filosofia della guerra

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filosofia della guerra
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F ILOSOFI A DELLA GUERRA
UN APPRO CCI O E PIS T E MO L OGI CO
DI
STEFANO BERNINI
1
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al par t i gi ano pi er o
2
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INDICE
- I ntr o du zi o ne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . … . . 6
PARTE PRIMA
LA
GUERRA TRA POLITICA E MORALE
SI VIS PACEM, PARA BELLUM
CAPIT OL O I
GUERRA
E P OLITICA
§ . 1 L a g uer r a n o n è ch e l a con t i n uazi on e del l a pol i t i ca con
al t ri m ezzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
§ . 2 L a p ol i t i ca non è ch e l a cont i n uazi one del l a guer r a
con al t r i m ezzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1 8
§ . 3 Guer r a e po l i ti ca: i due vo l t i del co nf l i t t o. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2 2
CAPIT OL O II
GUERRA
E M ORALE
§ . 1 L a g uer r a t r a “gi u st i zi a” e “o ppor t uni t à” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2 7
§ . 2 Dal r eal i sm o al l ’ et i ca. L a g uer r a nel pensi er o pol i t i co
d i Max Weber . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 2
PARTE SECONDA
3
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TEORIA GENERALE DELLA GUERRA.
UN AP PROCCIO EPISTEM OLOGICO
HOMO
P UGNANS
CAPIT OL O I
TRA
FILOS OFIA E SCIENZA:
VERS O UNA EP ISTEM OLOGIA DELLA GUERRA .................................................. 41
CAPIT OL O II
LINEAMENTI
DI EPISTEMOLOGIA DELLA GUERRA
§ . 1 Assi o m at i ca del l a guer r a: Jom i ni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4 5
§ . 2 Em p i r i sm o r azi on al i st i co: Cl ausewi t z. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4 7
CAPIT OL O III
PERCHÉ
LA GUERRA? LA GUERRA VISTA
AL MACR OSC OPI O DEL L’ANTR OPOL OGIA........................................................ 51
§ . 1 P er ch é l a g uer r a – che cosa è l a guerr a: du e chi avi
d i l et t ur a. L a gu err a tr a nat u r a, cul t ur a e st r ut t ur a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 3
§ . 2 P er ch é l a g uer r a? L a n at ur a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
§ . 3 L a cul t ur a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 7
§ . 4 Casi cl i n i ci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 3
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CAPIT OL O IV
CHE
COS A È LA GUERRA?
MET AFISI CA
DEL CONF LITTO
§ . 1 Ont o l o g i a del l a guer r a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 8
§ . 2 L a st r u t t ur a: i Nuer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 1
PARTE TERZA
CONCLUSIONI
MORS TUA, VITA MEA
CAPITOLO I
LA
META-STRUTTURA: IL GIOCO DI
OZIERI ................................................... 77
CAPITOLO II
TRA
LA VITA E LA M ORTE: IL CONFLITTO ...................................................... 79
- B i bl i o g ra f i a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 82
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INT RO DUZIO NE
Sebbene l’espressione filosofia della guerra sia in circolazione da vari decenni presso chi si
occupa di guerra non solo da un punto di vista strettamente tecnico-militare, di fatto non c’è stata
una istituzionalizzazione, come è avvenuto per la filosofia della scienza, del linguaggio, della storia.
La filosofia della guerra sembra esistere soltanto in via ufficiosa.
Se l’ufficializzazione della filosofia della guerra è ancora di là da venire, con
l’epistemologia della guerra siamo alla latitanza più assoluta; al di là del Libro Secondo del Della
guerra di Clausewitz – peraltro il meno conosciuto di tutto il trattato – chiunque voglia occuparsi di
epistemologia della guerra deve “lavorare in proprio”.
Dal momento che non esiste un corpus definito di opere sulla filosofia della guerra, questa
va “ricavata” a partire da altri settori di indagine. Primo tra tutti, la politica.
Partiamo dal quesito se sia la guerra la continuazione della politica con altri mezzi, o
viceversa. Per definire il rapporto tra guerra e politica possiamo ricorrere alla metafora della
chirurgia e del suo rapporto con la medicina: quale delle due è la continuazione dell’altra? Poiché
qui non ci occupiamo né di politica, nell’accezione corrente del termine, né di medicina, per
sciogliere il dilemma converrà adottare quello strumento squisitamente filosofico che è l’astrazione:
come la medicina e la chirurgia sono due applicazioni diverse della “terapia” (più rispettosa
dell’integrità del paziente la prima, più invasiva la seconda), così la guerra e la politica sono due
espressioni di una stessa realtà soggiacente: il conflitto. Per usare i termini propri della mineralogia,
si potrebbe dire che la politica sta all’aggregato come la guerra sta al cristallo.
L’abbinamento guerra-chirurgia ha dei precedenti. In relazione, per esempio, ai conflitti più
recenti si sente parlare sempre più spesso di “armi chirurgiche”, come i missili a testata intelligente,
a guida satellitare e così via.
Perfettamente consapevole del fatto che l’obiettivo centrato da un’arma chirurgica ricorda
più una macelleria a cielo aperto che una sala operatoria, e che i peggiori criminali che hanno
insanguinato la storia hanno spesso giustificato i loro crimini come operazioni chirurgiche su vasta
scala, ritengo tuttavia che l’abuso intenzionale e interessato di questa metafora non ne infirmi la
validità teorica.
Un altro tema caro a chi si occupa di guerra in maniera periferica è il suo rapporto con la
morale; e solitamente il problema viene risolto con una criminalizzazione della guerra. Uno dei
compiti della mia analisi è dimostrare che si può parlare di guerra senza parlare di morale, e senza
per questo dover chiedere scusa.
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Per quanto riguarda l’epistemologia della guerra, questa è tutta da costruire. Clausewitz ha
lanciato il sasso nello stagno, ma la sua voce, almeno in questo settore, è rimasta inascoltata.
Tra le varie chiavi di lettura con cui è possibile avvicinarsi alla guerra da un punto di vista
epistemologico, quella eziologica e quella ontologica sono, a mio avviso, le più idonee a rendere
conto per un verso della complessità, e per l’altro, dell’intima natura del fenomeno.
I risultati della loro applicazione potranno fornire lo spunto per nuove riflessioni.
Potrà sorprendere che nel corso di questo lavoro si incontrino pochissimi riferimenti alle
guerre che solitamente si studiano sui libri di storia. In effetti, questi riferimenti servono
esclusivamente a suffragare delle considerazioni astratte. Il compito di questa analisi non è
comprendere la singola guerra, ma fornire degli strumenti per comprenderle tutte.
L’oggetto di questa indagine non è dunque una guerra, ma la guerra.
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PARTE PRIMA
LA GUERRA TRA POLITICA E MORALE
SI VIS PACEM, PARA BELLUM
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CAPITOLO I
GUERRA
E P OLITICA
§ . 1 . L a gu erra n on è ch e l a co n ti n u azi on e del l a pol i ti ca con alt ri m ezzi .
Di tutte le persone che, a vario titolo, in occasione di eventi bellici, citano questa massima, quasi
fosse uno slogan, poche sanno che l’autore è Karl von Clausewitz, e ancora meno sono quelle che
conoscono, o immaginano, la portata teorica e le conseguenze pratiche che questa frase comporta.
Vediamo allora di entrare nel merito della questione considerando l’analisi che lo stesso Clausewitz
fa al riguardo.
Clausewitz è ben consapevole della complementarità che lega guerra e politica e avverte subito la
pochezza, l’inconsistenza teorica di quelle posizioni che tradizionalmente consideravano – e
considerano tuttora – questi due termini in opposizione dialettica; frasi del tipo: “la guerra
interviene allorquando la politica fallisce”, o “la politica tace, ora la parola passa alle armi”,
infarciscono la prosa di giornalisti, saggisti, opinionisti e quant’altri che, per professione o per
vocazione – ma accomunati sempre dalla medesima incompetenza e ignoranza – pontificano
sull’intima natura della politica, della guerra, e dei rapporti che tra esse intercorrono. La posizione
di Clausewitz al riguardo è quanto mai esplicita: “[…] ordinariamente si pensa che con essa [la
guerra] venga a cessare il lavoro politico, e che subentri uno stato di cose del tutto diverso, regolato
soltanto da proprie leggi. Affermiamo invece che la guerra non è se non la continuazione del lavoro
politico, al quale si frammischiano altri mezzi. Diciamo: si frammischiano altri mezzi per affermare
in pari tempo che il lavoro politico non cessa per effetto della guerra, non si trasforma in una cosa
completamente diversa, ma continua a svolgersi nella sua essenza, qualunque sia la forma dei mezzi
di cui si vale […] L’interruzione delle note diplomatiche fa mai cessare i rapporti politici tra le varie
nazioni e i vari governi?”1.
La massima di Clausewitz, che costituisce il titolo di questo paragrafo, e che rappresenta in qualche
modo la sintesi, la summa del suo pensiero in proposito, stabilisce esplicitamente una priorità
teorica (ma, come vedremo più avanti, anche pratica) della politica sulla guerra, e quindi una
subordinazione, ribadita nel corso di tutta l’opera, della seconda alla prima. Anche il brano testé
riportato si allinea su queste posizioni, ma sembra altresì suggerire un rapporto che va al di là della
mera relazione di contiguità e continuità tra guerra e politica; termini come frammischiare,
svolgersi nella sua essenza lasciano trasparire, dietro una apparente diversità, o alterità fenomenica,
una sorta di consustanzialità, una medesima tipologia sottesa tra guerra e politica. In questa
operazione di superamento dell’opposizione dialettica tra guerra e politica, Clausewitz di fatto
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oscilla tra la subordinazione–prosecuzione dell’una rispetto all’altra, e l’identità che le accomuna;
va anche osservato che queste due relazioni non sono necessariamente in contraddizione: la stessa
frase “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”2 implica, al di là, o al di
sotto, della continuazione, una identità di fondo.
L’analisi che Clausewitz fa del rapporto tra guerra e politica parte dalla considerazione della guerra
come ente autonomo, dotato di propri scopi e propri mezzi.
La guerra, considerata, in quest’ottica, “di per sè”, si configura come un binomio fine-mezzo: “la
guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla
nostra volontà”3. Potremmo rappresentare questo binomio come un sistema di assi cartesiani, in cui
considerare, arbitrariamente, l’asse delle ascisse come il fine, e l’asse delle ordinate come il mezzo,
dal momento che, se lo scopo è “imporre” la nostra volontà al nemico, non c’è altro mezzo che
l’uso della forza4.
Per raggiungere questo fine, la forza deve conseguire un obiettivo più immediato: porre il nemico
nell’impossibilità di difendersi; è questo, “per definizione”, come afferma Clausewitz, “il vero
obiettivo dell’atto di guerra”, lo scopo dell’atto di forza, all’uso della quale non c’è limite. Dal
fatto che entrambi i contendenti cercano d’imporsi reciprocamente la propria volontà tramite un uso
illimitato della forza, ne consegue una tendenza “all’estremo”, una tensione intrinseca alla guerra
che la conduce verso la sua forma assoluta, che si concretizza nella cosiddetta “guerra di
sterminio” o di annientamento. È questo il tipo di guerra volta a “ridurre il nemico all’impotenza”5,
ovvero ad “abbatterlo”.
In quest’ottica, gli assi cartesiani che avevamo considerato poc’anzi, tendono ad avvicinarsi fino a
congiungersi per costituire un unico vettore che conduce all’annientamento reciproco dei due
contendenti.
Ma quante sono le guerre di questo genere che si possono contare nella storia? In effetti, quella che
Clausewitz sta considerando è la guerra nella sua dimensione “astratta”, totalmente scevra dal
contesto storico e dall’obiettivo politico che la determina; e anzi la guerra considera quest’ultimo
come “altro” da sé, e lo respinge come estraneo alla sua natura. È difficile rintracciare nella storia
guerre di annientamento, in cui i contendenti mirino al reciproco sterminio.
La ragione di questa difficoltà consiste nel fatto che il sistema di assi cartesiani che abbiamo
considerato, e che definisce uno spazio “bidimensionale”, seppure valido a rappresentare la guerra
nella sua dimensione astratta, risulta insufficiente per rappresentare la guerra reale, storicamente
1
2
3
4
Karl von Claus ewitz, Vom Kr iege, trad. it. Della Guerra, Roma, 1970, p ag. 811.
Il cors ivo è m io.
Op. cit., pag. 19.
Si tratta, come Clausew itz afferm a esplicitam ente, della forza fis ica, “poichè all’infuori
dell’ idea d i S tato e di Legge non v i è forza mo rale”, op. cit., pag . 20.
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riscontrabile e concretamente combattuta, che per sua natura si muove in uno spazio
“tridimensionale”. L’asse mancante, che garantisce la tridimensionalità al sistema, è quello dello
scopo politico, in assenza del quale la guerra è un non-senso: “[…] il disegno politico è lo scopo, la
guerra il mezzo, ed un mezzo senza scopo non può mai concepirsi”6. Se volessimo esprimerci con i
termini della teoria della causalità di Aristotele, potremmo dire che, data la guerra, la politica ne
rappresenta la causa efficiente e la causa finale, con il combattimento che, non necessariamente
spinto fino al totale annientamento del nemico, funge da causa materiale.
Con l’inserimento di questo nuovo asse, rappresentante lo scopo politico, si capisce perché il
combattimento non debba essere “necessariamente” spinto fino alla distruzione del nemico: è la
politica che, generando dal suo grembo la guerra, ne definisce l’obiettivo e gli sforzi necessari per
raggiungerlo7. Ora, quanto più grande, grave e irrinunciabile è lo scopo politico, tanto più esso
tenderà a coincidere con lo scopo puramente bellico; pertanto il vettore che parte dall’origine degli
assi, tenderà ad orientarsi verso la guerra di sterminio8. Quanto più invece lo scopo politico è
circoscritto, moderato, limitato, tanto più la guerra tenderà ad allontanarsi dalla sua forma assoluta
per risolversi addirittura in una incruenta “osservazione armata”9. In questo caso lo scopo
propriamente bellico è pressoché assente e il vettore tende ad allinearsi sull’asse dello scopo
politico. È quest’ultimo che, grazie alle sue infinite gradazioni, ora smussa gli aspri contorni della
guerra assoluta fino a risolverla in quella “mezza misura”10 che abitualmente abbiamo sotto gli
occhi, ora la riconduce fino alle sue tanto estreme quanto rare tendenze all’assoluto.
Ne consegue l’infinita varietà di forme che la guerra può assumere; ed è proprio la scelta tra queste
– in relazione all’obiettivo politico che entrambi i contendenti si prefiggono – a rappresentare il
compito più grave e importante del Capo di Stato, un “calcolo” che, a detta di Napoleone, “darebbe
luogo ad un problema d’algebra capace di spaventare un Newton”11.
Ma vi è un altro fattore che, al di là dello scopo politico, contribuisce ad arginare le tendenze
assolutistiche della guerra: la comunicazione tra i nemici. Proprio nella comunicazione che, nella
nostra epoca, sembra essere assurta al ruolo di parola d’ordine, di emblema della civiltà occidentale
5
6
7
8
9
10
11
Op. cit., pag. 22.
Op. cit., pag . 38.
Op. cit., pag . 28.
Vedi , ad esempio, la Ter za Guer ra Punica , in cui non solo l’esercito punico fu
s b a r a g l i a t o d a i R o m a n i , m a l a s t e s s a C a r t a g i n e f u r a s a a l s u o l o , in o tt e m p e r a n z a a l
precetto catoniano: “Carthago delenda est”.
O p . c i t . , p a g . 2 9 . V e d i i n p r o p o s i to l e a t tu a l i o p e r a z i o n i d i po l i z i a i n t e r n a z i o n a l e
e di “ingerenza umanitari a”; ma anche in questi casi il rischio di escalation è
sempre in agguato , co me ci insegna la c ronaca dei nostri giorni. Va tuttavia
r i l e v a t o c h e , i n l i n e a d i p r i n c i p i o , u n g r a n d e o b i e t t i v o p o li t i c o p u ò e s s e r e
conseguito anche tramite una operazione mi litare limitata.
Op. cit., pag ., 812.
Op. cit., pag . 783.
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contemporanea, Raymond Aron rintraccia “la condizione necessaria per la moderazione dei
conflitti”12. È evidente (anche se Aron non lo rileva esplicitamente) che, in tempo di guerra, la
comunicazione tra le parti in lotta può non essere esplicita e manifesta come ordinariamente ci si
aspetterebbe; eppure è proprio questa forma di comunicazione latente che garantisce quella
reciproca conoscenza delle rispettive intenzioni che fa sì che ciascuno sappia che cosa deve temere
dall’altro. È nel momento in cui questa comunicazione, questa reciproca conoscenza viene meno,
che si fa strada la paura incondizionata di un nemico dal quale oramai ci si può aspettare di tutto, e
che deve essere pertanto annientato. È lo spettro di questa eventualità che spinge Aron ad affermare
che “la comunicazione non è sufficiente a garantire la moderazione, ma ne rappresenta la
condizione necessaria”13. Potremmo dire, in quest’ottica, che il nemico peggiore è “l’ignoto”.
La funzione della comunicazione si rivela determinante, più che in qualsiasi altro contesto, nelle
singolari e, per certi aspetti, paradossali dinamiche di quella straordinaria forma di strategia
politico-militare che è la strategia nucleare, probabilmente l’unica forma di strategia volta (almeno
in alcune fasi della sua evoluzione) ad evitare il conflitto più che a risolverlo con una vittoria
militare. È singolare che Aron affronti il tema della guerra nucleare scollegandolo dal problema
della comunicazione, che egli stesso ha portato alla luce, dal momento che, se la guerra nucleare è
rimasta uno spettro, il merito, in parte, è stato proprio delle reciproche rassicurazioni che Stati Uniti
e Unione Sovietica si sono scambiate riguardo la non-volontà di aggredire e la finalità prettamente
difensiva di taluni sistemi d’arma nucleari, soprattutto quando alcune innovazioni tecnologiche in
questo settore hanno dato la sensazione di infrangere il precario equilibrio del terrore, facendo
pendere il piatto della bilancia a favore di una delle due super-potenze, e ingenerando nell’altra una
pericolosa percezione di pericolo che avrebbe potuto indurla a far scattare quella misura difensiva
che è l’“attacco preventivo”14. Ai fini del mantenimento di una pace che si regge sull’equilibrio
delle rispettive potenzialità offensivo-difensive, e - almeno sulla carta – sull’intenzione di ricorrere
alla deterrenza nucleare solo come rappresaglia difensiva, la funzione di una comunicazione volta a
tranquillizzare l’avversario sul mantenimento dell’equilibrio e sulla mancanza d’intenzioni
aggressive, risulta evidentemente imprescindibile e inalienabile.
È interessante notare come proprio la guerra nucleare, ovvero l’unica forma di guerra che per la
prima volta sembra realizzare nella storia la formulazione astratta della guerra assoluta, e che anzi la
supera in “assolutezza”, giacchè si risolve non nell’abbattimento di uno dei due contendenti, ma
12
13
14
Raymond Aron, Pensare la gu erra, Clausew itz, Paris, 1973, p ag. 116 .
Op. cit., pag . 116.
Per una attenta analisi storica della strategia nucleare occidentale, cfr. il saggio
di La wr ence Fre edm an, “ Le prim e due generazioni di strateghi nucleari” , in
Guerra e strategia nell’età contemporanea , a cura di Peter Par et, Genova, 1992;
trad. it. di Ma ker s of Modern S trategy, Prin ceton, N.J ., 1986.
