram locus, «Questo è il luogo che ti avevo promesso». Con queste
parole la Madonna, apparsa in una mirabile visione, avrebbe indicato a Tommaso di Moriana (o
Morienna), che all’epoca viveva a Gerusalemme, il luogo della lontana Sabina, ai piedi del Monte
Acuziano, dove si trovavano le rovine di una basilica a lei dedicata. Allora Tommaso, senza esitare,
si sarebbe messo in viaggio per l’Italia e, raggiunta la terra promessa, nell’ultimo ventennio del VII
secolo, avrebbe rifondato il luogo di culto, edificando l’abbazia e il complesso monastico.
In pochi decenni Farfa divenne uno dei centri più floridi e prestigiosi dell’Europa medievale.
Carlo Magno, che vi sostò poche settimane prima di essere incoronato imperatore in Campidoglio,
la elevò a badia imperiale e le assicurò la sua protezione. Fu questo il periodo di massimo splendore
dell’abbazia, che fu anche un rinomato centro di studi, sede di un famoso scriptorium, da cui
provenivano importanti codici. Con il suo ricco patrimonio, l’abbazia di Farfa costituì un vero e
proprio Stato feudale, che, protetto dagli imperatori, poté difendere la propria autonomia dalle
ingerenze papali. A questo stesso periodo risalgono anche l’ampliamento massimo del monastero e
il suo dominio su gran parte dell’Italia centrale, a cominciare proprio dal borgo di Fara Sabina, che,
grazie alla sua posizione strategica, in alto, a guardia del Monte Acuziano e della strada per
l’abbazia, divenne uno dei centri di maggiore importanza nel sistema di difesa del complesso
monastico.
L’età dello splendore però durò poco. In seguito alla decadenza dell’Impero carolingio l’abbazia
di Farfa entrò in crisi, e la situazione si aggravò con l’inizio della penetrazione saracena. L’abate
Pietro I oppose ai Saraceni un’eroica resistenza, ma dopo sette anni di autentico assedio dovette
capitolare. Divise i monaci e il tesoro dell’abbazia in tre parti e abbandonò Farfa, mentre il
complesso monastico veniva espugnato e incendiato. Dei tre gruppi così messisi in salvo, il primo
fondò Santa Vittoria di Matenano nelle Marche, il secondo fu trucidato a Rieti dai Saraceni, il terzo,
che aveva trovato rifugio a Roma, superato il pericolo, tornò a Farfa e qui, sotto la guida di
Ratfredo, nei primi decenni del X secolo, diede nuova vita all’abbazia.
Il processo di declino, tuttavia, appariva ormai irreversibile. L’abbazia, priva della protezione
imperiale, non fu in grado di riaffermare il proprio dominio sui territori che un tempo controllava,
nei quali frattanto si erano insediate alcune potenti famiglie romane, come i Crescenzi-Ottaviani,
che acquisirono anche il controllo del castello di Fara. Seguirono vicende convulse e complesse,
alle quali pose fine solo la riaffermazione del potere imperiale ad opera della dinastia degli Ottoni.
Nel 1097, al tempo della lotta per le investiture, i monaci benedettini di Farfa si schierarono
nettamente a favore dell’imperatore Enrico IV, con la conseguenza che per motivi di sicurezza
furono costretti ad abbandonare il complesso abbaziale e a trasferirsi sul sovrastante monte
Acuziano, dove sopravvivono tuttora le rovine dell’opera appena iniziata.
Fu l’ultimo sprazzo di splendore. Di lì a poco iniziò la definitiva decadenza, con il passaggio del
monastero sotto l’autorità pontificia. L’apice della crisi si ebbe intorno alla metà del XIV secolo,
quando l’Abate fu addirittura interdetto e scomunicato per il mancato pagamento delle decime alla
Camera Apostolica.
Nel XV secolo Fara in Sabina divenne feudo degli Orsini, ai quali venne sottratta per un breve
periodo da Federico di Montefeltro, duca di Urbino. Si succedettero poi varie famiglie, fino ai
Barberini, che riordinarono e ampliarono il borgo, destinandolo alla celebrazione delle grandi feste
mariane del 25 marzo e dell’8 settembre.
Tornata agli Orsini, Fara in Sabina passò infine sotto il controllo della Santa Sede, mentre
l’abbazia di Farfa subì anche, nel 1798, l’umiliazione del saccheggio da parte dei Francesi. Nel
1861 Fara in Sabina divenne parte dello Stato italiano e da qui passò Garibaldi, nel 1867, quando
condusse la sua celebre campagna per la liberazione di Roma.
Quando Lorenzo Rocci vi nacque, nel 1864, Fara in Sabina contava circa 1200 abitanti e
costituiva un piccolo centro di intensa attività artigianale. Nel suo territorio l’antica abbazia di
Farfa, ben lontana dai fasti del passato, rappresentava un’oasi di pace e di profonda spiritualità. Ai
primi del Novecento, quando già il giovane Lorenzo era trasmigrato altrove, per seguire la duplice
vocazione della fede e dello studio, Fara, oltre ad essere capoluogo di mandamento e sede di
Pretura, dell’Ufficio del Registro e della Tenenza dei Carabinieri a cavallo, era ancora animata da
operose botteghe artigiane. La crisi del centro abitato iniziò più tardi, negli anni Quaranta e
Cinquanta, quando le famiglie artigiane si trasferirono altrove, decretando il tramonto definitivo di
arti e mestieri. Quanto all’abbazia di Farfa, risale al 1928 il suo riconoscimento come monumento
nazionale. Tuttora il complesso monastico, immerso in un’atmosfera di mistico silenzio, ai piedi del
Monte Acuziano, racconta la sua storia millenaria a chi va in cerca di cultura e spiritualità.
Dall’antica terra di Sabina, forte e orgogliosa, Lorenzo partì molto giovane, ma di essa portò
sempre con sé una traccia profonda, ben visibile nella sua ruvida semplicità e nella sua ferrea
tenacia1.
Il Nobile Collegio Mondragone
La nobile cornice dell’attività di Padre Lorenzo Rocci prima come Prefetto di Camerata, dal 1891
al 1901, poi come insegnante di latino e greco, dal 1903 al 1920, e infine come Preside, dal 1939 al
1946, fu Villa Mondragone, un tempo celebre residenza papale situata su di una collina a sud-est di
Roma, attualmente nel territorio di Monte Porzio Catone, non lontano dal sito dell’antica Tusculum.
Villa Mondragone appartiene al complesso delle Ville Tuscolane, le dodici monumentali
fabbriche rinascimentali (Villa Aldobrandini, Villa Sora, Villa Torlonia, Villa Mondragone, Villa
Falconieri, Villa Parisi, Villa Borghese, Villa Grazioli o Montalto, Villa Lancellotti, Villa Muti,
Villa Rufinella o Tuscolana e Villa Sciarra) che a partire dal XVI secolo furono edificate
dall’aristocrazia papale, per la maggior parte sulle rovine di preesistenti impianti di epoca romana.
Si tramanda addirittura che Villa Rufinella, la più alta tra le dodici Ville Tuscolane, sia sorta sui
resti del celebre Tusculanum, la villa di Cicerone a Tusculum.
Le dodici ville, tutte costruite sulle alture del Vulcano Laziale, a sud-est di Roma, nel teritorio
attualmente compreso tra Frascati, Grottaferrata e Monte Porzio Catone, nacquero come residenze
estive della Corte pontificia e dei potentati economici ad essa legati, con la caratteristica struttura
della villa di campagna circondata dal parco. Tra di esse Villa Mondragone è senza dubbio quella il
cui nome, nel corso dei secoli, è stato più spesso associato alla scienza e al sapere.
Nei pressi del sito in cui oggi sorge Villa Mondragone, già intorno alla metà del XVI secolo,
furono avviati i lavori per la realizzazione di un imponente edificio residenziale, per volere
dapprima di Giovanni Ricci da Montepulciano e poi del cardinale Ranuccio Farnese, che diede al
palazzo il nome di “Villa Angelina”, in onore del titolo cardinalizio di Sant’Angelo, di cui egli si
fregiava. La villa conobbe in seguito un periodo di splendore sotto il cardinale Marco Sittico
Altemps, che la acquistò nel 1567. Questi, nato in Austria, nel castello di Hohenems, da Wolfgang
Dietrich, colonnello delle truppe di Carlo V, e da Chiara de’ Medici, sorella del futuro papa Pio IV,
aveva militato nell’esercito imperiale prima contro i Francesi e poi contro i Turchi in Ungheria.
Dopo l’elezione dello zio al pontificato, la sua famiglia si era trasferita in Italia, adottando il
cognome di Altemps, traduzione letterale di Hohenems, ed egli aveva intrapreso la carriera
ecclesiastica. Elevato alla dignità cardinalizia nel concistoro del 26 febbraio 1561, Marco Sittico
Altemps acquistò la proprietà di Villa Angelina per poter disporre di una residenza vicina a Roma e
in una località, quale era allora Frascati, frequentata dall’élite dell’aristocrazia romana. Per ampliare
l’edificio e farne una prestigiosa residenza, chiamò il Vignola, celebre architetto e trattatista.
Contemporaneamente, grazie alle sue altolocate frequentazioni, trasformò la villa in uno dei
massimi centri di cultura e di potere dello Stato pontificio, tanto che persino papa Gregorio XIII, al
quale lo legavano ottimi rapporti, fu spesso suo ospite.
Proprio con l’intento di adeguare la propria residenza di campagna alle sue ambiziose esigenze, il
cardinale Altemps decise di edificare una seconda dimora nei pressi di Villa Angelina, sulle rovine
di un’antica villa romana appartenuta ai consoli Quintili, poi passata a Commodo, quindi a
Caracalla e infine a Emilio Macro Faustiniano. Fu così concepito il progetto di Villa Mondragone, il
cui nome trae origine da “Monte Drago”, in onore del drago che appariva nello stemma di papa
Gregorio XIII, nato Ugo Boncompagni. La realizzazione della villa fu affidata al celebre architetto
lombardo Martino Longhi il Vecchio, già collaboratore del Vignola e artista molto apprezzato negli
ambienti della Corte pontificia.
Dopo l’ultimazione dei lavori, nel 1573, Villa Mondragone divenne una delle residenze predilette
da papa Gregorio XIII, che proprio qui, il 24 febbraio 1582, promulgò la bolla Inter gravissimas
1
Le informazioni di carattere storico sono state tratte dai siti http://www.farainsabina.gov.it e
http://www.abbaziadifarfa.it.
pastoralis officii nostri curas, con la quale pose fine all’utilizzo del calendario giuliano e introdusse
il più preciso calendario gregoriano, tuttora in uso. È questo il primo episodio che vede Villa
Mondragone teatro di un importante progresso scientifico.
Dopo la morte del cardinale Altemps, nel 1595, la villa fu ereditata dall’unico nipote Gian
Angelo, che si dedicò alla creazione di un’imponente biblioteca, la quale si sarebbe poi rivelata di
grande aiuto al cardinale Cesare Baronio nella stesura della sua monumentale Storia della Chiesa.
La biblioteca, più volte ampliata, con i suoi duemila manoscritti e dodicimila volumi a stampa, era
senza dubbio una delle più ricche d’Europa, oltre ad essere celebre per una particolare rilegatura in
cuoio e legno di cipresso, denominata appunto “rilegatura altempsiana”, che caratterizzava i libri ivi
custoditi.
Risale a questo periodo anche un secondo episodio di grande rilievo scientifico che ebbe come
protagonista la residenza tuscolana degli Altemps. Galileo Galilei, nel 1611, scelse proprio Villa
Mondragone come riferimento visivo da osservare con il cannocchiale dall’alto del Gianicolo; una
dimostrazione che gli avrebbe poi spalancato le porte dell’Accademia dei Lincei. Peraltro si narra
che tra Galilei e l’erudito e bibliofilo Gian Angelo Altemps fosse all’epoca in corso una fitta
corrispondenza, nell’ambito della quale Gian Angelo avrebbe addirittura chiesto all’amico
scienziato di costruirgli un telescopio.
Gian Angelo, tuttavia, non era interessato alla proprietà della villa e quindi nel 1613 preferì
venderla alla famiglia Borghese per un’ingente somma di denaro. Fu soprattutto il cardinale
Scipione Caffarelli Borghese, nipote di papa Paolo V, ad occuparsi della residenza di campagna,
avviando subito i lavori di ristrutturazione di Villa Mondragone e affidandone la direzione a Jan
Van Santen, detto il Vasanzio, che egli aveva conosciuto durante il periodo trascorso come
rappresentante papale in Germania e nelle Fiandre. Nell’ambito dell’espansione della fabbrica,
grande spazio fu dato anche agli ingegneri-architetti idraulici, che ebbero l’opportunità di sfoggiare
la loro maestria con gli spettacolari giochi d’acqua della Fontana della Girandola.
La decadenza di Villa Mondragone iniziò nella terza decade del XVII secolo, quando papa
Urbano VIII scelse definitivamente Castelgandolfo come residenza estiva papale. Ancora per
diversi decenni, almeno fino agli inizi del XVIII secolo, il palazzo si conservò nelle migliori
condizioni, ma cessò di essere quel centro di potere che era stato nel tempo passato. Il declino di
Villa Mondragone divenne infine irreversibile quando i Borghese la abbandonarono per ritirarsi
nella più piccola Villa Taverna.
Nel corso dell’Ottocento la villa precipitò in uno stato di grave disfacimento, dovuto al
disinteresse della famiglia Borghese, ma anche a una sfortunata serie di coincidenze negative. Il 26
agosto 1806 un violento terremoto generato dal vulcano sottostante ai Castelli Romani provocò
vittime umane e danni agli edifici, compromettendo seriamente le condizioni del complesso di
Mondragone. Ad aggravare ulteriormente la situazione, nel 1821, i soldati austriaci occuparono il
palazzo. In seguito a questi eventi, lo stato di deterioramento della villa-palazzo divenne tale che gli
stessi abitanti di Frascati avanzarono un esposto a papa Leone XII per il suo salvataggio. Ciò che
più di tutto avrebbe turbato la mite popolazione dei Castelli sarebbe stato, secondo quanto riferisce
la leggenda, il veder passare per le vie della loro città carri carichi di ferro divelto dalle finestre
della villa, che peraltro già aveva subito l’asportazione di gran parte delle sue opere d’arte. Tuttavia
i costi elevatissimi che avrebbe comportato il rifacimento della struttura resero impraticabile la via
del restauro integrale e indussero ad optare per una soluzione più limitata: parziali interventi di
restauro, che furono eseguiti dall’architetto e archeologo Luigi Canina nel 1832 su incarico di
Marcantonio Borghese e poi soprattutto, a partire dal 1840, per volere di Donna Guendalina Talbot,
prima moglie dello stesso Marcantonio Borghese.
Nella seconda metà del XIX secolo una nuova vita iniziò per la celebre villa, e ancora una volta,
come già in passato era accaduto, inaspettate chances vennero dal mondo della cultura e del sapere.
A Mondragone fu ospite, poco dopo la metà del secolo, la scrittrice francese George Sand, che qui
scrisse la discussa opera intitolata La Daniella, romanzo di impronta fortemente anticlericale, denso
di critiche alla deludente Roma papalina, afflitta da pestilenze e sporcizia, nel quale era narrato
l’amore difficile e appassionato tra un giovane pittore e un’umile cameriera. La presenza della
scrittrice ebbe l’effetto di riportare Villa Mondragone al centro delle cronache mondane.
Il periodo fortunato proseguì negli anni immediatamente successivi, quando il palazzo fu scelto
come sede delle vacanze autunnali degli studenti del rinomato Collegio Ghislieri di Roma. Si
instaurò allora un felice connubio tra la villa e la “conoscenza”, destinato a durare, attraverso
alterne vicende di splendore e decadenza, fino ai giorni nostri.
Nel 1865 Villa Mondragone divenne sede di un convitto di Padri Gesuiti, scuola d’eccellenza
frequentata soprattutto dai giovani delle classi sociali più elevate. L’istituzione di un collegio presso
il grande edificio tuscolano fu iniziativa di Marcantonio Borghese, che rese poi partecipe del
proprio progetto Padre Ponza di S. Martino, provinciale della Compagnia di Gesù. Il collegio, cui fu
dato il nome altisonante di Nobile Collegio Mondragone, fu inaugurato il 2 febbraio 1865 e il 21
agosto dello stesso anno ebbe il privilegio di ricevere la visita di papa Pio IX.
L’istituto, oltre a curare con particolare rigore la formazione umanistica dei ragazzi, secondo una
tradizione ormai consolidata nelle scuole gesuitiche, si lanciò pionieristicamente in avanzatissimi
progetti scientifici. Così la villa che un tempo aveva avuto il privilegio di essere scelta come
l’obiettivo del cannocchiale di Galilei, trasformatasi in istituto educativo, in una sostanziale
continuità con il suo passato, ospitò numerosi laboratori scientifici e gabinetti di chimica, fisica e
scienze naturali. Vi fu inoltre allestito, fin dal 1868, l’Osservatorio Meteorologico Tuscolano,
un’importante stazione, molto attrezzata ed efficiente, che, nata da una brillante intuizione del
gesuita astronomo Angelo Secchi, divenne presto un punto di riferimento fondamentale nella rete
degli Osservatori ufficiali dell’Italia centrale.
Nel frattempo, il rapido incremento del numero dei convittori impose l’esigenza di un
ampliamento della struttura, che ebbe luogo sotto il rettorato di Padre Aristide Delmirani, tra il 1929
e il 1934, quando furono raddoppiate l’ala grande costruita dal Borghese e l’ala del portale
d’ingresso, in modo da consentire all’edificio di accogliere fino a duecento ragazzi. Nuovi dormitori
e studi spaziosi e luminosi furono messi a disposizione della prima camerata, mentre per i grandi
furono costruite 45 camerette a un letto. Al piano terreno, nella grande sala da studio, fu installato
un moderno ed attrezzatissimo cinema-teatro, dove i convittori, nei giorni festivi, si riunivano per
assistere a spettacoli cinematografici o per dare vita a rappresentazioni teatrali da loro stessi
allestite, recitate e dirette.
I Padri Gesuiti gestirono il Collegio per quasi novant’anni, dal 1865 al 1953, acquistando anche
la proprietà della Villa nel 1896 e dando avvio, nel 1929, a notevoli interventi di restauro, affidati
all’architetto Clemente Busiri Vici.
I trentaquattro anni in cui Padre Lorenzo Rocci lavorò presso il collegio (1891-1901, 1903-1920,
1939-1946) coincisero con il periodo di massimo splendore della struttura didattica ma anche con
l’inizio del suo declino. I primi decenni del Novecento rappresentarono infatti una fase di grande
espansione per il Collegio Mondragone, frequentato da molti giovani delle più altolocate famiglie
romane e ampiamente apprezzato in quanto scuola d’eccellenza sia in campo umanistico sia in
campo scientifico. Vale la pena di ricordare che proprio in quegli anni il sito di Villa Mondragone,
in virtù della sua felice posizione ma anche grazie al dinamismo dei Padri Gesuiti, fu scelto come
sede per varie esperienze e test di nuove tecniche di trasmissione, tra le quali spicca quella curata da
Guglielmo Marconi nel 1932, relativa alla prima prova di collegamento su terra in radiotrasmissione
con utilizzo di onde ultracorte. L’ultimo periodo di permanenza di Padre Rocci presso il Collegio
Mondragone, ora nelle vesti di Preside (1939-1946), coincise però in gran parte con gli anni terribili
della Seconda Guerra Mondiale e dell’immediato dopoguerra, anni durissimi nei quali l’antica villa,
pur continuando ad ospitare un’intensa attività didattica, fu tuttavia destinata anche ad altre
funzioni, in primis quella di rifugio per famiglie di ebrei e sfollati.
La storia del Nobile Collegio veniva così ad intrecciarsi, nel bene e nel male, con le vicende
drammatiche di un Paese che usciva devastato dalla guerra. Lo splendore del Collegio era ormai alle
spalle e non sarebbe più tornato. Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta la
società italiana era in rapida evoluzione, e una struttura didattica rigorosa e sostanzialmente elitaria
come quella di Villa Mondragone difficilmente poteva trovare ancora una ragion d’essere in una
realtà proiettata verso nuove aspettative e promesse. Nel 1953 il Collegio dei Gesuiti cessò quindi la
propria opera.
Dopo un lungo periodo di chiusura, nel 1981, la Villa fu venduta dai Gesuiti all’Università degli
Studi Tor Vergata, che, avviato un nuovo programma di restauri, ne fece una sede di rappresentanza
adibendola essenzialmente a Centro Congressi. Oggi dunque la Villa appartiene all’ateneo romano.
Ciò che più sorprende e impressiona è che, nonostante le inevitabili riconversioni che il maestoso
edificio rinascimentale ha dovuto subire per conservare un ruolo nel mondo, nemmeno oggi,
all’alba del III millennio, si è spezzato quell’antico rapporto sinergico che da secoli lo lega alla
cultura, alle scienze e alla divulgazione del sapere2.
Di quello che fu il Nobile Collegio Mondragone rimane un’associazione di ex alunni molto attiva
ed efficiente, dotata di un proprio sito web, di una propria pagina Facebook e di un calendario di
eventi tuttora molto denso. Fra le attività dell’associazione si segnala, in particolare, la redazione di
una rivista semestrale, intitolata Il Mondragone, che ospita i ricordi di ex alunni, le
commemorazioni di ex convittori scomparsi, ma anche notizie di attualità e ricerche su aspetti meno
noti del collegio e della villa. Grande spazio è stato dedicato, per esempio, nel numero di dicembre
2010, al misterioso manoscritto Voynich, il codice illustrato risalente al XV secolo che, dopo essere
stato custodito per decenni nella biblioteca di Villa Mondragone, nel 1912 fu venduto dai Padri
Gesuiti, bisognosi di denaro per il restauro dell’edificio, ad un mercante di libri rari di origini
polacche di nome Wilfrid Voynich. Il manoscritto Voynich, definito il libro più misterioso della
storia, l’enigma letterario più sorprendente di tutti i tempi, ora conservato alla Beinecke Rare Book
and Manuscript Library dell’Università di Yale, contiene immagini di piante non identificabili con
alcuna delle specie vegetali attualmente note ed è scritto in un idioma assolutamente
incomprensibile, con un sistema alfabetico/linguistico del tutto sconosciuto. Ne Il Mondragone del
dicembre 2010 viene riassunta la teoria di uno studioso statunitense, Richard Rogers, che sostiene di
aver tradotto le prime pagine del codice. Il testo non conterrebbe lettere, ma numeri e sarebbe il
primo foglio di calcolo della storia, un preziosissimo esemplare di algebra simbolica. Esso sarebbe
stato redatto da Martino Longhi, Onorio Longhi e Martino Longhi il giovane per nascondere
importanti segreti commerciali. La prima pagina, in particolare, conterrebbe le istruzioni su come
decifrare il messaggio segreto nascosto nelle figure. Alla base del documento vi sarebbe una griglia
8x8, analoga a quella rappresentata nel giardino di Villa Mondragone e analoga a quella dello
scacchiere, noto simbolo massonico3.
Tra le pagine de Il Mondragone ha trovato posto, naturalmente, anche la commemorazione di
Padre Lorenzo Rocci, nel numero del giugno 2009. Al grande gesuita, scomparso nel 1950, appena
tre anni prima che il Nobile Collegio Mondragone cessasse la sua attività, viene dedicato un
commosso ritratto, delineato in gran parte attraverso le testimonianze di quanti lo conobbero, molte
delle quali sono state utilizzate nel presente volume per ricostruire la personalità dello studioso4.
Il nome di Padre Lorenzo Rocci, inoltre, appare spesso nei ricordi di coloro che frequentarono il
Collegio. Tuttora, tra le notizie riportate nel sito dell’associazione ex alunni si può trovare una bella
pagina scritta da Fabio Valerje, che fu a Mondragone per sei anni, dal 1947 al 1953, alunno di
quella storica terza liceo 1953 alle spalle della quale le porte del collegio si chiusero per sempre.
Dopo una commossa rievocazione degli ultimi giorni di vita del Collegio, che egli ebbe il doloroso
privilegio di vivere dall’interno della struttura, Fabio Valerje racconta un piccolo aneddoto, un fatto
personale legato alla figura di Padre Rocci. Nel 1990, quando gli capitò di incontrare il Rettore della
più antica Università dei Gesuiti di Washington D.C., Padre Heley S.J., ebbe occasione di parlargli
2
Le informazioni relative alla storia di Villa Mondragone sono state tratte dai siti
http://www.hurricane.it/castelliromani/frascati/mondragone.html,
http://www.villamondragone.it/index.php/descrizione-joomla/la-storia.html e
http://www.collegiomondragone.it/notizie.html.
3
Informazioni tratte dall’articolo di Claudia Migliore su Il Mondragone, n. 20, dicembre 2010, pp. 22-23, dalla pagina
web http://www.collegiomondragone.it/mondragone.html.
4
http://www.collegiomondragone.it/mondragone.html.
del tempo trascorso nel collegio gesuitico di Mondragone. Allora Padre Heley subito disse: «Lei
avrà certo studiato sul vocabolario del Padre Rocci»5.
Tanto lontano era giunta la fama di Padre Lorenzo Rocci e del Nobile Collegio Mondragone, per
trentaquattro anni cornice della sua intensa vita di insegnante e di studioso.
La Pontificia Università Gregoriana
Quando, nel 1946, Padre Rocci lasciò l’incarico di Preside del Nobile Collegio Mondragone per
trasferirsi a Roma, le sue case divennero l’Università Gregoriana, dove abitualmente risiedeva, e la
Chiesa del Gesù, dove svolgeva con continuità il ruolo di confessore.
Lunga e illustre è la storia della Pontificia Università Gregoriana. Erede dell’antico Collegio
Romano, scuola gratuita di grammatica, umanità e dottrina cristiana istituita nel 1551 dal fondatore
della Compagnia di Gesù sant’Ignazio di Loyola, l’ateneo trasse il nome di “Università Gregoriana”
da papa Gregorio XIII, che nel 1583 lo dotò di una nuova e più ampia sede, come meglio si vedrà
nelle pagine seguenti.
Quando Ignazio di Loyola lo fondò, il 18 febbraio 1551, l’istituto aveva sede in una casa presa in
affitto con il denaro ricevuto da Francesco Borgia, sita alle pendici del Campidoglio, in piazza
d’Aracoeli; era dotato di una piccola biblioteca e offriva un modesto numero di corsi. Già nel
settembre dello stesso anno, a seguito del notevole incremento del numero degli studenti, il Collegio
Romano fu costretto a cambiare sede. Si trasferì allora in un palazzo appartenuto alla nobile
famiglia romana dei Frangipane, nei pressi della chiesa di Santo Stefano del Cacco, e si arricchì
dell’insegnamento di ebraico, aggiunto alle originarie cattedre di latino e greco, e successivamente
dei corsi di filosofia e teologia, che nel 1556, per concessione di papa Paolo IV, ottennero la facoltà
di concedere gradi accademici. Il Collegio Romano divenne così un’università.
L’anno seguente, a causa dell’ulteriore incremento di allievi, il Collegio fu trasferito nel palazzo
dei Salviati, dove rimase fino al 1560, quando i Gesuiti ebbero in dono da Vittoria della Tolfa,
marchesa della Valle, l’intero complesso degli edifici situati nell’attuale area di Piazza del Collegio
Romano. Qui l’istituto arrivò a contare più di mille allievi e si dotò delle cattedre di lingua araba, di
casistica e di filosofia morale.
Un ulteriore ampliamento dell’ateneo fu promosso da papa Gregorio XIII, che a tal fine
commissionò all’architetto toscano Bartolomeo Ammannati la costruzione di un nuovo grande
edificio, realizzato poi negli anni 1583-1584. Per questa sua iniziativa il pontefice fu acclamato
“Fondatore e Protettore” del Collegio Romano, e in suo onore l’istituto prese il nome di “Università
Gregoriana”. Nella nuova sede, grazie ai maggiori spazi disponibili, il numero degli insegnamenti
poté aumentare ulteriormente, venendo ad includere non solo storia ecclesiastica, liturgia ed
eloquenza, ma anche matematica, fisica e astronomia. Fu questo il periodo di massimo splendore
della Gregoriana.
In seguito iniziò la decadenza. Dal 1773 al 1824, a causa della temporanea soppressione della
Compagnia di Gesù, l’ateneo fu gestito dal clero secolare romano. I Gesuiti ne tornarono in
possesso nel 1824, quando papa Leone XII rifondò la Compagnia, ma dopo circa cinquant’anni la
Gregoriana dovette subire un nuovo trauma. Nel 1873, infatti, dopo l’annessione di Roma al Regno
d’Italia, il palazzo del Collegio Romano fu confiscato dallo Stato italiano con tutte le sue dotazioni.
L’ateneo venne allora diviso: la sezione universitaria trovò ospitalità presso Palazzo GabrielliBorromeo, sede del Collegio Germanico-Ungarico, mentre il ginnasio e il liceo trovarono
momentanea collocazione presso Villa Peretti a Termini. Fu questa una fase di profonda crisi per la
Gregoriana, che, sebbene avesse acquisito proprio in quegli anni il titolo di Università Pontificia, a
causa della scarsa disponibilità di spazi, dovette rinunciare a molti dei suoi insegnamenti e vide
ridursi sensibilmente il numero degli iscritti.
Solo a partire dal 1886, quando il Collegio Germanico-Ungarico lasciò Palazzo GabrielliBorromeo, l’ateneo poté ripristinare molte delle sue cattedre. L’organizzazione logistica, tuttavia,
5
Testimonianza tratta dal sito http://www.collegiomondragone.it/notizie%201.html.
continuava a risultare insoddisfacente. Pertanto, alla fine della Prima Guerra Mondiale, papa
Benedetto XV decise di dotare la Pontificia Università Gregoriana di una nuova sede e con tale
proposito dispose l’acquisto di alcuni fabbricati e terreni in piazza della Pilotta, alle pendici del
Quirinale. Fu poi Pio XI a dare realizzazione al progetto, che prevedeva la costruzione di un grande
edificio prospiciente la piazza, con un’ampia corte interna coperta, dotato non solo di aule e uffici,
ma anche di alloggi per i professori, di due cappelle e di una grande biblioteca. I lavori ebbero
inizio nell’agosto del 1927 e furono ultimati in tre anni. La nuova sede venne solennemente
inaugurata il 6 novembre 1930.
Negli anni seguenti la maggiore disponibilità di spazi rese possibile l’istituzione di nuove facoltà:
Missiologia, Storia della Chiesa e, più tardi, Scienze Sociali. Alla Gregoriana furono inoltre
associati, per volere di Pio XI, il Pontificio Istituto Biblico e il Pontificio Istituto Orientale6.
Presso la Pontificia Università Gregoriana il giovane Lorenzo Rocci studiò filosofia per tre anni,
dal 1886 al 1889, prima di conseguire la laurea in Lettere presso la Regia Università di Roma.
Tornò poi alla Gregoriana da insegnante, negli anni Venti del Novecento, dopo l’esperienza della
docenza nel Nobile Collegio Mondragone. Nell’Archivio Storico della Gregoriana è conservata
tuttora la lettera datata 6 giugno 1924 con la quale il Padre Generale Ledochowski proponeva Padre
Lorenzo Rocci per la cattedra di latino. Le mura della Gregoriana videro il Vocabolario grecoitaliano svilupparsi fino alla pubblicazione, nel 1939, che coincise con un nuovo allontanamento di
Padre Rocci, ora impegnato nel Nobile Collegio Mondragone nel ruolo di Preside.
Alla Gregoriana il dotto gesuita trascorse infine, ormai anziano, i suoi ultimi anni, dal 1946 al
1950, anni dedicati in gran parte alla preghiera e alla cura delle anime. Difficilmente si potrebbe
trovare un luogo che meglio della Pontificia Università Gregoriana si associ alla memoria di
Lorenzo Rocci. L’antico ateneo, infatti, fondato sullo spirito ignaziano e votato all’alta missione di
formare persone che sappiano condurre il mondo verso Dio, realizza oggi in una delle forme più
compiute quella sintesi armonica di sapere e fede che in modo perfetto s’incarnò nella figura di
Padre Rocci.
La Chiesa del Santissimo Nome di Gesù all’Argentina
La Chiesa del Santissimo Nome di Gesù all’Argentina, comunemente nota come Chiesa del
Gesù, è il luogo in cui Padre Lorenzo Rocci rivestì il ruolo di confessore durante i periodi che
trascorse a Roma, prima tra il 1921 e il 1939, negli stessi anni in cui lavorava alla stesura del
Vocabolario Greco-Italiano, e poi nei suoi ultimi anni di vita, tra il 1946 e il 1950, prima che le sue
condizioni fisiche si deteriorassero al punto da impedirgli di dedicarsi all’amata missione di pastore
di anime. Se Fara in Sabina fu il luogo di origine di Padre Rocci, e il Nobile Collegio Mondragone e
l’Università Gregoriana furono le cornici della sua infaticabile attività di insegnante e di studioso, la
Chiesa del Gesù fu il contesto in cui massimamente si esplicò la sua attività di uomo di fede, di
gesuita votato all’alta missione di guidare il mondo verso Dio, di confessore rigoroso e amorevole
al tempo stesso.
La Chiesa del Gesù è la Chiesa madre della Compagnia di Gesù; in essa si conserva la tomba del
Fondatore, sant’Ignazio di Loyola. Situata in una piccola piazza che si apre sul lato sinistro di via
del Plebiscito, per chi proceda verso largo di Torre Argentina, la Chiesa appare come un autentico
gioiello dell’arte italiana ed è pertanto tra gli edifici di culto più visitati a Roma. La sua
realizzazione fu ispirata ai principi formulati nei decreti del Concilio di Trento, e conformemente a
tale spirito, essa fu progettata a navata unica, affinché l’attenzione dei fedeli si concentrasse
sull’altare e sul celebrante.
Il desiderio di costruire la Chiesa fu espresso da Ignazio di Loyola già nel 1551, e proprio al fine
dell’edificazione di un luogo di culto legato ai Gesuiti papa Paolo III donò alla Compagnia, la cui
costituzione era stata da lui stesso autorizzata nel 1540, una piccola cappella vicina a Palazzo
6
Le informazioni di carattere storico sono tratte dal sito http://www.unigre.it.
Venezia, dove all’epoca risiedeva. Tuttavia la mancanza di mezzi finanziari rese impossibile la
realizzazione della Chiesa durante la vita di Ignazio.
I lavori sul sito della cappella iniziarono solo nel 1568, quando Generale della Compagnia di
Gesù era Francesco Borgia. In quell’anno, infatti, il cardinale Alessandro Farnese, nipote di papa
Paolo III e noto mecenate delle arti, costituì un fondo per la costruzione della Chiesa. I lavori si
basarono sull’originario progetto dell’architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio, rielaborato
successivamente da Michelangelo e dal Vignola con la duplice esigenza di realizzare un’unica
grande navata con un pulpito laterale, per facilitare la predicazione, e di collocare al centro l’altare
per rappresentare anche visivamente la centralità della celebrazione eucaristica.
Il cantiere fu diretto dal Vignola dal 1568 al 1575 e, dopo la morte di questi, da Giacomo Della
Porta, che mantenne la direzione dei lavori fino al 1580. A lui si devono il disegno definitivo della
monumentale facciata, che tuttora domina dall’alto la piazza, e il progetto della cupola su tamburo
ottagonale. Alla realizzazione dei progetti e alla direzione della costruzione collaborarono
attivamente anche gli architetti gesuiti Giovanni Tristano e Giovanni de Rosis.
La Chiesa del Gesù fu infine consacrata il 25 novembre 1584. Fu la chiesa più grande e la prima
completamente nuova costruita a Roma dopo il famigerato Sacco compiuto dai lanzichenecchi di
Carlo V nel 1527.
L’edificio si segnala per la sua straordinaria ricchezza artistica. La volta della navata è affrescata
con il Trionfo del Nome di Gesù, grandioso e luminosissimo affresco eseguito nella seconda metà
del XVII secolo con effetto di prospettiva aerea dal pittore genovese Giovan Battista Gaulli, detto il
Baciccia, il quale affrescò anche la tribuna con la Gloria del mistico Agnello e la cupola con le
immagini dei Patriarchi e dei Dottori della Chiesa. Opere di illustri autori sono ospitate anche nelle
sei cappelle che si aprono ai lati, mentre una menzione a sé merita la Cappella di sant’Ignazio di
Loyola, opera magnifica dell’artista trentino Andrea Pozzo, membro laico della Compagnia di
Gesù. Altrettanto pregevole, anche se meno sontuosa, appare l’altra grande cappella del transetto,
dedicata a san Francesco Saverio.
Tra le innumerevoli meraviglie che è possibile contemplare all’interno della Chiesa del Gesù,
deve essere ricordato, in particolare, l’altare di sant’Ignazio (sotto il quale sono sepolte le spoglie
del santo), unanimemente riconosciuto quale capolavoro dell’arte barocca.
In seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù, nel 1773, la Chiesa attraversò la fase più
difficile della sua storia e dovette anche subire l’asportazione di molte delle sue ricchezze. Solo nel
1814 l’edificio fu restituito ai Gesuiti, che si dedicarono allora ad impreziosirlo ulteriormente
attraverso l’ornamento della tribuna, la costruzione dell’altare maggiore e svariati altri interventi
finanziati dal principe Alessandro Torlonia, che fece anche rivestire di marmi la navata.
La Chiesa del Gesù, nella quale coesistono magnificamente elementi rinascimentali ed elementi
barocchi, esercitò una notevole influenza sull’architettura sacra barocca in Italia, al punto da essere
considerata, con una definizione oggi da più parti contestata, come il migliore esemplare dello “stile
gesuitico”7.
Padre Lorenzo Rocci, nel corso della sua lunga vita, ebbe modo di frequentare il tempio gesuitico
di piazza del Gesù soprattutto nelle vesti di confessore, cioè nell’esercizio di quel nobile ministero
della cura delle anime al quale i Gesuiti devono attendere secondo quanto disposto dalla Formula
del 1550. Questa, infatti, annovera anche la «consolazione spirituale dei credenti», oltre alla
catechesi, alla predicazione, alle lezioni sacre e al servizio della parola di Dio, tra le funzioni che la
Compagnia di Gesù deve assolvere nel mondo. Coerentemente con questa antica disposizione, i
Gesuiti hanno sempre riservato un notevole spazio al sacramento della penitenza, promuovendo il
ricorso frequente alla confessione e diffondendo anche la pratica della confessione generale, che
consiste nella revisione complessiva della propria vita effettuata con la guida di un confessore al
fine di raggiungere una migliore conoscenza di sé e di intraprendere una nuova modalità di vita.
7
Le informazioni di carattere storico e storico-artistico sono tratte dal sito http://www.chiesadelgesu.org e, particolare,
http://www.chiesadelgesu.org/la-chiesa/storia-della-chiesa/.
È noto che proprio sul tema della confessione si scatenò una vivace polemica nel corso del
Seicento tra Gesuiti e Giansenisti, i primi impegnati nello studio dei casi di coscienza (la cosiddetta
“casistica”) e promotori della teoria del probabilismo, che, nella consapevolezza dell’esistenza di
una molteplicità di modi diversi di agire, sosteneva la necessità che il confessore scegliesse sempre
la soluzione più favorevole al penitente, i secondi fautori del rigorismo morale assoluto, che
arrivava a negare ai fedeli l’assoluzione fino alla loro totale e irrevocabile conversione.
Alla cura delle anime Padre Rocci dedicò dunque molto del suo tempo, e non a caso in tale veste
lo ricordano ancora molti dei suoi allievi, che pure conobbero di lui soprattutto il volto del maestro
e dello studioso. Nell’esercizio di tale funzione, secondo autorevoli testimonianze, egli traspose il
meglio della propria personalità, che sapeva coniugare, come si addice alle migliori intelligenze, il
rigore e la severità con l’ironia e la benevolenza.
LORENZO ROCCI NELLA COMPAGNIA DI GESÙ
La Compagnia di Gesù è organizzata secondo un modello centralistico che vede al vertice il
Padre Generale, con sede a Roma, eletto a vita (ma dal 1965 con possibilità di rinuncia) dalla
congregazione generale e da questa sostenuto nella direzione dell’ordine. Della congregazione
generale fanno parte gli assistenti, i provinciali e due rappresentanti eletti per ciascuna delle
province. All’interno della comunità i membri sono divisi in quattro diversi livelli: novizi,
scolastici, coadiutori (distinti in sacerdoti e laici) e professi. Questi ultimi, oltre ai tre voti monastici
di povertà, castità e obbedienza, prestano uno speciale giuramento di completa obbedienza al papa.
Presso l’archivio della Provincia d’Italia della Compagnia di Gesù, in via degli Astalli a Roma,
non distante da piazza Venezia, è ancora possibile leggere la scheda relativa a Padre Lorenzo Rocci,
redatta a suo tempo dalla Provincia Romana della Compagnia. Essa, con l’essenzialità che
caratterizza l’ordine, riporta solo pochi scarni dati.
Cognome e Nome: Rocci Lorenzo
Paternità: fu Domenico (nativo di Piacenza o di Perugia)
Maternità: fu Eustochio Corradini (di Roma)
Riguardo alla nascita:
Luogo: Fara Sabina (Provincia di Roma)
Diocesi: Sabina
Data: 11 Settembre 1864
Seguono le informazioni relative alla missione di Lorenzo Rocci come gesuita e sacerdote:
Data dell’ingresso in Compagnia: 18 Ottobre 1880
Data dell’Ordinazione Sacerdotale: 26 Luglio 1892
Nell’indicazione del grado e della relativa data di conseguimento si osserva una cancellatura, che
rivela evidentemente un avanzamento della posizione di Padre Rocci all’interno della Compagnia di
Gesù. Le originarie informazioni – Coadiutore Spirituale (Qualità), 15 Agosto 1899 (Data) –
risultano infatti cancellate da un tratto nero, e al loro fianco appaiono scritti i dati più recenti:
Professo (Qualità) 10 Marzo 1940 (Data).
Nessuna informazione viene riportata nello spazio riservato alla Circoscrizione elettorale politica
e amministrativa.
Gli ultimi dati aggiunti a penna, senza uno specifico campo dedicato, sono quelli relativi alla
morte:
Morto a Roma nella Casa Professa del Gesù – Piazza del Gesù 4 – il 14 Agosto 1950 – Età anni
86 – Di Compagnia 70.
Termina così la scheda di Padre Lorenzo Rocci, con questo scarno ma significativo riferimento
alla sua settantennale permanenza nella Compagnia di Gesù. Impressiona l’assenza di qualsiasi
cenno alla sua intensa attività di studioso. Commuove l’essenzialità delle informazioni, se
comparata alla grandezza dell’intellettuale; un’essenzialità certamente ispirata ai principi severi
dell’Ordine, ma anche profondamente in linea con la personalità umile e semplice dell’uomo.
LORENZO ROCCI ALIAS IPERIDE MENALIO
Tra i pochi documenti superstiti della vita di Lorenzo Rocci si segnala per la sua singolarità un
vecchio certificato di ammissione all’Arcadia, la storica Accademia fondata a Roma nel 1690 con
l’intento di restaurare il gusto classico in poesia e di promuovere le lettere ai più alti livelli.
L’Arcadia – peraltro tuttora esistente, con sede presso la Biblioteca Angelica, in piazza
Sant’Agostino a Roma, sebbene sostanzialmente trasformata in un istituto di studi storici e letterari
– era ancora piuttosto fiorente agli inizi del Novecento, quando Lorenzo Rocci aveva già legato il
proprio nome a importanti pubblicazioni nell’ambito delle lingue e delle letterature classiche.
Nel certificato di ammissione, che risulta registrato al numero 149 del Volume IX degli Atti
dell’Accademia, secondo il cerimoniale caratteristico dell’Arcadia, il Custode Generale Enrico
Salvadori, fra gli Arcadi Nicandro Clidonio, rivolge «al Reverendissimo e Chiarissimo P. Lorenzo
Rocci della Compagnia di Gesù» le seguenti parole di elogio e di indulgenza:
L’Arcadia, nell’intendimento di onorare i valorosi, che per la eccellenza dell’ingegno, unita al
merito di eletti costumi e alla coltura degli ottimi studi, van segnalati nella professione delle
Lettere, delle Scienze e della Erudizione, a proposta dei gentilissimi e valorosissimi nostri
Compastori Nicodromo Leucadio e Ostilio Tessalico, ha voluto dichiararvi Pastore Arcade, ed
annoverandovi nel Catalogo dei Componenti questa antica letteraria Repubblica, vi ha dato,
secondo il nostro uso accademico, il nome di Iperide Menalio.
L’Arcadia, nel dichiararvi aggiunto al suo Comune, confida che non solo manterrete la
osservanza delle sue leggi, ma darete opera eziandio perché sempre più fiorisca con la dignità
delle lettere l’onore dell’arcadico istituto.
Segue la data, solennemente indicata:
Dato dal Bosco Parrasio, addì 27 Marzo 1920. Dalla Restaurazione dell’Arcadia 229, della
Olimpiade LVII anno 4°.
Dal documento si apprende una notizia non riportata dalle poche biografie circolanti di Padre
Lorenzo Rocci, ancora più preziosa perché legata alla sua vita di erudito, della quale sopravvivono
le opere, ma nulla rimane dell’intenso lavoro preparatorio e della fitta trama di relazioni e contatti
che egli senza dubbio dovette intrattenere nel mondo delle lettere, nonostante la sua indole schiva di
tenace figlio della terra sabina. Apprendiamo dunque dal certificato che nel marzo 1920, e quindi
all’età di cinquantasei anni, Padre Rocci fu ammesso nella prestigiosa Accademia dell’Arcadia, con
il nome di Iperide Menalio, su proposta di due illustri eruditi i cui nomi si celano dietro le identità
accademiche di Nicodromo Leucadio e Ostilio Tessalico.
Mentre risulta oscura la figura di Nicodromo Leucadio, maggiori informazioni sono reperibili sul
conto di Ostilio Tessalico, che per il mondo fu Giorgio Stara Tedde, nobiluomo originario della
regione sarda di Monteacuto, arcade dal 1901 e noto per i suoi studi epigrafici nonché per una
fortunata pubblicazione sui boschi sacri nell’antica Roma. Quanto al Custode generale dell’Arcadia
Enrico Salvadori non resta traccia di alcuna opera in particolare, ma dalle fonti dell’epoca si scopre
che fu un giovane e brillante monsignore, molto stimato per la sua vasta cultura, custode
dell’Accademia dal 1916 al 1924, nonché fratello di quel celebre Giulio Salvadori, che tra la fine
del XIX secolo e i primi decenni del XX fu dapprima apprezzato poeta sulle orme del Carducci e
poi critico letterario, giornalista e docente di Lettere italiane.
Da un semplice attestato di ammissione emerge quindi un denso intreccio di rapporti che
coinvolge personalità con esperienze di vita molto distanti, avvicinate dalla comune passione per
l’erudizione, sullo sfondo di un’Italia ancora immatura, che sembra quasi cercare nel mondo
sublime delle Lettere una via di fuga dalle drammatiche tensioni che all’epoca la scuotono.