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nello sterminio di entrambi, rappresenti invece la prova più inconfutabile della subordinazione della
guerra alla politica.
Fino ad oggi, la guerra nucleare è stata preparata, simulata, minacciata, ma, di fatto, non è stata
ancora combattuta15.
Il motivo – che Aron questa volta non manca di considerare – è che la guerra nucleare, “grazie” al
suo esito univocamente apocalittico, ha messo l’uomo davanti a una alternativa, che si risolve poi in
una scelta obbligata: lo sterminio reciproco da una parte, l’opzione politico-diplomatica dall’altra16.
L’“ombrello nucleare” ha garantito – anche ai suoi detrattori – quarant’anni di pace. Alla sua ombra
hanno proliferato schiere di pacifisti di varia natura, che lo hanno fatto oggetto delle loro invettive,
ignorando (o facendo finta di ignorare) che il privilegio di stare in una piazza a sventolare simboli
di pace, invece che in una trincea a imbracciare un fucile, è stato garantito loro proprio
dall’esistenza delle armi atomiche e dallo spettro dell’olocausto nucleare che queste evocano.
È innegabile che questa “pax atomica”, o “guerra fredda”, sia stata una prerogativa dell’Occidente
(oltre che dell’Unione Sovietica e degli altri paesi che si sono dotati di armi nucleari), e che quella
guerra che i due blocchi hanno evitato a se stessi, l’abbiano fatta combattere al Terzo Mondo – le
guerre che io definisco “per interposta persona”, note anche come “guerre per procura”, ma non è
un caso che, all’indomani della caduta del blocco sovietico, con il conseguente allontanamento del
rischio di un conflitto nucleare, la guerra “fredda” sia divenuta improvvisamente “calda” anche in
Occidente, in un’area peraltro storicamente nevralgica come la regione balcanica.
Come la caduta del blocco sovietico non ha rappresentato la “fine della storia”17, così l’avvento
dell’arma atomica non ha rappresentato la fine della guerra; e tuttavia, alla luce delle decine di
milioni di morti dei due conflitti mondiali, ne ha rappresentato un ridimensionamento.
A fronte dei facili entusiasmi con cui sono stati accolti gli accordi di non-proliferazione nucleare, la
caduta del sistema bipolare internazionale, la messa al bando (sulla carta) degli esperimenti
nucleari, converrà tenere sempre presente la lucida constatazione che Robert Oppenheimer, il padre
della bomba atomica americana, ebbe a fare all’alba di quella era nucleare che egli stesso aveva
contribuito a far sorgere: una invenzione non può essere “disinventata”18.
15
16
17
18
Con ques to non intendo natur almen te cancellare la m emoria d ella tr agica esp erienza
delle bombe ato miche su Hiroshima e Nag asak i, che, com e è stato gius tamente osservato,
più che rappres entare l’atto f inale della Secon da Guerra Mondiale, hanno rappresentato
l’atto di in izio della “gu erra fredda”; lungi d al cos tituir e uno stru mento p er piegare un
Giappone orm ai irrimed iabilm ente in g inocch io, sono state una dimostr azione di for za
rivolta all’Un ione Sovietica, che g ià n el ’43 v eniva iden tif icata com e il v ero nem ico con
cui confrontars i.
Ray mond Aron, op. cit., p agg. 116-118.
Com e invece pretend eva F. Fukujama in un articolo omon imo, pubblicato in “Th e
Nato inal Interes t”, n. 16, 1989.
C’è una strana coincidenza che merita di essere considerata. Pochi anni dopo la
fine della Seconda Gu erra Mondiale, q uindi all’indomani degli straordinari
13
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Al contrario di quanti ritengono che, con l’avvento delle armi nucleari, la guerra abbia cessato di
essere la continuazione della politica con altri mezzi, la conclusione che si evince da quella
paradossale forma di pace che è stata la guerra fredda, è che la guerra, o meglio, la minaccia
nucleare, lungi dal provocare il reciproco annientamento, ha rilanciato il primato della politica.
É questo primato che Aron intende ribadire – polemizzando con quanti ritengo che, in realtà, sia la
politica la continuazione della guerra con altri mezzi – quando nega la possibilità di ribaltare la
massima clausewitziana in virtù del fattore discriminante che distingue la guerra: “La politica tende
agli stessi fini in pace e in guerra: essa non può essere la continuazione della guerra con altri mezzi,
perché la guerra non si caratterizza che per la specificità del proprio mezzo, la violenza”19. Per usare
una formula mutuata dal lessico matematico, potremmo dire che quello che Aron vuole negare ai
concetti di politica e di guerra è la “proprietà commutativa”.
Questa affermazione di Aron è densa di implicazioni che, nell’arco della storia militare, e quindi
politica, hanno prodotto un dibattito serio e dagli esiti talvolta altalenanti; il concetto di specificità
del mezzo, in particolare, ha indotto alcuni militari a mettere in discussione il primato della politica
sulla guerra.
Il problema, oltre che serio, è sempre attuale, e merita pertanto un sia pur breve approfondimento.
Il tema è caro allo stesso Clausewitz, che lo affronta direttamente, ma per poterlo considerare, per
così dire, da tutte e due le parti della barricata, occorre introdurre la figura di un altro uomo d’armi
che ha contribuito a fare la storia del pensiero militare: Antoine Henry Jomini. La sua concezione
della guerra20 ha spesso costituito il supporto teorico, o forse sarebbe meglio dire l’alibi, addotto
talvolta da quei militari che hanno cercato di scrollarsi di dosso il controllo della politica.
Possiamo considerare quattro fattori, dalla convergenza dei quali deriva il fondamento del problema
in questione: i primi due rappresentano i vettori di spinta, gli altri due lo sfondo; o, se si preferisce, i
19
20
successi conseguiti con la realizzazio ne della prima bomba all’uranio,
Oppenhei mer rim ase vittima di quella tris te pagina della storia a meric ana nota
come l a “caccia alle streghe”: accusato di “collaborazionismo” con i sovietici e
d i e s s e r e e g l i s t e s s o c o m u n i s t a , f u a l l o n ta n a t o d a l l ’ i n c a r i c o d i p r e s i d e n t e d e l l a
com missione consultiva sull’energia atomic a. In Unione Sovietica , quello ch e può
essere considerato il quasi-omologo di Oppenheimer ( “quasi”, per ché il padre
della bomba H a me ricana è Ed ward Teller), Andrey Sa charov, il padre della
bomba H sovietica (all’idrogeno , o “termonucleare”), per la sua attività di
dissidente fu allontanato dai centri di ricerca e perseguitato.
Al di là del fatto che le accus e ad Oppe nheimer sono tutte da di mostrare , un
s i n g o l a r e d e s t i n o di e m a r g i n a z i o n e h a a c c o m u n a t o q u e s t i d u e s c i e n z i a t i , c h e p i ù
degli altri hanno contribuito a condurre le rispettive nazioni ai vertici del potere
nucleare.
Op. cit. pag. 128.
Considereremo più attentamente il pensiero di Jomini nella Seconda Parte di
questo lavoro, nel capitolo dedicato all’as siomatica della guerra. Per il momento
ci basta considerare una delle conseguenze pratiche che la sua teorizzazione ha
avuto.
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primi due rappresentano il seme, e gli altri il terreno, l’humus che permette al fenomeno di
“germogliare”.
Il primo fattore è costituito dalla natura stessa della teorizzazione di Jomini, che raggiunge la sua
espressione più alta nel Prècis de l’art de la guerre: la guerra, vista in un’ottica a-storica, consta di
un insieme di regole e principi astratti, la cui conoscenza pertanto è preclusa ai non-iniziati all’arte
della guerra, quali sono invece i militari di professione.
Il secondo fattore è di carattere storico-culturale: nell’Ottocento tutti i campi del sapere –
probabilmente in base all’eredità del razionalismo illuministico – tendono a “scientificizzarsi” e a
“tecnologizzarsi”, cessando di essere oggetto di studio da parte di dilettanti, sia pure talvolta geniali,
per diventare appannaggio di specialisti.
L’arte della guerra non può naturalmente rimanere esclusa da questa linea di tendenza; questi due
fattori sono pertanto già sufficienti a definire una casta di iniziati, specialisti nella teoria e nella
tecnica della guerra: i militari di professione.
Questi due primi fattori si innestano sugli altri due, che ne costituiscono in qualche modo lo sfondo,
o il terreno di coltura.
Il terzo fattore è di carattere storico-politico: fino all’Ottocento, la casta militare partecipava “di
diritto” alla spartizione del potere dominata dall’aristocrazia, di cui peraltro rappresentava una
costola. Con l’avvento delle prime costituzioni repubblicane, e quindi con la democrazia, i militari
videro compromessa la propria autorità, e si videro relegati al ruolo di “burocrati”, amministratori di
uno dei tanti settori della cosa pubblica.
Il quarto fattore è una “invarianza meta-storica”, una sorta di malattia ereditaria da cui sono
atavicamente afflitti molti militari a tutte le latitudini: una ipertrofica percezione dell’identità
collettiva, alimentata specularmente da un fortissimo senso di “alterità” rispetto a ciò che militare
non è, cioè il mondo dei civili, che si concretizza in una congenita insofferenza nei confronti della
supervisione che la politica, in mano ai civili, esercita sulla sfera militare.
Con la fusione di questi quattro fattori il quadro è completo: “In Jomini i militari trovarono proprio
ciò che cercavano: buoni argomenti contro la stretta subordinazione all’autorità politica…… La
lezione era chiara: un governo dovrebbe scegliere il suo più abile comandante militare, e quindi
lasciarlo libero di condurre la guerra secondo i principi scientifici. I governi non dovrebbero
dimenticare le proprie forze armate, ma non devono immischiarsi in questioni che solo colti ed
esperti ufficiali comprendono. La professione militare naturalmente ha preso a cuore questa lezione,
e l’ha insegnata ai suoi allievi […]”21.
21
Cfr . Jhon Shy, Jo mini, in Guerra e strategia nell’età conte mporanea, Genova,
1992, pagg. 75-76
15
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Il quesito riguardo quale di questi due elementi, guerra e politica, debba essere subordinato all’altro,
viene posto dallo stesso Clausewitz22. Considerate le posizioni da cui muove, la domanda suona, in
un certo senso, retorica, e nondimeno Clausewitz risponde esplicitamente, e la risposta, come ovvio,
è univoca: “Sarebbe dunque assurdo subordinare le vedute politiche al punto di vista militare,
poiché la politica ha generato la guerra: essa è l’intelligenza, mentre la guerra non è che lo
strumento; l’inverso urterebbe il buonsenso.
Non resta, dunque, che subordinare il punto di vista militare a quello politico […]. In una parola,
“l’arte della guerra, considerata dal suo punto di vista più elevato, si cambia in politica; ma questa
politica si manifesta con battaglie anziché con note diplomatiche”23.
E tuttavia Clausewitz non manca di sottolineare, in virtù di quella “specificità del mezzo, la
violenza”, che abbiamo considerato in precedenza con Aron, l’autonomia della guerra rispetto alla
politica: “Ma non perciò lo scopo politico assume il carattere di un legislatore dispotico: deve
adattarsi alla natura del mezzo, donde risulta che sovente esso si modifichi profondamente; ma è pur
sempre l’elemento da tenersi soprattutto in considerazione […].
L’arte della guerra può esigere, in linea di massima, che le tendenze e i disegni della politica non
vengano in contraddizione con tali mezzi, e il comandante in capo può esigerlo in ogni caso. Tale
condizione non è certo lieve: ma qualunque sia, anche in casi particolari, la sua reazione sui disegni
politici, essa non può andare al di là di una semplice modificazione dei medesimi […]”24.
È interessante (e incoraggiante) che sia proprio il generale prussiano Karl von Clausewitz, nemico
di Napoleone sul campo di battaglia, ma suo strenuo sostenitore e ammiratore sul campo della
speculazione teorica sulla guerra, l’alfiere del primato della politica sulla guerra, nella polemica a
distanza, o meglio indiretta (visto che non hanno mai avuto modo di polemizzare direttamente su
questo tema, come invece è capitato loro di fare su altri), che lo ha visto contrapposto al generale
elvetico Antoine Henry Jomini, portavoce, in tempo di guerra, del primato della guerra sulla
politica.
In questo si risolve, pertanto, il valore pragmatico della formulazione teorica clausewitziana sul
rapporto tra guerra e politica, ereditato dalla politica militare: il controllo teorico della politica sulla
guerra implica il controllo pratico dei politici sui guerrieri. È questa la lezione pratica di Clausewitz
che, più delle altre, i militari hanno spesso fatto finta di ignorare. “Ripetiamo dunque un’ultima
volta: la guerra è uno strumento della politica; essa ne deve necessariamente assumere il carattere,
deve commisurarsi alla sua medesima scala; la condotta della guerra, nelle sue linee fondamentali,
22
23
24
Ka rl von Clause witz, Della guerra, Ro ma, 1970, p. 814 .
Op. cit., pagg . 814-815.
Op. cit., pagg . 37-38.
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altro non è che la politica stessa, che depone la penna ed impugna la spada, ma non cessa perciò di
regolarsi conformemente alle proprie leggi”25.
Abbiamo visto, anche in questo frangente, come Clausewitz, non appena ha affermato il legame
inscindibile tra guerra e politica, si preoccupi di riaffermare l’autonomia della prima rispetto alla
seconda. Questo ci rimanda al tema con cui abbiamo aperto questo paragrafo, e cioè la continua
oscillazione che si riscontra nel Della guerra tra la subordinazione della guerra alla politica, e la sua
autonomia; una oscillazione che tende sempre di più ad orientarsi verso il superamento di ogni
eventuale opposizione dialettica, per rintracciare in esse un denominatore comune.
É un percorso che sembra seguire le tappe dell’opera stessa: se nel Libro Primo i due termini si
trovano ancora in una nebulosa, che rende la guerra al tempo stesso un atto politico e uno strumento
della politica26, nel Libro Secondo ogni nebbia residua si è ormai dileguata, facendo emergere
quella “consustanzialità” di cui parlavo all’inizio del paragrafo: “[…] è dal grembo della politica
che la guerra trae origine, è nella politica che i caratteri principali della guerra sono già contenuti
allo stadio rudimentale, come le proprietà degli esseri viventi lo sono nei rispettivi embrioni”27. La
metafora dell’embrione è particolarmente evocativa di un rapporto che, se da un lato sottolinea la
continuità cronologica e la diversità morfologica tra l’individuo adulto e la rispettiva fase larvale,
dall’altro sancisce l’identità genetica che li lega.
Ma è nel Libro Ottavo, l’ultimo, come a sottolineare il compimento di un cammino, che questa
tipologia sottesa viene espressa in termini di una straordinaria attualità: “La guerra è forse altra
cosa che una specie di scrittura o di linguaggio nuovo per esprimere il pensiero politico? Questa
lingua ha senza dubbio la propria grammatica, ma non una logica propria”28. Si potrebbe dire che
è un brano di evidente ispirazione chomskiana, se non fosse per il fatto che Noam Chomsky ha
formulato la sua teoria linguistica un secolo e mezzo dopo la produzione teorica di Clausewitz.
É questa identità di fondo tra guerra e politica che mi preme sottolineare, e che affronterò più avanti
nel terzo paragrafo.
C’è chi ha sostenuto, tuttavia, e non senza ragione, che sia la politica una continuazione della guerra
con altri mezzi. L’ipotesi, sebbene capovolga completamente la massima di Clausewitz e
contraddica apertamente la posizione di Aron, è tutt’altro che peregrina, e merita pertanto di essere
analizzata.
25
26
27
28
Op.
Op.
Op.
Op.
cit. p. 819.
cit., p. 38.
cit., p. 130. Il co rsivo è mio
cit., p. 811.
17
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§.2.
L a p o l i t i ca n o n è ch e l a con t i nu a zi on e del l a gu erra con al t ri m ezzi .
Se della massima con cui ho intitolato il primo paragrafo conosciamo l’autore, di questa è
certamente più difficile accertare la paternità. In essa si riconoscono vari orientamenti di indagine,
come il darwinismo sociale o, per altri aspetti, la psicoanalisi, che riconduce un po’ tutte le forme di
mediazione simbolica che costituiscono la civiltà - e con esse quindi anche la politica, che altro non
è se non la mediazione del conflitto – ad una sorta di “nevrosi collettiva”, risultato di un processo di
rimozione e sublimazione tramite il quale l’uomo si riapproprierebbe di quelle pulsioni, o istanze
inconsce, che coscientemente non vuole riconoscere29.
Per tornare con i piedi per terra, potremmo adottare un criterio darwiniano e recuperare
quell’opposizione dialettica tra guerra e politica che con l’analisi di Clausewitz avevamo visto
vacillare. La domanda che in quest’ottica potremmo porci è la seguente: quale di queste due attività
– la guerra e la pace, che è garantita dalla politica – svolge le migliori funzioni adattive?30. La
domanda ci pone dinanzi a due orizzonti antropologico-politici, e, alla luce di questi, può essere
così riformulata: anthropos politikon zoon oppure homo homini lupus ? Ovvero: l’uomo, per sua
natura, è un animale politico o anarchico ?31
Quello che qui vogliamo contrapporre ad Aristotele non è Plauto, ma il più grande interprete della
sua massima che abbia prodotto l’età moderna: Thomas Hobbes.
La rottura di Hobbes con la concezione politico-sociale di Aristotele è netta ed esplicita. Egli muove
da una posizione minimalista: vi è un ipotetico “stato di natura”, fuori dal tempo, e quindi privo di
condizionamenti storici e culturali, in cui la conflittualità tra gli individui si manifesta nella sua
forma, per così dire, cristallina: “La natura ha fatto gli uomini così eguali, nelle facoltà del corpo e
dello spirito […]. Da questa eguaglianza dell’abilità sorge l’eguaglianza nelle speranze di
conseguire i nostri scopi, e perciò, se due uomini desiderano la stesa cosa, che non possono
entrambi ottenere, divengono nemici, e, per conseguire il proprio fine – che è principalmente la
propria conservazione, e spesso il proprio piacere – tentano di distruggersi e di sottomettersi l’un
29
30
31
Cfr . Sigmund F reud , Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, 1976.
Più che attività potremmo definirle “condizioni”, che garantiscono lo svolgimento
di attività. Questo vale sopr attutto per la p ace, dal momento che la gu erra è stata
t a l v o l t a v i st a c o m e u n “ m o n u m e n t o a l l ’ a z i o n e ” . L a p a c e è s t a t a a d d i r i t t u r a
considerata non come “condizione” per l’azione, ma come “n egazione”
dell’azione. Al riguardo, risuona su tutti il perentorio giudizio di Hegel :<<…la
pace … è un ristagno per gli uomini; le loro singolarità divengono sempre più fisse
e si irrigidiscono. Ma, alla salute, appartiene sempre l’unità del corpo, e, se le
p a r t i d i v e n g o n o r i gi d e i n s é , è l a m o r t e > > . C f r . G e o r g W i l h e l m F r i e d r i c k H e g e l ,
L i n e a m e n t i d i f i l o s o f i a d e l d i r i t to , R o m a - B a r i , 1 9 7 4 , p a g . 4 4 5 .
Non fac cio riferi mento, naturalm ente, all’An archia , quale è uscita dalla Prima
Internazionale.
18
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l’altro”32. È questa la forma di guerra primordiale e minimale che viene sintetizzata nella formula
bellum omnium contra omnes.
Hobbes è pienamente consapevole che questa condizione di guerra di tutti contro tutti non si è mai
verificata concretamente nella storia; tuttavia le relazioni tra gli stati, quando non sono di aperta
ostilità, sono improntate ad una forma di ostilità latente, fatta di spionaggio e di “corsa agli
armamenti”, quella che noi oggi definiremmo “guerra fredda”, o pace armata, “la quale è una
posizione guerresca”33. Infatti sarebbe riduttivo indicare con la parola “guerra” esclusivamente uno
scontro sanguinoso; nell’accezione del termine va inclusa anche quell’intenzione ostile che si dilata
nel tempo, anche quando i contendenti non sono ai “ferri corti”: “e perciò la nozione del tempo deve
essere considerata nella natura della guerra, come nella natura di una tempesta. Infatti, come la
natura di una procella non consiste solo in un rovescio o due di grandine, ma nella disposizione
dell’atmosfera ad essere cattiva per molti giorni insieme, così la natura della guerra non consiste in
questo o in quel combattimento, ma nella disposizione manifestamente ostile, durante la quale non
v’è sicurezza per l’avversario. Ogni altro tempo è pace ”34.
C’è da chiedersi a quale altro tempo per la pace faccia riferimento Hobbes, visto che la storia non
conosce altra alternativa che quella tra guerra effettiva e guerra latente. A confronto con la
posizione di Hobbes, quella hegeliana della guerra come necessità storica, artefice della potenza
degli stati e della dinamica della storia stessa35, in cui la pace si risolve in quella porzione di tempo
che va da un bagno di sangue all’altro, risulta addirittura una posizione moderata.
A questo punto dell’indagine, per Hobbes, di fatto, la pace non esiste .
Tuttavia Hobbes avverte la necessità di recuperare il concetto di pace, e lo fa in un’ottica
darwiniana. Come avevamo fatto con Clausewitz, anche con Hobbes possiamo adottare un sistema
di assi cartesiani attraverso il quale definire il rapporto tra la guerra e la pace: e allora sia l’asse
delle ascisse il “diritto di natura”, e l’asse delle ordinate le “leggi di natura”.
“Il diritto di natura, che gli scrittori comunemente chiamano jus naturale, è la libertà che ciascun
uomo ha, di usare il suo potere, come egli vuole, per preservare la sua natura, cioè la sua vita, e di
fare perciò qualunque cosa, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli crederà sia il mezzo più
adatto per quello scopo. . . .Una legge di natura – lex naturalis - è un processo o una regola
generale, ricavata dalla ragione, per cui ad un uomo è vietato di fare quello, che distruggerebbe la
sua vita o di togliere i modi, per preservarla, di omettere quello, con cui egli pensa che sarebbe
preservarla”36.
32
33
34
35
36
Thom as Hobbes , L eviatano , B ari, 1974 , Vo lume I pagg. 106-107
Op.cit., pag. . 111
Op. cit., pag . 109
Cfr . G.W.F.Hegel , Linea menti di filosofia del diritto, Roma -B ari, 1974 , pag .456.
Thom as Hobbes , L eviatano, Bari ,1974, Volume I, pagg. 112-113
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Nello “stato di natura” , dove ciascuno accampa diritti su tutto e su tutti, il diritto alla vita è
evidentemente un concetto aleatorio, e la precarietà regna sovrana. È in questo ambito che non solo
la guerra, ma anche la pace si trova a svolgere una funzione adattiva. Infatti la guerra e la pace sono
determinate sia dalle rispettive passioni (“competizione, diffidenza e gloria” per la guerra, “ il
timore della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie alla vita, e la speranza di ottenerle
mediante la loro industria” per la pace), sia dalla ragione, ed è la ragione che impone all’uomo di
cercare la pace, quando è possibile, altrimenti ricorrere alla guerra: “La prima parte di questa regola
contiene la prima e fondamentale legge di natura, che è: cercare la pace, e conseguirla; la seconda
parte il sommo dei diritti di natura, che è: difendersi con tutti i mezzi possibili”37.
Come si vede, il vettore che parte dall’origine degli assi, procedendo con una traiettoria di 45°,
equidistante dagli assi stessi, sta definendo dei punti importanti; ed è seguendo il suo percorso che
incontriamo il punto più importante che stavamo cercando: la politica.
La seconda legge di natura, che deriva direttamente dalla prima, prevede che un uomo rinunci ai
suoi diritti sulle cose, qualora anche gli altri facciano altrettanto. Questa rinuncia viene formalizzata
tramite patti e contratti. Ora, Hobbes è troppo realista per accettare l’ingenua credenza che gli
uomini rispettino i patti in virtù di un innato spirito di giustizia: “Tali sono i vincoli, con i quali gli
uomini si legano e si obbligano, vincoli, che hanno la loro forza non dalla propria natura – perché
niente è più facile a rompere che la parola di un uomo - ma dal timore di qualche cattiva
conseguenza di quella rottura”38. Infatti “se un patto è concluso senza che nessuna delle due parti
l’esegua, ma l’una si fida dell’altra, nel puro stato di natura - che è uno stato di guerra di tutti contro
tutti -, ad ogni ragionevole sospetto resta vano; ma, se vi è un potere comune ad ambo le parti, con
diritto e forza sufficienti per costringerle ad eseguirlo, allora non resta vano” 39.
“Il solo modo per stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni
degli stranieri e dalle offese scambievoli […] è di conferire tutto il proprio potere e la propria forza
ad un uomo o ad un’assemblea di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri, con la pluralità di
voti, ad un volere solo […]. Ciò fatto, la moltitudine così unita in una persona è detta uno stato, in
latino civitas. Questa è l’origine di quel grande Leviatano, o piuttosto - per parlare con più
reverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, al di sotto del Dio immortale, la nostra pace
e la nostra difesa, poiché, a causa di quest’autorità datagli da ogni singolo uomo nello stato, esso
usa di tanto potere e di tanta forza, a lui conferita, che col terrore è capace di disciplinare la volontà
di tutti alla pace interna ed al mutuo aiuto contro i nemici esterni. Ed in esso è l’essenza dello stato,
che – per definirlo – è una persona, dei cui atti ciascun individuo di una gran moltitudine, con patti
37
38
39
Op.cit., pag. 114
Op.cit., pag. 115
Op.cit,, pag.120, il corsivo è mio.
20
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vicendevoli, si è fatto autore, affinchè possa usare la forza ed i mezzi di tutti loro, secondo che
crederà opportuno, per la loro pace e per la comune difesa ”40.
Ecco la nascita della politica formalizzata41, e, con essa , dello Stato.
Ma, ai fini della nostra indagine, è giunto il momento di stabilire in cosa si risolva questo stato
“politico” (come lo definisce lo stesso Hobbes).
Di fatto, il Leviatano baratta la pace interna con la guerra, trasferendo quest’ultima dal piano interindividuale al piano inter-statale; per scongiurare il rischio della guerra civile, Hobbes deve
trasferire il conflitto al di fuori dei confini dello stato, sicchè, in ambito politico-internazionale,
continua a sussistere lo stato di natura 42.
È una lezione che Hegel non ha mancato di fare sua, sia pure in versione idealistica, quando, nella
Filosofia del Diritto, afferma: “anche se un certo numero di Stati si costituisce a famiglia,
quest’unione, in quanto individualità, deve crearsi un’antitesi e generare un nemico . . . . e così la
condotta internazionale, in base a questa, si modifica in una situazione in cui, peraltro, ciò che
domina è il reciproco arrecamento di danni. Il rapporto di Stati e Stati è vacillante e non esiste
pretore che lo componga. Il più elevato pretore è, unicamente, lo spirito universale, che è in sé e per
sé: lo spirito del mondo” 43.
Il vecchio Aristotele, che si era voluto cacciare dalla finestra, alla fine rientra dalla porta principale:
lo stato politico altro non è, in definitiva, che lo stato di natura, in cui la guerra non avviene tra
animali solitari, ma tra animali “politici”, sociali, che si riuniscono in stati contrapposti
44
. La
differenza è che mentre per Aristotele l’uomo è un animale “politico” per vocazione, per Hobbes lo
è per necessità.
Si potrebbe essere tentati di dire che, come in Clausewitz, anche in Hobbes assistiamo ad un
superamento della dialettica tra guerra e politica; e così è, ma la soluzione del filosofo inglese è
diametralmente opposta a quella che abbiamo visto nel generale prussiano. Hobbes, al contrario di
Clausewitz, non cerca mai il superamento in termini di consustanzialità, ma sempre e soltanto in
termini di continuazione. Il diritto naturale rappresenta lo sfondo su cui si stagliano le leggi naturali;
queste possono arginarlo, attenuarne i toni, ma non possono mai contraddirlo.
40
41
42
43
44
Op. cit., pagg . 151 – 152.
Dico formalizzata , perché qualcuno potrebbe obiettare che anche nello stato di
natura vige la politica; una politica regolata non da norme scritte nei codici, ma
dal diritto naturale.
L’anarchia internazionale, secondo l a dottr ina del re alismo politico.
Incontreremo una dinamica simile più avanti, nella Seconda Parte di questo
lavoro, quando affronteremo la funzione ch e la guerra esterna svolge nella societ à
dei Nuer.
La socialità della guerr a è un te ma su cui i nsiste spesso lo stesso Clause witz.
21
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La risoluzione della dialettica in chiave bellicistica proposta da Hobbes si contrappone a quella
proposta da Clausewitz - che è invece politica – perché i loro presupposti si trovano agli antipodi. In
Hobbes è la guerra che genera la politica; la guerra è l’embrione in cui l’individuo adulto, la
politica, riconosce il suo patrimonio genetico; lo stato di natura è il paradigma e lo stato politico la
sua forma applicativa.
Ma c’è una differenza macroscopica che, alla luce del mio criterio d’indagine, emerge tra questi due
pensatori: mentre nel sistema di assi cartesiani, che avevamo adottato per interpretare la teoria di
Clausewitz, la politica costituisce un asse del sistema stesso – assumendo pertanto una valenza
strutturale -, nel sistema di assi costruito per la teoria di Hobbes, la politica rappresenta solo un
punto del piano definito dagli assi, un punto incontrato dal vettore lungo la sua traiettoria, definita
dai punti precedenti – rappresenta così solo la conseguenza di istanze strutturali pregresse.
Se lo stato politico si configura pertanto come la continuazione “terapeutica” dello stato di natura, la
politica altro non è se non la continuazione della guerra con altri mezzi.
§ . 3 . Gu erra e p ol i t i ca : i du e vol t i d el con f l i t t o.
Abbiamo visto, nei due paragrafi precedenti, come l’analisi del rapporto guerra-politica, e i tentativi
di superare l’opposizione dialettica che tradizionalmente le vede contrapposte, si siano risolti nella
considerazione che una sia la continuazione dell’altra , ovvero nel ridurre l’una all’altra.
Esistono, però, a mio avviso, altre due strade che portano al superamento di questa dialettica:
1) rintracciare un fenomeno empirico in cui sia impossibile definire il rapporto guerra-politica in
termini di mera continuazione o riduzione di una all’altra; 2) adottare quella procedura
epistemologica che più di ogni altra contraddistingue il pensiero filosofico dalle altre forme di
conoscenza (e che lo stesso Clausewitz sembrava aver adottato quando identificava, al di là delle
diverse grammatiche, un’unica logica sottesa alla guerra e alla politica): l’astrazione.
Dal momento che le due strade sono perfettamente compatibili, ed anzi si corroborano a vicenda,
converrà percorrerle entrambe.
Visto che l’approccio al nostro oggetto d’indagine è epistemologico, e visto che i risultati di un
processo di astrazione rappresentano il punto di arrivo dell’indagine, in relazione al livello di
astrazione a cui ci si muove, inizieremo con l’analisi del dato empirico, per poi ricondurlo e
rileggerlo alla luce della formulazione astratta.
In genere si è soliti considerare la guerra e la politica come termini antitetici; in quest’ottica la
guerra è il regno della violenza, mentre la politica troverebbe il suo terreno di coltura nella pace. È
anche alla luce di questo principio superficiale che si tende a considerarle in termini di alternanza e
di continuazione sia ontologica che cronologica, visto che non sembrano poter coesistere.
22
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Eppure la storia ci dimostra che questo semplice schema non è sempre applicabile: mi riferisco a
tutte quelle forme di conflittualità, come la guerra non-convenzionale, la guerra psicologica, la
propaganda, il terrorismo, che difficilmente sono riconducibili ad uno solo dei due termini, e che si
sarebbe tentati di confinare in una sorta di terra di nessuno.
Consideriamo quello straordinario esempio di strategia “stabilizzante” che è la strategia della
tensione. Il principio base della strategia della tensione prevede che in particolari momenti di crisi
di una nazione, in concomitanza con il rischio che il governo possa finire in mano alle forze di
opposizione, si debbano colpire (leggi “eliminare”) particolari categorie di persone - ivi compresa la
gente comune – in maniera tale da creare nella popolazione uno stato di tensione, quando non di
vero e proprio terrore, che induce la collettività a raccogliersi intorno alla classe dirigente e a
sostenerla, invece di abbatterla.
Prendiamo, a puro titolo di esempio, il caso di una bomba che esplode in una stazione ferroviaria,
provocando decine di morti. Come dovremmo considerare questo evento: un atto politico o un atto
di guerra? Si potrebbe rispondere – e a ragione – che si tratta di un atto criminale; ma anche alla
luce di questa considerazione, la domanda può cambiare formulazione, ma non sostanza: chi ha
messo la bomba (e soprattutto chi l’ha commissionata) deve essere considerato un criminale politico
o un criminale di guerra ?
Stando a quanto sostiene Clausewitz - secondo il quale anche il semplice invio di pattuglie può
essere ricondotto ad attività politica – si tratta di un atto politico; ma dobbiamo ammettere che ci
troviamo di fronte ad una attività politica ben diversa da quella che siamo soliti constatare, ad
esempio, durante una trattativa tra le parti sociali sul costo di lavoro.
Se invece consideriamo la bomba come fattore discriminante, dovremmo concludere che si tratta di
un’azione di guerra; ma si tratterebbe certamente di una condotta bellica a dir poco eterodossa, dal
momento che né gli autori né le vittime dell’attentato sono militari (gli autori, al più, potrebbero
ricondursi a strutture paramilitari occulte).
Questa efficacissima “tecnica di persuasione” collettiva è fortemente evocativa delle
argomentazioni svolte da Carl Schmitt in un saggio del 1938. Partendo dalla critica di quelle
posizioni semplicistiche che, assumendo come parametro la pace, considerano la guerra una nonpace, e assumendo invece la guerra, considerano la pace una non-guerra, egli si chiede se sia
proprio vera la massima di Cicerone: “Inter pacem et bellum nihil est medium”. La risposta non si
fa attendere: “Si tratterebbe naturalmente di una abnormità, ma esistono anche situazioni abnormi.
Di fatto oggi esiste una situazione intermedia abnorme del genere fra guerra e pace, nella quale i
due termini sembrano mischiati fra loro […] l’estensione dell’idea di guerra anche a manifestazioni
non militari (economiche, propagandistiche ecc.) di ostilità. Quelle imposizioni di pace miravano
infatti a fare della pace una “prosecuzione della guerra con altri mezzi ”. Essi hanno spinto così
23
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lontano il concetto di nemico che in tal modo è stata superata non solo la distinzione fra combattenti
e non combattenti, ma anche quella tra guerra e pace […]. In una simile situazione intermedia fra
guerra e pace cade ogni ragionevole senso di una determinazione di uno dei due concetti in base
all’altro, della pace in base alla guerra o della guerra in base alla pace”.45
È sorprendente come l’analisi schmittiana sull’impossibilità – o la non volontà – di distinguere i
combattenti dai non combattenti, conseguente alla indeterminatezza che può sussistere tra pace e
guerra, sia efficace per definire la condizione delle vittime di una strage terroristica.
Ma l’origine di questa indeterminatezza tra guerra e pace può essere rintracciata anche in un ambito
meta-storico. Infatti, dal momento che la scelta della guerra o della pace come parametro è
puramente arbitraria (“un bastone a due versi”, che si può impugnare per un capo o per un altro)
“[…] Tutti i tentativi di dare una definizione della guerra devono allora concludersi, nei migliori dei
casi, in un decisionismo del tutto soggettivistico e volontaristico: la guerra sussiste quando un
partito che diventa attivo vuole la guerra […]. Ma cosa significa ciò per il nostro problema del
rapporto fra guerra e pace? Mostra che l’ostilità, l’animus hostilis, è diventato il concetto primario;
e ciò ha, nell’attuale situazione intermedia tra guerra e pace, una portata del tutto diversa dalle
precedenti “teorie soggettive” o “fondate sulla volontà” del concetto di guerra”46.
Questo ci permette di definire meglio il concetto di “stato di guerra”, con cui Schmitt apre il suo
saggio.
Possiamo distinguere la “guerra come azione” e la “guerra come stato”. Ciò che distingue la guerra
come stato dalla guerra come azione è l’esistenza del nemico anche in assenza di combattimenti:
“Bellum manet, pugna cessat”. Qui, manifestamente, l’ostilità (la presenza del nemico) è
presupposto dello stato di guerra”47.
Come si vede, l’analisi di Schmitt mette in risalto come la conflittualità possa esprimersi attraverso
forme altre rispetto all’ortodossia militare: “Per coloro che possono imporre la loro volontà e
piegare la volontà dell’avversario con strumenti di coazione e di dominio extramilitari, ad esempio
economici, è un gioco da ragazzi evitare la guerra militare vecchio stile, e a loro volta coloro che
procedono con azione militare hanno solo bisogno di far presente in modo sufficientemente
energico che sono sprovvisti di qualsiasi volontà di guerra, di ogni animus belligerandi”.
48
La
conflittualità, in quest’ottica, sta facendo un salto di qualità: l’emancipazione dal monopolio
militare le apre nuovi scenari e nuovi campi d’azione; infatti, i concetti di animus hostilis e di stato
di guerra ci forniscono le coordinate per definire, o meglio, ri-definire, un concetto che, come
45
46
47
48
C f r . C a r l S c h m i t t , S u l l a r e l a zi o n e i n t e r co r r e n t e f r a i c o n c e t t i d i g u e r r a e d i
nemico , in Le categorie del politico, Bologna, 1972, pagg. 198-199.
Op.cit. pagg . 199-200.
Op.cit., pag. 193.
Op. cit., pag . 101.
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abbiamo visto nel primo paragrafo, era molto caro già a Clausewitz: il concetto di guerra assoluta o
“guerra totale”. E, fatto singolare, la “guerra totale” di Schmitt ha una connotazione più
marcatamente politica rispetto a quella di Clausewitz, che invece la identificava con la
squisitamente militare guerra di sterminio: “La cosiddetta guerra totale supera la distinzione fra
combattenti e non combattenti e, accanto alla guerra militare, ne conosce anche una non militare
(guerra economica, di propaganda e così via), sempre come sbocco dell’ostilità. Il superamento
della distinzione fra combattenti e non combattenti è però qui di tipo dialettico (in senso hegeliano):
di conseguenza esso non significa certamente che coloro che prima non erano combattenti si siano
ora semplicemente trasformati in combattenti di vecchio stile. È invece vero che sono mutati
entrambi i termini della questione e che la guerra viene ora condotta su un nuovo, più solido
terreno, come attuazione non più semplicemente militare di ostilità. La sua totalizzazione consiste
nel fatto che anche settori extramilitari (l’economia, la propaganda, le energie psichiche e morali dei
non combattenti) vengono coinvolti nella contrapposizione di ostilità. Il superamento del dato
puramente militare comporta non soltanto un ampliamento quantitativo, ma anche un rafforzamento
qualitativo; esso non significa perciò un’attenuazione, bensì un’intensificazione dell’ostilità. Con la
semplice possibilità di un simile aumento di intensità, anche i concetti di amico e nemico tornano da
sé nuovamente politici e si liberano, anche dove il loro carattere politico era completamente
sbiadito, dalla sfera delle argomentazioni private e psicologiche”49.