LA COMPAGNIA DI GESÙ COMUNICA LA MORTE DEL CONFRATELLO LORENZO
La notizia della morte di Padre Lorenzo Rocci fu pubblicata su “Societas. Rivista dei gesuiti”,
Napoli 1950, pp. 159-160. Alla notizia della scomparsa seguono nell’articolo una breve biografia di
Rocci e una sintesi della sua sconfinata produzione, con particolare spazio riservato al Vocabolario
greco, del quale si evidenziano l’ampiezza dell’arco cronologico abbracciato e l’immediato
successo di critica. Una menzione speciale viene infine riservata all’attività di confessore svolta
assiduamente da Padre Rocci nel corso della sua lunga vita con «semplicità e pazienza».
Viene di seguito riportato il testo integrale dell’articolo commemorativo.
Il 14 agosto nella Chiesa del Gesù è spirato il P. Lorenzo Rocci, pio religioso e illustre
umanista. Entrò in Compagnia nel 1880 il 18 ottobre. Il nome del P. Rocci è ormai legato alla
sua opera maggiore, quella che ha richiesto circa 25 anni dei 70 che ha trascorso in
Compagnia di Gesù: il vocabolario greco italiano. Tutta la sua vita precedente fu quasi una
preparazione a quel lavoro veramente ammirevole. Nel 1890 si laureò in lettere all’Università
di Roma e Giosuè Carducci, che faceva parte della Commissione esaminatrice, dopo averlo
ascoltato, gli disse: «Lei non solo ha fatto bene, ma molto bene».
Per ventidue anni, dal 1899 al 1921, è stato professore di latino e greco nel Collegio di
Mondragone. E proprio a Mondragone è maturata la grande idea del P. Rocci: dare ai suoi
alunni, a tutti i ragazzi d’Italia che studieranno il greco un vocabolario esauriente che sia di
aiuto alle giovani menti portandole alla vera conoscenza intima della lingua greca. Gli antichi
alunni del P. Rocci sono concordi nell’affermare che la sua scuola era una famiglia, per il
sincero affetto scambievole tra Professore e alunni, e una feconda palestra di insegnamento per
l’efficacia e la chiarezza di metodo con cui il P. Rocci teneva le sue lezioni.
Il Vocabolario greco del P. Rocci, opera impostasi subito alla critica italiana e straniera,
abbraccia tutta la grecità conosciuta, dalle più antiche forme ritrovate in documenti
archeologici al greco dei papiri di Ossirinco e dei Padri cristiani. Felice è in quest’opera la
fusione di elementi utili allo studioso, come forme radicali del sanscrito, numerose citazioni
dalle opere e lo sviluppo storico dei singoli vocaboli, e utili allo studente, come passi scabrosi
tradotti in modo che si possa facilmente comprendere l’esatto senso e insieme il significato
letterale.
Altre opere aveva pubblicato il P. Rocci tra cui ricordiamo i commenti e la traduzione dei
primi 6 libri dell’Odissea e dell’Antigone, la Grammatica Greca e i Nuovi Esercizi greci, la
Sintassi Latina, il Trattato di Prosodia e nozioni di metrica latina, la metrica di Orazio.
Scrisse anche biografie, come quelle del P. Vitelleschi e del P. Strickland, e la vita di S.
Andrea Bobola. Ha inoltre curato la ristampa della Vita di S. Luigi del P. Cepari. E ancora
altre opere si potrebbero menzionare tra cui vari carmi latini molto apprezzati nell’Arcadia.
Fu religioso di grande semplicità e pazienza, confessore degli universitari nella cappella di
S. Ivo alla Sapienza, Direttore, per un certo tempo, della Congregazione dei Nobili, ha sempre
operato per il bene delle anime specialmente nelle numerose confessioni ascoltate.
L’articolo commemorativo è seguito da una sintesi dei dati biografici di Padre Rocci, redatta in
una forma analoga a quella della scheda conservata presso la sede della Provincia d’Italia della
Compagnia di Gesù, della quale si è detto nelle pagine precedenti.
ROCCI LORENZO
nato il 11.9.1864 a Fara Sabina (Rieti)
da Domenico e Eustochio Corradini
ha studiato nel seminario di Anagni
entra nella Compagnia di Gesù a Napoli
il 18.10.1880
è ordinato sacerdote nel 26.7.1892
professione solenne il 10.3.1940
muore a Roma il 14.8.1950
Si osservi che nel prospetto sintetico sono riportati soltanto i dati anagrafici (data e luogo di
nascita, paternità e maternità, data e luogo di morte) e le informazioni relative alla dimensione
religiosa della vita di Lorenzo Rocci (seminario, ingresso nella Compagnia di Gesù, ordinazione
sacerdotale, professione solenne). Nulla, nemmeno in questa scheda, viene scritto riguardo l’intensa
attività didattica e i fecondi interessi umanistici. Della dimensione letteraria ed erudita della vita di
Lorenzo Rocci non sembra essersi conservata traccia alcuna nei documenti della Compagnia di
Gesù.
Vale però la pena di sottolineare come il breve articolo pubblicato sulla rivista dei gesuiti,
nonostante la sua laconica essenzialità, riporti alcuni significativi elementi che non compaiono
invece in altre fonti. Innanzi tutto si segnala per la sua efficacia la definizione che di Padre Rocci
viene fornita poco dopo l’incipit del testo: «pio religioso e illustre umanista». Qui, dunque, il
ricordo del Rocci umanista emerge chiaramente. In appena quattro parole viene riassunto tutto
quello che Rocci fu e rappresentò per chi lo conobbe, per i confratelli e gli allievi, per la storia della
cultura italiana. La definizione evidenzia in modo netto e immediato il doppio ruolo che l’umile
sabino di nome Lorenzo Rocci si trovò a rivestire nella sua lunga permanenza terrena: il ruolo del
religioso devoto, del quale verranno poi sottolineate, nel seguito dell’articolo, le grandi doti della
semplicità e della pazienza, e il ruolo del fine umanista, ampiamente stimato per gli indiscutibili
meriti nel campo delle lettere classiche.
Come elemento degno di nota si segnala anche il riferimento alla genesi del progetto
Vocabolario. Nessuna delle fonti finora considerate riferisce in quale contesto Padre Rocci maturò
l’idea di un grande dizionario greco-italiano. L’articolo dei gesuiti, pur non dilungandosi molto
sull’argomento, come peraltro si confà allo stile rigoroso ed essenziale della Compagnia, esplicita
un dato che, seppure intuibile dalla cronologia, non risulta mai riportato espressamente nelle
biografie. La grande idea del Vocabolario di greco fu concepita da Lorenzo Rocci durante il periodo
di insegnamento nel Nobile Collegio Mondragone.
Fu dunque tra le mura dell’antica villa rinascimentale che prese forma il progetto di un dizionario
che guidasse le giovani menti d’Italia alla conoscenza profonda della lingua greca. E l’elemento
forse più significativo per comprendere la personalità di Padre Rocci è che tale titanico progetto fu
concepito, secondo quanto si desume dall’articolo, non con l’ambizione dello studioso che aspirasse
ad attirare su di sé gli sguardi della comunità accademica nazionale, ma con l’amorevole premura
del maestro desideroso di donare uno strumento prezioso ai propri alunni e a tutti i ragazzi italiani.
Così, dopo aver dedicato diciassette anni della sua vita all’insegnamento, Padre Rocci decise di
proseguire la sua opera didattica in altra veste e in altra forma, chiudendosi in un eremitico
isolamento di studio a Roma per quasi quattro lustri, fino alla fatidica data del 1939, quando il frutto
delle sue fatiche fu dato alle stampe. Il Vocabolario di greco fu il mezzo attraverso il quale egli fece
dono della propria immensa conoscenza ai giovani italiani, del suo tempo e di molte generazioni
dopo di lui. Quell’immenso patrimonio di sapere che egli avrebbe potuto dispensare solo a una
ristretta élite di privilegiati, se avesse proseguito la propria docenza nel Collegio Mondragone o in
qualunque altra scuola d’Italia, grazie al Vocabolario poté essere messo generosamente a
disposizione di tutti i ragazzi di buona volontà che desiderassero intraprendere lo studio delle lingue
classiche.
Un ulteriore elemento che merita una menzione speciale è il riferimento, molto chiaro
nell’articolo, alla cordialità che Padre Rocci profondeva nelle relazioni con i suoi allievi. Il testo dei
gesuiti, infatti, ricorda come gli studenti di Rocci concordemente affermassero che la sua scuola era
una grande famiglia, per il sincero affetto che legava il Professore ai ragazzi. Ancora una volta,
dunque, emerge il ritratto dell’insegnante affabile e premuroso, costantemente preoccupato di
assicurare ai propri allievi la migliore formazione, non solo sul piano della cultura umanistica, ma
anche sotto il profilo etico e umano. Un vero maestro, dunque, efficace e chiaro nella didattica,
bonario e disponibile nei rapporti personali.
La commemorazione pubblicata sulla rivista dei gesuiti dedica infine uno spazio relativamente
ampio all’illustrazione dei pregi del Vocabolario greco-italiano. Infatti, se delle altre opere di Padre
Rocci viene fornito un elenco sommario e generico, peraltro neppure completo, ben altro rilievo
viene dato alla sua grande impresa lessicografica, della quale l’articolo sottolinea, innanzi tutto,
l’immediato successo di critica, sia in Italia sia all’estero, e in secondo luogo l’ampiezza dell’arco
cronologico abbracciato, dalle più antiche forme rinvenute in documenti archeologici fino al greco
dei papiri di Ossirinco e dei Padri cristiani. L’articolo stesso rileva poi che il Vocabolario di Padre
Rocci presenta diverse qualità che lo rendono utilissimo tanto allo studioso esperto quanto allo
studente principiante: esso, infatti, se allo studioso offre un numero enorme di citazioni d’autore,
spunti di comparazione con il sanscrito e la ricostruzione dello sviluppo storico dei vocaboli, allo
studente fornisce un validissimo aiuto soprattutto nell’interpretazione delle espressioni più
complesse, delle quali propone sempre traduzioni capaci di guidare i più giovani alla piena
comprensione sia del significato letterale sia del senso complessivo.
È significativo che a poco tempo di distanza dalla morte dell’autore già si riconoscessero al
Vocabolario di Rocci quei pregi che tuttora all’unanimità in esso si riscontrano: l’ampiezza
dell’arco cronologico considerato; la ricchezza dell’apparato di citazioni ed esempi; le audaci
incursioni negli studi comparatistici, in un’epoca in cui si può dire che la linguistica comparata
dovesse ancora nascere; l’attenzione all’evoluzione storica della lingua; la precisione estrema nella
traduzione, mirata a far comprendere allo studente non solo il senso complessivo dell’espressione
greca, ma anche il significato letterale dei vocaboli ivi impiegati.
Chiude l’articolo un capoverso estremamente efficace, che, riproponendo la duplice immagine
del religioso e dell’insegnante, quasi tratteggia un epitaffio di Padre Lorenzo Rocci: «Fu religioso di
grande semplicità e pazienza, confessore degli universitari nella cappella di S. Ivo alla Sapienza,
Direttore, per un certo tempo, della Congregazione dei Nobili, ha sempre operato per il bene delle
anime specialmente nelle numerose confessioni ascoltate». Se dunque si cerca una definizione di
Padre Rocci che abbracci e riassuma i suoi due volti di religioso e di maestro, la si trova in queste
poche parole con le quali si conclude la commemorazione che di lui scrissero i confratelli gesuiti.
Padre Rocci fu essenzialmente e semplicemente un uomo che operò per il bene delle anime, e tale
missione egli perseguì sempre, nel confessionale della cappella di S. Ivo alla Sapienza, così come
seduto alla cattedra di latino e greco del Collegio Mondragone. Perché anche la cultura è cura delle
anime, e di questo Padre Rocci fu sempre fermamente convinto.
IL NOBILE COLLEGIO MONDRAGONE COMUNICA LA MORTE DI PADRE
LORENZO ROCCI: NECROLOGIUM PATRIS ROCCI LAURENTII
Viene di seguito riportato il necrologio latino che il Nobile Collegio Mondragone dedicò al suo
grande preside, insegnante e confratello Lorenzo Rocci, appena tre anni prima che lo stesso
Collegio chiudesse per sempre i battenti. Si coglie, nelle belle parole con cui è tessuto il ricordo del
defunto maestro, una lieve nota di malinconia, e la nostalgia di una vita che finisce sembra unirsi al
rimpianto di un tempo che sembra perduto.
Colpisce, in particolare, nel necrologio lo spazio insolitamente ampio che viene riservato agli
ultimi anni dell’esistenza di Padre Rocci, quelli della malattia e della sofferenza. Se le
commemorazioni celebrano generalmente di lui la vastità dell’erudizione e la fermezza della fede, il
necrologio della comunità di Mondragone sembra voler sottolineare anche la sua profonda umanità,
così impietosamente e insieme meravigliosamente svelata dalla debolezza degli arti inferiori. E non
si può fare a meno di osservare che l’immagine del grande studioso ridotto a letto dall’infermità
senile, pur profondamente triste e malinconica, è anche immensamente bella, perché restituisce tutta
la sua calda umanità a una figura che siamo ormai soliti considerare più leggendaria che reale.
P. Laurentius Rocci natus est in urbe Fara Sabina die 11 septembris 1864, patre Dominico
ac matre Eustochio Corradini. Societatem ingressus est die 18 octobris 1880.
Post studia Societatis peracta, sacerdotio auctus est die 26 iulii 1892: et die 15 augusti 1899
Vota Coadiutoris Spiritualis emisit. Plusquam triginta annos litteras Latinas et Graecas docuit
in nostro Collegio Tusculano magna cum laude; ibique unanimi Sodalium, Professorum
externorum atque alumnorum aestimatione et consensu, Praefecti Studiorum per multum
temporis munus exercuit.
Plura edidit: agiographias, biographias, opuscula, carmina Latina, epigrammata, versiones
operum Latinorum et Graecorum. Notissima extant et iam in usu fere communi sunt in omnibus
fere scholis Italiae tum publicis tam privatis eius "Grammatica Greca" et "Esercizi Greci" et
praesertim "Vocabolario Greco-Italiano" quod a peritis optimum aexistimatur inter lexica
hucusque edita.
Per plures annos Moderator fuit Congregationis Marianae Nobilium ad SS. Nominis Iesu:
Praefectus spiritus iuvenum studentium in Universitate Gubernii "La Sapienza": Confessori
assiduus virorum in Ecclesia Sancti Ignatii.
Fuit vir piissimus, magna simplictate praeditus, modestus, affabilis, facile ad se alliciens
animos Nostrorum pariter et externorum.
Attentis eius meritis, ab A.R.P.N. Generali Wlodimiro Ledòchowski admissus fuit ad
sollemnem quattuor Votorum professionem die 10 Martii 1940.
Ultimos quinque suae vitae annos in Collegio Maximo Sancti Francisci Xaverii ad SS.
Nominis Iesu transegit, postquam ex Aedibus Borromaeis una cum Scholasticis discesserat: sed
eo tempore fere numquam ex valetudinarii ambitu exivit; per duos integros annos nec lectum,
magna debilitate artuum inferiorum laborans, relinquere potuit.
Maxima reverentia et amore filiali prosequens Beatissimam Virginem Mariam, ultimam
Missam celebravit de eiusdem Virginis Assumptione, et post annum, ab hac piissima Matre in
coelum exceptus est, octogesimum sextum aetatis annum agens et septuagesimum Societatis.
Placide obdormivit in Domino Romae in Collegio Maximo Sancti Francesci Xaverii, die 14
augusti 1950, in pervigilio festi Beatae Virginis in coelum Assumptae, paucis mensibus ante
sollemnem definitionem de eiusdem Virginis Mariae Assumptione.
«Padre Lorenzo Rocci nacque nella località di Fara Sabina l’11 settembre 1864 da Domenico ed Eustochio
Corradini. Entrò nella Compagnia il giorno 18 ottobre 1880.
Dopo aver terminato il percorso formativo della Compagnia, fu ordinato sacerdote il giorno 26 luglio
1892; ed il giorno 15 agosto 1899 emise i voti di coadiutore spirituale. Per più di trent’anni insegnò lettere
latine e greche nel nostro Collegio Tuscolano con grande lode; e qui ricoprì per molto tempo la carica di
Preside con unanime stima e consenso dei colleghi, degli insegnati esterni e degli allievi.
Pubblicò molte opere: agiografie, biografie, scritti brevi, odi in latino, epigrammi, traduzioni di opere
latine e greche. Di lui restano, notissime e già in uso pressoché comunemente in quasi tutte le scuole d’Italia,
sia pubbliche che private, la Grammatica greca, gli Esercizi greci, e soprattutto il Vocabolario GrecoItaliano, che è considerato dagli esperti il migliore tra i dizionari finora pubblicati.
Per molti anni fu Moderatore della Congregazione Mariana dei Nobili presso la Chiesa del Santissimo
Nome di Gesù; Direttore spirituale dei giovani studenti nell’Università “La Sapienza”; Confessore assiduo di
uomini nella Chiesa di S. Ignazio.
Fu uomo sommamente pio, dotato di grande semplicità, modesto, affabile, capace di attirare a sé con la
stessa facilità gli animi dei Nostri e degli esterni.
In considerazione dei suoi meriti, fu ammesso dal Generale Wlodimiro Ledòchowski alla solenne
professione dei quattro Voti il giorno 10 marzo 1940.
Trascorse gli ultimi cinque anni della sua vita nel Collegio Massimo di S. Francesco Saverio presso il SS.
Nome di Gesù, dopo aver lasciato Palazzo Borromeo insieme con gli allievi; ma in quel tempo non uscì quasi
mai dallo spazio dell’ospedale; per due interi anni non poté nemmeno lasciare il letto, soffrendo di una grave
debolezza degli arti inferiori.
Rendendo omaggio alla Beatissima Vergine Maria con il massimo della riverenza e dell’amore filiale,
celebrò l’ultima messa per l’Assunzione della Vergine stessa, e dopo un anno fu accolto in cielo da questa
virtuosissima Madre, all’età di ottantasei anni e dopo settant’anni di Compagnia.
Si addormentò placidamente nel Signore a Roma nel Collegio Massimo di S. Francesco Saverio il giorno
14 agosto 1950, alla vigilia della festa della Beata Vergine assunta in cielo, pochi mesi prima che fosse
solennemente stabilita la festa dell’Assunzione della stessa Vergine Maria».
LA STAMPA DÀ NOTIZIA DELLA SCOMPARSA DI PADRE LORENZO ROCCI
Da “L’Osservatore Romano” del 15 agosto 1950:
Il P. Lorenzo Rocci, S.J.
All’Alba di questa Vigilia di Maria Assunta, confortato dai Ss. Sacramenti e dalla
Benedizione del Santo Padre, ha chiuso il suo lungo pellegrinaggio terreno, nel Collegio San
Francesco Saverio, presso la chiesa del Gesù.
Ivi ha trascorso gli ultimi cinque anni di vita: da quasi due non si moveva dal letto, per il
perduto uso degli arti inferiori. Due settimane or sono, l’insorgere di gravi disfunzioni
organiche lo avviò, tranquillo e rassegnato come sempre, al novissimo incontro con il suo
Signore.
Il pio religioso ed illustre umanista era nato, di nobile famiglia piacentina, a Fara Sabina
l’11 settembre 1864. Accolta presto la vocazione religiosa, entrò giovanetto nel Seminario
vescovile di Anagni, donde passò nella Compagnia di Gesù il 18 ottobre 1880. Fece il suo
ingresso nello Studentato di Napoli ed ivi emise i primi voti il 21 ottobre 1882. Il 26 luglio
1892, in Cortona, celebrava la Prima Messa.
I suoi primi studi furono letterari e li compì a Castelgandolfo; poi alla Gregoriana si laureò
in filosofia e in teologia. Ma riprese tosto i diletti studi umanistici, laureandosi in lettere presso
la R. Università di Roma.
Da allora, per più di un trentennio, il Padre Rocci ha onorato la cattedra con il suo
insegnamento. Per moltissimi anni fu preside del Collegio di Mondragone a Frascati.
Tutta una vita dedicata al ministero sacerdotale ed agli studi. Già direttore spirituale della
Congregazione dei Nobili presso la chiesa del Gesù e per molti anni confessore degli studenti
universitari nella cappella di Sant’Ivo alla Sapienza, a lui si debbono quei nitidissimi e profondi
scritti che sono la vita di S. Andrea Bobòla, la storia dei Martiri libanesi, le biografie di illustri
gesuiti, come il Vitelleschi, lo Strickland e l’Ottieri della Ciaja. Così pure ha curato la ristampa
di quell’aureo volume che è la “Vita di S. Luigi Gonzaga” scritta dal P. Cepari.
Ma la sua opera somma – compiuta dopo le grammatiche greca e latina, la sintassi latina, i
trattati di prosodia e metrica latina – è il famoso vocabolario greco (il “Rocci”, come si dice
fra gli studiosi) che gli costò ben 27 anni di assidua applicazione, di ininterrotti lavori, nella
più scrupolosa ed onesta indagine scientifica.
Che dire poi degli elegantissimi carmi latini scritti da questo grande grecista? E quanto di
bene si dovrebbe aggiungere per le politissime versioni dell’Odissea e dell’Antigone?
Le numerose distinzioni ricevute da enti culturali, italiani ed esteri, attestano come l’illustre
filologo sia universalmente noto e stimato.
Chi commemorerà degnamente il Maestro di vita intellettuale e di vita religiosa, le sue virtù,
la modestia, la semplicità, la pazienza, il suo spirito di preghiera, l’alta sua opera di giudice e
padre nel Tribunale di Penitenza?
Da due anni non poteva celebrare la S. Messa, e questo è stato il suo grande dolore. Ma ci fu
una parentesi di immenso gaudio: l’Assunta – che in quest’anno giubilare lo volle con Sé in
Cielo – lo scorso anno gli permise di celebrare la Sua Messa. L’ultima.
* * *
I funerali, presente la salma, avranno luogo nella chiesa del Gesù il 16 agosto alle ore 9,30.
Diversi elementi meritano di essere rilevati in questo articolo, che va ben al di là lo scarno
annuncio della scomparsa, per tessere una vibrante commemorazione del grande gesuita e
dell’immenso studioso. Alcuni di questi elementi sono peraltro già stati riscontrati nel necrologio
latino composto dal Nobile Collegio Mondragone e riportato nel precedente capitolo. Tra questi
sembra particolarmente rilevante l’insistenza sul motivo della malattia e della sofferenza fisica, un
motivo che, in una sorta di elaborata Ring-Komposition, apre e chiude il testo. Infatti l’articolo,
dopo aver comunicato la notizia della dipartita, subito rievoca gli ultimi sofferti cinque anni di vita
di Padre Rocci, trascorsi quasi ininterrottamente a letto a causa del perduto uso degli arti inferiori.
Rispetto al necrologio l’articolo aggiunge l’ulteriore dato delle gravi disfunzioni organiche
sopraggiunte negli ultimi tempi e, soprattutto, a tale riguardo sottolinea la disposizione d’animo di
paziente e rassegnata accettazione con cui Padre Rocci attese il giorno della morte; a conferma del
ritratto di un grande uomo, mite e sereno, incrollabile nella sua fede. Il motivo dell’infermità torna
in chiusura di articolo, dove si evidenzia come alla sofferenza fisica si fosse sommato, per l’anziano
gesuita, il dolore di non poter celebrare più messa, con l’unica eccezione – ricordata anche nel
necrologio latino – della funzione dell’Assunta celebrata un anno esatto prima della scomparsa.
Quasi un segno del destino.