Le parole di Schmitt sono di una sconcertante attualità.
Due sono le forme che, in età contemporanea, la guerra totale (sia nell’accezione clausewitziana
che schmittiana del termine) può assumere: la guerra nucleare e il terrorismo politico, di cui la
strategia della tensione rappresenta la versione più “conservatrice” (dal momento che tende a
“conservare” il potere nelle mani di chi già lo detiene).
Un punto di vista fenomenologico ci presenterebbe queste due forme di conflittualità
diametralmente opposte; ma se facciamo astrazione dall’evidenza, ci accorgiamo che condividono
due denominatori comuni: 1) l’indeterminatezza nella selezione delle vittime: un missile
termonucleare su una città o una bomba al tritolo in una stazione uccidono indistintamente chiunque
si trovi nel loro raggio d’azione; la differenza è solo di carattere quantitativo in relazione al
potenziale distruttivo; 2) il carattere eminentemente politico che le informa: la strategia nucleare ha
rilanciato la politica anziché congelarla (vedi il primo paragrafo); quanto alla valenza politica della
strategia della tensione, questa è sotto gli occhi di tutti: il mantenimento del potere da parte di una
fazione, a scapito della fazione opposta. La strategia della tensione, pertanto, dati i parametri della
guerra e della politica, lungi dal trovarsi nella terra di nessuno, si trova nella terra di entrambe.
49
Op.cit., pagg. 201-202.
25
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L’immanenza della conflittualità al di là dello scontro militare, e la “comproprietà” che la
conflittualità stessa presenta rispetto alla guerra e alla politica, costituiscono il trampolino da cui
ormai possiamo spiccare quel salto di astrazione di cui parlavo all’inizio di questo paragrafo .
Al di là delle contingenze storiche e delle differenze fenomeniche, un comune denominatore
soggiace alla guerra e alla politica : il conflitto.
Dalle analisi di Clausewitz, Hobbes, Hegel e Schmitt emerge la valenza strutturale che il conflitto
assume nella storia; da concetti come ostilità e guerra totale si evince la sua ineliminabilità .
Il conflitto può presentarsi nella sua forma mediata, con la politica, o immediata, con la guerra; la
mediazione operata dalla politica tuttavia può spostare e diluire il conflitto, ma non può mai
eliminarlo.
Il conflitto si estende in tutta la fantasmagoria delle sue tonalità, dalla pace - in apparenza – più
serena alla guerra assoluta, senza mai raggiungere però i suoi estremi: la totale assenza di
conflittualità infatti apparterrebbe soltanto ad una mitica “età dell’oro”, e si collocherebbe pertanto
al di fuori della storia; la guerra assoluta di sterminio su scala planetaria invece rappresenterebbe la
fine della storia, non nel senso in cui questa espressione viene usata da Fukujama, ma nel senso che
questa “tragicommedia “ che è la vicenda umana finirebbe per mancanza di attori.
Dall’indagine che seguirà emergerà la dimensione storica e meta-storica del conflitto .
L’obbiettivo dell’analisi svolta fin qui è dimostrare l’inconsistenza dell’opposizione dialettica tra
guerra e politica; al contrario, esse partecipano di una stessa natura.
Nell’ottica in cui ho affrontato il rapporto guerra-politica, continuare a chiedersi quale delle due sia
la continuazione dell’altra – sia da un punto di vista storico che ontologico- rappresenterebbe
soltanto un esercizio speculativo: lungi dall’inseguirsi a vicenda, per dirla con Clausewitz,
rispondono entrambe ad una stessa logica: il conflitto.
Guerra e politica si configurano pertanto come due facce di una stessa medaglia, e questa medaglia
è il conflitto. Come una moneta, possiamo lanciarla in aria, e una volta caduta a terra potrebbe
presentarci la faccia della politica. Potremmo rilanciarla, e questa volta potrebbe presentarci la
faccia della guerra. Potremmo rilanciarla ancora, e constatare che può rimanere addirittura in
equilibrio, come nel caso della strategia della tensione. Ma non potremo mai farne a meno, perché è
con questa moneta che paghiamo il prezzo della storia.
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CAPITOLO II
GUERRA
E MORALE
§ . 1 . L a gu erra t ra gi u st i zi a e opp ort u n i tà.
Due sono, a mio avviso, i criteri con cui il concetto di giustizia può essere messo in rapporto
con la guerra: intrinseco ed estrinseco.
Secondo il criterio intrinseco, i valori di giustizia della guerra vanno cercati nella guerra in
sé; secondo il criterio estrinseco, vanno cercati negli obiettivi che, attraverso la guerra, ci si propone
di conseguire (gli stessi criteri valgono anche per la valutazione dei mezzi che si usano in guerra).
Norberto Bobbio ha proposto una suddivisione simile in relazione alle teorie della giustificazione
delle guerre: le teorie del primo gruppo giustificano tutte le guerre, le teorie del secondo gruppo le
condannano tutte, le teorie del terzo si riservano di esprimere giudizi se non in rapporto alle cause
della guerra. Le prime teorie possono essere definite belliciste, le seconde coincidono con il
pacifismo attivo, le ultime costituiscono la dottrina della guerra giusta50. Stando alla mia
ripartizione, i primi due gruppi di teorie rispondono ad un criterio intrinseco di giustizia, l’ultimo
gruppo ad un criterio estrinseco.
Questa distinzione corrisponde a quella operata da Thomas Nagel tra le categorie utilitariste
e assolutiste: “L’utilitarismo assegna un primato all’interesse per quello che accadrà. L’assolutismo
assegna un primato all’interesse per quello che si fa. Il conflitto tra essi si produce perché le
alternative che affrontiamo sono raramente soltanto scelte tra risultati totali: sono anche scelte tra
linee di condotta o misure alternative da prendere. Quando una delle scelte consiste nel fare cose
terribili a un’altra persona il problema è fondamentalmente alterato; non si tratta più semplicemente
della questione di quale risultato sarebbe peggiore”.51
Queste categorie sono perfettamente applicabili anche alla guerra.
La posizione che Nagel assume nei confronti di queste teorie non è netta, e non è scevra, per sua
stessa ammissione, da una certa ambiguità. Egli si dichiara scettico sulla possibilità di poter
scegliere in maniera univoca quale delle due sposare. Vorrebbe abbracciare la posizione assolutista,
ma avverte subito il rischio di indifendibilità dell’assolutismo di fronte ad alcune situazioni
concrete; pertanto, quella che egli tenta , dell’assolutismo, è una difesa “abbastanza ristretta”52.
50
51
52
Cfr . Norberto Bobbio, Il proble ma della guerra e le vie della pace , Bologna ,
1984, pag. 57.
Cfr . Thom as Nagel, Guerra e massacro, in Questioni mortali, Milano, 1986, p ag.
58
Op.cit., pag. 60.
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Nagel prende spunto dalle circostanze – tragicamente inevitabili, quando non
deliberatamente provocate, nella guerra moderna – in cui rimangono uccisi dei civili, e che egli
definisce, con una formula che oggi riscuote molto successo presso i portavoce militari, “effetti
collaterali”.53
“Sarebbe
anche
possibile
adottare
una
posizione
deontologica
meno
rigorosa
dell’assolutismo, senza cadere nell’utilitarismo. Ci sono due modi in cui qualcuno potrebbe
riconoscere la rilevanza morale della distinzione tra uccisioni deliberate e non deliberate, senza
essere un assolutista. Uno sarebbe quello di considerare l’assassinio come una voce particolarmente
negativa nel catalogo dei mali, molto più negativa di una morte accidentale o di un assassinio non
deliberato. Ma l’altro sarebbe quello di affermare che l’uccisione deliberata di un innocente è
inammissibile a meno che costituisca il solo modo per prevenire qualche male molto grave (per
esempio, la morte di cinquanta persone innocenti). Si denomina questa la soglia a cui la proibizione
contro l’omicidio è superata. La posizione non è assolutista, naturalmente, ma non è neppure
equivalente ad assegnare all’assassinio un disvalore utilitarista eguale al disvalore della soglia”.54
Al di là dei disvalori e delle soglie, quella che Nagel sta qui riproponendo è la vecchia
politica del male minore, contro cui egli stesso si scaglia in questo saggio.
Questa ambiguità emerge anche nell’analisi che egli fa della distinzione tra combattenti e
non combattenti – una distinzione che rivestiva un ruolo fondamentale anche nell’analisi di Schmitt,
come abbiamo visto nel capitolo precedente.
Nagel afferma che in guerra, come in tutti i tipi di competizione, il nemico dovrebbe essere
colpito in maniera diretta e non indiretta; in sostanza, per indebolire il nemico, non è lecito colpire
la popolazione civile e in generale tutte quelle infrastrutture non direttamente riconducibili alla sfera
militare: “Questo modo di guardare il problema ci aiuta anche a capire l’importanza della
distinzione tra combattenti e non combattenti, e l’irrilevanza di gran parte delle critiche rivolte alla
sua incomprensibilità e significatività morale. Secondo una posizione assolutista, l’uccisione
deliberata di innocenti è omicidio, e in guerra il ruolo dell’innocente è ricoperto dai non
combattenti. Si è ritenuto che questo sollevi due tipi di problemi: primo, la difficoltà – che è facile
immaginare – di tracciare una divisione, nel conflitto moderno, tra combattenti e non combattenti;
secondo, problemi che derivano dalla connotazione della parola “innocente” […]. Dobbiamo quindi
distinguere i combattenti dai non combattenti sulla base della loro immediata capacità di minaccia o
nocività. Non sostengo che la linea di demarcazione sia netta, ma non è così difficile, come spesso
si è supposto, collocare individui da una parte o dall’altra. I bambini non sono combattenti anche se
53
54
O p . c i t . , p a g . 6 4 . V a r i c o r d a t o c h e q u e s t o s a g g i o è s t a t o s c r i t t o n e l 1 9 7 1 , i n pi e n a
Gue rra del Vietna m.
Op. cit., pag . 65.
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possono entrare a far parte delle forze armate, se è permesso loro di crescere. Le donne non sono
combattenti proprio perché generano bambini o offrono assistenza ai soldati. Più problematico è il
caso del personale sussidiario, in uniforme e non, dagli autisti di carri di munizioni e cuochi
dell’esercito agli operai civili in fabbriche di munizioni e agli agricoltori. Credo che essi possano
essere plausibilmente classificati applicando la condizione che la prosecuzione del conflitto deve
essere rivolta contro la causa del pericolo, e non contro ciò che è periferico. La minaccia
rappresentata da un esercito e dai suoi membri non consiste semplicemente nel fatto che sono
uomini, ma nel fatto che sono armati e stanno usando le loro armi per perseguire certi obiettivi. I
contributi alle loro armi e alla loro logistica sono contributi a questa minaccia; i contributi alla loro
semplice esistenza in quanto uomini no. È quindi sbagliato rivolgere un attacco contro coloro che
provvedono semplicemente ai bisogni dei combattenti in quanto esseri umani, come gli agricoltori e
coloro che forniscono cibo, anche se la sopravvivenza di un essere umano è una condizione
necessaria del suo efficiente funzionamento di soldato”55.
Si ha l’impressione che quelle che Nagel sta definendo non siano le regole di una guerra ma di una
competizione sportiva. La confusione che egli fa non è tra combattenti e non combattenti, ma tra
guerra e conflittualità ordinaria. Una delle eredità più importanti della teoria di Clausewitz è che il
nemico deve essere colpito “al cuore”, qualunque esso sia: esercito, apparato politico, sistema
finanziario, morale della popolazione. L’unico parametro valido in guerra è la sopravvivenza, che
deriva dalla vittoria. È questo che sostiene Clausewitz quando teorizza l’“impiego assoluto della
forza”: “Essa è accompagnata da restrizioni insignificanti, che meritano appena di essere
menzionate, alle quali si da il nome di diritto delle genti, ma che non hanno capacità di affievolirne
l’energia . . . . Gli spiriti umanitari potrebbero immaginare che esistano metodi tecnici per disarmare
o abbattere l’avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalità autentica dell’arte
militare. Per quanto seducente ne sia l’apparenza, occorre distruggere tale errore poiché, in
questioni così pericolose come la guerra, sono appunto gli errori risultanti da bontà d’animo quelli
maggiormente perniciosi”56.
Sono parole a cui Nagel sembra non essere più sordo quando, in una nota, ammette: “Forse
la tecnologia e l’organizzazione della guerra moderna sono tali da rendere impossibile il conflitto
come una forma accettabile di ostilità interpersonale o anche internazionale. Forse la guerra è
troppo impersonale e su larga scala per quello”57.
Le acrobazie speculative di Nagel hanno una loro validità nella rassicurante tranquillità delle
torri d’avorio accademiche e nell’iperuranio da cui i pacifisti assolutisti sembrano giudicare il
55
56
57
Op. cit., pagg . 72 – 73.
Ka rl von Clause witz, op.cit., pag . 20.
Thom as Nagel, op .cit., pag. 75.
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mondo, ma franano inevitabilmente quando scendono dalla cattedra per misurarsi con la realtà della
guerra. In nessun ambito come nella filosofia della guerra vige il principio: primum vivere, deinde
filosofare. Il suo imbarazzo appare evidente quando afferma: “Non intendo rendere la guerra
romantica. È sufficientemente utopico suggerire che quando nazioni entrano in conflitto possano
elevarsi al livello di barbarie limitata che caratterizza tipicamente un conflitto violento tra individui,
piuttosto che sguazzare nella fossa morale in cui sembrano essersi sistemate, circondate da enormi
arsenali”58.
É un’argomentazione che trovo francamente insufficiente sia nello spessore teorico che nella
sua eventuale realizzazione pratica.
La teoria di Nagel appare ambigua sotto un duplice aspetto: 1) si avvicina per molti versi
alla gesuitica ambiguità della teologia morale cattolica (citata dallo stesso Nagel)59, camaleontica e
manipolabile quanto basta per scagliare l’anatema contro la violenza, quando praticata dai “nemici
della fede”, ma per santificarla quando praticata “nel nome di Dio”; 2) sembra una scappatoia
sofistica per arrivare a giustificare, per altra via, quelle misure violente che l’utilitarismo ammette in
partenza.
L’inconsistenza teorica e l’inapplicabilità pratica delle posizioni assolutistiche, messe a
confronto con quelle utilitaristiche, sono tali da costringere Nagel ad ammetterle esplicitamente:
“L’assolutismo […] opera come una limitazione del ragionamento utilitarista, non come un
sostituto di esso”60.
Non è preferibile allora, a questa “mezza misura”, la meno cerebrale ma più coerente
formulazione di Hobbes, quando risolveva la prima legge di natura nel cercare la pace, e il primo
diritto di natura nel difendersi con tutti i mezzi?61.
In conclusione del saggio Nagel sembra riscoprire che il mondo può “anche essere un posto
cattivo”62, e che vi è una incommensurabilità di fondo tra le teorie morali, e tra la ragione morale e
la realtà . Ma quello che Nagel, dal suo punto di vista, non riesce a vedere, è che questa
incommensurabilità può essere superata se si prendono come parametri non dei valori morali, tanto
nobili quanto opinabili, ma dei valori assoluti (non nell’ottica dell’assolutismo affrontato da Nagel)
antropologico-darwiniani, come la vita, individuale e collettiva, e la sua espressione minimale, che
è la sopravvivenza.
58
59
60
61
62
Op. cit., pag . 75.
Op. cit., pagg . 63 – 64 .
Op. cit., pag . 62.
Thom as Hobbes , op . cit., p ag. 114 .
Thom as Nagel, op . cit., p ag. 77 .
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È singolare che un teorico come Nagel abbracci una causa in maniera così tentennante e,
torno a dirlo, ambigua; proprio su un argomento come questo sarebbe stato auspicabile, da parte sua
più che di chiunque altro, uno sguardo da nessun luogo.
Uno sguardo da nessun luogo, o quanto meno da un luogo “altro” rispetto alle prese di
posizione precedenti, sul rapporto tra guerra e giustizia, è certamente quello di Hobbes, e questo,
per tornare alla distinzione che ho introdotto all’inizio di questo paragrafo, si verifica sia a livello
intrinseco che estrinseco.
Dal punto di vista intrinseco, Hobbes osserva come all’interno della guerra di tutti contro
tutti, nulla possa essere ingiusto: “La nozione del diritto e del torto, della giustizia e dell’ingiustizia
non v’ha luogo. Dove non esiste legge, non esiste ingiustizia. Forza e frode sono in guerra le due
virtù cardinali”63.
Come Hobbes afferma esplicitamente, in guerra il concetto di giustizia non ha diritto di
cittadinanza. Dal momento che la giustizia serve a definire anche ciò che non è conforme ai suoi
parametri, cioè l’ingiustizia, quando tutto diventa giusto, il concetto di giustizia crolla per
“ipertrofia”; unico parametro dell’agire umano, non ha più motivo di essere applicato: in un mondo
in cui tutto è giusto, che bisogno c’è di tribunali? La totale assenza di discriminazione morale porta
alla fine della giustizia: se tutto è giusto, niente è giusto.
Dal punto di vista estrinseco, Hobbes assume quei criteri antropologico-darwiniani, o
“assoluti”, che opponevo poc’anzi allo scetticismo di Nagel, e che abbiamo già incontrato nel
secondo paragrafo del primo capitolo: la guerra è “giusta” nel momento in cui, nella lotta per la
sopravvivenza, garantisce la vita al vincitore; è “ingiusta” nel momento in cui la guerra di tutti
contro tutti mette a repentaglio la vita di ciascuno. Il fattore discriminante nell’attribuzione di valore
morale alla guerra consiste nella sua funzione adattiva.
Lo stesso schema può essere applicato all’analisi che Clausewitz svolge del rapporto guerragiustizia. Dal punto di vista intrinseco, abbiamo già visto come egli non ponga alcun argine
all’impiego della forza; non esistono vincoli morali nelle azioni di guerra. Questa posizione, di
fatto, lo pone molto vicino alla teoria di Hobbes.
Per quanto riguarda il punto di vista estrinseco, dobbiamo recuperare quel fattore che,
insieme alla guerra, rappresenta il cardine della teoria clausewitziana: la politica. Dalla
considerazione che la politica è “l’intelligenza della guerra”, e la guerra è il mezzo per conseguire i
suoi scopi, deriva che non si possono imputare al mezzo le colpe commesse da chi lo utilizza:
“Com’è naturale, si deve partire dal concetto che la politica concentra in sé e persegue tutti gli
interessi di governo, compresi quelli umanitari e in genere tutti quegli altri di cui si possa
63
Thom as Hobbes , op.cit., p agg. 111 – 112.
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razionalmente parlare. Ed in vero la politica altro non è se non una mandataria di questi vari
interessi per i loro rapporti con l’estero. Qui non ci interessa il fatto che essa possa essere male
orientata, che possa servire all’ambizione, agli interessi privati e alla vanità dei governanti, più che
ai veri interessi della nazione; giacchè in nessun caso l’arte di guerra può assumere il compito di
precettore della politica, e nel nostro studio dobbiamo considerare la politica come rappresentante
tutti gli interessi dell’intero organismo sociale […]. Non è questa influenza, bensì la politica stessa,
che bisognerebbe biasimare. Se la politica è sana, se cioè risponde allo scopo, non può agire nel suo
campo che a favore della guerra: e quando la sua influenza allontana la guerra dai suoi obbiettivi, la
ragione sta nell’errata politica seguita”.64 Le argomentazioni di Hobbes, e soprattutto di Clausewitz,
ci permettono di introdurre un concetto che era implicito già nell’analisi della teoria di Nagel: il
concetto di amoralità del mezzo. Un mezzo non ha una connotazione morale, e se proprio si vuole
dargliene una, questa gli deriva dal fine per il conseguimento del quale viene impiegato; il luogo
comune, di falsa attribuzione machiavelliana, secondo cui il fine giustifica i mezzi, ha senso se
viene letto come: è il fine, e solo il fine, che giustifica il mezzo; da che altro un mezzo può trarre la
sua giustificazione, se non dal fine per cui è impiegato?
Da quanto precede si evince la necessità di abbandonare la tradizionale distinzione tra
guerre giuste e guerre ingiuste, per adottare nuovi criteri di valutazioni. La morale, almeno
nell’accezione corrente del termine, non ha diritto di cittadinanza in guerra.
Il criterio emergente è quello dell’opportunità.
Alla consueta opposizione guerre giuste – guerre ingiuste converrà pertanto sostituire l’opposizione
guerre opportune – guerre inopportune.
È questo uno dei cardini della più amorale delle concezioni politiche: il realismo.
Converrà analizzarlo allora anche attraverso le categorie assolutistiche e utilitaristiche
introdotte da Nagel e le risposte che ad esse si possono dare tramite le categorie introdotte da Max
Weber. Vedremo pure, con Weber, se e come, all’interno del realismo, sia possibile un recupero
dell’etica.
§.2
Da l real i sm o al l ’ et i ca. L a g u erra t ra m oral e e pol i t i ca i n Max Weber.
Nelle opere politiche di Max Weber, di cui “La politica come professione” rappresenta forse la
sintesi (e, perché no, la “summa” in cui vengono tratte le principali conclusioni), mi pare di poter
rilevare due fili conduttori, due trame sottese, un massimo comune denominatore, se si preferisce,
su cui Weber sviluppa la dinamica del suo pensiero politico: il Realismo e l’Etica.
64
Ka rl von Clause witz, op.cit., pagg . 813 – 816.
32
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Se rileggiamo le sue opere politiche alla luce di questo binomio arriveremo, come nelle pagine
finali de La politica come professione, a considerare se e come sia possibile che due approcci alla
politica così diversi (non dimentichiamo che il realismo è la concezione politica “amorale” per
antonomasia), due linee così apparentemente parallele, possano trovare un punto di convergenza, in
virtù del quale procedere su una sola nuova strada; arriveremo in sostanza a considerare se, con
Max Weber, si possa cominciare a parlare di una “etica del realismo”, ovvero, di un’autentica “etica
politica”.
Seguiamo la traccia che lo stesso Weber ci suggerisce e cominciamo col considerare che cosa egli
intenda per politica.
Partendo dal teorema di Trockij, secondo cui “ogni stato è fondato sulla forza”, Weber definisce lo
stato come “quella comunità umana che nei limiti di un determinato territorio esige per sé il
monopolio della forza fisica”65.
La politica si configura quindi come aspirazione, o come Weber scriverà altrove, lotta66 per il
potere sia tra i vari stati che tra le classi all’interno di ogni singolo stato.
Come rileva Norberto Bobbio67, Max Weber opera una sintesi tra la concezione dei rapporti di
potenza tra gli stati di Hegel, e quella dei rapporti di forza tra le classi di Marx – sintesi che era già
stata svolta peraltro tre secoli prima di questi due filosofi dal primo grande scienziato della politica,
che è Niccolò Machiavelli68.
Emergono dunque i binomi stato–forza, politica–lotta, sintomi di una conflittualità strutturale nella
storia (di machiavelliana memoria) che sfocia nella Machtpolitik (politica di potenza), di cui Weber
è un strenuo sostenitore.
Raymond Aron, in un suo saggio dedicato a questo tema69, mette in luce, tra gli altri aspetti, la
tensione nazionalistica – legata al periodo storico che stava attraversando la Germania – che
pervade questa concezione politica, quasi ne fosse la causa; sottolinea, in chiave anche polemica, il
65
66
67
68
69
V e d i L a p o l i t i c a c o m e p r o f e s s i o n e i n I l l a v o r o i n t e l l e tt u a l e c o m e p r o f e s s i o n e ,
Einaudi, p ag. 48.
V e d i P a r l a m e n t o e G o v e r n o i n P a r l a m e n t o o G o v e r n o e a l t ri s c r it t i p o l it i c i ,
Einaudi, p ag. 164: “ …tutta la politica è , ne lla sua essenz a, lotta”.
Vedi La teoria dello stato e del potere in Max Weber e l’analisi del mondo
moderno, Einaudi, p agg. 222 – 223.
Ritrovere mo spesso l’influenza del “segret ario fiorentino” sul pensiero di Weber ,
influenza peraltro m ai esplicitamente dichi arata, com e d’abitudine, da Web er (ne
La politica come professione c’è solo un fugace rife rimento al “ machiav ellismo” e
al Principe, che non viene svolto, tuttavia, in maniera critica) , il quale con molta
p a r s i m o n i a c i t a i s u oi r e f e r e n t i t e o r i c i ( b a s ti c o n s i d e r a r e , a p u r o t i t o l o d i e s e m p i o ,
che egli non cita m ai Karl Marx , il quale, i nsieme con i cosiddetti “letterati” – sia
pure con atteggiamento intellettuale compl etamente diverso – è uno dei suoi idoli
polemici).
V e d i M a x W e b e r e l a p o l it i c a d i p o t e n z a i n L e t a p p e d e l p e n s i e r o s o c i o l o g i c o ,
Mondatori pagg. 581 – 595 .
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legame che Weber stabilisce tra cultura e potenza, considerando la seconda come veicolo di
propagazione della prima70; contestualizza la Machtpolitik in una “visione darwiniana-nietzscheana
del mondo”, e a giustificazione di questa riporta quel passo di “Politische Schriften” che risuona
come il decalogo del Machtpolitiker: “non è la pace e la felicità degli uomini che dobbiamo
procurare ai nostri discendenti ma la lotta eterna per conservare ed edificare il nostro carattere
nazionale […]. I nostri discendenti, davanti alla storia, non ci renderanno responsabili in primo
luogo del genere di organizzazione economica che gli avremo lasciato in eredità, ma dell’estensione
di spazio libero che gli avremo conquistato e trasmesso. In ultima analisi, i processi di sviluppo
sono anch’essi lotte per la potenza […]. Così la ragion di stato per noi è la misura ultima dei valori,
anche nella sfera delle considerazioni economiche”. Mai del realismo politico è stata fatta una
sintesi così perfetta; Max Weber travalica i limiti della politica, per conferire ad essa una
connotazione antropologica.
Nella dinamica della formazione dello stato moderno assistiamo ad un “processo di espropriazione
politica” tale che i rappresentanti dei “ceti” (sorta di caste amministrative di notabili da cui il
sovrano spesso dipende) vengono delegittimati dall’amministrare il potere a vantaggio di un capo71.
È durante, e in virtù, di questo processo che comincia ad emergere la figura del “politico di
professione”.
L’analisi che Weber compie di questa nuova “categoria professionale” la ritroviamo in quasi tutte le
sue opere politiche: da Diritto elettorale e democrazia a Parlamento e Governo a La politica come
professione.
Si può vivere “di” politica o “per” la politica; sebbene le due cose spesso coincidano, da questa
dicotomia derivano due diverse tipologie di professionisti: chi vive “di” politica dipende
economicamente da questa attività – il funzionario o burocrate di partito; chi vive “per” la politica
trae i suoi proventi da altre attività – da quest’ultima categoria emerge in genere il capo, il leader
carismatico, il demagogo – termine privato, da Weber, dell’accezione negativa con cui noi oggi,
comunemente, lo usiamo.
70
71
M e è v e r o a n c h e i l c o n t r a r i o , v e d i i l r u o lo s v o l t o d a l l a C o c a - C o l a e d a l f a s t f o o d
di Mc Don ald’s nel processo di americ anizzazione del mondo, eufe misticam ente
d e f i n i t o “ g l o b a l i z z a zi o n e ” .
Non si può non pensare a questo proposito, alla figura del Principe popolare di
Machiav elli, che fonda il suo potere sul popolo a discapito dell’aristocrazia, vedi
i n p r o p o s it o L a p o l i t i c a c o m e p r o f e s s io n e i n I l l a v o r o in t e l l e t t u a l e c o m e
professione, Einaudi, pagg. 53 – 54 .
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Ma che cos’è che fa del demagogo weberiano un capo politico e non un semplice trascina-popolo
ambizioso e assetato di potere? Risponde Max Weber: la dedizione a una “causa” intesa come etica
politica72.
Ci troviamo dunque ad affrontare il secondo dei due assi portanti su cui si regge, come si era detto
in apertura di questo paragrafo, l’intera costruzione teorico-politica di Max Weber: l’etica. In
particolare, questa tematica va ben al di là della sua concezione politica, per costituire il leit motiv
della sua intera produzione intellettuale.
Weber avverte immediatamente il rischio di ambiguità che grava sulla nozione di “ethos della
politica in quanto "causa” (Sache)”, e sente la necessità di fare chiarezza. Non è un caso che usi,
come argomento chiarificatore, proprio la guerra, fenomeno che, per il suo brutale minimalismo,
ben si presta come strumento per sgombrare il campo da orpelli sovrastrutturali e, più spesso, da
giustificazioni ipocrite.
“Sgombriamo innanzitutto il terreno da una deformazione di bassa lega. L’etica può cioè assumere
in primo luogo un ufficio che moralmente è deleterio al massimo grado. Facciamo qualche esempio.
È raro che un uomo il quale si stacchi da una donna per essersi innamorato di un’altra, non senta il
bisogno di giustificarsi davanti a se stesso col dire che la prima non era più degna del suo amore o
che lo aveva ingannato, o adducendo altri “motivi” del genere. Si tratta di una scortesia con cui si
cerca di dare una indoratura di “leggittimità” al semplice fatto ineluttabile che non si ama più e che
la donna deve sopportarne le conseguenze, cosicché si accampa pure un diritto, e, oltre all’infelicità,
si cerca di addossare alla donna anche un torto. In modo identico si comporta il concorrente
fortunato in amore: il rivale deve per forza valere di meno, altrimenti non sarebbe rimasto
soccombente. Ma si ha lo stesso genere di evidenza quando, dopo una qualsiasi guerra vittoriosa, il
vincitore proclama con tracotanza priva di ogni dignità: “Ho vinto perché avevo ragione”. Oppure
quando l’animo viene meno di fronte agli orrori della guerra e invece di dire francamente: “Era
troppo”, si sente il bisogno di giustificare davanti ai propri occhi la stanchezza della guerra,
sostituendovi questo sentimento: “Non potevo sopportarlo, perché dovevo combattere per una causa
immorale”. E così pure nel caso dei vinti. Dopo una guerra, anziché andare in cerca del “colpevole”,
con mentalità da donnicciole – laddove è stata la struttura della società a determinare la guerra -, un
atteggiamento virile e austero detta queste parole: “Abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta.
Questa è cosa fatta: parliamo ora di quali conseguenze bisogna trarne in relazione agli interessi
concreti che erano in gioco, e – questo è l’essenziale – in vista della responsabilità di fronte
all’avvenire, la quale grava specialmente sul vincitore”. Tutto il resto manca di dignità e si sconta
più tardi. Una nazione perdona una lesione dei propri interessi, non l’offesa al proprio onore, meno
72
V e d i L a p o l i t i c a c o m e p r o f e s s i o n e i n I l l a v o r o i n t e l l e tt u a l e c o m e p r o f e s s i o n e ,
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che mai quando questa è perpetrata con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla
luce dopo decenni attizza nuovamente l’indegno accanimento, l’odio e lo sdegno, mentre la guerra,
una volta finita, dovrebbe esser sepolta almeno sul piano morale. Ciò è possibile solo mediante
l’oggettività e la cavalleria, ma soprattutto mediante la dignità. Non mai mediante una “etica”, la
quale in realtà significa mancanza di dignità da ambo le parti. Invece di preoccuparsi di quel che
deve interessare l’uomo politico, ossia il futuro e le possibilità di fronte ad esso, quella persegue la
questione – politicamente sterile perché insolubile – della colpa commessa nel passato. Se mai ve
n’è una, questa è colpa politica73. E inoltre l’inevitabile travisamento dell’intero problema viene
occultato da interessi crudamente materiali: gli interessi del vincitore a trarre il massimo guadagno
– morale e materiale -, le speranze del vinto di ricavar qualche vantaggio riconoscendo la propria
colpa; se vi è qualcosa di “abietto”, è appunto questo, ed è la conseguenza di quel modo di valersi
dell’“etica” come mezzo per la “soperchieria”74.
L’analisi del tema, che conclude La politica come professione, prende le mosse dalla distinzione tra
due tipi di etica: “l’etica della convinzione”, e “l’etica della responsabilità”. L’etica della
convinzione, o etica assoluta, tipica della religione cattolica, considera la moralità di un’azione “di
per sé”, senza considerare cioè, il contesto in cui essa si svolge e soprattutto le conseguenze che da
essa derivano; come afferma Weber: “il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di
Dio”. L’etica della responsabilità, o etica delle conseguenze, valuta la moralità di un’azione in
relazione alle conseguenze che da essa derivano e al grado di responsabilità che l’agente si assume
di fronte ad esse.
Qual è l’etica da adottare in politica?
Seguiamo ancora l’argomentazione di Weber. “[…] l’etica assoluta del Vangelo. Un’etica della
mancanza di dignità – a meno che non si tratti di un santo solo allora quell’etica ha un senso e una
dignità. Altrimenti no. Infatti, laddove in conseguenza dell’etica dell’amore si comanda: “Non
resistere al male con la violenza”, il precetto che vale viceversa per il politico è il seguente: “devi
resistere al male con la violenza, altrimenti sarai responsabile se esso prevale” […]. Il pacifista che
agisca secondo il Vangelo rifiuterà di prendere le armi oppure le getterà via, come veniva
raccomandato in Germania, ritenendolo un dovere morale, allo scopo di por fine alla guerra e con
ciò a ogni guerra. Il politico dirà: “L’unico mezzo sicuro per screditare la guerra per un avvenire
entro i limiti delle nostre previsioni, sarebbe stata una pace di statu quo”. I popoli infatti si
73
74
Einaudi, p ag. 104.
È l’enn esima conferma – come se ce ne fosse bisogno - della straordinaria abilità
della politica di “scaricare” la responsabilità dei propri fallimenti su altre
discipline: in questo caso sull’etica, in precedenz a, come denunciava Clause witz ,
sulla guerra. Vedi in proposito il primo par agrafo d el primo c apitolo [Nd R].
Op. cit., pagg . 104, 105, 106 .
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sarebbero chiesti: a che scopo questa guerra? Essa sarebbe stata ridotta ad absurdum: cosa che ora
non è più possibile. Infatti, per i vincitori – o almeno per una parte di essi – la guerra è stata
politicamente proficua. E di ciò è responsabile quell’atteggiamento che ci ha reso impossibile ogni
resistenza. Ma allora – quando sarà passata l’epoca dell’avvilimento – non la guerra, bensì la pace
sarà discreditata: conseguenza, questa, dell’etica assoluta […]. Ma nemmeno con ciò il problema è
esaurito. Nessuna etica del mondo può prescindere dal fatto che il raggiungimento di fini “buoni” è
il più delle volte accompagnato dall’uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi e dalla
possibilità o anche dalla probabilità del concorso di altre conseguenze cattive, e nessuna etica può
determinare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono “giustifichi” i mezzi e le altre
conseguenze moralmente pericolose […]. Per la politica, il mezzo decisivo è la forza […]. Qui, su
questo problema della giustificazione dei mezzi mediante il fine, anche l’etica della convinzione in
genere sembra destinata a fallire. E in effetti essa non ha logicamente altra via che quella di rifiutare
ogni azione che operi con mezzi pericolosi dal punto di vista etico. Logicamente. Senza dubbio, nel
mondo della realtà noi facciamo continuamente l’esperienza che il fautore dell’etica della
convinzione si trasforma improvvisamente nel profeta chiliastico, e che per esempio coloro i quali
hanno testè predicato di opporre “l’amore alla forza”, un istante dopo fanno appello alla forza – alla
forza ultima, la quale dovrebbe portare all’abolizione di ogni possibile forza, così come i nostri capi
militari ad ogni nuova offensiva dicevano ai soldati: “Questa è l’ultima, ci porterà alla vittoria e
quindi alla pace”. Chi segue l’etica della convinzione non sopporta l’irrazionalismo etico del
mondo. Egli è un “razionalista” cosmico-etico. Chiunque di voi conosca Dostoevskij ricorderà
l’episodio del Grande Inquisitore dove il problema è discusso con estrema acutezza. Non è possibile
ridurre a un comune denominatore l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità, o
decretare, sul piano morale, quale fine debba giustificare quel determinato mezzo, quando si sia
fatta qualche concessione in generale a tale principio […]. È il mezzo specifico della violenza
legittima, semplicemente, come tale, messo a disposizione delle associazioni umane, quello che
determina la particolarità di ogni problema etico della politica […]. Chiunque scenda a parti con
tale mezzo, per qualsiasi fine – e nessun politico può farne a meno – si espone alle specifiche
conseguenze che ne derivano. Ciò vale in modo particolare per chi combatta per una fede, tanto
religiosa quanto rivoluzionaria […]. Chi voglia occuparsi di politica in generale, ma specialmente il
politico di professione, deve esser consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità
di fronte a ciò che egli può divenire per effetto di quelli […]. Invero, la politica si fa con il cervello
ma non con esso solamente. In ciò l’etica della convinzione ha pienamente ragione. Ma se si debba
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seguire l’etica della convinzione o quella della responsabilità, e quando l’una o quando l’altra,
nessuno è in grado di determinarlo”75.
Come si vede, anche questa volta Max Weber si trova di fronte ad una scelta tra due opzioni
antitetiche, e neanche questa volta si astiene dal tentare una difficile congiunzione. E in effetti
questo problema è antico come la filosofia politica; emerso in tutta la sua drammaticità nell’opera di
Machiavelli, nonostante i tentativi di risoluzione da parte di quest’ultimo, il risultato era rimasto il
medesimo: la assoluta incommensurabilità tra azione etica e azione politica; chiunque intraprenda la
strada della politica per percorrerla fino in fondo, deve sacrificare l’etica (intesa come ethos
morale); con le parole di Weber: “chi si immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della
violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto
il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo
capisce, in politica non è che un fanciullo”76. Appare evidente da queste parole per quale delle due
etiche Max Weber propenda, e appare anche evidente come il pensiero di Machiavelli sia quanto
mai presente nelle sue argomentazioni. Anche per Weber lo strumento, il mezzo per eccellenza
della politica è la forza, e alla luce di questo teorema si capisce come l’interpretazione gesuitica del
pensiero di Machiavelli, sintetizzata nel luogo comune: il fine giustifica i mezzi, si risolva nel più
laico e razionale: il fine necessita di determinati mezzi, e si capisce anche come Weber non possa
non fare sua la conclusione a cui giunge il segretario fiorentino. Per entrambi, l’uomo (politico in
particolare) non fa il male perché cattivo, ma perché, costretto dalla realtà e dalla storia, non può
non farlo.