Per quanto concerne i dati biografici, è da rilevare che l’articolo de “L’Osservatore Romano”
accoglie la tesi dell’origine nobile e piacentina di Padre Rocci, mentre per la ricostruzione delle
varie tappe della sua vita religiosa non diverge dalle altre fonti in nostro possesso.
Un dato nuovo viene invece fornito relativamente al suo curriculum scolastico, in quanto ci viene
qui detto che Lorenzo Rocci compì i suoi primi studi letterari a Castelgandolfo; dal che si deve
desumere che probabilmente a Castelgandolfo frequentò il liceo, entrando così in contatto per la
prima volta con quelle lingue classiche che avrebbero poi riempito gran parte della sua vita.
Della sua produzione letteraria vengono ricordati, prima ancora delle grtammatiche greca e latina
e del vocabolario di greco, gli scritti agiografici e biografici, ai quali vengono riconosciute le qualità
della nitidezza e della profonfità. Segue la menzione delle grammatiche, della sintassi latina, dei
trattati di prosodia e metrica latina, dei carmi latini, delle traduzioni dell’Odissea e dell’Antigone,
celebrate per la loro eleganza, e soprattutto del «famoso vocabolario greco», che l’autore
dell’articolo presenta come il prodotto, oltre che di 27 anni di assidua applicazione, anche della «più
scrupolosa e onesta indagine scientifica».
Altro dato che viene particolarmente enfatizzato nel testo de “L’Osservatore Romano”,
diversamente che altrove, è quello dei riconoscimenti ricevuti da Padre Rocci, in Italia e all’estero,
per la sua attività filologica. Si sottolinea infatti nell’articolo come il gran numero di distinzioni
conferite da enti culturali italiani ed esteri attesti la fama universale dello studioso.
Quanto alla vita di Lorenzo Rocci all’interno della Compagnia di Gesù, se ne ripercorrono qui le
tappe principali, con particolare rilievo dato all’«alta sua opera di giudice a padre nel Tribunale di
Penitenza», vale a dire al suo ruolo di confessore, sempre svolto con il giusto equilibrio tra severità
e comprensione, come si conviene a chi appunto voglia proporsi alle anime dei peccatori non solo
come giudice ma prima di tutto come padre.
L’articolo contiene anche delle efficaci definizioni di quello che Padre Rocci fu nel suo lungo
pellegrinaggio terreno: «pio religioso ed illustre umanista», «grande grecista» «illustre filologo […]
universalmente noto e stimato», «Maestro di vita intellettuale e di vita religiosa». Ritorna dunque
anche nella stampa cattolica la duplicità dell’immagine di Padre Rocci tante volte rilevata negli
scritti a lui dedicati: la duplice immagine dell’uomo di fede e dello studioso, del pio religioso e del
filologo raffinato; immagini tuttavia unificate, ancora una volta, dal ruolo di Maestro, che egli seppe
interpretare nella forma più alta e nobile tanto nel confessionale quanto in cattedra. Ed è forse
questa l’immagine destinata a rimanere maggiormente impressa nelle menti dei posteri: quella,
appunto, di un Maestro immenso, votato a curare l’anima e l’intelletto del prossimo, con semplicità
e pazienza, come solo gli spiriti più elevati sono in grado di fare.
LA STAMPA COMMEMORA IL PROF. LORENZO ROCCI
Da “Il Messaggero” del 15 settembre 1950:
Nel trigesimo della morte
Frascati ricorda il prof. Lorenzo Rocci
La sua scomparsa segnò un lutto per la scuola e la cultura italiana.
Il 14 agosto v.s., confortato dai SS. Sacramenti e dalla Benedizione del S. Padre, si spense in
Roma nell’età di 86 anni il P. prof. Lorenzo Rocci, lasciando profondo rimpianto in tutti coloro
che lo conobbero.
La scomparsa dell’illustre Gesuita è un lutto non solo della Compagnia di Gesù, che lo ebbe
tra i suoi migliori figli, ma anche della scuola e della cultura italiana, di cui fu insigne
rappresentante in questi ultimi cinquanta anni. Amantissimo delle lettere latine e greche, sin da
giovane si dedicò con ardore allo studio dei classici, insegnando nei Collegi della Compagnia e
specialmente nel Collegio Mondragone, che lo ebbe anche Preside per alcuni anni, e
componendo pregevoli opere, alle quali è legato il suo nome.
La scuola italiana molto deve all’attività letteraria del P. Rocci, essendo i suoi testi scolastici
largamente adottati ancor oggi con molta utilità degli alunni. La «Grammatica greca», chiara e
piana, si apprende con grande facilità: gli «Esercizi greci» sono condotti con criterio e buon
gusto. La bella traduzione e il pregevole commento dei primi sei libri dell’Odissea rivelano
nell’autore una profonda conoscenza dei poemi omerici e acume nell’interpretare il pensiero
del poeta greco. Elegante è anche la traduzione dell’Antigone di Sofocle. Opera veramente
insigne, che ha colmato una grave lacuna nella scuola italiana, è il «Vocabolario greco», che,
pubblicato circa quindici anni fa, oggi va per le mani di quasi tutti quelli che attendono agli
studi classici. Senza dubbio è il migliore che esista in Italia, che era costretta a servirsi per lo
più di vocabolari tradotti da altre lingue. Il P. Rocci ha dato alla scuola italiana un
vocabolario ricco di voci e completo in ogni sua parte: il favore incontrato non solo presso gli
alunni, ma anche presso le persone colte, ha superato ogni aspettativa. L’autore, che vi dedicò
lunghi anni di paziente e coscienzioso lavoro, ebbe la grande soddisfazione di constatare di
aver fatto un’opera veramente utile e necessaria.
Il P. Rocci non fu soltanto grecista, ma si rivelò anche insigne latinista dettando in varie
circostanze bellissime epigrafi che sarebbe bene raccogliere in un volume. La sua sintassi
latina, esposta con passi di retroversione largamente annotati, serve di guida a chi vuole
apprendere in latino con proprietà ed eleganza.
Il carme in esametri sulla Villa di Mondragone e quello dedicato a Luigi Rizzo dimostrano
che egli aveva un’anima veramente poetica e che dallo studio dei poeti latini aveva saputo
trarre la facilità nello scrivere in versi, l’eleganza dell’espressione e la viva rappresentazione
delle immagini. Le «Favole» scritte alla maniera di Fedro, che riguardano uomini e cose dei
tempi moderni, sono forse il capolavoro del Rocci in lingua latina. Per la scuola pubblicò un
trattato di prosodia e un altro di metrica oraziana col commento di trenta odi. Per le sue
benemerenze letterarie fu membro dell’Accademia dell’Arcadia e dei Virtuosi del Pantheon.
Sarebbe troppo lungo enumerare tutte le altre opere di vario genere, specialmente quelle di
carattere biografico, a cui egli attese durante la sua lunga vita: basta aver accennato solo alle
più importanti.
In mezzo a questa molteplice attività letteraria egli non trascurò i doveri del suo ministero
sacerdotale. Profondamente pio e vero figlio di S. Ignazio, esplicò dapprima il suo apostolato
nel Collegio Mondragone insegnando ed educando i giovani all’amore di Dio, della famiglia e
della Patria e instillando nei loro animi i sentimenti di onestà e di lavoro. I suoi numerosi exalunni lo ricordano come un buon papà, a cui ricorrevano per consiglio e per conforto nei
momenti d’incertezza e di abbattimento. Quando per attendere con maggiore tranquillità alla
compilazione del vocabolario fu costretto a lasciare l’insegnamento e a ritirarsi a Roma, non
cessò di essere il Padre Spirituale dei giovani e degli uomini maturi, che si affidavano
completamente alla sua pietà e alla sua saggezza.
Tutti, dalle classi più umili alle più elevate, avevano libero accesso alla sua camera: tutti si
partivano da lui dopo aver ricevuto consiglio e conforto nelle miserie della vita.
Il padre, il maestro, l’apostolo non è più tra noi: Iddio lo ha chiamato a ricevere il premio
dei giusti.
Gli amici, i discepoli, gli ammiratori e specialmente la scuola italiana, che tanto a lui deve,
si chinano riverenti davanti alla sua tomba.
Dopo diversi testi concepiti ed elaborati all’interno dell’ambiente cattolico, ci s’imbatte dunque,
con questo articolo de “Il Messaggero”, in una commemorazione di Padre Lorenzo Rocci da una
prospettiva laica. Coerentemente con tale impostazione, il giornalista concede maggiore spazio al
Rocci insegnante e studioso che al Rocci sacerdote e gesuita, anche se nel finale non manca
comunque di sottolineare l’intensità della vocazione con cui egli visse la propria missione
sacerdotale e apostolica.
A giganteggiare in questa commossa rievocazione, a trenta giorni dalla scomparsa, è la figura del
maestro, autore di opere insostituibili nella scuola e nella cultura italiana, di cui fu insigne
rappresentante per circa cinquant’anni. Nella rassegna degli scritti rimangono in secondo piano, di
conseguenza, le opere agiografiche e biografiche, a vantaggio di quelle didattiche, la cui menzione è
accompagnata da ponderati giudizi di valore: della Grammatica greca si apprezzano soprattutto la
chiarezza e la semplicità; gli Esercizi greci sono considerati pregevoli per il criterio e il buon gusto;
la traduzione e il commento dei primi sei libri dell’Odissea sono giudicati rivelatori di una profonda
conoscenza dei poemi omerici e di un brillante acume interpretativo; nella traduzione dell’Antigone
di Sofocle si riscontra un notevole saggio di eleganza.
Segue, in posizione d’onore, la menzione del Vocabolario greco-italiano, che – come precisa lo
stesso autore dell’articolo – a circa quindici anni dalla prima pubblicazione, costituiva ancora uno
strumento di studio insostituibile per chiunque frequentasse il liceo classico. Del dizionario,
giudicato senza esitazione «il migliore che esista in Italia», oltre che il primo ad essere stato
concepito ab origine in lingua italiana, vengono ricordati anche alcuni pregi specifici, a cominciare
dalla completezza e dalla ricchezza delle voci, che giustificano l’enorme favore incontrato
dall’opera tanto presso l’ampia platea degli studenti quanto presso il più ristretto pubblico dei
cultori delle materie classiche.
Una menzione a sé viene poi riservata da “Il Messaggero” – e anche questa rappresenta una
peculiarità rispetto alle altre commemorazioni fin qui riportate – alla produzione latina di Padre
Lorenzo Rocci: le epigrafi, relativamente alle quali viene espresso l’auspicio che si realizzi quanto
prima un volume; il carme in esametri sulla Villa di Mondragone e quello dedicato a Luigi Rizzo,
che rivelano in Rocci, oltre all’erudizione dello studioso, anche l’anima del poeta, riconoscibile
nella facilità di versificazione, nell’eleganza dell’espressione e nella viva rappresentazione delle
immagini; le favole scritte alla maniera di Fedro, giudicate il suo capolavoro in lingua latina. Delle
favole, in particolare, viene evidenziata l’originalità dell’ispirazione, essendo esse concepite
secondo il celebre modello di Fedro, ma per il resto ambientate nell’era della “modernità”, con
l’esilarante presenza di telegrafi e automobili accanto ad animali e piante di classica memoria.
A dimostrazione delle notevoli competenze di Padre Rocci come latinista, oltre che come
grecista, “Il Messaggero” ricorda anche i trattati di sintassi e di prosodia latina da lui composti per
la scuola, rilevando, in particolare, come la sua sintassi latina, attraverso l’utile strumento della
retroversione (consistente nel tradurre di nuovo nella lingua originale un passo già tradotto da quella
stessa lingua), realizzi al meglio l’obiettivo di illuminare l’uso di costrutti e reggenze, e di guidare
quindi il discente verso un uso appropriato ed elegante della lingua latina.
Dall’articolo de “Il Messaggero” si apprende anche un dato biografico che non compare altrove:
l’ammissione di Padre Lorenzo Rocci all’Accademia dei Virtuosi del Pantheon. La Pontificia
Insigne Accademia di Belle Arti e Letteratura dei Virtuosi al Pantheon è oggi un’accademia
pontificia che si prefigge l’obiettivo di «favorire lo studio, l’esercizio ed il perfezionamento delle
Lettere e delle Belle Arti, con particolare riguardo alla letteratura d’ispirazione cristiana e all’arte
sacra in tutte le sue espressioni, e di promuovere l’elevazione spirituale degli artisti, in
collegamento con il Pontificio Consiglio della Cultura»8. Riunitisi in origine sotto la denominazione
di Congregazione di San Giuseppe di Terra Santa per iniziativa del monaco cisterciense Desiderio
d’Adiutorio e riconosciuti da papa Paolo III nel 1542, sin dai loro esordi i Virtuosi al Pantheon
annoverarono nelle proprie fila i più illustri artisti di Roma, a partire dal XVII secolo allestirono
celebratissime mostre sotto il pronao del Pantheon e dal 1837 istituirono persino una rendita annua,
finanziata dal pubblico erario, per bandire concorsi artistici. La Congregazione ottenne il titolo di
Pontificia da papa Pio IX nel 1861 e quello di Accademia da papa Pio XI nel 1928. Fin dalla
fondazione della loro congregazione, i Virtuosi hanno accolto all’interno della propria
organizzazione le massime personalità di ogni nazione giunte alla fama nell’esercizio della loro arte
e note per l’integrità morale. Tra queste alte personalità delle arti e della cultura ebbe dunque
l’onore di essere accolto anche il prof. Rocci, già accademico dell’Arcadia e stimatissimo poeta in
lingua latina.
Padre Lorenzo Rocci, tuttavia, difficilmente trova una adeguata definizione in un solo termine. E
pertanto con svariate parole il cronista de “Il Messaggero” si sforza di delimitarne la poliedrica e
versatile grandezza: non solo Arcade e Virtuoso del Pantheon, ma anche «grecista» e «insigne
latinista», e poi naturalmente «illustre Gesuita», «profondamente pio e vero figlio di S. Ignazio»,
«buon papà» per i suoi alunni, in sintesi «padre, maestro, apostolo».
Una nota particolare viene riservata, nell’articolo, al rapporto tra Padre Rocci e i giovani; un
rapporto profondo e totale, in quanto – come risulta da tutte le testimonianze, e come la stessa
commemorazione de “Il Messaggero” conferma – ai suoi studenti il prof. Rocci donava tutto se
stesso, non solo la sua cultura immensa e preziosa, ma anche i suoi saldi principi etici, la sua
umanità, il suo consiglio e il suo conforto. In questo egli era davvero maestro, padre e, nel senso più
pieno e nobile del termine, apostolo. Al centro del suo insegnamento – ricorda l’articolo – non era
tanto la conoscenza dei classici, che pure egli riteneva essenziale per la formazione di un essere
umano, quanto l’amore di Dio, della famiglia e della Patria, i sentimenti dell’onestà e del lavoro. E
in questa sua missione didattica e apostolica Padre Rocci era sempre assolutamente democratico. Il
testo de “Il Messaggero” racconta che a nessuno era negato l’accesso alla sua camera: tutti,
qualunque fosse la loro estrazione sociale, dalla più umile alla più elevata, potevano accedere a lui e
ricevere consiglio e conforto.
Il cronista ricorda poi come il legame con i giovani non si sia spezzato neppure quando Padre
Rocci lasciò l’insegnamento per attendere alla compilazione del suo vocabolario. Ai ragazzi, infatti,
egli si dedicò allora come Padre Spirituale, e alla sua profonda pietà e saggezza i giovani poterono
sempre affidarsi completamente, sicuri di trovare guida e sostegno.
Il ricordo del grande maestro si conclude, infine, con la bella immagine degli amici, dei discepoli,
degli ammiratori e dell’intera scuola italiana chinati con doverosa riverenza davanti alla sua tomba.
Così, mentre egli riceve il premio dei giusti nella dimensione che trascende le umane miserie, tutti
coloro che da lui hanno tratto linfa per i propri studi e per la propria vita gli rendono l’omaggio
estremo del ricordo nel trigesimo della sua morte.
8
Dal nuovo Statuto della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Letteratura dei Virtuosi al Pantheon, approvato
nel 1995.
IN MARMORE MEMORIA
LAPIDI COMMEMORATIVE DI PADRE LORENZO ROCCI
Lapide affissa alla casa natale di Fara in Sabina
Con le parole seguenti, affidate al marmo di una lapide, la cittadinanza di Fara in Sabina ricorda
il proprio celebre conterraneo, rievocandone – come di consueto nelle commemorazioni di Lorenzo
Rocci – sia la fermezza e l’intensità del sentimento religioso sia i grandi meriti didattici nel campo
degli studi umanistici. Appare nel complesso confermato e avvalorato il ritratto di Padre Rocci
come maestro di virtù cristiana e di classicità.
LAURENTIUS ROCCI S. J
RELIGIONE AC PIETATE CONSPICUUS
HUMANARUM LITTERARUM PRAECLARISSIMUS MAGISTER
QUAM PLURIMOS IN TERRIS DEGENS
CHRISTIANA VIRTUTE ATQUE INGENUIS IMBUIT STUDIIS
AD CAELITES EVECTUS
NATALI LOCO
CUIUS PERINSIGNE DECUS EXTITIT
ADHUC PERMANENTER ADEST
EIUSQUE NOMEN PER AEVUM HONESTAT
MDCCCLXIV
MCML
Lorenzo Rocci
segnalato per sentimento religioso e devozione
maestro illustrissimo di discipline umanistiche
nella vita terrena quanti più possibile
iniziò alla virtù cristiana e agli studi nobili
elevato ai celesti
nel luogo natale
del quale vi fu assai visibile lustro
tuttora permanentemente è presente
e al suo nome conferisce onore per l’eternità
1864
1950
Lapide affissa al Liceo di Passo Corese
Il 28 marzo del 2009, nel corso di una solenne cerimonia commemorativa, il Liceo Statale
Classico e Scientifico di Passo Corese, piccola frazione di Fara in Sabina, fu intestato a Lorenzo
Rocci. In quella circostanza, alla presenza di illustri personalità della cultura locale e di alcuni ex
alunni del Nobile Collegio Mondragone, venne scoperta una lapide in onore di Padre Rocci, che
sarebbe poi stata affissa al Liceo. Nell’epigrafe giganteggia ancora una volta il ritratto del maestro,
tanto illustre per dottrina, devozione e umanità che la dedica costituisce per la scuola un onere e una
responsabilità oltre che un onore. Anche le doti umane, dunque, accanto all’erudizione e alla fede,
contribuirono a rendere immensa la personalità di Padre Rocci, e quindi particolarmente
impegnativa la sua eredità. Sul piano stilistico si segnala soprattutto la sezione centrale dell’epigrafe
doctrina pietate humanitate super aethera noto, dove spiccano il bell’asindeto a tre elementi e il
nesso virgiliano super aethera noto.
HUIC LYCEO
AB ILLO CLARISSIMO VIRO
LAURENTIO ROCCI S.J.
DOCTRINA PIETATE HUMANITATE
SUPER AETHERA NOTO
UNIVERSA PHARENSI CIVITATE FAVENTE
NOMEN:
HONOR ET ONUS.
Anno MMIX
a.d. V ka. Apriles
Questo liceo
da quell’uomo illustrissimo
Lorenzo Rocci
per dottrina devozione umanità
noto fin sopra le stelle
con il favore dell’intera cittadinanza di Fara
trae il nome:
onore e onere.
Anno 2009
28 marzo
LE VIE LORENZO ROCCI IN ITALIA
Il nome di Lorenzo Rocci è entrato anche nella toponomastica. A lui sono infatti intestate delle
vie in alcune città italiane. Porta il nome di Lorenzo Rocci, innanzi tutto, una via di Roma, nel
quartiere Gianicolense, istituita nel 1966, a sedici anni dalla morte dello studioso, con delibera n.
3064 del Consiglio Comunale. Due anni più tardi lo stesso Consiglio Comunale, con delibera n. 222
del 19/01/1968, poi confermata dalla delibera della Giunta del Municipio XVI n. 3246 del
30/05/1972, stabilì una variazione del tracciato di Via Lorenzo Rocci, definendo quello che è
l’attuale percorso della strada.
Roma non è l’unica città italiana a rendere omaggio al grande grecista. Anche i luoghi delle sue
origini, vere e presunte, gli tributano l’onore di un toponimo. Una via Lorenzo Rocci si trova infatti
sia nella natia Fara in Sabina sia nella zona residenziale di Montale, quartiere della periferia est di
Piacenza, città che secondo una certa tradizione, ai Piacentini molto cara, avrebbe dato i natali al
padre di Lorenzo.
IL ROCCI NELLA STORIA DELLA LESSICOGRAFIA
Storia dei dizionari di greco antico in Europa
Il progenitore di tutti i lessici e i dizionari di greco antico fu il Thesaurus Graeccae Linguae o
Trésor de la langue grecque dell’editore e filologo francese del XVI secolo Henri Estienne, meglio
noto come Henricus Stephanus. La monumentale opera, che già il padre di Henri aveva avviato,
apparve nel 1572 in quattro volumi, con un supplemento di due volumi. Fu questa la base della
lessicografia greca fino all’Ottocento.
Tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX gli studi lessicografici ricevettero nuovo impulso,
e il principale prodotto di questo rinnovato interesse fu il Kritisches griechisch-deutsches
Handwörterbuch di Johann Gottlob Schneider, filologo e naturalista sassone, insegnante di lingue
classiche e oratoria nonché capo bibliotecario a Breslavia. Tale dizionario, pubblicato nel 1797-98,
oltre ad essere il primo grande vocabolario greco-tedesco dai tempi del Thesaurus dello Stefano,
ebbe anche il pregio di una maggiore cura per la terminologia scientifica, in quanto lo Schneider
metteva al servizio della lessicografia greca le sue competenze naturalistiche, dimostrate
nell’edizione ampliata e corretta di un vecchio catalogo di pesci, e proprio in qualità di cultore delle
discipline scientifiche si era fatto promotore, in quegli stessi anni, dell’introduzione nella lingua
tedesca di termini tecnici delle scienze naturali.
Sul Kritisches griechisch-deutsches Handwörterbuch di Johann Gottlob Schneider si basò il
fondamentale Handwörterbuch der griechischen Sprache, opera del filologo e lessicografo tedesco
Franz Passow, apparsa per la prima volta nel 1819 come mera revisione del dizionario dello
Schneider e successivamente ampliata fino a divenire un’opera autonoma con la quarta e definitiva
edizione del 1831.
A questi eccellenti prodotti della lessicografia tedesca, e in particolare al lavoro di Passow,
attinge il Liddell & Scott, altrimenti noto come Liddell-Scott-Jones o, in forma abbreviata, come
LSJ, dizionario greco-inglese impostosi quale fonte e modello per tutte le successive opere
lessicografiche relative al greco antico. Esso vide la luce nel 1843, redatto da quattro insigni
studiosi – Henry George Liddell, Robert Scott, Henry Stuart Jones e Roderick McKenzie – e
stampato presso la Clarendon Press di Oxford. Le successive edizioni risalgono agli anni 1845,
1849, 1855, 1861, 1869. Attualmente viene utilizzata la nona edizione, realizzata nel 1940 dopo
un’ampia revisione.