Anche le invettive di Weber contro quei “modelli di carità e bontà […] nati a Nazareth o ad Assisi”
che “hanno operato in questo mondo” pur mantenendo un’ottica ultramondana, ricordano fin troppo
esplicitamente gli strali lanciati da Machiavelli contro quegli utopisti (“letterati” avrebbe detto forse
Weber) che non riescono a distinguere il mondo come è da come vorrebbero che fosse.
L’utilizzo della forza per il raggiungimento di un obiettivo e il patto con le potenze demoniache che
da esso deriva sono dunque una condizione imprescindibile per l’uomo politico; ed è alla luce di
queste considerazioni che torniamo ad allacciarci al tema del realismo e della potenza che avevamo
considerato nelle prime pagine. Per Weber, come per Machiavelli, la priorità assoluta è la
sopravvivenza dello stato; la potenza dello stato è la conditio sine qua non perché questa necessità
venga soddisfatta. È in questa ottica che si comprende come questi due teorici prediligano lo stato
repubblicano: non perché esso sia moralmente più giusto, ma perché politicamente più potente77.
75
76
77
Op. cit., pagg . 107-118
Op. cit., pagg . 112-113.
C o n s e n t e i n f a t t i u n a m i g l i o r s e l e z i o n e d ei c a p i . A q u e s t o p r o p o s i t o W e b e r , i n
Parlamento e Go verno, cita l’ esempio d el sistema pa rlam entare inglese, che h a
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Se assumiamo che Weber, teorizzando l’etica delle conseguenze, abbia conferito una dignità morale
all’ethos politico, inteso laicamente fin’ora come comportamento governato da regole volto al
conseguimento di un determinato scopo, forse non è azzardato sostenere che ciò che non era riuscito
a Machiavelli, forse è riuscito a Weber; ovvero, non più una semplice spiegazione razionale, ma una
giustificazione morale del realismo politico, e quindi, una ricucitura di quei due elementi, etica e
politica, la cui incommensurabilità sembrava oramai un dato acquisito.
“Pertanto l’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono assolutamente antitetiche
ma si completano a vicenda e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la
“vocazione alla politica” (Beruf zur Politik)”78.
Al di là dei successi reali o presunti, e soprattutto dei luoghi comuni, resta la forte tensione morale
che costituisce un denominatore comune tra questi due politologi.
Il parallelo tra Machiavelli e Weber, su cui ho impostato l’analisi della concezione weberiana
dell’etica, potrà forse apparire arbitrario, ma mi è sembrato una buona chiave di lettura per
interpretare più a fondo il pensiero di Weber ed inserirlo nella tradizione filosofico-politica che lo
ha preceduto. Va considerato, peraltro, che la incommensurabilità sostenuta da Machiavelli tra etica
e politica, gli consente di portare le sue posizioni fino alle estreme conseguenze; in relazione alla
forza, per esempio, all’utilizzo della quale, secondo Machiavelli, non c’è limite. Marx Weber, per
conto suo, con il tentativo di coniugare la prediletta etica della responsabilità con una, per la verità,
piccola dose di etica della convinzione, non vuole e non può spingere la sua teorizzazione fino ai
limiti, tanto esasperati quanto lucidi e razionali, raggiunti dal segretario fiorentino.
Alla luce di queste considerazioni, e in virtù della valenza oserei dire epistemologica che Weber
attribuisce all’etica non solo per quanto riguarda il discorso politico, ma l’intera sua concezione
scientifica, non mi sembra azzardato invertire i termini del titolo di questo paragrafo per ottenere
quindi: “dall’etica al realismo”.
78
c o n s e n t i t o l a s e l e z i o n e d i c a p i p o l i t i c i t a li d a s o g g i o g a r e u n q u a r t o d e l m o n d o
sotto il dominio inglese, vedi pag. 120.
Op. cit., pag . 119.
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PARTE SECONDA
TEORIA GENERALE DELLA GUERRA.
UN APPROCCIO EPISTEMOLOGICO
HOMO PUGNANS
40
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C APITOLO I
TRA
FILOSOFIA E SCIENZA:
VERSO UN’EPISTEMOLOGIA DELLA GUERRA.
La continuità e la compenetrazione ontologica tra guerra e politica potrebbero indurci a riconoscere
una continuità e una compenetrazione epistemologica tra i due più importanti approcci conoscitivi
alla politica, che – in virtù della consustanzialità che lega la politica alla guerra – potrebbero essere
trasferite a quest’ultima. In altri termini: se della politica sono possibili analisi non solo filosofiche,
ma anche ideologiche, lo stesso si potrebbe dire della guerra. Ma in che termini si potrebbe parlare
di ideologia della guerra?
Torniamo alla politica. La filosofia della politica è una riflessione “esterna” alla politica, ovvero è
una riflessione “sulla” politica, che non si confonde con il suo oggetto di indagine. L’ideologia
politica, al contrario, è una riflessione sulla politica, “interna” alla politica stessa; essa è sia
strumento di indagine che oggetto di indagine – da parte della filosofia politica, ad esempio.
Se è vero, come è vero, che l’elemento cardine della politica è il potere, il rapporto che l’ideologia
stabilisce con esso è di critica, e non di analisi, come farebbe invece la filosofia. Questo perché
l’ideologia si configura come garanzia teorica, e giustificazione pratica, del potere nelle mani di una
categoria, di una classe o di un partito; in una parola, nelle mani di un gruppo a scapito degli altri
gruppi.
Ma, come Machiavelli insegna, e come la storia dimostra, il potere è a-ideologico, nel senso che ha
le sue regole e le sue procedure, le sue strutture e le sue dinamiche, al di là della fazione che lo
gestisce; questo si nota soprattutto nell’infinità di casi – sia di politica interna, sia, soprattutto, di
politica estera – in cui governi ideologicamente opposti adottano una politica assolutamente
identica.
Date le carenze epistemologiche dell’ideologia79, e il rischio, che una ideologia della guerra
presenta, di degenerare in una mistica della guerra – riconducendoci nell’ambito della morale -,
converrà adottare, per il nostro oggetto d’indagine, uno strumento a-ideologico, quale la filosofia
certamente è.
79
Questo non implica l’assoluta inadeguatezza dell’ideologia. Di fatto, alcun e
ideologie hanno elaborato strumenti di indagine straordinari ai fini di una
comprensione ogg ettiva della politica.
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Anche dalla natura della guerra emerge il potere come elemento costitutivo: sia nella sua forma
intrinseca, come potere nella guerra (che si svolge all’interno della guerra), sia nella sua forma
estrinseca, come potere della guerra (che si esercita tramite la guerra).
Come dovrà essere una teoria della conoscenza della guerra che tenga conto di questo fattore? La
risposta ci viene da Clausewitz: il potere è insito nella teoria stessa.
La conoscenza di cui un comandante militare deve disporre non può essere meramente dottrinale;
deve essere una conoscenza capace di guidare la sua azione in maniera opportuna ed efficace tanto
sul campo di battaglia quanto sull’intero teatro di guerra: “Il sapere, assimilato intimamente in tal
modo col proprio spirito e con la passione, deve trasformarsi in un vero potere. Ecco perché i capi
illustri sembrano agire in guerra con tanta facilità, ed ecco anche perché si è sempre attribuito
questo fatto al talento naturale: diciamo talento naturale per distinguerlo da quello acquisito in
seguito alla meditazione ed allo studio”80.
Ma “sapere è qualcosa di diverso da potere”81. È a questo punto che Clausewitz introduce il
celeberrimo dilemma tra due criteri gnoseologici applicabili alla guerra, associabili rispettivamente
ai concetti di potere e di sapere: “arte della guerra o scienza della guerra?” Bisognerà “…dare il
nome di arte a ciò che mira a produrre il potere creativo, ad esempio l’architettura. Si chiamerà
invece scienza ciò che ha per iscopo la pura conoscenza, il puro sapere, come la matematica e
l’astronomia”82.
Quella che Clausewitz sta riproponendo in termini attuali è l’antica distinzione operata dagli antichi
greci in ambito gnoseologico, tra techne e episteme: episteme è un sapere squisitamente speculativo,
scevro da qualsiasi implicazione di carattere pratico – è un sapere per sapere; techne è un sapere
pratico, orientato a fini concreti – è un sapere per potere.
In quest’ottica, la teoria della conoscenza della guerra si configura come il punto di convergenza tra
arte e scienza; un po’ come l’ingegneria, che certamente si rifà a strumenti e finalità pratiche, ma
non può prescindere dalla conoscenza astratta della matematica. È a questo che sembra alludere
Clausewitz quando afferma che: “[…] l’arte e la scienza non possono mai esattamente venir distinte
fra loro”83.
Ma c’è un dato che fa pendere l’ago della bilancia a favore di una di queste due categorie, e che
Clausewitz descrive con parole di un’attualità tale da anticipare le recenti ricerche sulla percezione
e sulla Filosofia della Mente: “Ogni pensiero solo è già arte. Al punto in cui cessano gli assiomi che
sono il risultato dell’evidenza, là ove comincia un giudizio, comincia anche l’arte. Più ancora
l’evidenza stessa suppone già un giudizio e quindi l’arte e altrettanto può dirsi delle percezioni dei
80
81
82
Ka rl von Clause witz, op. cit., p ag. 127.
Op. cit., pag . 128.
Op. cit., pag . 128.
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sensi […] dovunque lo scopo è creare e produrre, è l’arte che regna, mentre la scienza domina
quando lo scopo è scrutare e sapere. Risulta di fatto ciò che è preferibile dire arte, piuttosto che
scienza, della guerra”84.
Questo sembrerebbe sciogliere il dilemma, ma a questo punto Clausewitz compie una mossa a
sorpresa, affermando che “la guerra non è né un’arte né una scienza, nel vero senso delle due
espressioni”85. La spiegazione non tarda ad arrivare. A differenza delle scienze esatte e delle arti,
che hanno il loro oggetto nella “materia inerte […] la guerra agisce invece sopra un oggetto vivente
e reagente. È facile quindi vedere come lo schematismo di idee proprio delle arti e delle scienze si
applichi poco ad un’attività del genere, e si comprende anche perché le ricerche ed i tentativi
continui per giungere a leggi analoghe a quelle che si riferiscono al mondo dei corpi inerti, abbiano
dovuto necessariamente produrre errori durevoli. Tuttavia sono precisamente le arti meccaniche
quelle che si sono volute, di solito, prendere a modello”86.
Anche in questo caso, non si può non notare la straordinaria capacità, da parte di Clausewitz, di
anticipare dei temi che costituiscono il fulcro della speculazione epistemologica contemporanea,
come lo scetticismo, espresso da vari orientamenti filosofico-scientifici, riguardo la possibilità di
applicare alle scienze storico-sociali i metodi delle scienze esatte.
L’elemento che induce Clausewitz ad abbandonare le categorie di arte e scienza, per inquadrare la
guerra sotto un’altra prospettiva, è il risultato dell’analisi svolta nel primo capitolo di questo lavoro:
il conflitto. È in virtù del conflitto che: “[…] la guerra non appartiene né al dominio dell’arte né a
quello della scienza, ma al dominio della vita sociale. È un conflitto di grandi interessi, che ha una
soluzione sanguinosa, e solamente in questo differisce dagli altri. Si potrebbe piuttosto paragonarla
al commercio che a qualsiasi altra arte, poiché il commercio è anch’esso un conflitto di interessi e
attività: e alla guerra si accosta ancor più la politica, che può anch’essa, a sua volta, considerarsi
come un commercio in grande scala”87. Come è inevitabile in un simile contesto, Clausewitz non
può non recuperare l’altra colonna portante della sua teoria, la politica, che, rispetto alla guerra,
come si è visto in precedenza, rappresenta l’altra faccia di questo Giano bifronte che è il conflitto.
C’è tuttavia un equivoco che, a mio avviso, merita di essere rilevato. Se all’inizio Clausewitz
parlava della guerra come “oggetto” di indagine – arte “della” guerra, scienza “della” guerra – man
mano che sviluppa la sua analisi considera la guerra come “soggetto” di indagine – la guerra
“come” arte o “come” scienza. Questo scivolamento dal piano epistemologico al piano ontologico è
sancito dalla definizione della guerra in termini di commercio e di politica. Non conosco il tedesco
83
84
85
86
87
Op.
Op.
Op.
Op.
Op.
cit.,
cit.,
cit.,
cit.,
cit.,
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
129.
129.
129.
130.
130.
43
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(la lingua madre di Clausewitz), e non posso dire pertanto se questo equivoco affondi le sue radici
in un’ambiguità di carattere linguistico; in italiano, ad esempio, vi sono termini, come politica, che
si prestano a più interpretazioni: si può parlare della politica come scienza, e si può parlare della
politica concreta, che è oggetto di indagine scientifica; non a caso è stato introdotto il termine
politologia. In questo caso Clausewitz sembra confondere la guerra con la polemologia.
Ma anche stavolta è il concetto di conflitto che permette a Clausewitz di individuare l’ottica giusta
per mettere a fuoco il problema: “Un conflitto fra forze viventi, come quello che nasce e si risolve
nella guerra, può restare subordinato a leggi generali, e queste leggi possono servire di guida
all’azione? Tale è il quesito che esamineremo in parte nel presente libro. In ogni caso però è chiaro
che questa materia, come tutte quelle che non oltrepassano la nostra facoltà di concezione, può
essere illuminata dalle ricerche dello spirito e più o meno discriminata nei suoi intimi rapporti; il
che basta già per costituire fondamento di una teoria”88.
Come appare evidente l’analisi di Clausewitz si pone su un duplice livello: da un lato, indagare i
principi generali della guerra; dall’altro, formulare una teoria della conoscenza che permetta di
scoprire questi principi. E questo è ciò che si è soliti definire epistemologia.
88
Op. cit., pagg . 130-131.
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CAPITOLO II
L INEAMENTI DI EPISTEM OLOGI A
DELLA GUERRA
§ . 1 . Assiomatica della guerra: Jomi ni.
Non appena si affronta la riflessione teorica sulla guerra, ci si rende subito conto che essa è
attraversata dalla stessa dialettica che, dai presocratici ai giorni nostri, anima le dispute filosofiche e
scientifiche: l’opposizione tra il razionalismo e l’empirismo.
Nonostante non sia stata definita, a tutt’oggi, una epistemologia della guerra, non di meno queste
due grandi scuole di pensiero sono rappresentate da due “campioni”, che, tra l’altro, hanno avuto
modo di polemizzare direttamente, dal momento che erano contemporanei: Clausewitz e Jomini.
Li abbiamo già incontrati entrambi, ma poiché a Jomini è stato dedicato solo poco più di un
accenno, cominceremo con lui l’analisi della riflessione epistemologica sulla guerra.
Spesso, per definire la guerra, è stata utilizzata la metafora del gioco. Se dobbiamo scegliere un
gioco tramite il quale definire la concezione della guerra di Jomini, questo è senz’altro il gioco degli
scacchi89.
Si può parlare, per Jomini, di vero e proprio platonismo. Sotto il caos della realtà fenomenica,
esistono verità eterne e immutabili. L’arte della guerra non può fare eccezione: “anch’essa si basa
su principi eterni e immutabili, validi per Cesare come per Napoleone”.
Due sono i principi fondamentali su cui Jomini basa la sua teoria: 1) concentrare l’attacco sul punto
decisivo; 2) manovrare per linee interne. Il punto decisivo è quello che una volta attaccato,
conquistato o distrutto, mette in ginocchio l’avversario. Manovrare per linee interne significa
spezzare la compattezza dell’esercito nemico, e – mantenendo unito il proprio – muovere
all’”interno” dei suoi reparti divisi, sconfiggendoli separatamente.
Questi principi rappresentano una prassi ampiamente condivisa nella condotta bellica di fine ‘700
inizio ‘800; la novità di Jomini sta nell’averli formalizzati e codificati.
89
Non esiste an cora un a traduzione italiana delle opere di Jomini. Per una an alisi
d e l l e s u e t e o r i e , s i pu ò f a r e r i f e r i m e n t o a l l ’ o t t i m o s a g g i o d i J o h n S h y : J o m i n i , i n
Guerra e strategia nell’età conte mporanea, Genova, 1992.
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Ma la frattura che la teoria di Jomini rappresenta nei confronti delle concezioni che l’hanno
preceduta consiste nel fatto che la teoria è basata non su sistemi ma su principi: a differenza dei
sistemi, matematicamente infallibili, i principi si applicano in conformità con il mutare delle
condizioni per orientare la condotta della guerra alla vittoria. Ma attenzione: ciò che muta è
l’applicazione dei principi, non la loro natura.
Nella a-storicità della sua concezione, i condizionamenti sociali, politici e culturali della guerra
sono assolutamente irrilevanti di fronte all’immutabile verità dei principi.
Da questo deriva il carattere eminentemente normativo e precettistico della sua teoria.
La teoria di Jomini sembra avere dunque tutte le carte in regola per potersi presentare come una
assiomatica della guerra, e il successo immediato che riscuote nel contesto politico-culturale in cui
vede la luce è spiegabile a partire da un duplice ordine di motivi: 1) da un punto di vista storicopolitico, da un lato fornisce la “copertura” teorica all’insofferenza dei militari nei confronti del
controllo politico (come ho già avuto modo di sottolineare nel primo capitolo), dall’altro, con la sua
esaltazione dell’elemento tecnico e il misconoscimento del condizionamento storico, spezza il nesso
causale che lega le folgoranti campagne napoleoniche alla Rivoluzione Francese, tranquillizzando
così i governi conservatori europei all’indomani del Congresso di Vienna; in sostanza, Napoleone
ha costruito le sue vittorie non sull’eredità della Rivoluzione – come la necessità di diffondersi e
affermarsi anche fuori dai confini francesi, e la coscrizione obbligatoria, la leva in massa – ma sulla
migliore conoscenza e applicazione dei principi scientifici della guerra. 2) Da un punto di vista
culturale, la sua formulazione dei principi della guerra va in contro all’esigenza comune a tutti i
campi del sapere dell’epoca: trasformarsi in scienza.
Tuttavia, con il passare del tempo, le voci critiche, che già si erano levate immediatamente dopo la
pubblicazione delle sue opere, si fanno sempre più forti e si raccolgono in un’unica accusa corale:
riduzionismo. Ma, come rileva giustamente Shy, questa sarebbe suonata alle orecchie di Jomini
come un complimento: la conferma di essere riuscito nel suo intento.
A mio avviso, la critica che può essere rivolta a Jomini “dall’interno” della sua stessa teoria non è di
essere stato un riduzionista, ma di non esserlo stato fino in fondo. È quello che io chiamo
riduttivismo; nel processo di astrazione che, dalla molteplicità dei dati fenomenici, conduce ai
principi assoluti, Jomini si è fermato a metà strada: egli ha isolato dei principi anche validi a un
medio livello di astrazione, ma li ha elevati al rango di verità assolute. Manovrare per linee interne
può funzionare se si dispone di una logistica e di una mobilità pari a quelle degli eserciti
napoleonici, altrimenti può trasformarsi in un’impresa suicida.
Oggi sono pochissimi i teorici militari che affermano di riconoscersi nella concezioni di Jomini;
eppure egli ha lasciato una eredità “latente”, che continua a far sentire la sua influenza in settori
importanti della teoria della guerra: con tutte le distinzioni che il caso impone di fare, la teoria dei
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giochi e delle decisioni, che rappresenta la madre di tutti i modelli di guerra simulata che affollano i
computers della N.A.T.O., è perfettamente inquadrabile in un’ottica jominiana: prescindendo da
tutte le contingenze di carattere storico-culturale, considera davvero la guerra come una partita a
scacchi.
Pur non condividendo le conclusioni delle analisi di Jomini, non mi sento di unirmi al coro dei suoi
detrattori. Credo piuttosto che la sua teoria sia da apprezzare più per le intenzioni che per i risultati.
§.2. Empirismo razionalistico: Cla usewitz.
Se la teoria di Jomini si può facilmente ascrivere alla scuola razionalistica, la teoria di Clausewitz
presenta contorni più sfumati. Nel corso dell’intera opera egli oscilla costantemente tra empirismo e
razionalismo, al punto che potremmo definire la sua teoria come un empirismo razionalistico.
Clausewitz critica apertamente i sostenitori della priorità dell’elemento geometrico, che riducono le
operazioni belliche a una serie di relazioni matematiche, come von Bülow, e i sostenitori del
platonismo che riducono la guerra a una manciata di principi, come Jomini; e tuttavia apre il suo
libro definendo quello che, a tutti gli effetti, è un sistema assiomatico:
”La difesa è l’arma più forte, accompagnata da uno scopo negativo; l’attacco è la più debole, e
corrisponde a uno scopo positivo.”
“I grandi risultati si traggono dietro i piccoli; e gli effetti strategici possono quindi già cogliersi
intorno a determinati centri di gravità.”
[…]
“La vittoria non consiste esclusivamente nella conquista del campo di battaglia, ma nella
distruzione materiale e morale delle forze combattenti; e questa distruzione non si ottiene
generalmente che per mezzo dell’inseguimento susseguente alla battaglia vinta.”
[…]
“Ogni attacco si indebolisce durante il suo progresso”90.
Questa ambiguità può essere in parte spiegata dal fatto che Clausewitz affronta la guerra con un
approccio che richiama, per molti versi, l’analisi del linguaggio teorizzata da Ferdinand de
Saussoure: la sua indagine si svolge su un piano diacronico, sincronico, e addirittura pancronico.
L’esempio che solitamente si usa per rappresentare l’applicazione della struttura trialica
saussouriana è il gioco degli scacchi – che è poi la metafora che definisce la guerra per Jomini:
infatti, in una partita a scacchi, il punto di vista diacronico ci mostra l’evolversi della partita nel
90
Ka rl von Clause witz, op. cit., p ag. 12-13.
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corso del tempo; il punto di vista sincronico ci mostra le opzioni possibili in qualsiasi momento
della partita; il punto di vista pancronico ci mostra le regole del gioco.
Con Clausewitz, però, gli scacchi devono cedere il posto ad un’altra metafora ludica, perché il
mondo in cui la guerra si sviluppa “…fa sì che, di tutti i rami dell’attività umana, la guerra sia
quello che più rassomiglia a una partita con le carte da gioco”91.
La polemica di Clausewitz con le posizioni razionalistiche verte su due punti: 1) il calcolo
geometrico è applicabile a “grandezze determinate, mentre in guerra tutto è indeterminato, e il
calcolo non può esercitarsi su grandezze variabili…tutto l’atto di guerra è solcato da forze e da
effetti di origine morale”92; 2) l’imprevedibilità del “genio guerriero” non è riconducibile a una
formula astratta: non è il genio che deve rispettare la teoria, ma è la teoria che deve interpretare la
condotta del genio.
Il problema è allora definire il tipo di teoria idoneo a rendere conto della guerra.
Secondo Clausewitz, una teoria della condotta della guerra deve misurarsi con tre ordini di
difficoltà: 1) la difficoltà di gestire gli istinti e l’imprevedibilità dello spirito: “È appunto essa che
crea una parte sì larga, negli avvenimenti di guerra, al gioco delle probabilità e della fortuna”93; 2)
l’imprevedibilità delle reazioni del nemico; 3) l’incertezza di tutti i dati. “È dunque ancora sul
talento ed anche sul favore del caso che si è obbligati di far affidamento, in mancanza di una
saggezza obbiettiva”94.
Da tutto ciò deriva l’impossibilità di definire una “dottrina positiva… che possa servire sempre di
guida o di regola di condotta al comandante”95.
Ma questo non deve indurre ad una “capitolazione epistemologica”, infatti “…una teoria della
guerra consiste nel punto di vista che questa teoria non deve necessariamente essere una dottrina
positiva, cioè una istruzione riguardante la condotta da tenere.
Ogni qualvolta un ramo dell’attività umana si occupa in massima di cose quasi identiche, ed i suoi
mezzi ed i suoi scopi sono quasi sempre gli stessi, al più con piccole varianti e molteplicità di
combinazioni, è chiaro che queste cose possono costituire l’oggetto di una ponderazione razionale.
Tale ponderazione è precisamente la parte più essenziale di ogni teoria, e acquista particolare diritto
a tale nome. Essa consiste nell’esame analitico dell’oggetto, e, se la teoria viene applicata
all’esperienza, e cioè, nel nostro caso, alla storia della guerra, renderà familiare la materia.
Quanto maggiormente essa si avvicina a quest’ultimo scopo, tanto più perde la forma obiettiva del
sapere per prendere la forma subiettiva del potere, e tanto più anche si dimostra efficace nei casi in
91
92
93
94
Op.
Op.
Op.
Op.
cit.,
cit.,
cit.,
cit.,
pag.
pag.
pag.
pag.
35.
109.
114.
115.
48
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cui la natura della cosa non ammette altra decisione che quella del talento: è appunto sul talento che
essa manifesterà i suoi effetti…
La teoria deve dunque formare lo spirito del futuro capo destinato a condurre la guerra, o,
piuttosto, dirigerlo nel lavoro di formazione di se stesso, ma senza aver la pretesa di
accompagnarlo sul campo di battaglia”96.
Sembra dunque che la guerra non possa essere ricondotta nei rigorosi limiti di una teoria formale;
non è la logica matematica che detta legge in guerra, ma il calcolo probabilistico.
Eppure, a questo punto, l’analisi di Clausewitz dà un colpo di coda, a conferma di quella ambiguità
cui accennavo in apertura di paragrafo. Seguiamo la sua argomentazione: “Se poi dalle
considerazioni provocate dalla teoria nascono spontaneamente principi e regole, se la verità viene
così a cristallizzarsi da se stessa, la teoria non contrasterà a questa tendenza naturale dello spirito;
anzi, quando l’arco si completerà con questa specie di chiave di volta, essa la metterà in evidenza
ancor maggiore. Ma, facendolo, suo scopo non deve essere che soddisfare una tendenza logica del
pensiero, rendere appariscente i fuochi i quali convergono tutti i raggi e non estrarne una formula
algebrica destinata al campo di battaglia; giacché, per lo spirito pensante, questi principi e queste
regole debbono costituire le linee fondamentali delle abituali riflessioni, piuttosto che le pietre
miliari indicanti positivamente il cammino da seguire nella pratica […]. Questo punto di vista rende
possibile una teoria soddisfacente della guerra, e cioè una teoria utile, che non sia mai in
contraddizione con la realtà”.97
Clausewitz sembra combattuto tra la necessità di conferire una funzione e un valore euristico alla
sua teoria, e l’aspirazione ad attribuire uno status ontologico ai principi che questa teoria fa
emergere.
Così Clausewitz sintetizza il suo progetto: “ci proponiamo di esaminare dapprima i singoli elementi
che costituiscono il nostro soggetto di studio, poi le singole parti del medesimo, infine il tutto nella
sua intima connessione: procedendo, cioè, dal semplice al complesso.
È tuttavia necessario, in questo studio più che in qualunque altro, cominciare con un colpo d’occhio
d’insieme, poiché la natura del soggetto esige in questo caso, più che in ogni altro, di tener conto
contemporaneamente sia delle parti, sia del complesso”98.
“…La nostra intenzione non è d’indicare nuovi principi e nuovi metodi nella condotta della guerra,
ma di analizzare l’intima connessione di quanto esiste da molto tempo, e ricondurlo ai più semplici
elementi”99.
95
96
97
98
Op.
Op.
Op.
Op.
cit.,
cit.,
cit.,
cit.,
pag. 115.
pagg. 117-118.
pag. 118.
pag .19.
49
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L’epistemologia di Clausewitz sembra impostata pertanto ad un criterio di carattere riduzionisticodescrittivo, piuttosto che riduzionistico-normativo. Per altro verso, la parabola definita dalla teoria
della conoscenza, che fa seguire ad una iniziale fase induttiva, una fase deduttiva, sembra rimandare
all’epistemologia galileiana delle scienze fisico-matematiche. Essa opera, pertanto, sempre e
comunque, ad un altissimo livello di astrazione.
La conoscenza, o il “sapere” che si ottiene da questa teoria, è semplice e di dimensioni limitate, ma
non è per questo di facile applicazione. Spetterà all’abilità del “genio guerriero” tradurlo in
“potere”.
Ma, per questa operazione, secondo Clausewitz, non esistono regole.
99
Op. cit., pag . 492.
50
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CAPITOLO III
PERCHÉ LA GUERRA? LA GUERRA VISTA
AL MACROSCOPIO DELL’ANTROPOLOGIA
Da sempre agli oggetti di studio delle scienze naturali viene dato un nome latino. I vari orientamenti
dell’antropologia, e in particolare quelli di ispirazione paleontologica, non hanno fatto eccezione: e
così abbiamo l’homo erectus, l’homo habilis, l’homo sapiens, fino all’”homo ludens” di Huizinga.
Con il termine “homo pugnans”, con cui ho intitolato questa seconda parte, voglio indicare non
tanto una categoria particolare di uomini, quanto piuttosto quella attività in cui l’uomo si è
impegnato fin dal suo apparire sulla terra: la guerra.
Studiare l’”uomo che combatte” e pertanto il compito di questa analisi.
Quanto al “macroscopio” del sottotitolo di questo capitolo, questo sta ad indicare l’ambizione
nomotetica di questa indagine che, in quanto antropologica, si distingue dalle ricerche idiografiche
proprie dell’etnologia; mentre in queste ultime un oggetto viene osservato, per così dire, al
microscopio, per individuare le peculiarità che lo rendono unico rispetto agli altri, nelle indagini
nomotetiche il nostro ipotetico macroscopio tende a far risaltare nell’oggetto la sua “universalità”,
ad estrarre, o meglio, ad “astrarre” da esso i suoi valori assoluti.
Se il compito dell’antropologia culturale è lo studio del “complesso delle attività e dei prodotti
intellettuali e manuali dell’uomo-in-società”100, è quantomeno singolare che l’attività sociale forse
più praticata dall’uomo fin dall’alba dei tempi, la guerra, sia stata praticamente ignorata come
argomento autonomo dall’antropologia europea, e considerata solo marginalmente in alcune
indagini sul campo come corollario di altre attività. Ben diversa è stata la tendenza nel mondo
anglosassone, soprattutto negli Stati Uniti, dove, dal secondo dopoguerra a oggi, l’antropologia
della guerra rappresenta un filone fecondo delle indagini etno-antropologiche.
Una definizione tanto sintetica quanto efficace del campo d’indagine è stata fornita recentemente da
Jonathan Haas: Haas si è reso conto che la nozione di “guerra” come “violenza organizzata su vasta
scala tra società statali centralizzate con eserciti regolari o milizie formali” è troppo limitativa in
ambito antropologico, in quanto è riferibile solo al modo in cui si scontrano le società moderne;
invece “una nozione più estesa di guerra dovrebbe comprendere il conflitto armato, le attività
associate e le relazioni tra unità politiche indipendenti in tutti i tipi di società. Il termine “guerra”
non si riferisce soltanto al combattimento fisico tra gruppi in conflitto, ma include anche le strategie
100
Alberto M ario Cires e, Cultura eg emonica e culture subalterne, Pale rmo , 1973,
pag. 5.
51
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offensive e difensive di quei gruppi, le relazioni sociali e le attività cerimoniali e la sfera di rapporti
tra i nemici e i loro alleati”. Le questioni più dibattute oggi in sede antropologica riguardano “le
cause della guerra, gli effetti della guerra, l’inevitabilità della guerra, e le relazioni tra i tipi più
semplici, “tribali” di guerra e la guerra complessa dei moderni stati e nazioni”101.
Queste sono però solo le ultime tappe di un percorso che parte da lontano e che affonda le sue radici
nelle teorie evoluzionistiche di Tylor e Morgan, dove, come afferma Hass, “la guerra gioca un ruolo
fondamentale”.
Eppure, fino alla Seconda Guerra Mondiale, l’antropologia della guerra sembra attraversare un
“periodo di latenza”. In Europa, torno a dire, questo periodo dura tuttora: John Keegan, uno storico
militare inglese, a partire dalle considerazioni di Levi-Strauss sulla legge di reciprocità e sullo
scambio delle donne, ha osservato che gli antropologi europei hanno sempre saputo che all’origine
delle tensioni tra i primitivi vi è la disputa per le donne, ma hanno sempre evitato di prendere in
considerazione le conseguenze, ossia la guerra.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, pertanto, la pubblicazione dell’opera di Harry
Turney-High, un giovane antropologo statunitense, intitolata “Primitive Warefare” (1949), fu
accolta da un tacito scandalo: scandalo, in quanto rompeva il silenzio degli antropologi sulla guerra,
attaccandoli violentemente riguardo la loro incapacità di cogliere l’importanza del problema; tacito,
in quanto l’attacco fu così violento (Turney-High sostenne che un qualsiasi sottufficiale conosceva
la guerra meglio della maggior parte degli scienziati sociali) da ottenere in risposta da parte dei suoi
colleghi uno sdegnoso silenzio. Turney-High accusò gli antropologi di “aver confuso la guerra con
gli strumenti della guerra”; gli etnologi avevano raccolto e catalogato armi di tutte le popolazioni,
ma avevano tralasciato il quesito più importante: “come combatte questo gruppo?”. Visitando
numerosissime popolazioni, raccolse un’infinità di informazioni sulle loro guerre e descrisse
dettagliatamente gli effetti raccapriccianti delle loro armi, le torture, il cannibalismo. Questa
attenzione non era naturalmente l’espressione di un morboso compiacimento per i particolari
macabri; era piuttosto il desiderio di scongiurare il rischio che i suoi colleghi, di fronte alla punta di
pietra di una lancia, indugiassero sulla sua interpretazione, piuttosto che cogliere subito la sua
funzione, che è appunto quella per cui è stata costruita: trafiggere la carne e fracassare le ossa102.
Al punto di vista evoluzionistico, funzionalistico, struttural-funzionalistico, Turney-High oppose il
suo, che potremmo liberamente definire “bellicistico”, formulando una tesi tanto originale quanto
101
102
Tr aduzione mia d alla voce “ War ” della “ En cyclopedia of Cultural Antrhopology”,
Ne w York 1996.
Non posso non ricordare la lezione di Alberto Mario Cirese il quale, polemizzando
con lo “slittamento pansemiotico” di Levi-Strauss, che induce il suo Bricoleur a
chiedersi “cosa possano significare” gli oggetti, propone il più “fabrile” quesito:
“a che cosa essi possono servire”. Vedi S e gnicità, Fabrilità, P rocre azione, Rom a,
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discutibile: le culture studiate dagli etnografi esistevano solo “al di sotto dell’orizzonte militare”; lo
Stato moderno e, con esso, la civilità, potevano nascere solo con il passaggio da una pratica di
“guerra primitiva” a una pratica di “guerra civilizzata”103.
Il silenzio dell’antropologia intorno alla guerra e all’opera di Turney-High fu rotto a partire dagli
anni ’60, quando la guerra del Vietnam e una rinnovata sensibilità verso i fenomeni sociali spinsero
gli studiosi ad occuparsi di questo argomento; si moltiplicarono le discipline, i punti di vista e le
fonti d’ispirazione, e la consacrazione ufficiale avvenne nel 1967, in occasione del convegno
dell’American Anthropological Association, che dedicò un simposio all’antropologia della guerra,
in cui venne accettata la distinzione di Turney-High tra “guerra primitiva” e “guerra civilizzata”, o,
con termine più attuale, “moderna”.
§.1. Perché la guerra – che cosa è la guerra: due chiavi di lettura
La guerra tra natura, cultura, e struttura.
Il titolo e il sottotitolo di questo paragrafo rappresentano due griglie interpretative mediante
le quali è possibile accostarsi al nostro oggetto di studio.
Privilegiando un approccio epistemologico, scelgo come impostazione generale quella espressa nel
titolo: vedremo tuttavia che le due griglie spesso si sovrappongono, fino ad arrivare addirittura a
coincidere (in particolare, il perché con la natura, il che cosa con la struttura, con la cultura che
funge da anello di congiunzione).
103
1989 pagg. 16-19.
Vi è un a evidente cir colarità in questa argom entazione. Purtroppo, conosco
l’opera di Turney - High solo attraverso le citazioni che di essa fa Ke egan, il quale,
a questo proposito, non dà ulteriori ragguagli.
53
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§.2. Perché la guerra? La natura.
Praticamente tutte le scienze che hanno per oggetto l'uomo, da quelle fisiche a quelle “dello
spirito”, si sono sbizzarrite a produrre teorie che spiegassero le cause della guerra; e dal momento
che un po’ tutte le scienze, chi più chi meno, peccano di un certo dogmatismo, ognuna di esse si è
prodigata nel presentare la sua teoria come l’unica, esaustiva e definitiva risposta al problema in
questione. Alcune di esse, come la neurofisiologia e la psicoanalisi, sono reciprocamente esclusive,
altre, come la genetica, l'etologia e la sociobiologia, sviluppano interessanti connessioni non solo tra
di loro ma anche con la sfera ambientale e culturale.
Sono approcci che privilegiano un’ottica di tipo eziologico – funzionalistico – finalistico, non
scevra, spesso, da forti implicazioni riguardanti l’aspetto “intenzionale”.
Tutte queste discipline si sono poste la stessa domanda: l’uomo è aggressivo per natura? E tutte si
sono date la tessa risposta affermativa, ma partendo da posizioni talvolta diametralmente opposte.
I neurofisiologici indicano in un’area del cervello, nota come il sistema libico, la sede
dell’aggressività in relazione all’inibizione di un neurotrasmettitore, la serotonina, e all’aumento di
un ormone maschile, il testosterone. Qualcuno ha voluto vedere in questi fondamenti biologici
dell’aggressività l’origine della guerra. Come i neurofisiologi, Sigmund Freud ha cercato l’origine
della guerra nell’individuo, partendo però da istanze psicologiche. In un primo tempo Freud
considerò l’aggressività una manifestazione della sessualità frustrata durante l’infanzia; in
quest’ottica la guerra sarebbe una forma socialmente organizzata di questa aggressività. In un
secondo tempo, certamente influenzato dalla tragica esperienza della Prima Guerra Mondiale, in
una corrispondenza con Albert Einstein pubblicata con il titolo “Perchè la guerra?”, considerò la
guerra come espressione di una “pulsione di morte”, una inconscia forza motrice volta alla
distruzione e all’auto-distruzione.
La neurofisiologia e la psicoanalisi, pur fornendo al quesito risposte incompatibili, commettono gli
stessi errori: 1) peccano di soggettivismo, perchè ignorano completamente le condizioni oggettive
che spingono l’uomo a combattere; l’uomo appare come un irrazionale animaletto “agito” ora da
invisibili sostanze biologiche, ora da oscure pulsioni inconsce (i neurofisiologi tuttavia ammettono
che l’aggressività sia soggetta al controllo delle funzioni superiori dei lobi frontali); 2) confondono
la causa con il mezzo: è innegabile che l’uomo abbia una disposizione innata all’aggressività –
l’inibizione della serotonina, il testosterone e l’adrenalina sono oggettivamente riscontrabili – ma
questo non implica che siano loro responsabili della guerra: sono sostanze prodotte dall’organismo
(anche) per far fronte a situazioni di pericolo e di stress, quale la guerra certamente è, ma qui, per
54
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dirla con Aristotele, si confonde la causa efficiente con la causa materiale: noi tutti mastichiamo con
i denti, ma i denti non sono certo la causa del nostro appetito. Ad ulteriore conferma, possiamo
considerare un altro fatto: il testosterone è un ormone maschile prodotto dai testicoli, e i due più
grandi generali del potentissimo esercito di Bisanzio, Belisario e Narsete, erano eunuchi. E così
arriviamo al terzo errore, che è poi un corollario del secondo: 3) invertono il rapporto causa-effetto.