Del LSJ furono date alle stampe anche due ulteriori edizioni in formato ridotto. Nel 1843, lo
stesso anno in cui fu pubblicato il lessico principale, apparve anche il cosiddetto “Little Liddell”,
intitolato A Lexicon: Abridged from Liddell and Scott’s Greek-English Lexicon. Esso ebbe varie
edizioni e ristampe negli anni seguenti e tutte incontrarono un notevole favore nella scuola, tanto
che l’ultima ristampa dell’opera, basata sull’edizione del 1909, è stata realizzata nel 2007 presso
l’editore Simon Wallenberg Press. Nel 1889 vide la luce anche una versione del lessico in formato
intermedio, An Intermediate Greek-English Lexicon, redatto sulla base della settima edizione (1882)
del LSJ. Rispetto al più ridotto dizionario, questa versione conteneva un maggior numero di lemmi,
al fine di coprire tutto il vocabolario essenziale del greco antico quale risulta attestato nella
produzione letteraria pervenutaci, aggiungeva citazioni d’autore per illustrare la storia dei diversi
usi lessicali e forniva maggiore aiuto per l’individuazione e l’analisi delle forme irregolari.
Dopo la pubblicazione della nona edizione nel 1940 e poco dopo la morte di Stuart Jones e di
McKenzie, la Oxford University Press compilò una lista di addenda et corrigenda, che fu allegata
alle successive ristampe del Liddell & Scott. Nel 1968 questa lista fu sostituita da un Supplemento,
noto appunto come Supplemento al LSJ, che non è mai stato fuso con il lessico principale, rimasto
nella forma originariamente concepita dagli autori, ma è stato semplicemente aggiunto ad
integrazione e aggiornamento di esso. Tale Supplemento, inizialmente edito da M.L. West, a partire
dal 1981 è edito da P.G.W. Glare e dal 1988 da Glare e Anne A. Thompson. La più recente
revisione del Supplemento, pubblicata nel 1996, contiene 320 pagine di emendamenti al testo
principale nonché una cospicua mole di materiali aggiuntivi, in gran parte provenienti da fonti
micenee.
Recentemente la lessicografia si è arricchita di un’ulteriore pregevole opera di dimensioni
enciclopediche, il Diccionario Griego-Español di F.R. Adrados, pubblicato in più volumi a partire
dal 1989 e attualmente giunto alla lettera epsilon.
Se lasciamo i tempi più recenti per tornare all’età in cui Padre Lorenzo Rocci lavorò al suo
dizionario, constatiamo che all’epoca era nettamente dominante la lessicografia tedesca, impostasi
con l’opera di Passow, con cui Rocci aveva una discreta familiarità, ma anche con le opere meno
ambiziose di Gemoll e Schenkl, delle quali si dirà più avanti. Il Liddell-Scott era già apparso ed era
stato già più volte edito, ma Padre Rocci non poté consultarlo molto, anche a causa della sua scarsa
conoscenza dell’inglese.
Un altro lessico molto diffuso in Europa nei primi decenni del Novecento era il Dictionnaire
grec-français di Bailly, la cui prima edizione risaliva al 1894; esso però rimase uno strumento del
tutto insoddisfacente fino alla revisione del 1950 ad opera di Séchan e Chantraine, che lo
aggiornarono scientificamente curando le forme dialettali e le etimologie.
Padre Rocci poteva inoltre disporre di alcuni lessici etimologici: il vecchio Handbuch der
griechischen Etymologie di Meyer, pubblicato a Lipsia nel 1901-02, antiquato ma ricco di materiali,
e il più recente Dictionnaire étymologique de la langue grecque étudiée dans ses rapports avec les
autres langues indoeuropéennes di Boisacq, anch’esso ricchissimo di materiale ma ancora privo
della storia delle parole, apparso nel 1938, dunque un anno prima che Padre Rocci completasse il
proprio lavoro. Per i dialetti le uniche fonti disponibili erano i vecchi studi dell’Hofman,
l’Handbuch del Thumb, pubblicato a Heidelberg tra il 1909 e il 1932, e l’opera del Bechtel, apparsa
a Berlino nel 1921-24, ma si trattava di strumenti ancora piuttosto antiquati.
Ai tempi di Rocci, il miceneo non era stato ancora decifrato (la sua decifrazione sarebbe avvenuta
solo nel 1952, due anni dopo la morte di Lorenzo Rocci). La linguistica comparata come scienza
muoveva i primi incerti passi. La grammatica in uso in gran parte d’Europa era ancora la
Griechische Schulgrammatik di Curtius (Praga 1852), diffusa in Italia nella traduzione di Müller del
1887, riveduta e corretta solo nel 1943 da Taccone; uno strumento decisamente inadeguato alla luce
dei più recenti progressi della glottologia e della linguistica, limitato soprattutto da una conoscenza
imperfetta della fonetica e da un’ignoranza pressoché totale dell’apofonia.
Questo era dunque lo scenario che si prospettava a Padre Lorenzo Rocci quando intraprese la sua
grande missione lessicografica. Dei limiti degli strumenti all’epoca disponibili occorre
necessariamente tenere conto quando si formula un giudizio sul lavoro del grande gesuita. È
evidente che la sua opera, se comparata con i lavori più recenti, non può che apparire antiquata; ma
se si compie lo sforzo di inquadrarla nel suo contesto storico, la si scopre di una modernità
sorprendente, se non altro per la sua ampiezza, che spazia dal greco arcaico a quello
neotestamentario e patristico, per la sua attenzione alle voci dialettali e alle etimologie, in un’epoca
in cui questo genere di interessi era ancora nettamente minoritario, e per la sua apertura ai vocaboli
attestati in epigrafi e papiri, allora in gran parte trascurati dalla lessicografia greca.
Un rapido sguardo ai dizionari di greco antico in uso nella scuola italiana prima della
pubblicazione del Rocci aiuterà ancora di più a comprendere la straordinarietà dell’opera compiuta
dal tenace gesuita sabino.
Storia dei dizionari di greco antico in Italia
La lingua greca è oggetto di studio nella scuola italiana sin da quando la legge Casati del 1859,
istitutiva del liceo classico, fu estesa al neonato Regno d’Italia. Il primo dizionario greco-italiano ad
avere un’ampia circolazione nelle scuole del Regno fu il Vocabolario greco-italiano per uso dei
ginnasi, versione italiana del vocabolario greco-tedesco di Karl Schenkl, realizzata da Francesco
Ambrosoli ed edita a Firenze e a Torino nel 1866. La storia di questo dizionario s’intreccia
magnificamente con le vicende del Risorgimento italiano.
Francesco Ambrosoli, nato a Como nel 1797, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza a
Pavia e dopo aver intrapreso l’attività di avvocato, fu bruscamente allontanato dalla professione
forense dalla polizia austriaca a causa delle sue numerose amicizie negli ambienti ostili agli
Asburgo. Iniziò allora per lui una faticosa vita di stenti. Voltosi, per un suo antico interesse ma
anche per disperazione, allo studio delle lettere latine, greche e italiane, per molti anni si guadagnò
da vivere impartendo lezioni private e realizzando traduzioni e manuali. Fra le sue opere di
maggiore rilievo si ricordano la traduzione in cinque volumi della Geografia di Strabone (Milano
1827-33) , la traduzione delle Storie di Ammiano Marcellino (Milano 1829), la Grammatica della
lingua italiana (Milano 1820), il Manuale della lingua italiana (Milano 1828), il Manuale della
letteratura italiana in quattro volumi (Milano 1831-32) e la traduzione in due volumi della Storia
della letteratura antica e moderna di F. Schlegel (Milano 1828).
Classicista convinto anche se non integralista, l’Ambrosoli fu un autore eclettico, capace di
spaziare dalla storiografia latina alla critica letteraria, non particolarmente brillante ma comunque
onesto e coerente con una certa concezione moralistica dell’arte. Solo in età più avanzata ebbe i
meritati riconoscimenti dal governo austriaco, ottenendo prima un impiego stabile alla Biblioteca di
Brera e in seguito la cattedra di filologia latina e greca, di letteratura classica e di estetica
all’Università di Pavia. Pur schierandosi a favore del moto d’indipendenza nazionale nel 1848, non
solo riuscì a conservare la sua posizione, ma fu addirittura invitato dal governo asburgico a recarsi a
Vienna per fornire il proprio parere su un progetto di riforma dell’istruzione classica in Lombardia.
Per oscuri motivi, tuttavia, pochi anni più tardi perse tutti i suoi incarichi, riducendosi a una
condizione economica prossima alla miseria.
Fu a questo punto che nella sua vita entrò il progetto di un dizionario di greco. Il ministro
austriaco, il conte Leo Thun e Hohenstein, per salvarlo da un’immeritata indigenza, lo convocò a
Vienna e gli propose di realizzare la versione italiana del vocabolario greco-tedesco di Karl
Schenkl. Il Vocabolario greco-italiano per uso dei ginnasi a cura di Francesco Ambrosoli fu così
pubblicato in prima edizione a Vienna nel 1864.
Gli anni successivi trascorsero per l’anziano professore in modo estremamente triste. Nessun
incarico gli fu conferito dal Regno d’Italia nel frattempo costituitosi, forse a causa delle sue passate
collaborazioni con il governo austriaco, ed egli si ritrovò a vivere in penose angustie economiche
fino alla morte, avvenuta a Milano nel 18689.
Migliore fortuna ebbe il suo dizionario, che apparve subito come un validissimo strumento da
impiegare nella nascente scuola italiana. Risultava tuttavia inopportuno che gli studenti dei licei
classici del Regno utilizzassero un’opera edita nella nemica città di Vienna. Fu pertanto promossa
un’edizione “italiana” del dizionario dell’Ambrosoli, non prima però che esso fosse solennemente
approvato dal Ministero dell’Istruzione Pubblica con rescritto del 27 settembre 1865 per uso dei
licei e dei ginnasi del Regno. Ricevuto il placet della massima autorità in materia di istruzione, il
Vocabolario greco-italiano a cura dell’Ambrosoli venne finalmente pubblicato in edizione italiana
a Torino e a Firenze dalla Libreria di Ermanno Loescher nel 1866. Sarebbe stato in seguito oggetto
di numerose ristampe e riedizioni fino a quella torinese del 1888. Per circa due decenni, dunque,
9
Le notizie biografiche su Francesco Ambrosoli sono tratte dalla relativa voce del Dizionario Biografico degli Italiani
della Treccani, vol. 2 (1960), a c. di Alberto Asor Rosa.
l’opera dello sfortunato letterato lombardo Francesco Ambrosoli costituì il dizionario greco-italiano
più usato dagli studenti dei licei classici del Regno.
A partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, tuttavia, l’Ambrosoli subì la concorrenza di altri
vocabolari. Di questi il primo ad apparire, presso l’editore Morano di Napoli nel 1880, fu il
Dizionario greco-italiano di Benedetto Bonazzi, caratterizzato da una maggiore autonomia dai
modelli tedeschi, anche se di essi recepiva gran parte delle posizioni didattiche e scientifiche.
Benedetto Bonazzi, monaco benedettino campano, nonché grecista, filosofo, oratore e insegnante
di lingue classiche presso la scuola della Badia cavense, era noto soprattutto per le sue idee
innovative circa l’insegnamento del greco nella scuola. Esperto dei nuovi indirizzi della linguistica
comparativa ed etimologica, si proponeva di introdurre nella scuola italiana un nuovo metodo,
consistente nell’applicare a brani di letture greche progressive la grammatica del Curtius, al quale
egli era da tempo legato da un rapporto di corrispondenza. Nella convinzione che la conoscenza del
materiale linguistico e l’indagine etimologica semplificassero l’apprendimento del lessico greco ai
giovani studenti, redasse numerosi testi scolastici, che gli valsero addirittura un premio da parte del
VII Congresso Pedagogico Italiano.
Le sue accurate ricerche lessicali ed etimologiche, in massima parte basate sugli studi condotti
negli stessi anni da grammatici e linguisti tedeschi, confluirono nel Dizionario greco-italiano, che
fu senza dubbio il suo capolavoro. Divenuto poi vicario generale della badiale diocesi cavense,
dopo aver rifiutato nel 1872 l’incarico di professore pareggiato presso l’Università di Napoli, e in
seguito nominato arcivescovo di Benevento10, il Bonazzi poté assistere al grande successo del suo
dizionario, attestato dalle venticinque edizioni che di esso furono realizzate dall’editore Morano di
Napoli fra il 1880 e il 1927.
Dopo la venticinquesima edizione il dizionario cominciò ad apparire non più proponibile nella
sua versione originale, essendo state nel frattempo superate molte delle posizioni di linguistica
comparativa ed etimologica ivi sostenute e presupposte, e si pensò pertanto di sottoporlo ad una
massiccia opera di rielaborazione da parte di altri grecisti. Le successive revisioni non incontrarono
però lo stesso successo che aveva accompagnato il Bonazzi nei primi decenni di vita.
Intanto, nel 1881, un altro dizionario si era presentato sui banchi dei licei classici italiani, il
Vocabolario greco-italiano compilato ad uso delle scuole di Tommaso Sanesi, edito dai Fratelli
Bracali a Pistoia. Tommaso Sanesi era un grecista già affermato quando la sua opera lessicografica
vide la luce, e la sua fama era in gran parte dovuta ad una fortunata Storia dell’antica Grecia
pubblicata qualche anno prima (Firenze 1859). Il suo agile vocabolario greco-italiano, in
concorrenza con l’opera di Bonazzi, dalla quale si differenziava per le minori pretese linguisticoetimologiche, ebbe un discreto successo nei licei. Ancora nei primi decenni del Novecento esso era
stampato e usato nelle scuole; nel 1924, anno della sua quindicesima edizione, il lavoro di Sanesi fu
perfezionato con l’aggiunta di un’ulteriore appendice e con varie correzioni.
Nell’anno precedente, il 1923, era apparsa anche una versione italiana del fortunato GriechischDeutsches Schul- und Handwörterbuch, dizionario scolastico realizzato dal preside di liceo e
filologo tedesco Friedrich Wilhelm Carl Gemoll, edito nel 1908. La storia della traduzione italiana
del Gemoll fu anche la storia dell’amicizia e del sodalizio scientifico tra due grandi studiosi
accomunati dalla passione per i manoscritti antichi, Domenico Bassi ed Emidio Martini.
Domenico Bassi, reduce da una breve carriera di insegnante che aveva dovuto abbandonare per
sopravvenuta sordità, si dedicò con successo all’attività di bibliotecario presso la Braidense di
Milano, e proprio qui incontrò il grecista Emidio Martini, che della Braidense era all’epoca
direttore. Il primo prodotto della loro collaborazione fu il Catalogus codicum Graecorum
Bibliothecae Ambrosianae (Milano 1906), prezioso catalogo contenente la descrizione di oltre mille
10
Le notizie biografiche su Benedetto Bonazzi sono tratte dalla relativa voce del Dizionario Biografico degli Italiani
della Treccani, vol. 11 (1969), a c. di Gerardo Bianco.
manoscritti, che ricevette il premio dei Lincei nel 1908. E l’amicizia tra i due studiosi proseguì
anche dopo che Domenico Bassi si trasferì a Napoli per dirigere l’Officina dei papiri ercolanensi11.
Dal canto suo Emidio Martini12, approdato agli studi classici dopo una laurea in giurisprudenza,
percorse una brillante carriera nelle biblioteche italiane, culminata, nel 1920, nella nomina a
sovrintendente bibliografico per le province della Campania e della Calabria. Negli anni successivi
al pensionamento intensificò il rapporto di collaborazione con l’amico Domenico Bassi, e con lui
realizzò la traduzione del dizionario di Gemoll, che vide la luce a Palermo presso l’editore Remo
Sandron nel 1923 con il titolo di Vocabolario greco-italiano ad uso delle scuole. Meglio noto come
“Piccolo Gemoll”, il dizionario sarebbe stato ristampato fino al 1983.
Nel frattempo però l’egemonia induscussa era stata conquistata dal Vocabolario greco-italiano,
di Lorenzo Rocci, apparso nel 1939 e, in successive edizioni, nel 1941 e nel 1943, primo dizionario
di greco antico integralmente concepito in lingua italiana. Infatti, mentre le opere lessicografiche
precedentemente in uso erano ancora basate, in modo più o meno diretto, su modelli stranieri,
soprattutto tedeschi (in misura minore francesi e inglesi) o erano addirittura traduzioni, riduzioni o
adattamenti di dizionari tedeschi, il Rocci fu il primo ad essere composto in modo sostanzialmente
autonomo dalla lessicografia straniera, tenendo conto dei progressi da essa compiuti naturalmente,
ma senza fare riferimento ad un modello estero particolare.
La realizzazione di un simile volume all’epoca di Rocci doveva davvero rappresentare un’impresa
titanica, e non solo per la già rilevata assenza di opere analoghe originariamente concepite in
italiano, ma anche perché la strumentazione disponibile era estremamente esigua, se comparata con
le vastissime risorse oggi offerte da repertori e sussidi elettronici. La leggenda vuole che Padre
Rocci si avvalesse solo di schedine e appunti manoscritti, accuratamente predisposti da lui
medesimo o da pochi selezionati collaboratori, attingendo per il resto alla propria sconfinata
erudizione e inesauribile memoria.
Tali erano l’impegno e lo sforzo intellettuale richiesti da un’impresa tanto importante, che – si
racconta – egli spesso dimenticava persino di soddisfare le più elementari esigenze del proprio
corpo. I suoi allievi ricordano infatti di averlo visto indossare il cappotto in pieno agosto, e
l’immagine del dotto gesuita immerso nell’immane opera, noncurante dei bisogni alimentari e
indifferente alle condizioni climatiche, a giudicare dalle testimonianze, deve essere rimasta ben
impressa nella mente di chi ebbe il piacere e il privilegio di vederla con i propri occhi.
Solennemente presentato nel 1939 come prodotto eccellente della lessicografia italiana, il
“Rocci” si impose nella scuola e nell’Università, divenendo in breve tempo un inevitabile punto di
riferimento per chiunque intendesse, a vario titolo, praticare gli studi classici o semplicemente
interessarsi alla classicità. Le successive edizioni del 1941 e del 1943 contribuirono a perfezionare
l’opera. Dagli anni Quaranta in poi, e per tutto il Novecento il volume fu più volte ristampato, ma
mai sottoposto ad una revisione che ne aggiornasse la forma e i contenuti.
Solo nel 2011 è apparso il nuovo Rocci, migliorato nella grafica e aggiornato nei contenuti, e dal
2013 al Rocci maior si accompagna il Rocci E σαγωγή, dizionario di avviamento per i più giovani
iniziati allo studio del greco. Per comprendere pienamente l’importanza del lavoro di recupero e
valorizzazione del vecchio “Rocci”, è opportuno ricordare che per oltre cinque decenni questo è
stato di fatto l’unico Vocabolario greco-italiano, senza alcuna alternativa fuorché le ristampe del
vecchio “Piccolo Gemoll” e qualche traduzione dell’inglese Liddell & Scott in formato ridotto e
semplificato, la più significativa delle quali fu il Dizionario illustrato greco-italiano, edito da Le
Monnier nel 1975, a cura di G. Cataudella, M. Manfredi e F. Di Benedetto.
Nel 1995 ha fatto la sua comparsa per la prima volta sui banchi di scuola il Vocabolario della
lingua greca, realizzato dal grecista e filologo Franco Montanari, edito da Loescher e comunemente
noto come “il GI”. Lo stesso Montanari, tuttavia, non nasconde il debito del suo lavoro nei
11
Le notizie biografiche su Domenico Bassi sono tratte dalla relativa voce del Dizionario Biografico degli Italiani della
Treccani, vol. 7 (1970), a c. di Liana Capitani.
12
Le notizie biografiche su Emidio Martini sono tratte dalla relativa voce del Dizionario Biografico degli Italiani della
Treccani, vol. 2 (1960), a c. di Alberto Asor Rosa.
confronti dell’opera di Padre Rocci: «Il debito verso Rocci è indiscutibile, perché è stato il frutto del
lavoro di un uomo che, armato solo di schedine e appunti e privo di un computer, è riuscito a creare
in 25 anni un’opera di 2.074 pagine, suddivisa in 4.148 colonne. Un opus magnum incredibile. Si
pensi che per realizzare il mio dizionario, con l’uso delle più moderne tecnologie, hanno collaborato
circa 30 ricercatori. L’opera di Rocci è stata un modello, da cui siamo partiti […] il debito verso
questo infaticabile gesuita rimane intatto».
Per tutti i motivi che in vario modo sono emersi da quanto si è scritto, il Rocci costituisce tuttora
un’opera imprescindibile nella lessicografia italiana, uno di quei volumi che segnano indelebilmente
la formazione di generazioni e l’impostazione della cultura di un Paese. Alla tentazione di
considerarlo antiquato ci si sottrae facilmente pensando invece a quanto esso fu innovativo quando
apparve sui banchi dei licei italiani nel lontano 1939. Quella straordinaria ampiezza e ricchezza di
contenuti che all’epoca lo rendeva unico rappresenta tuttora un punto di forza che già da solo vale a
giustificare qualunque iniziativa di riedizione.
IL PADRE, IL MAESTRO, L’APOSTOLO
Prima di addentrarsi nella lettura di alcune preziose perle del vecchio “Rocci”, è opportuno
spendere ancora qualche parola sul suo grande padre. Molto si è detto nelle pagine precedenti
riguardo l’immenso sapere e la profonda umanità di Lorenzo Rocci. Una formidabile combinazione
di qualità che fa di lui un personaggio eccezionale nella storia degli studi classici in Italia.
Si è voluto così restituire un volto umano a quel mastodontico tomo che ha allietato o angustiato
(a seconda dei punti di vista individuali) le giornate di tanti adolescenti italiani, ridare un’identità a
quell’imponente gigante di carta al quale, per almeno cinque anni della nostra vita, noi tutti, da
classicisti in erba, abbiamo riservato un posto d’onore sulle nostre scrivanie e nelle nostre
biblioteche.
Per oltre settant’anni il Vocabolario greco-italiano realizzato da Padre Lorenzo Rocci è stato
semplicemente “il Rocci”, e tuttora alla nuova edizione, sia pure ampiamente rinnovata rispetto
all’originale, non ci si può che riferire con l’appellativo ormai indelebile de “il Rocci”.
Ciononostante molti dei giovani che hanno sfogliato quelle pagine, e che su di esse hanno imparato
ad apprezzare il gusto dolce-amaro dello sforzo intellettuale, non hanno mai saputo chi fosse
Lorenzo Rocci. Forse i più dotti o i più curiosi saranno venuti a conoscenza di qualche scarno dato
biografico: la sua origine sabina, la sua appartenenza alla Compagnia di Gesù, i tanti anni spesi per
compilare il dizionario.
Del resto, della vita di Padre Rocci non c’è molto di più da sapere. Non ci sono grandi eventi da
raccontare né clamorosi episodi da rievocare. Con la rude semplicità di figlio della terra sabina
Padre Rocci non si fece mai assorbire dalla storia, la attraversò con fierezza e umiltà, da uomo di
studio e di fede, ma non ne volle mai essere protagonista. Perciò di lui non rimane altro che
l’immagine schiva dello studioso infaticabile e del confessore paterno.
Ripercorrendo le tappe della sua vita, tanto intensa spiritualmente quanto povera di eventi, non è
stato possibile scoprire molto di più di quel poco che già si conosceva. Si è solo aggiunto qualche
dettaglio, si è tratteggiata qualche sfumatura che forse mancava, che il tempo aveva sbiadito. Ma
nessun avvenimento clamoroso è riemerso, semplicemente perché nulla di clamoroso avvenne nella
lunga vita di Padre Rocci.
Perché allora dilungarsi tanto a raccontarne le vicende? Perché tante pagine per ripetere ciò che
in fondo già si sapeva? Perché era doveroso restituire un volto e un’identità ad un gigante della
cultura italiana, Padre nel senso più pieno e nobile del termine, Padre spirituale di tanti giovani nel
confessionale e Padre di un certo modello di formazione umanistica (accurata ma mai pedantesca)
nei numerosi anni trascorsi in cattedra.
Le pagine precedenti dedicate alla figura storica di Lorenzo Rocci devono dunque essere lette
come un recupero dell’identità di uno studioso immenso, di cui molti conoscono le opere ma quasi
nessuno le vicende umane.
In sintesi, dopo aver ripercorso gli eventi più significativi della sua vita e dopo aver rievocato la
sua personalità, sia pure con tutti i limiti di un’indagine condotta a oltre sessant’anni dalla sua
scomparsa, quale ricordo di lui può essere consegnato alla memoria delle giovani generazioni?
Padre Rocci non fu un protagonista della storia, non volle mai esserlo. La sua indole schiva e
semplice era aliena da qualunque ambizione di protagonismo. Mi sia consentito a tale riguardo
riferire un piccolo episodio di cui conservo tuttora un vivo ricordo. Qualche anno fa, quando ancora
lavoravo alla revisione del dizionario che sarebbe poi stata pubblicata nel 2011, nel tentativo di
trovare qualche residua traccia dell’attività del grande gesuita al quale mi sentivo di giorno in
giorno sempre più legata, accompagnai il responsabile della Società Editrice Dante Alighieri in una
interessante visita alla Biblioteca della Provincia Romana della Compagnia di Gesù, in via degli
Astalli a Roma. Non trovammo nulla di quello che cercavamo: né le celebri schede dattiloscritte di
cui Padre Rocci si avvaleva nella compilazione del dizionario né qualsiasi altro documento della sua
opera lessicografica.
Trovammo però il suo diario personale. Fu un’emozione indescrivibile sfogliarlo. Non credo di
esagerare dicendo che fu una delle emozioni più forti che io abbia mai provato nella mia attività di
ricercatrice. Dal punto di vista formale mi colpì soprattutto la cura con cui esso era redatto.
L’accuratezza della forma rivelava senza dubbio l’ordine mentale di un uomo che evidentemente
avvertiva l’esigenza di scrivere bene anche quando scriveva per sé. Anzi ebbi l’impressione che
Lorenzo Rocci non avesse scritto quel diario soltanto per sé, per dare libera espressione al flusso dei
propri pensieri, ma anche perché un Padre speciale lo leggesse, quasi come una quotidiana
confessione di sé a Dio.
Quanto ai contenuti, due elementi in particolare catturarono la mia attenzione. Il primo fu come
Padre Rocci parlasse del suo dizionario, prima dando notizia della sua intenzione di realizzarlo, poi
registrando considerazioni e pensieri in merito alla sua stesura e infine raccontando il suo lavoro
giornaliero. Sempre con semplicità estrema, come se non vi fosse nulla di eccezionale nel redigere
un dizionario di simile ampiezza, come se questo fosse soltanto un modo come un altro per servire
Dio. Si intuiva facilmente che Padre Rocci non nutriva alcuna ambizione personale; intendeva solo
realizzare qualcosa di utile per i suoi allievi e per la scuola e impiegare nella maniera più proficua
possibile il tempo di permanenza terrena che Dio gli aveva concesso.
L’altro dato che mi colpì fu il modo in cui Padre Rocci commentava gli eventi storici, o meglio la
prospettiva da cui li commentava. Il suo punto di vista era sempre quello del popolo, dei fedeli,
dell’Italia, di un’entità collettiva nella quale egli s’identificava totalmente e per la quale era
costantemente in ansia. Mai espresse convinzioni personali o rifletté su come il mutare dello
scenario politico potesse influire sulla propria condizione individuale. Nessuna aspettativa, nessuna
preoccupazione per sé, ma un’apprensione costante, pressoché paterna, per le sorti dell’Italia.
Ricordo in particolare il breve pensiero che Padre Rocci annotò nel suo diario il 28 ottobre 1922,
giorno della marcia su Roma. Poche parole dalle quali si intuiva la piena comprensione, da parte
dello scrivente, della portata storica dell’evento, ma dalle quali non emergeva né delusione né
entusiasmo, solo un sentimento di cristiana accettazione dei disegni della Provvidenza, unito alla
consueta ansia per i destini del Paese e del suo popolo.
Padre Rocci dunque non volle mai essere un protagonista della storia. Da buon cristiano la storia
la accettò e la visse per quello che era, con le sue dure prove e le sue immani tragedie, come
manifestazione degli imperscrutabili disegni divini. Nel mondo egli fu sempre e soltanto un
pellegrino.
Padre Rocci non fu nemmeno un accademico nel senso moderno del termine, anzi forse non
sarebbe mai stato in grado di vincere un concorso per una cattedra universitaria. La sua era una
cultura più liceale che accademica, frutto di molte letture e di un’autentica passione per la classicità,
distante dalle sterili pedanterie degli eruditi e dalle sottili polemiche dei letterati. Come ha
opportunamente scritto Flaminio Ghizzoni in un bell’articolo pubblicato nel 1987 nell’“Archivio
Storico per le Province Parmensi”13, Padre Rocci non appartenne al novero degli «specialisti
cresciuti all’ombra degli istituti di filologia classica, scienziati puri della lingua, capaci di analizzare
la parola scritta e di sottoporla al rigore della loro indagine». Nella parola egli sapeva però percepire
il pulsare della vita, sentire la sostanza e la storia dell’uomo.
Con questa sua cultura così profondamente e cristianamente umanistica, costruita con pazienza
negli anni attraverso la lettura e la traduzione dei classici, Padre Rocci non avrebbe mai potuto
vincere una cattedra universitaria, appunto, né scrivere un saggio critico che portasse un contributo
scientifico o che si segnalasse per un qualche genere di innovazione. Egli però conosceva le lingue
classiche come pochi altri, scriveva e parlava con facilità il latino, si distingueva per una non
comune capacità di penetrazione nelle pieghe del testo; una capacità acquisita appunto non
attraverso la trattazione di ardue questioni filologiche, ma semplicemente attraverso la lettura dei
classici, ai quali lo legava un rapporto di frequentazione quotidiana.
13
F. Ghizzoni, Padre Lorenzo Rocci S.J., cultore delle lingue classiche, in “Archivio Storico per le Province Parmensi”,
serie n. 4, vol. XXXIX, 1987.
Per questa sua cultura eccezionalmente vasta, si potrebbe dire onnicomprensiva, più attenta alla
sostanza che al dettaglio, Lorenzo Rocci può apparire oggi un personaggio antico, superato,
anacronistico, e sulla sua opera pende inesorabile il giudizio di “inattualità”. In un’epoca, quale è
quella odierna, che concepisce il sapere come specializzazione e professionalizzazione, come
conoscenza del particolare, stenta a trovare comprensione il percorso di un uomo che intendeva
invece la cultura come capacità di abbracciare l’insieme e di penetrare nell’intima essenza delle
cose, oltre la superficie fatta di multiformi dettagli.
Per Padre Rocci la formazione classica non poteva ridursi ad una filologia priva di anima, ma
doveva necessariamente avere come meta il dominio pieno della lingua come chiave d’accesso alla
comprensione dell’essenza più autentica della classicità. E la stessa cultura doveva essere, prima di
tutto, cura delle anime ed educazione dello spirito alla sensibilità, e quindi, in quanto tale, percorso
propedeutico alla fede e insieme completamento della fede.
Credo allora che la più grande eredità lasciata da questo straordinario studioso alle nuove
generazioni, più grande anche del Vocabolario e delle belle traduzioni dei classici, non possa che
essere questa: la sua aspirazione ad un sapere capace di rendere migliori gli uomini, nella quale in
fondo risiede il senso ultimo di ogni umanesimo. La sua idea della cultura classica come formazione
globale della persona umana deve valere oggi come monito a non perdersi nelle sottigliezze degli
infiniti saperi specialistici. Ci deve aiutare a ricordare che al di là e al di sopra delle innumerevoli
scienze e tecniche particolari, dalle quali pure è derivato il progresso materiale dell’umanità, esiste
un sapere più autentico, dal quale solo può discendere il progresso spirituale dell’umanità stessa. E
questo sapere altro non è che il senso profondo della vita e della dignità umana, che già gli antichi
avevano racchiuso nella bellezza sublime di tante loro pagine e che il messaggio cristiano ha
arricchito poi di nuovi contenuti con la promessa di una dimensione ultraterrena.
Questo ci lascia in eredità Padre Rocci, insieme al suo corposo Vocabolario: il saper guadare alla
classicità come ad un mondo di valori intramontabili, in quanto portatori di una humanitas
connaturata nella sostanza stessa dell’essere umano e in grado persino di dare forza e calore al
messaggio evangelico. L’antidoto migliore contro il pericolo, così attuale nella civiltà
contemporanea, di perdersi negli infiniti rivoli del particolare fino alla totale disgregazione dell’io.
Dunque è per il suo profondo umanesimo cristiano, capace di ricondurre al valore intrinseco
dell’uomo e della vita qualunque conquista del sapere, che Padre Rocci ha tuttora molto da
insegnare. La storia della sua vita consacrata alla fede e allo studio e vissuta nella più assoluta
semplicità, gli sforzi sovrumani profusi nella realizzazione di un volume come il Vocabolario di
greco, la vastità dei suoi interessi stanno oggi a significare semplicemente questo: che la cultura, in
qualunque forma la si pratichi, è elevazione spirituale e formazione della persona umana; l’unica
via per educare l’anima al bene più autentico e metterla in condizione di vivere nella sua pienezza il
messaggio cristiano.
È in questo senso che Padre Rocci fu realmente Padre, maestro e apostolo. E tale immagine di lui
deve rimanere impressa in tutti coloro che oggi vengono in contatto con la sua opera. Li aiuterà a
capire che versare sudore e lacrime su pagine scritte in una lingua che nessuno parla più non è
sprecare tempo, ma è regalare a se stessi la grande opportunità di fare proprio il ricchissimo mondo
ideale che la classicità ha espresso; un mondo ideale che potrà, un giorno, renderli uomini e donne
migliori.
PARTE SECONDA
E ORA, LA PAROLA A PADRE ROCCI…
Ora finalmente, dopo aver camminato attraverso la storia sulle orme di Padre Rocci, in questa
seconda sezione del volume, ai più fedeli seguaci del grande Gesuita presentiamo il dono promesso:
un catalogo (non esaustivo, ma ampiamente esemplificativo) delle gemme più preziose del suo
dizionario. Ricercate traduzioni dal sapore di antico; ricche didascalie dai più svariati contenuti, con
ampie divagazioni negli affascinanti terreni dell’etnografia e della numismatica, dell’antiquaria e
della mitologia.
Degli esilaranti arcaismi dello stile rocciano mi piace portare una testimonianza personale.
Lavoravo alla revisione del dizionario, e precisamente alla seconda fase dell’opera di revisione,
consistente essenzialmente nel risportare nei file le correzioni e le integrazioni in precedenza scritte
a margine delle bozze cartacee. Per l’esattezza, il team dei revisori, cui io appartenevo, era
impegnato nel pianificare metodi e strategie per coniugare precisione e sveltezza, esigenze a dire il
vero non facili da conciliare quando si mette mano a imprese ponderose come la nostra.
L’ingegnere informatico che ci supportava nella revisione ebbe allora l’idea di agevolare il lavoro
a noi esauritissime redattrici impostando una sorta di sostituzione automatica, in virtù della quale
nei nostri file, uno per lettera, magicamente in luogo dei più desueti vocaboli comparivano i
moderni equivalenti. Per intendersi, uno o al massimo due clic sarebbero stati sufficienti a
trasformare ogni «pugna» in «battaglia» e ogni «duce» in «comandante». Magnifici ritrovati della
tecnica!
L’entusiasmo della scoperta, tuttavia, durò il breve spazio di un pomeriggio, quello della riunione
in cui lo strumento ci era stato illustrato. Già l’indomani mattina, infatti, dopo aver trascorso una
notte rasserenata dalla piacevole sensazione di aver risolto una parte dei miei problemi
(professionalmente parlando, s’intende), all’accensione del pc e all’apertura del file relativo alla
lettera sigma, mi imbattei subito in un’inquietante stranezza. Come traducente del vocabolo greco
σπόγγος compariva un termine oscuro, minaccioso per l’aspetto e per l’indecifrabile senso:
«sbattaglia». Se il termine σπόγγος, per quanto ne sapessi, aveva sempre significato «spugna», da
dove mai era sbucato quell’assurdo traducente? Intuizione: il malefico correttore automatico, più
realista del re (è proprio il caso di dirlo), aveva trasformato in «battaglie» proprio tutte le «pugne»,
comprese quelle contenute all’interno di altre parole. In sostanza, erano state tramutate in
«battaglia» non solo le autonome parole «pugna», ma tutte le sequenze di lettere -PUGNA-,
quand’anche esse fossero contenute all’interno di diversi vocaboli. Il desolante risultato non poteva
che essere quello che vedevo, cioè che anche l’innocente SPUGNA si era trasformata in una
minacciosissima SBATTAGLIA.
Per avere conferma della mia intuizione, decisi di effettuare un ulteriore tentativo. Aprii allora il
file della lettera lambda. Il caso volle che, mentre scorrevo il cursore del mouse, l’occhio si
fermasse sulla traduzione di una citazione nella quale il participio sostantivato λειπόµενος veniva
tradotto «recomandante». Questa volta non era difficile comprendere l’accaduto. La traduzione
originaria era senz’altro «reduce», ma l’ottuso strumento elettronico, istruito a trasformare ogni
«duce» in «comandante», non aveva risparmiato nemmeno la sequenza -DUCE contenuta in
REDUCE, dando luogo all’oscuro grafema RECOMANDANTE.
Provai un istinto irrefrenabile di pianto innanzi allo scempio prodotto dall’elettronica sulle sacre
pagine del vecchio Rocci e devo confessare che solo dopo diversi giorni, e non senza notevoli
resistenze, iniziai ad apprezzare il lato comico della disavventura.
Di inconvenienti analoghi ce ne occorsero a iosa, come, uno su tutti, quello che investì la
malefica abbreviazione «f.», che nel Rocci originario valeva sia “figlio” sia “futuro”, con la tragica
conseguenza che, quando decidemmo di eliminare l’abbreviazione per “figlio”, optando anche in
questo caso per una procedura automatica di completamento delle abbreviazioni «f.» in “figlio”,
creammo, nostro malgrado, didascalie del tipo ψοµαι figlio (anziché futuro) di ρ ω o ρ figlio
di λέγω. Cose da far tremare i polsi, se non si è dotati di una buona dose di sangue freddo. Da
inconvenienti come questi traemmo comunque un’importante lezione: che adattare alle nuove
tecnologie un’opera concepita in un contesto in cui tali tecnologie erano ancora fantascienza può
risultare davvero molto, molto difficile e richiede in ogni caso una notevole capacità di
discernimento e di equilibrio, perché purtroppo non sempre ciò che si vorrebbe fare è
concretamente realizzabile.
Tornando allo stile del buon vecchio Rocci, che costituisce il tema centrale di questa seconda
sezione del presente volumetto, che altro dire? Chiunque abbia usato il dizionario, non dimenticherà
mai non solo le «pugne», i «duci», le «faci» e le «nimistà», ma nemmeno gli innumerevoli
«giammai» e «dipoi» sui quali si è logorato per almeno cinque anni della propria adolescenza, non
mancando spesso di prorompere in poco umanistiche imprecazioni. Eppure quelle mitiche
traduzioni arcaizzanti hanno fatto la storia dell’insegnamento del greco nella scuola italiana, e noi
stesse autrici della revisione non senza laceranti sensi di colpa le abbiamo eliminate. Con la
consapevolezza di questo dato, a tutti coloro che ricordano con nostalgia gli affascinanti arcaismi
delle traduzioni di Rocci si è deciso di dedicare una rassegna di alcune delle più belle rese dal
sapore di antico che impreziosivano il vecchio dizionario, facendone quasi un’opera letteraria oltre
che un insostituibile strumento di studio. Il lettore troverà in corsivo la traduzione fornita da Padre
Rocci e, accanto ad essa, laddove necessario per la comprensione del senso (soprattutto per i più
giovani), entro parentesi quadre, la relativa versione nell’italiano corrente.
C’è però anche un altro aspetto che i nostalgici del vecchio Rocci difficilmente dimenticano: le
ricche didascalie, dense di informazioni storico-antiquarie e di audaci tentativi di comparazione con
la realtà contemporanea. Chi potrebbe dimenticare, solo per proporre qualche esempio, il calcolo
del cambio in lire delle monete antiche, preciso al centesimo? O chi potrebbe dimenticare le
preziose descrizioni dei capi di abbigliamento dei Greci, o ancora gli ingredienti dei piatti giudicati
più gustosi dai palati ellenici? Già, perché Padre Rocci, oltre a fornirci traduzioni e citazioni, non ha
omesso di dirci, per esempio, che il talento attico d’argento valeva 5.893 lire italiane o che il
chitone s’indossava a pelle o ancora che la celebre pietanza denominata trio era composta di farina,
latte, miele, uovo, formaggio e grasso e si cuoceva avvoltolata in foglie di fico.
Chi usasse il Rocci aveva pertanto il privilegio di una totale immersione nella civiltà ellenica, che
non escludeva alcun aspetto e che tutto includeva e abbracciava. E poco importa che nessuno possa
oggi giudicare attendibili quelle eccentriche corrispondenze tra talento e lira. Non è questo che
interessa. È piuttosto il messaggio che emerge da un simile lavoro, che è poi l’impressione di una
ineguagliabile confidenza dell’autore con la grecità, una sorta di simbiosi con i classici, tale da aver
prodotto una completa appropriazione di ogni aspetto della loro vita, dall’arredamento alla cucina,
dal mito all’economia, dalla medicina al culto. All’occorrenza il Rocci da dizionario sa trasformarsi
in enciclopedia, a beneficio dei più giovani esploratori della grecità.
Consapevoli dell’enorme valore del ricco apparato di didascalie informative, in sede di revisione,
abbiamo scelto di mantenere gran parte di esso, limitandoci ad aggiornarne il linguaggio, in modo
da renderlo ancora più fruibile, e ad eliminarne gli elementi più discutibili, quali appunto i calcoli
relativi al cambio delle monete antiche.
A chi invece voglia gustare di nuovo le didascalie nella loro veste originaria, con tutta la loro
ricchezza di dettagli e di arcaismi, è dedicata la seconda parte di questa sezione, nella quale sono
raccolte, rigorosamente catalogate per argomento, alcune delle più circostanziate e accattivanti
spiegazioni fornite da Padre Rocci. Si constata facilmente, attraverso di esse, come la conoscenza
del lessico costituisca la migliore chiave per aprire tutte le porte di una civiltà. E ancora una volta
Padre Rocci si rivela insuperabile maestro, nel metodo e nello spirito più ancora che nei contenuti.
TRADUZIONI DAL PREZIOSO SAPORE DI ANTICO
γορα ος, ον, ο
γορα οι !νθρωποι, rivenduglioli [i.e. commercianti che operano nel
mercato].
γυιοπλαστ ω, formo nidi compartiti come le vie (dicesi delle rondini).
γ γιµος, ον, τ% ., allettativo [i.e. attrattiva].
γωγ ς, ν, τ% ., lenocinio [i.e. attrattiva].
δαγµός, ο , , rosura [i.e. prurito].
δ ω, sono ristucco [i.e. sono sazio; sono infastidito].
δόνητος, ον, inconcusso [i.e. non agitato].
δρ βωλος, ον, di pingui glebe [i.e. dai grossi blocchi].
δνωτος, ον, indotato [i.e. non sposato].
ροπος, ον, dal guardo tetro [i.e. dallo sguardo cupo].
κεστ ριος, ον, τ% ., bottega da sartore [i.e. bottega da sarto].
κρασ α, ας, , cattiva mischianza [i.e. cattiva mescolanza].
κρατ ζοµαι, bevo vino puro, qu. fo colezione, asciolvere (essendovi uso di bere vino puro nella
mattina).
κρ βης, ου, , giovane di primo fiore [i.e. chi è nella prima giovinezza].
κροβολ α, ας, , il tirare in distanza; assalto dei veliti; ingaggiamento della pugna [i.e. inizio
della battaglia attraverso il lancio di dardi da lontano].
µετροπαθ ς, ς, smodatamente passionato [i.e. molto appassionato].
παφρ ζω, despumo [i.e. getto la schiuma].
ποδυσπετ ω, mi scoraggisco [i.e. mi scoraggio].
ποκατ$στασις, εως,
, redintegrazione; ritorno al pristino stato [i.e. ritorno allo stato
precedente].
ποκραιπαλ$ω, smaltisco la crapola [i.e. smaltisco l’ubriachezza].
πολοχµ οµαι, fo cespo [i.e. formo un folto bosco].
π πτισµα, τος, τ , minuzzolo [i.e. pezzetto].
&σθµα, τος, τ , ansamento [i.e. affanno].
σµενισµ ς, ο , , festevole accoglienza [i.e. festosa accoglienza].
σπασ ως, desiosamente [i.e. con gioia].
σχηµον ω, mi diporto indecorosamente [i.e. mi comporto in modo sconveniente].
βαµβα νω, balbutisco [i.e. balbetto].
γυναικισµ ς, ο , , timidità muliebre [i.e. timidezza femminile].
δ'δο χος, ου, , portatore di face [i.e. portatore di fiaccola].
διαχωρ ω, esonero il ventre [i.e. defeco].
(γκαθυβρ ζω, trasmodo in [i.e. mi sfogo in].
(γκυµον ω, divengo pregnante [i.e. sono incinta].
(γχε ριον, ου, τ , pannilino [i.e. fazzoletto].
(γχλ ω, mi diporto insolentemente con [i.e. mi comporto insolentemente].
(κκοιωτ ς, , ν, dato in sicurtà [i.e. messo in sicurezza].
ε)σανε δον, ε σανιδ(ν, volto il guardo [i.e. volto lo sguardo].
(κβολ , *ς, , δικ*λλης κβολ-, scassamento di marra [i.e. opera della zappa che smuove la
terra].
(κλιπαρ ω, impetro [i.e. scongiuro].
+πλαγος, ον, σθ*νει .κπλαγος, stupendo per la possa [i.e. straordinario per forza].
(κτρ χω, scappo dalle granfie, [i.e. scappo dagli artigli].
(κφλ γωσις, εως, , alto della face [i.e. fiamma; parte superiore della fiaccola].
(µβρ χω, embrocco [i.e. imbevo; inzuppo].
(µπερ ναµα, τος, τ , vestimento affibbiato sulle spalle [i.e. veste fermata con fibbia sulle
spalle].
(µπλ$σσω, oppilo [i.e. ostruisco; otturo].
(µποι ω,
µποι*ω καπ-λων γ*νεσιν, fo sorgere i rivenduglioli [i.e. faccio sorgere i
commercianti].
(µπ ριον, ου, τ , προστ ται το/ µπορ0ου, soprastanti del commercio [i.e. sovrintendenti al
commercio].
(ναντ ος, α, ον, ναντ0α γνο2ς τα ς πλε0σταις, divisando il contrario del più delle città
[i.e. decidendo il contrario della maggior parte delle altre città].
(ναριστ$ω, fo l’asciolvere [i.e. faccio colazione].
(ναφροδισι$ζω, lussurio in [i.e. ho un rapporto sessuale con].
(νε ληµα, τος, τ , invoglio [i.e. involucro; rotolo].
(ν χυρον, ου, τ , arra; sicurtà [i.e. pegno; caparra].
(ν ηµι, τυρ%ν π3ξαι τ µισον νε σα, far rappigliare il cacio mettendovi il caglio [i.e. preparare
il cacio mettendovi il caglio].
(ν πτω, rampogno [i.e. rimprovero; biasimo].
(ξαιρ ω, conquido [i.e. stermino; estirpo; distruggo].
+ξαψις, εως, , concocimento [i.e. fermentazione].
(ξοικ ζω, M. scaso [i.e. emigro].
(ξορχ οµαι, propalo [i.e. svelo].
+παρσις, εως, , elazione [i.e. boria; alterigia].
(πιζ ω, κ*ντρ' πιζ*σαντα, i pungenti bulicami [i.e. pungiglioni].
(π νευµα, τος, τ , annuenza [i.e. cenno; segno della testa].
(πιρρ ννυµι, incoraggisco [i.e. incoraggio].
(π σταθµος, ον,
π0σταθµος, quartiermastro [i.e. governatore; prefetto].
(πιφορ$, .ς, , flussione di umori [i.e. raffreddore].
(πιχαριεντ ζοµαι, piacevoleggio [i.e. parlo scherzando].
/σπ ριος, α, ον, serotino [i.e. che avviene di sera].
/τερ γλαυκος, ον, che ha cilestro uno degli occhi [i.e. che uno degli occhi celeste].
ε0κολ α, ας, , contentatura per i cibi [i.e. l’acconentarsi facilmente del cibo].
+χθος, ους, τ , nimistà [i.e. odio; inimicizia; rancore].
κακοστοµ ω, svillaneggio [i.e. ingiurio; sparlo di].
κακ της, ητος, , cativezza [i.e. cattiva qualità; cattivo stato].
καταρρικν ω, raggriccio [i.e. curvo; raggrinzisco].
κατατεθαρρηκ τως, con fidanza [i.e. arditamente].
κ ρχνος, ου, , fiocaggine [i.e. raucedine].
ο)ωνοσκοπ ω, oracoleggio [i.e. osservo gli uccelli; prendo gli auguri].
προσνοµ ζω, ritengo, aggiungo come costumanza [i.e. pratico come ulteriore costume].
1περµαζ$ω, sono burbanzoso [i.e. sono borioso].
χειρ βολον, τ , quanto cape in una mano; fascetto [i.e. quanto può essere contenuto in una
mano].
LE DIDASCALIE: SAGGI DI ERUDIZIONE E DOTTRINA
LE FESTE
2µφιδρ µια, ων, τ$, «[…] anfidromie, festa che in Atene si faceva dalle famiglie, alcuni
giorni dopo la nascita del bambino: la casa era ornata: intervenivano gli amici con donativi:
due donne portavano rapidamente (δρ@µος corsa) il bambino attorno al focolare, per
associarlo al culto domestico. Sec. alcuni in questa stessa festa s’imponeva il nome».
2ρρηφ ροι, ων, α3, «[…] Arrefore, donzelle nobili Ateniesi dai 7 agli 11 anni, scelte
dall’arconte-basileo per portare processionalmente i pepli e gli altri oggetti sacri ad Atena
Polias. Queste feste (Aρρηφ@ρια, ων, τά) erano nel mese Sciroforione (giugno)».
Γυµνοπαιδ αι, 5ν, α3, «[…] Ginnopedie, feste annue, a Sparta, in onore d’Apollo e Artemide
per la vittoria spartana a Tirea: giovani nudi eseguivano canti, danze e altri esercizi ginnici».
∆ορπ α, ας, , «[…] primo giorno delle feste Apaturie, che chiudevasi con pubblica cena in
ciascuna fratria».
7κδ8σια, ων, τά, «[…] Ecdisie, feste a Festo, in memoria di Galatea quando depose il peplo».
Θεσµοφ ρια, ων, τ$, «Tesmoforie, feste in onore di Demetra θεσµοφ@ρος, in Asia Min.
Sicilia, Tebe, ma spec. in Atene, nel mese Πυανεψι(ν, per 5 giorni, dopo la semina
d’autunno».
κέρνος, ους, τ , «[…] cerno, grosso vaso di argilla, con varie suddivisioni (κοτυλίσκοι) per
differenti prodotti della terra, che si offrivano come primizie, a Eleusi, ovv. per il culto di
Cibele, ecc.».
<σχοφ ρια, ων, τ$, «[…] oscoforie, feste aten. in cui si portavano tralci con grappoli d’uva, da
20 efebi, delle 10 tribù, dal tempio di Dioniso in Atene a quello d’Atena nel Falero: istituite
da Teseo riconducente a casa i fanciulli ch’erano stati destinati al Minotauro».
Παναθ ναια, ων, τ$, «Panatenee, feste di Atena; fondate da Erittonio; celebrate in Atene, nel
mese Ecatombeone, con giuochi, corse, regate, pirriche, concorso musicale e ginnastico, e
spec. con la solenne processione all’Acropoli, con l’offerta del peplo e sacrifizio; erano
quadriennali o grandi, nel 3° anno d’ogni Olimpiade».
Πυανέψια, ων, τ$, «[…] Pianepsie, feste d’Apollo a Atene, offrendosi e anche mangiandosi
fave e altri legumi».
Πυλαία,
, «[…] buffonate; ciarlatanerie, dall’uso di raccogliersi nel tempo e luogo del
Consiglio Anfizionico, molto popolo, con ciarlatani, giullari e sim.».
σκιαδηφόρος, ον, «[…] che porta l’ombrello, le f.e dei meteci le quali tenevano l’ombrello
sulle canefore, nelle Panatenee».
Σκιροφόρια, ων, τ$, «[…] Sciroforie, feste nel mese Sciroforione, invocandosi Atena Σκιρ ς,
contro l’eccessivo calore».
L’ARTE
νθ µιον, ου, τ , «[…] b) palmette o caprifoglio o fiorame, che orna l’ipotrachelio o
sottocollarino, che tal. si trova nel fusto della colonna ionica».
θριγκ ς, ου, , «[...] θρ. κυ νοιο, fregio di turchina tinta; smalto, composto di alabastro e di
pasta vitrea, colorata in turchino».
@κνος, , «Ocno, allegor. (e statua di Polignoto) tenente una fune di giunchi, che man mano
viene divorata da un’asina; qu. prov. per chi fa cosa inutile, συν γει το/ Hκνου τIν
θ(µιγγα, intreccia la fune di Oc.».
Aδε ον, ου, τό, «Odèo, edifizio presso l’acropoli d’Atene, per opere musicali, costruito da
Pericle; […] adibito per tribunale; […] per dispute fil.; […] per quartiere mil.; […] per
distribuire grano; […] di forma circolare, e a punta, scher. com. sul capo di Pericle».
IL DIRITTO
ντιγραφ , *ς, , «[…] Ogni azione giudiziaria era per iscritto, in Atene: l’accusato poteva
rispondere in tre modi, detti tutti e tre ντιγραφ-, i.e. negando il corpo d’accusa; provando
che il processo era male intentato; accusando alla sua volta l’accusatore».
ντ δοσις, εως, , «[…] b) scambio dei beni; permuta: in Atene i cittadini ricchi dovevano
sostenere “liturgie” o pubbliche spese per armamento di navi, rappresentazioni, feste ecc.; se
un cittadino, incaricato di queste spese, indicava e voleva sostituire un altro come più ricco,
questi veniva obbligato dal tribunale ad assumere quelle spese o a far valere la permuta de’
suoi beni col suo accusatore».
ντωµοσ α, ας, , «[…] giuramento reciproco nel cominciare un processo, i.e. dell’accusatore
e dell’accusato; i.e. di provar la querela presentata».
πογραφ , *ς,
, inventario; lista; trascrizione, qu. deposizione; accusa; processo, di
contrabbando, di beni estorti o involati allo stato».
Bρειος πάγος, , «colle di Ares, di Marte; Areopago, dirimpetto all’Acropoli d’Atene; ivi,
prima di Solone, era il tribunale, di Eupatridi, […] che giudicava gli omicidi premeditati
[…]. Solone mise in questo tribunale gli arconti usciti di carica; Areopagiti».
στυν µος, ον, «[…] sost.
., astinomo, magistrato sorvegliante edifizi, strade, acque,
costumi, ecc.; paragonabile per molti lati all’edile di Roma; in Atene erano 10, secondo le
tribù, 5 in città, 5 al Pireo».
γραµµατε8ς, ως,
, «[…] segretario; cancelliere; ve n’erano in Atene di vario grado e
importanza; primo il γρ. τJς π@λεως, cancelliere o segretario di Stato, che leggeva i
documenti e atti pubblici nell’ κκλησ0α […]; poi il γρ. τJς πρυτανε0ας o κατK
πρυτανε0αν e γρ. τJς βουλJς, della pritania, del senato».
γραµµ , *ς, , «[…] L (γρ.) µακρ , linea lunga; i giudici nelle tavolette incerate tiravano una
linea lunga per verdetto di condanna, breve per quello d’assoluzione».
γυναικον µος, ου,
, «[…] gineconomo, magistrato in Atene e al.e città gr., ispettore o
sorvegliante dei costumi, dell’abbigliamento ecc. delle donne».
δ µαρχος, ου, , «[…] “capo del popolo”; qu. in Atene, demarco, o capo in ciascun demo, che
egli sorveglia, e anche rappresenta, per la parte amministrativa, civile e religiosa; teneva i
registri ecc.».
διαδικασ α, ας, , «[...] diadicasia, i.e. azione giudiziaria (privata); controversia, allo scopo
che il giudice determini a chi tra più contendenti compete un diritto sull’acquisto d’un
vantaggio o sull’esenzione da un peso, (gen. eredità, successione, provvento, titolo, carica,
ricompensa, ecc. liturgia, servizio pubblico, imposta ecc.)».
διαιτητ ς, ο , , «arbitro[…]. In Atene gli arbitri o dieteti formavano anche una corporazione,
annualmente rieletta, per cause private: dovevano avere 60 anni».
διαµαρτυρ α, ας, , «contestazione; opposizione; diamartirìa, fatta dall’accusato, o per fare
inchiesta sui dati del processo o per fare dichiarare inaccettabile la causa».
δοκιµασ α, ας, , «[…] δ. ε ς !νδρας, per l’iscrizione tra i cittadini […]; l’ingerenza su questi
esami era ripartita tra il senato, gli eliasti, l’ecclesia e vari tribunali».
Cλληνοταµ αι, 5ν, ο3, «[…] Ellenotami, magistr. finanziari, che raccoglievano le imposte
delle città gr. specialmente per la comune difesa contro i Persiani: sorsero nella confederaz.
di Delo: le imposte poi si mandavano in Atene per le grandi Dionisiache».
+νδεκα, ο3, α3, τά, «[…] ο .., gli Undici, in Atene, magistrati delle 10 tribù, più un segretario,
soprastanti alla polizia, alle prigioni, ai giudizi capitali».
(πωβελ α, ας, , «[…] epobelia, ammenda d’un obolo per dramma, i.e. d’un sesto del valore
preteso dall’attore, che non avesse riportato 1/5 dei voti: essa andava al vincitore».
(χ νος, ου, , «[…] cassetta metallica, dove si custodivano gli atti d’un processo, fino al giorno
della sentenza, per il caso d’appello».
Dβη, ης, , «[…] come t. leg. M. l’adolescenza perfetta si computava in Atene a 16 anni […];
altrove a 14 […]; a Sparta a 18».
Eλιαία, ας, , «[…] Eliea, piazza pubblica, e supremo tribunale dei 6000 Eliasti, o giurati, in
Atene, eletti annualmente; divisi per le tribù, in 10 sezioni di 500 ciascuna, più 1000 di
riserva».
λειτουργία, ας, , «[…] pubblico servizio o incarico; pubblica funzione o incombenza, da
sostenere a proprie spese; liturgia; le liturgie in Atene erano. – a) “straordinarie”, p.e. la
τριηραρχία, o fornimento di vascelli da guerra, ed era in orig. per i cittad. della 1° classe:
un solo trierarca per vascello; poi vi furono i συντρι-ραρχοι, che fornivano insieme le
spese per il vascello. – b) “ordinarie” o γκOκλιοι, perché c’erano ogni anno; p.e. χορηγ0α,
γυµνασιαρχ0α, λαµπαδηδροµ0α, Pστίασις, ρρηφορία, κανηφορ0α, εQοπλ0α, ecc.».
ληξιαρχικ ν, ο , τό, «[…] registro pubblico, di ciascun demo attico, dove si registravano gli
usciti di minorità, capaci dell’amministrazione del proprio avere (λJξις) e delle pubbliche
cariche».
ληξίαρχος, , «lessiarco, magistrato (erano 6 per demo) incaricato di registrare nel pubblico
registro, e di sorvegliare che nelle assemblee venisse chi ne aveva diritto, e a tempo debito».
<στρακισµ ς, ο , , «[…] ostracismo; bando per ostracismo, introdotto in Atene da Clistene,
contro il cittadino pericoloso alla libertà: occorrevano 6000 voti».
πρ κλησις, εως, , «[…] intimazione; citazione; chiamata; appello, a scopo di compromesso,
giuramento, deposizione, tortura inquisitoria, esibizione di documenti o prove di fatto, ecc.».
πρυτανεία, ας, , «[…] pritania, durata dell’esercizio del potere, che, per turno, esercitavano i
10 gruppi dei 500 pritani, 50 per tribù, avendo la presidenza del senato e dell’assemblea: in
Atene la durata era di 35 giorni ovv. 36, ma di 38 e 39 per gli anni intercalari».
πρυτανε ον, ου, τό, «[...] pritaneo, edifizio pubblico delle città gr. autonome, nel quale stava il
primo magistrato (πρOτανις), il sacro focolare dello Stato, e vi avevano il cibo alcuni ospiti
insigni e i cittadini grandemente benemeriti».
πωλητ ς, ο , , «[…] poleta, i 10 poleti, sec. le 10 tribù Aten., lett. “pubblici venditori”,
trattavano la vendita dei beni confiscati ai condannati per contumacia, o ai debitori che non
pagavano l’affitto o appalto delle rendite pubbliche, dei pubblici lavori, delle miniere, ecc. Il
collegio dei poleti si eleggeva a sorte, ed essi ne avevano la presidenza per turno, durante
una pritania».
σ8µβολον, ου, τ , «[…] tessera, data ai giudici, in Atene, entrando in tribunale, presentando la
quale, avevano poi il rispettivo soldo; item per gli entranti all’assemblea; per sor. di
passaporto o permesso d’ingresso; per entrare in un convito a scotto; […] buono o tessera,
data dagl’imper. rom. nel teatro, per distribuzione di viveri. […] convenzione; accordo;
patto, spec. tra due paesi, per giudicare ciascuno nei propri tribunali le liti commerciali tra
individui dei due paesi».
συµµορία, ας, , «[…] simmoria, i.e. gruppo di 60 cittadini ricchi, in Atene, obbligati a certe
liturgie e contribuzioni (armamento di navi, anticipazioni di denaro, ecc.): erano 20 questi
gruppi; 2 per tribù; tot. 1200 citt.».
συν γορος, ον, «[…] sost.
σ. difensore; avvocato; procuratore, di 2 sor. in Atene. – a)
pubblico, per sostenere l’immutabilità delle leggi; per dirigere una ε σαγγελία; per
presiedere al rendiconto dei magistrati a nome dello Stato, (ed erano 10). – b) privato».
τεσσαρ$κοντα, «[…] ο τεττ. i Quaranta, giudici giranti per demi att. per questioni non
implicanti più di 10 dramme».
φ$σις, εως, , «[…] denunzia; accusa, spec. di appropriamento o rovina di beni pubblici, di
contrabbando, di violazione degli obblighi di tutore, e sim.».
Φρεαττ8ς, 8ος, , «[…] Freatti, lg. del Pireo, dove l’accusato d’omicidio colpevole, dopo altro
omicidio non colpevole, era giudicato, stando in barca, e i giudici a terra».
I MEZZI DI TRASPORTO
Gρµάµαξα, ας, , «cocchio coperto, a 4 ruote, ad uso spec. di personaggi distinti: conosciuto
dai Gr. nelle guerre Mediche».
Hκριον, ου, τ , «[…] fianco, ponte, coperta, tolda della nave […]: nelle navi omer. la
piattaforma era a prua e a poppa solamente; il mezzo era senza coperta: in basso la sentina».
πηδ$λιον, ου, τ , «[…] timone […]; in orig. era un remo più largo, in un lato della nave; dopo
Om. erano 2 ai 2 lati, e si manovravano insieme, con le ζε/γλαι, poi come ora».
LA VITA QUOTIDIANA E IL COSTUME
ντισπ διον, ου, τ , «[…] antispodio, cenere di vegetali in sostituzione delle ceneri o scorie
metalliche (zinco) adoprate per pulire».
ποµαγδαλ α, ας, , «[…] mollica di pane, per nettarsi le dita a tavola e che poi gettavasi ai
cani».
α0λ , *ς, , «cortile; atrio […]. Delle 3 parti principali della primitiva casa greca (αQλ-, δ@µος,
θάλαµοι) l’atrio era scoperto, con l’altare di Ζε2ς Pρκε ος nel mezzo: con portico e
peristilio (αSθουσα) che metteva a riparti per vario uso, p.e. abitazione dei forestieri, dei
servi, scuderia, ecc.; con due porte, quella d’ingresso (αTλειος) e quella di fronte
(µ*σαυλος), che metteva nell’abitazione degli uomini (δ@µος, πρ@δοµος, col µ*γαρον
degli uomini) e qu. nei θάλαµοι, col µ*γαρον delle donne, e con l’UπερVον, o abitaz. delle
figlie e delle schiave».
γ$στρα, ας, , «[…] ventre di un vaso; vaso, spec. del tripode; vaso a lebete non mobile, ma
inchiodato nel suo sostegno».
Γελλ , ο ς, , «[…] Gello, genio malefico di donna, rapitrice e spauracchio dei fanciulli».
δαIς, δαIδος, , «[…] face; fiaccola; teda; torcia […]; era d’un sol legno o di più verghe
riunite: in grande uso per l’illuminazione notturna, per i segnali in guerra, e più nei riti
religiosi, spec. della nascita, nozze, funerali».
δε πνον, ου, τ , «[…] pranzo; desinare, OM. (il Nitzsch e molti al. tengono che in OM. signif.
sempre il pasto principale o pranzo, in qualunque ora si prendesse: al.i, e forse meno bene,
dicono che tal. = !ριστον, colezione, e δ@ρπον, refezione serotina). Presso gli ATT. in
orig. era il pranzo, o pasto, di mezzodì o pomeriggio; […] poi venuto in disuso il δ@ρπον,
fu il pranzo; cena; convito; (lt. coena) del pomeriggio o sera, ma sempre il pasto
principale».
(ξέδρα, ας, , «[…] esedra, luogo coperto e con sedili, aderente alla casa».
(παλωστ ς, ο , , «[…] soprintendente alla trebbiatura, i.e. chi volta le spighe per farle
trebbiare dalle bestie».
καρπαία, ας, , «[…] carpea, danza mimica armata, tessal. in cui un villico si abbaruffava con
un ladro di bestiame».
λ σπαι, 5ν, α3, «[…] tessere d’ospitalità, i.e. sor. di dadi spaccati in 2 parti, di cui due amici
tenevano una, per segno di riconoscimento e ospitalità tra essi e loro famiglie».
λουτροφόρος, ον, «[…] πα ς, παρθένος λ. giovanetto o giovanetta, della più stretta parentela
di uno degli sposi, portante ad essi l’acqua per il bagno nuziale, λουτρ%ν νυµφικ@ν, la
vigilia delle nozze; in Atene dalla font. Calliroe. […] L λ. lutroforo, o anfora per portare
l’acqua nell’occasione di nozze o nelle cerimonie funebri; sulla tomba dei giovani celibi
soleva mettersi un lutroforo […]; tal. lutroforo era una statuetta di giovanetta portante
l’anfora».
µασχαλ ζω, «metto sotto le ascelle, i.e. credendo superstiziosamente di evitare vendetta, gli
assassini troncavano alle vittime le estremità, mani e piedi, e le appendevano al collo
dell’ucciso».
νέµω, «[…] abito; occupo; posseggo, e qu. reggo; governo; tengo; amministro; curo; prendo
cura, signif. derivato dai due precedenti [distribuisco e pascolo], perché in tempi di
occupazioni continue, i popoli nomadi riconoscevano il possesso e l’abitazione di alcuno in
qualche contrada, dal pascolarvi le greggi».
παυσικ$πη, ης, , «[…] pausicapa, sor. di collare, messo allo schiavo lavorante grano o farine,
per impedirgli di portare la mano alla bocca, per mangiare».
πλαταγ νιον, ου, τ , «platagonio; foglia o petalo di papavero e sim. che si faceva scoppiare
per trarne indizio di corrispondenza in amore».
προπίνω, «[…] dall’uso di donare la tazza dove s’era bevuto, o altro, (spec. nei fidanzamenti) si
ha gener. offro; dono; consegno».
σκόλιον, ου, τό, «[…] scolio, canzone convivale, sec. alc. detta così dal passarsi la lira
“obliquamente” o a zig zag, tra i convitati capaci di essa».
σπ$θη, ης, , «[…] spatola; stecca larga, con cui si stringeva il tessuto, prima dell’uso del
pettine nel telaio».
τηλέφιλον, ου, τό, «[…] telefilo, foglia prob. di papavero, che si faceva scoppiare sulla mano,
per congetturare la corrispondenza in amore da parte di pers. lontana».
φι$λη, ης, , «[…] coppa; patera; tazza; fiala, di varia forma, più ord. a modo di scodella, con
rialzo nel mezzo, ma tal. anche con ansa; per bere, libazione, offerta votiva, unguenti, ecc.».
ψίλινος στέφανος, , «corona psilina, di rami di palma, portata dai capi di certi cori in
Sparta».
LO SPORT
δεξι σειρος, ου, , «[...] agg. detto del cavallo di destra nella pariglia, (sec. al. di un terzo
cavallo aggiunto a destra ma fuori del giogo) ed era il più forte e impetuoso, dovendo
sostenere maggiore fatica nel girare intorno alla meta, correndosi da destra a sinistra».
δ αυλος, ου, , «[…] doppia corsa; diaulo, nello stadio, i.e. dal principio fino alla meta o
colonna estrema (καµπτ-ρ) e poi, per l’altro lato, fino al principio».
λαµπαδηδροµία, ας, , «[…] corsa delle fiaccole; lampadedromia, nelle feste delle div. del
fuoco, Vulcano, Atena, Prometeo, poi, di Pane, dopo le guerre Pers.; qu. di Artemide,
quando per la corsa si usarono pure i cavalli: la gara era fra le tribù ateniesi; in 5 file di
giovani schierati, ord. dalla porta Dipylon al tempio della div., e che correndo si
trasmettevano la face; la vittoria era di quella fila che prima accendeva il fuoco sull’altare: i
ginnasiarchi di ciascuna tribù avevano la coregia o liturgia per le spese della festa, e
dicevansi λαµπαδ ρχαι. Simili feste furono poi anche in altre città».
LA VITA MILITARE
γαστραφ της, ου,
, «[...] balestra, di grosse dimensioni che armavano poggiandosi sul
ventre».
γ ρας, αος, τ , «[(…) parte della vittima riservata agli anziani e sacerdoti] dono; offerta, che si
faceva ai duci di una parte prescelta della preda, prima della partizione (µο ρα) comune».
ζ5µα, τος, τ , «[…] cintura; fascia; guarnello o corpetto, guarnito di metallo e che stava sotto
la corazza e scendeva fino a mezza coscia […]; esso con il θ(ρηξ formava la doppia
corazza».
ζωστήρ, *ρος, , «[…] cintura, ord. di pelle e coperta di fregi o lamine, per proteggere il basso
ventre, attaccata alla parte inferiore della corazza: era retta da fibbie (WχJες)».
θ ραξ, ακος, , «[…] corazza; lorica, armatura, prima di pelle o grosso panno, poi di metallo a
vari pezzi uniti tra loro e mobili, per difesa del petto, del dorso e delle spalle e tal. anche
della nuca; per la materia e gli ornati era detta χ λκεος, ποικίλος, παναίολος,
πολυδαίδαλος, ecc.».
σ$κος, ους, τό, «[…] scudo, che in orig. era di legno o ampio tessuto di vimini, ricoperto di
pelle bovina e lastre metalliche».
τελαµ ν, 5νος, , «[…] cinghia; balteo; budriere; tracolla, per la spada o scudo; […] la spada
era appesa a cinghia, passante sulla spalla destra».
χαλκός, ο , , «[…] Da alcuni si vuole che il rame, indurito con la tempra, servisse per le armi
omeriche; però nell’epoca micenea era conosciuta la lega, da cui il bronzo».
χελ νη, ης, , «[…] testuggine, ossia disposizione dei soldati con gli scudi in alto, in guisa da
formare come un tetto di difesa, dai proiettili nemici; […] anche, macchina di legno, a ruote,
per proteggere gli assedianti, spec. nell’uso dell’ariete».
LA RELIGIONE E IL CULTO
παρχ , *ς, , «[…] primizia; offerta con cui si cominciava il sacrifizio, ord. i peli della fronte
della vittima, che si bruciavano».
2πόλλων, ωνος, , «[…] Apollo, f. di Giove e di Latona; divinità solare; cfr. gli epiteti,
Φο βος, ΛOκειος, Ξανθ@ς, ecc. che qualificano il dio della luce […]; di qui le sue qualità
di protettore, vendicatore, sanatore dai mali, vivificatore delle messi e dei frutti, patrono
della scienza e del canto, dio dell’arco, e l’epiteto di Μουσηγ*της, o duce delle Muse, e la
qualità di conoscitore del futuro».
Bρης, , «[…] Ares; Marte, f. di Giove e Giunone; dio dell’uragano, e poi dio della guerra, e
dell’esterminio».
Kρπυια, ας, , «[…] Arpia, ord. pl. Arpie; personif. della tempesta, dell’uragano, della violenza,
del genio malefico, collegate con le Furiae e Dirae; in OM. spiriti delle procelle, delle
tempeste, che rapiscono gli uomini: rappresentate poi con le note forme d’uccellacci
mostruosi».
Bρτεµις, ιδος, , «Artemide […] f.a di Giove e Latona, e nata con Apollo a Delo: divinità lunare
(come Apollo divinità solare): sempre vergine e casta: dea della caccia, delle sorgenti e dei
laghi; della vita pastorale; poi, confusa con Ecate, divinità dei sinistri bagliori notturni; del
matrimonio. Le morti improvvise degli uomini si attribuivano ad Apollo, delle donne ad
Artemide, che ferivano γανο ς βελ*εσσι, con le blande saette […]. Ebbe altri attributi,
secondo i vari popoli».
2φροδ τη, ης, , «[…] Afrodite è div. asiatica, principio della fertilità e fecondità, e richiama
Atargatis d’Ascalona, Mylitta di Babilonia, Istar d’Assiria, Astarte di Fenicia. A Cipro
(Pafo) e Citera n’ebbero il culto dai Fenici, passato poi a Creta, nelle Cicladi, nell’Attica,
ecc.».
β λος, ους, τ , «[…] le frecce d’Apollo, per gli uomini, e di Artemide, per le donne, denotavano
la morte improvvisa, ch’era detta mite, in confronto a quella in battaglia o per lunga
malattia».
βωµολ χος, ον, «chi sta in agguato presso gli altari per chiedere o rubare parte della carne dei
sacrifizi o gli avanzi».
βωµον κης, ου, , «bomonice, fanciullo vincitore nel sopportare più sferzate, avanti l’altare di
Artemide, a Sparta».
γεφυρ ζω, «[…] motteggio; beffeggio grossolanamente, par. derivata dagli scherzi comici e
grotteschi, che si usavano nel ponte sul Cefiso tra Atene e Eleusi, quando la schiera
degl’iniziati passava su di esso».
Γλα κος, ου, , «Glauco […] f. di Minosse e Pasifae, morto fanciullo, e richiamato in vita, con
erbe, dall’indovino Poliido […]; ma questo nella mitolog. è confuso col Glauco marino».
δ'δο χος, ου, , «[…] portatore di face; daduco, per i misteri Eleusinii; ministero ereditario
nella famiglia di Callia».
διθ8ραµβος, ου, , «[…] Molte etim. tutte dubbie: alcuni dicono δ. “due volte nato”, da
Semele e poi dalla coscia di Giove: al. dal sscr. dudhrah, “impetuoso”: al. dal sscr. githa,
“canto” al. διθυράζων, “celebrante” ∆0θυρος forma secondaria di ∆ι@νυσος».
ε)ρεσι νη, ης, , «[…] eresione, ramo d’olivo o lauro, con bendelle di lana, e guarnito di frutta
e ampolle d’olio, miele, vino, ecc. che, nelle feste Pianepsie e Targelie in Atene, si
appendeva al tempio di Apollo e Artemide, e nelle case private».
Cρµ*ς, ο ,
, «[…] Ermes; Mercurio, f. di Giove e di Maia […]; prob. nume pelasgico,
introdotto in Arcadia (Mon. Cillene); pastore; nume della velocità, dell’astuzia; dai calzari e
cappello alati; messaggiero degli Dei, con ] βδος, e κηρυκε ον, lt. virga, caduceum, di
potenza magica; guida delle anime all’Ades; protettore delle vie e dei viandanti (qu. alcuni
traggono l’etim. da ^ρµα, ^ρµαξ, “monticello di pietre, stele indicante le vie»), poi dei
commercianti, dei musici, dei giochi ginnici, ecc. […]. Si disse erma una stela ord. quadrata,
avente la testa di Ermes, poi anche di altre div. o anche più teste: l’erme erano frequenti
nelle vie, ed erano tenute in venerazione; cfr. vita d’Alcibiade per lo scandalo del sacrilegio
contro di esse in Atene».
Ζε8ς, «[…] Giove, f. di Crono e di Rea qu. Κρον0ων, Κρονίδης, frat. di Poseidone e di Ades, di
Vesta, Demetra e Era (Giunone) e marito di quest’ultima: personificazione del cielo, “lo
splendente”; re degli uomini e degli Dei».
γητηρία, ας, , «[…] massa o offerta di fichi secchi, che si portava nella feste att. Πλυντήρια,
in memoria della scoperta di questo frutto, inizio di vita più civile».
θεσµοφ ρος, ον, «[…] legislatore […]; ma spec. legislatrice, i.e. Demetra, come istitutrice
dell’agricoltura, del matrimonio e di tutto il vivere civile».
θ8ρσος, ου, , «[…] tirso, bastone dei baccanti e delle baccanti, attorniato di ellera e pampini e
con una pigna in cima».
Κ$βειροι, ων, ο3, «[…] Cabiri, 3 numi ignei, figli di Vulcano e Cabira, lavoratori di metalli:
erano d’orig. pelasgica; venerati prima a Lemno e Samotracia: sec. alc. differenti dai Cabiri
(Kabirin, “Forti”) fenici, (che erano 8)».
µηρίον, ου, τ , «[…] osso della coscia; femore; pezzo della coscia […] nel sacrifizio le ossa
femorali (forse con poca parte della carne) si bruciavano in involucro di grasso, unendovisi
pezzi di altre parti della vittima».
ο0λαί, 5ν, α3, «[…] salso farro; grani d’orzo, abbrustolito e misto a sale, che si mettevano sulla
testa della vittima, prima di sacrificarla».
Σµινθε8ς, έως, , «Sminteo, da una c. della Troade, Σµίνθη, o più prob. “sterminatore dei topi
campestri”, epit. d’Apollo; il n. era prob. d’una div. preellen. applicato poi ad Apollo, e
anche a Dioniso».
σωτ ρ, *ρος, , «[…] nei simposi v’era la triplice libazione, la prima a Giove Olimpico, la
seconda alla Terra e agli Eroi, la terza a Giove Salvatore».
IL MITO
∆άκτυλοι Nδα οι, ο3, «Dattili Idei, i.e. del mon. Ida e sacerdoti di Cibele […]: sono detti
d’origine frigia, e passati a Creta: confusi con i Cureti e Coribanti: le varie etimologie di
questi uomini mitici si riportano alle arti metallurgiche».
∆ανάη, ης, , «Danae, f.a di Acrisio e mad. di Perseo […]; δαν@ς, secco, è la probabile etim.
volendosi vedere nel mito una bonifica di terreno arido, per mezzo di canali d’acqua».
∆ανα ς, ο , , «Danao, re egiz. che a causa d’una rivoluz. passò con le 50 figlie nel Peloponn.
e fondò la rocca di Argo […] – l’etim. […] si vuole da δαν@ς, secco, essendo andato a
colonizzare e rendere fertile un’arida regione».
Κ8κλωψ, ωπος, , «Ciclope, etim. varia; sec. alc. “dall’unico occhio”, sec. al. “dal guardo
terribile”; sec. al. “dal costruire enormi mura”, κOκλος, di Tirinto, Micene, ecc. La leggenda
li rappresenta razza selvaggia, nel Peloponneso, in Sicilia, ecc. ovv. lavoratori d’Efesto,
presso l’Etna, ecc., principale Polifemo».
Προµηθε8ς, έως, , «[…] Prometeo, f. di Jafet, e pad. di Deucalione […]; dicevasi che avesse
formato l’uomo dalla creta; che avesse rubato agli Dei il fuoco, portandolo agli uomini; che
fosse punito da Giove venendo incatenato sul Caucaso, e liberato da Ercole. Etim. dal prec.;
o sec. al. dal sscr. “pramanta”, strum. per produrre il fuoco».
σ$τυρος, ου,
licenzioso».
, «[…] satiro, semidio boschereccio, con piccole corna, gambe caprine, e
Σειρ ν, *νος, , «[…] pl. -Jνες, Sirene, uccelli con testa di fanciulla, che ammaliavano col
canto e facevano perire».
Τηθ8ς, 8ος, , «[…] Teti, f.a di Urano e Gea; mog. di Oceano; mad. delle Oceanine e degli Dei
fluviali. Sec. Talete, l’acqua era il principio di tutto».
Pµ ν, ένος, , «[…] Imene, canto nuziale, poi dio delle nozze, invocato nei canti nuziali. […]
Imeneo è rappresentato giovane, dalla copiosa capigliatura, con la face e il velo nuziale; tal.
alato come Cupido; spesso figura su sarcofagi; ricordato anche in casi di tristi nozze».
Χίµαιρα, ης, , «[…] Chimera, mostro di triplice natura, leone, capra e serpe, e vomitante
fuoco: fu ucciso da Bellerofonte: prob. indicò la reg. vulcanica della Licia».
SOCIETÀ E POLITICA
βο α, , «[…] bua; divisione, a Sparta, dei fanciulli dai 7 anni in poi fino ai 18: oltre un
magistrato, stava annualmente a capo d’ogni divisione il più commendevole tra i fanciulli,
prob. eletto da essi stessi».
γεωµ ρος, ου, , «[…] chi possiede una parte di terra; possessore; geomoro; proprietario
fondiario; negli stati e colonie dor. i geomori erano i nobili e i ricchi […]; in Atene invece
erano i grandi o piccoli possidenti, in oppos. a εQπατρ0δαι (nobili) e δηµιουργο0
(artigiani)».
γυµνασ αρχος, ου, , «[…] ginnasiarca, soprintendente e fornitore dei ginnasi o palestre e
anche cittadino ricco, eletto per ciascuna tribù a sostenere le spese di certe feste, spec. della
corsa con le fiaccole, o lampadedromia».
(πευνακτα , 5ν, ο3, «[…] surrogati nel talamo, Iloti sostituiti ai mariti morti nelle guerre
messeniche, e poi fatti liberi».
+φηβος, ου, , «[…] efebo; in Atene l’“efebia” legale cominciava a 18 anni e finiva a 20: era
una preparazione alla vita militare: la precedeva la δοκιµασ0α, o esame su 2 punti, età e
condizione civile libera: v’era il giuramento; qu. l’iscrizione nel registro civile,
ληξιαρχικ%ν γραµµατε ον […] – anche al. città avevano collegi d’efebi, ma con variante
d’età».
)σοτελής, ές, «[…] isotele, lett. sottoposto a eguali imposte o carichi: in Atene gl’isoteli erano
meteci, ammessi ai diritti civili, ma non ai politici; senza bisogno di προστ της, e non
paganti µετοίκιον, però sottoposti ai gravami dei cittadini».
ναυκρ$ρια, ων, τ$, «[…] naucraria […] le 4 primitive tribù Aten. erano suddivise in 48
naucrarie, 12 per tribù: questa suddivisione era territoriale (να0ω) a scopo amministrativo,
sotto un naucraro o capo; esisteva prima di Solone: questi impose a ciascuna naucraria
l’obbligo di dare una trireme e 2 cavalieri: Clistene poi, stabiliti i demi, diede ai demarchi
l’amministrazione finanziaria, tenuta prima dai naucrari».
πρ ξενος, ου, , «ospite; che ufficialmente ospita; prosseno, carica onorifica per cittadini ricchi
e benemeriti, che potevano così ospitare ambasciatori, ecc.; essi godevano privilegi».
σκυτ$λη, ης, , «[…] a Sparta, scitala, verga su cui si avvolgeva una striscia di cuoio, molto
stretta, nella quale si scrivevano i messaggi politici (spec. degli efori ai generali) che
potevano leggersi riavvolgendo la striscia in una verga sim. alla prima».
σ8µβολον, ου, τ , «[…] in orig. segno di riconoscimento; tessera; tessera ospitale, i.e. oggetto
di varia materia per denotare il legame d’ospitalità tra famiglia e famiglia ovv. tra città e c.;
dapprima l’ogg. si spezzava in due, prendendosene metà per contraente; poi erano ogg.
perfettamente eguali, e anche con iscrizione, p.e. mani d’argento, anelli, teste d’anim. ecc.».
φυλ , *ς, , «[…] tribù, dapprima con ragione di razza e di origine; poi con carattere solo locale,
poi personale e politico; le tr. doriche erano tre, `λλε ς, ∆υµ3νες, Π µφυλοι: […] le tr.
ioniche, passate in Atene, erano 4, Γελέοντες, Α γικορε ς, Aργαδε ς, cπλητες [...]; poi
10, sotto Clistene […]; poi 12, sotto Demetrio Poliorcete: […] tra i Pers. erano 12: […] tra i
Giudei, 12; […] a Roma, 3: […] le suddivisioni delle tribù per razza, γενικ ν φυλ ν, erano
le φρατρίαι, delle tribù, come divisione territoriale, τοπικ ν φυλ ν, erano i δJµοι».
LA CUCINA
ρτολάγανον, ου, τ , «[...] artolagano; focaccia di pane, vino, olio, latte, droghe».
γαστ ρ, , «[…] migliaccio, i.e. trippa di capra, ripiena di carne, grasso e sangue».
γλυκ ννας, , «glicina, focaccia cret. con vino dolce e olio».
θρ ον, ου, τ , «[…] “trio”, sor. di pietanza, composta di farina, latte, miele, uovo, cacio, grasso,
ecc. che si cuoceva avvoltolata in foglie di fico».
κατ$χυσµα, τος, τ , «intingolo; salsa, lett. “ciò ch’è versato sopra”. […] confetti, in gener.
datteri, noci, fichi secchi, monete, ecc. che si versavano sul capo del nuovo schiavo o di
sposi».
I GIOCHI
γραµµ , *ς, , «[…] διK γραµµJς πα0ζειν ovv. διελκυστ0νδα, giocare alla sbarra; i.e. due
gruppi di giocatori distinti da una linea nella palestra, cercavano di trarre gli avversari nella
propria parte. […] linea di mezzo nel tavoliere o scacchiere del giuoco πεσσε0α, la quale
linea era detta pure ερ (γρ.), sacra; essa divideva lo scacchiere in due campi (di 5 linee):
dalla linea sacra non si moveva la pietruzza, o pedina, se non in caso estremo, qu. il prov.
τ%ν π% γραµµ3ς (ovv. ερ3ς) κινε ν λ0θον, muovere la pietruzza dalla linea sacra, i.e.
fare gli ultimi tentativi».
διελκυστ νδα, «[…] sor. di giuoco in cui ciascuno dei giocatori d’una parte cercava di trarre
l’avversario nell’altra superando una linea posta nel mezzo».
(ποστρακισµός, ο , , «epostracismo; rimbalzello, i.e. giuoco di fanciulli nel far rimbalzare
sulle acque conchiglie o piastrelle».
κ$λπη, ης, , «[…] trotto […] corsa olimpica, in cui il cavaliere, appressandosi alla meta,
scendeva da cavallo e lo seguiva trottando».
κ τταβος, ου, , «[…] cottabo, giuoco d’orig. sicil. consistente nel gittare con destrezza il resto
del vino dalla coppa contro un vaso posto a certa distanza, e in modo da produrre un suono
nel cadere; ovvero contro dei gusci notanti in un vaso d’acqua, in modo da farli affondare;
ovvero contro un dischetto o altro oggettino, posto nella sommità d’una verga, sostenuta da
apposita base e avente nel mezzo una specie di piatto metallico, su cui il dischetto cadendo,
colpito dal vino lanciato, doveva risonare: la riuscita nel giuoco pare che fosse voluta come
indizio di corrispondenza in amore».
<στρακίνδα, «[…] giuoco del coccio o della conchiglia: il coccio era tinto in nero, tal. con pece,
da una parte, detta νOξ, e di bianco dell’altra, Lµέρα, per le due fazioni di giocatori».
σκαπέρδα, , «scaperda, giuoco: una fune passava pel foro d’una trave piantata verticalmente, e
alle due estremità della fune erano legati due fanciulli, sforzantisi di tirare in alto il
compagno».
L’ABBIGLIAMENTO
βαθ8ζωνος, ον, «dalla cintura in basso; dalla bassa cintura; ben cinto, i.e. sulle anche, e non
più su, per non alterare le forme del corpo».
(ξωµ ς, δος, , «[…] esomide; i.e. tunica a una sola manica, per schiavi e basso popolo».
ζωστήρ, *ρος, , «[…] cintura; cingolo, per uomini, per stringersi la tunica».
καρβ$τιναι, 5ν, α3, «[…] carbatine, calzari d’un sol pezzo di cuoio non conciato, tenuto al
piede con correggiuoli».
πέπλος, ου, , «[…] peplo, […] veste muliebre, aderente al corpo, ritenuta con fibbie, lunga fino
ai piedi; era prima di lana, ord. fregiata; opp. χιτ(ν degli uomini; tal. poteva ricoprire testa e
braccia; celebre era il peplo che si portava ad Atena nelle Panatenee, lavoro ricco delle
Ateniesi».
στεφ$νη, ης, , «[…] diadema; corona, tal. con più elevatezza nel mezzo, e digradazione
laterale, tal. solo per la parte anteriore della testa».
στίµµι, τό, «[…] stibio; antimonio, con cui tingevano ciglia e sopracciglie».
φορµός, ο , , «[…] sportella o casacca di giunchi, o latro grossolano vegetale, per veste da
marinaio».
χιτ ν, 5νος, , «[…] chitone; tunica, con cintura e fascia alle anche; con maniche, lunghe o
assai corte per persone libere, con sola manica sinistra per schiavi ed operai; anche tunica,
per dn.; […] chitone dor. di lana, ion. di lino; […] portavasi a carne, sotto il φ3ρος, manto;
o sotto l’ µ τιον, mantello; […] la camicia si usò più tardi; […] χ. σχιστός, tun. senza
cintura, e con fibbie alle spalle, per le fanciulle spart.».
χλαµ8ς, 8δος, , «[…] clamide, più corta del mantello e affibbiata sull’omero destro; d’origine
tessal.».
χλανίς, ίδος, , «[…] mantellino; sopravveste sottile di lana; clanide, più fina e delicata della
χλα να, e spec. per dn. e delicati, e più che altro per lusso».
GLI STRUMENTI MUSICALI
α0λ ς, ο , , «[…] flauto, strumento a fiato, di canna, legno, osso, avorio, metallo, con linguetta
(γλωσσ0ς) come il mod. oboe e il clarinetto».
γ γγρας, ου, , «[…] gingro; gingrina, o piffero fenicio, sor. di flauto, che dava un suono
flebile».
MONETE E UNITÀ DI MISURA
γλα8ξ, γλαυκ ς,
, «[…] γλα/κες Λαυρειωτικα0, civette del Laurio (dov’erano miniere
d’argento) si dissero le monete aten. aventi una civetta, stemma d’Atene».
δαρεικ ς, ο , , «[...] darico, moneta d’oro, persiana, (cfr. babilonese dariku: prob. poi derivato
da ∆αρε ος), in orig. del peso di 8 gr. 576; equival. a 20 dramme d’arg. attiche; con la
figura d’un re arciere, (Dario?) poi variò il peso».
µέδιµνος, ου, , «[…] medimno, mis. aten. di capacità, equival. a chenici 48; a cotile 192; ad
anfore rom. 2; circa litri 52, ma variò sec. le città e i tempi».
πλέθρον, ου, τ , «[…] iugero; πλ. rom. di 240 piedi di lungh. per 120 di largh. […] pletro, mis.
di lungh., di 100 piedi gr. e 104 rom., e 1/6 dello stadio, circa m. 30 […] mis. agr. di 10.000
piedi quadr.».
τ$λαντον, ου, τό, «[…] moneta legale; variante secondo gli Stati e i tempi: talento attico
d’argento, = 60 mine; = 6000 dramme; = circa L. ital. 5893: il tal. d’oro = 10 tal. d’argento;
= L. ital. circa 58.930; […] in NT. Matth. 18,24, si ricordano 10.000 tal. (d’arg.) = circa 55
milioni di L.».
I POPOLI STRANIERI E I LORO COSTUMI
β8βλος, ου, , «papiro […] pian. egiz.; i poveri ne mangiavano la radice e il fusto».
ζωγ$νης, ου, , «zogane, schiavo che durante le feste Sacee i Babilonesi vestivano da re».
ζ νη, ης,
, «[…] ε ς ζ(νην δίδοσθαι, essere assegnato per la cintura, o per altre parti
dell’abbigliamento alla regina o altri grandi della corte di Persia, si diceva di villaggi, città o
provincie che dovevano fornire lo spillatico e che talora prendevano anche il nome della
parte dell’abbigliamento alla quale si destinavano».
σκ$φευσις, εως, , «pena …, tra i Pers.; il paziente era chiuso dentro due mezze casse; avendo
fuori sol. capo, mani e piedi; e finiva di lenta morte».
Χ$λυβες, ων, ο3, «Calibi, pop. messo dai Geogr. nella Scizia e nel Ponto, e dai poeti in varie
regioni; famosi per il lavoro del ferro, dell’acciaio».
LA FILOLOGIA
διπλ*, *ς, , «[…] dipla, o segno critico per denotare varianti o versi rifiutati, ecc.: aveva la
forma di Y o V orizzontale».
παραγραφ , *ς, , «[...] segno critico, diacritico, distintivo, per determinare nello scritto,
(come ora sottolineando); per indicare il principio e fine d’un tratto; per notare le riprese nel
dial. drammatico, ecc.».
LA MEDICINA
/λλέβορος, ου, , «[…] elleboro, pian. nascente spec. in Anticira di Focide, usata contro la
pazzia».
λαγ φθαλµον, ου, τ , «[…] lagoftalmia, vizio per cui le palpebre non arrivano a chiudere
l’occhio, che così somiglia quello della lepre».
χ$λαζα, ης, , «[…] gragnola o panico, globetti nella carne del porco malato».
χηµίον, τό, «[…] chemosi, affezione della congiuntiva attorno alla cornea oculare, e in forma di
guscio d’ostrica».