Spesso si confondono gli uomini che dichiarano la guerra – e quindi, da un certo punto di vista
squisitamente intenzionale, che la causano – con gli uomini che la combattono: i capi di stato e i
generali che pianificano e dichiarano la guerra non hanno certo bisogno di essere mossi da
neurotrasmettitori o istinti omicidi per valutare un interesse economico o per muovere le bandierine
sullo scacchiere; tutti abbiamo ancora vivo il ricordo della Guerra del Golfo, con tutte le sue cause e
i suoi effetti, e sinceramente troverei piuttosto ridicola l’immagine del presidente Bush che dichiara
guerra a Saddam sotto la spinta di chissà quali secrezioni ormonali.
Diverso è il discorso per i soldati, per chi cioè è costretto ad affondare nel fango di una trincea o
nella sabbia del deserto: loro si che hanno bisogno di ormoni e istinti omicidi, e quando questi non
sono sufficienti, si interviene artificialmente dall’esterno (con una efficace espressione del gergo
militare, si dice che i soldati vengono “pompati”, e, in effetti, “pompare” i soldati è proprio uno dei
compiti più importanti della retorica e della propaganda militare; per quanto riguarda l’aspetto
biologico, poi, sia nelle guerre moderne che in quelle remote vi sono riscontri riguardo la
somministrazione ai soldati di droghe, alcool, ormoni – questi solo nelle guerre contemporanee,
ovviamente – e sostanze psicotrope di varia natura).
In definitiva, prima si dichiara la guerra, e dopo si producono quelle sostanze e si esaltano quelle
pulsioni o istinti che permettono di combatterla; come sostiene Marvin Harris: “Ovviamente la
capacità di divenire aggressivi e muovere guerra fa parte della natura umana. Ma il modo e il
momento in cui ciò avviene è controllato dalle nostre culture piuttosto che dai nostri geni”104.
Quello che voglio sostenere e che un uomo (a maggior ragione se moderno) totalmente privo di
aggressività, sia essa ormonale o pulsionale, se messo di fronte alla necessità o all’interesse, può
razionalmente concepire, e forse, chissà, anche eseguire, una azione violenta assolutamente
“spassionata”.
Tuttavia, l’aggressività innata ha svolto un ruolo imprenscindibile nella storia evolutiva dell’uomo,
ed è a questa che ora volgiamo lo sguardo.
Le discipline afferenti a questo settore d’indagine, quali la genetica e, soprattutto, l’etologia e la
sociobiologia, sono riuscite a gettare un ponte proprio là dove le discipline considerate prima
negano addirittura che esistano due rive, cioè tra la natura umana e la natura ambientale, ovvero, se
104
Marvin Harris, Cannibali e re, Milano , 199 6, pag. 48.
55
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vogliamo considerare la cultura come la risposta non fisica dell’uomo al suo ambiente, tra natura e
cultura.
Secondo la teoria evolutiva di Darwin, l’ambiente seleziona gli individui che sono più in grado di
adattarvisi, e questi trasmettono le proprie caratteristiche adattive ai discendenti tramite i geni; ora,
considerate le tendenze aggressive dell’uomo durante tutto l’arco della sua storia, è lecito assumere
che l’aggressività sia una facoltà ereditata geneticamente avente funzione adattiva. Se, come
sostengono i teorici del darwinismo sociale, la vita si fonda sulla competizione, a parità di
condizioni, gli aggressivi sono meglio equipaggiati degli altri105.
Questa è anche la tesi centrale delle spiegazioni sociobiologiche della guerra. Napoleon Chagnon
sostiene che i guerrieri più valorosi e aggressivi riescono a procurarsi un maggior numero di donne,
e riescono pertanto a trasmettere i propri geni a un maggior numero di figli rispetto ai “non violenti”
e ai guerrieri meno aitanti.
Anche Korrad Lorenz, il padre dell’etologia positiva, è partito da considerazioni di carattere
biologico, ma gli sviluppi della sua teoria comprendono sostanziali implicazioni comportamentali, e
dunque, per estensione, non troppo distanti dalla cultura; il suo trattato, “L’aggressività”, rimane
tutt’oggi una pietra miliare per chiunque voglia cimentarsi con l’argomento.
Partendo dall’osservazione del comportamento animale, Lorenz considera l’aggressività una
“pulsione” naturale dell’organismo, che si “scarica” quando viene attivato un “dispositivo di
scatto”; gli animali della stessa specie sono in grado di arginare l’aggressività nei loro simili
mettendo in atto atteggiamenti di sottomissione. Anche l’uomo si comportava così, ma il
miglioramento delle condizioni di vita dovuto all’uso delle armi per la caccia portò ad un
sovrappopolamento del territorio: l’uomo allora utilizzò le armi per uccidere anche i suoi simili, ma
le armi “distanziavano” emotivamente l’uccisore dalla sua vittima, e questo neutralizzò gli
atteggiamenti di sottomissione. Questa fu la dinamica che potrò l’uomo da predatore di animali a
uccisore dei propri simili.
Come si è potuto constatare, anche queste scienze, la genetica, la sociobiologia e l’etologia,
affondano le radici nella biologia, e, quindi, nella natura; eppure siamo ben lontani dall’integralismo
neurofisiologico e psicoanalitico.
Queste scienze hanno finalmente considerato l’uomo come il prodotto evolutivo dell’interazione del
suo corpo con l’ambiente che lo circonda, non relegandolo più in una provetta di laboratorio o in un
“iperuranio” di pulsioni rimosse.
105
I g e n e t i s t i s o n o a n c h e r i u s c i t i a d i n d iv i d u a r e u n a p a r t i c o l a r e c o m b i n a z i o n e
cromosomi ca, XYY (con due cro mosomi Y al posto di uno), che sembra essere
responsabile,
negli
individui
che
presentano
questa
particolarità,
di
comportamenti particolarmente violenti.
56
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Ciononostante, qualcuno ha voluto dimenticare il secondo termine del binomio, la pressione
ambientale, appunto, e, convinto di procurare chissà quali vantaggi al genere umano, è arrivato ad
auspicare la creazione, da parte dell’ingegneria genetica o di un programma educativo, di un “uomo
nuovo”, totalmente privo di aggressività. Tralasciando qualsiasi considerazione di carattere
bioetico, sarebbe il caso di ricordare a questi paladini della “bontà in provetta”, che, alla luce di
quanto si è detto poc’anzi, per garantire qualche chance di sopravvivenza alla loro creatura sarebbe
necessario creare un ambiente tale da rendere inutile qualsiasi ricorso all’aggressività: che
possibilità avrebbe, un orso polare vegetariano, di sopravvivere in un ambiente come il suo, dove
proverbialmente non cresce un filo d’erba e la sopravvivenza è garantita solo ai predatori più
spietati?
Questi progetti sembrano la versione “buonista” (per usare un neologismo oggi di moda) ma non
meno delirante delle farneticazioni naziste sulla creazione di una razza di superuomini guerrieri106, e
sono, se possibile, ancora più insensate, perchè totalmente scevre da qualsiasi implicazione di
carattere adattivo.
Lungo questo percorso che ci sta portando dalla natura alla cultura, per poi portarci ad abbandonare
il “perchè...” per abbracciare il “che cosa...”, incontriamo un approccio (non possiamo definirlo
diversamente, visto che non si tratta di una scienza) che più degli altri merita di essere approfondito,
sia per la sua natura intrinseca, sia per l’importanza del ruolo che riveste nelle indagini sulle cause
della guerra: il materialismo.
§.3. La cultura.
Se i rapporti tra l’antropologia e le scienze che abbiamo considerato hanno oscillato dall’avvenuta
occasionale al matrimonio più duraturo, seguito talvolta da un solenne divorzio (dal momento che si
è trattato comunque di unioni con discipline “altre”), questa volta, con il materialismo, abbiamo a
che fare con un approccio squisitamente antropologico107.
Il materialismo individua le cause nelle risorse economiche e nella pressione demografica; i due
fattori sono evidentemente interrelati, e, più precisamente, sono legati da un rapporto di
proporzionalità inversa: quanto più aumenta la pressione demografica, tanto più diminuiscono le
106
107
Le S .S . e rano state selezionate con qu esto scopo.
Bisogna ricordare che il materialismo è un approccio “trasversale”: n ato
nell’ambito della speculazione filosofica, si è esteso alla storia e a tutte le
scienze umane fino a trovare nell’antropologia un terreno così fecondo da poter
consentire di dire che se il pensiero filosofico è stato suo padre, l’antropologia
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risorse disponibili; quanto più aumentano le risorse, tanto più diminuisce la pressione demografica.
Per quanto riguarda le risorse, la guerra può avere origine dalla duplice necessità di accaparrarsele a
danno di altri, e di difenderle dalla predazione degli altri. Per quanto riguarda la demografia, la
guerra può operare da vero e proprio regolatore demografico.
Il materialismo è probabilmente l’eredità più importante che la scuola marxista abbia lasciato
all’antropologia, eppure ha trovato la sua massima diffusione proprio negli Stati Uniti, ovvero nel
paese tradizionalmente più ostile al marxismo in tutte le sue forme108.
L’antropologo statunitense Marvin Harris è arrivato a definire una teoria antropologica nota come
materialismo culturale, e all’interno di questa teoria trova spazio la sua spiegazione dell’origine
della guerra.
L’analisi di Harris109 parte dalla constatazione che tra le attuali popolazioni costituite da bande di
cacciatori-raccoglitori (probabilmente le più simili alle popolazioni preistoriche per condizioni e
abitudini di vita) la conquista di nuovi territori rappresenta “raramente un motivo cosciente di
guerra”.
Solitamente questa si sviluppa dall’inimicizia personale tra alcuni individui influenti di bande
diverse, e dalla capacità di questi ultimi di convertire gli altri alla propria causa, formando così un
“partito della guerra”; gli scontri tra queste bande si risolvono per lo più in manifestazioni di
violenza ritualizzata piuttosto che di violenza effettiva.
Le cose cambiano radicalmente presso quelle popolazioni che hanno sviluppato l'agricoltura; qui la
frequenza e l’intensità della guerra aumentano considerevolmente: un terreno recintato o comunque
coltivato rappresenta una cosa da difendere, o da conquistare110. Nelle parole di Harris: “Le dimore
fisse, le attrezzature per la lavorazione dei cibi e le piantagioni che crescevano nei campi acuivano
il senso di identità territoriale. Le inimicizie tra villaggi tesero a protrarsi per intere generazioni con
ripetuti attacchi e saccheggi e tentativi di invadere i rispettivi territori”.
È, questo, un punto importante, perchè Keegan arriva a sostenere che non si può parlare di guerra
(sia per quanto riguarda l’attualità, sia per quanto riguarda il corso della storia) in società che non
abbiano sviluppato l’agricoltura o la pastorizia (si porrebbero al di sotto dell’orizzonte militare, per
dirla con Turney-High): presso queste società si può parlare tutt’al più di “scorrerie” e “incursioni”,
con finalità eminentemente predatorie, ben lontane dal conseguimento di obiettivi propriamente
bellici come “la conquista e l’occupazione”; in quest’ottica la scorreria non è un atto di guerra. Si
108
109
110
può a buon diritto rivendicarne la maternità.
N o n d o v r e b b e s t u p i r c i p i ù d i t a n t o : t u t t o si p u ò d i r e d e l c a p i t a l i s m o t r a n n e c h e s i a
un sistema ascetico-spirituale.
Marvin Harris, Cannibali e re, Milano , 199 6.
Si può trasferire in ambito tribale quello che Machiav elli sosteneva in ambito
p o l i t i c o - i n t e r n a z i o n a l e : d a l m o m e n t o i n c u i d u e s t a t i s t a b i li s c o n o d e i c o n f i n i , i
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può obiettare che una scorreria diventa un atto di guerra nel momento in cui assume una valenza
politica, ovvero, se non è organizzata da predoni, ma dai membri di una comunità per il bene, quale
che sia, della comunità (va tenuto presente, comunque, che un singolo atto di guerra non è
propriamente una guerra, così come un singolo pugno non è propriamente un combattimento).
Inoltre, stando a quanto sostiene Keegan, la guerra sarebbe la prerogativa di popolazioni stanziali
(sia di pastori che di agricoltori); le popolazioni nomadi dedite alla pastorizia, pertanto, non
praticherebbero la guerra, ma solo delle scorrerie. Eppure è difficile definire scorrerie “in grande
stile” i conflitti generati dalle grandi migrazioni di Unni e Mongoli in genere: usando come
parametro le teorie di Clausewitz, se la guerra ha come obiettivo la conquista permanente di un
territorio, siamo di fronte a delle scorrerie (le popolazioni nomadi – sia quelle vissute a ridosso della
crisi dell’Impero Romano, sia quelle più recenti – difficilmente fondano delle stabili istituzioni
governative nei territori da esse occupati; si tratta quasi sempre di occupazioni temporanee: quando
i pascoli si esauriscono, i nomadi se ne vanno); ma se la guerra si concretizza nella imposizione
violenta della propria volontà al nemico, allora gli atti violenti compiuti dalle popolazioni nomadi
sono certamente delle guerre. In generale, possiamo dire che la guerra è data dalla violenza
sistematica e organizzata tra due (o più) gruppi111 contrapposti, volta al conseguimento di uno
(qualsiasi) scopo.
Ma lasciamo per il momento le definizioni e torniamo all’analisi di Harris.
Egli individua l’origine della guerra nel tentativo di popolazioni primitive soggette a pressione
demografica, di ristabilire l’equilibrio risorse disponibili-fruitori di risorse; appurata la difficoltà, e,
talvolta, l’impossibilità di moltiplicare le prime, la guerra agisce come regolatore demografico sui
secondi.
E qui emerge una importante differenza, seppure non sostanziale, tra la guerra dei primitivi e la
guerra tra i moderni stati nazionali: mentre la guerra tra questi ultimi è volta alla conquista di nuovi
territori e all’acquisizione di nuove ricchezze112, la guerra tra i primi mira a garantire ad un gruppo
lo sfruttamento delle risorse già disponibili tramite l’allontanamento dei gruppi concorrenti dal
territorio, mantenendo così un rapporto ecologia-demografia ottimale: aumentando la distanza tra
gli insediamenti diminuisce la densità di popolazione all’interno dell’area interessata e con essa il
tasso di sfruttamento delle risorse.
Potremmo definire la guerra dei primitivi conservatrice, orientata al mantenimento, o alla
restaurazione, dello status quo, e non rivolta alla conquista, all’arricchimento e al miglioramento
(semmai, tende ad allontanare, a scongiurare l’impoverimento e quindi il peggioramento delle
111
112
loro rapporti non potranno che essere conflittuali.
La guerr a è se mpre un f atto sociale.
T r a l a s c i a m o p e r i l m o m e n t o g l i a l t r i p o s s i b i l i o b i e t t i vi p o l i t i c i .
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condizioni date); di fatto, presso queste popolazioni non ci sono stati da conquistare, nazioni da
occupare.
A questo punto però emergono le condizioni che fanno sì che la guerra non possa operare come
l’unico regolatore demografico: infatti, essa è tanto efficace per quello che riguarda la regolazione
della pressione ecologico-demografica in rapporto a gruppi umani differenti (e quindi
potenzialmente concorrenti), quanto inapplicabile all’interno di un singolo gruppo: pena la forma di
conflitto più lacerante per il tessuto sociale: la guerra civile. Una volta che un gruppo sia riuscito ad
allontanare dal territorio i gruppi concorrenti e a garantirsi lo sfruttamento delle risorse, una volta
risolto dunque il problema “esterno”, deve affrontare e risolvere il problema “interno”: una
incontrollata crescita demografica determinata dalle migliorate condizioni di vita, con il
conseguente impoverimento dell’habitat e insufficienza di risorse per il fabbisogno del gruppo.
La soluzione escogitata dai primitivi per far fronte a questo problema è tragicamente necessaria ed
efficace: l’infanticidio delle femmine. Questa forma di regolamentazione delle nascite è legata a
filo doppio alla guerra, pur non essendone direttamente nè la causa nè l’effetto.
Di fatto la guerra, che, come abbiamo visto, ha il compito di allentare la pressione demografica
sparpagliando le popolazioni in aree più grandi, di per sè ha una scarsa incidenza sulla riduzione del
numero di individui: in comunità di cacciatori-raccoglitori miete certamente più vittime
un’epidemia che una guerra: le vittime, poi, sono rappresentate da un numero peraltro neanche
molto consistente di maschi adulti. Ma qui interviene un importante fattore biologico-culturale: la
capacità riproduttiva di un gruppo è data dal numero di donne fertili, e non di uomini; anche con la
drastica riduzione del numero di uomini con una guerra particolarmente efferata, nulla vieta ai
superstiti, in virtù della poliginia ampiamente diffusa tra queste popolazioni, di riempire il vuoto
lasciato dai caduti, accoppiandosi e mettendo incinte tutte le donne del gruppo. Secondo un esempio
classico: un maschio, accoppiandosi con dieci femmine, può ingravidarle tutte, incrementando così
il numero dei membri del gruppo nella misura di dieci nuovi individui: ma una femmina, anche
accoppiandosi con dieci maschi, viene ingravidata da uno solo, fornendo così al gruppo un solo
nuovo membro. Non solo, ma è stato accertato che la guerra, come operatore demografico, sul
fronte interno, produce addirittura l’effetto contrario: negli ultimi secoli l’Europa non ha visto
trascorrere un decennio senza una guerra, eppure la popolazione si è praticamente sestuplicata; la
popolazione vietnamita è aumentata del 3% l’anno durante la guerra contro gli Stati Uniti, e, più
recentemente, all’indomani della Guerra del Golfo, negli Stati Uniti è stato rilevato un incremento
del numero delle nascite. Volendo azzardare un’ipotesi, sembra che quanto più si avvicina lo spettro
della morte, tanto più la natura provvede a rendere fertili gli individui; per altro verso, è stato
biologicamente dimostrato che le potenzialità riproduttive delle popolazioni del Terzo e Quarto
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Mondo, dove il tasso di mortalità infantile, e non solo, è elevatissimo, sono enormemente maggiori
di quelle degli occidentali.
Onde scongiurare il pericolo della sovrappopolazione, si rivela pertanto necessario agire
preventivamente sulla causa materiale di quest’ultima, eliminando quella quota di potenziali
genitrici che risulterebbe responsabile del sovraffollamento113.
Se la pressione demografica ne è la causa, la guerra rappresenta il maggiore incentivo a sbarazzarsi
delle figlie femmine presso le società di bande e villaggi: sembra addirittura che, con alle spalle il
medesimo orizzonte della pressione demografica, guerra e infanticidio delle femmine si intreccino
in un rapporto che rasenta la causalità reciproca. La pratica della guerra, necessitando di uomini
robusti in grado di maneggiare armi come la clava e la lancia, privilegia l’allevamento e
l’educazione di tipo selettivo, volti a privilegiare gli individui più adatti a soddisfare questa
necessità, a danno di quelli inetti o inutili.
La stessa prassi è valida per quelle popolazioni presso le quali, anche in assenza di guerra, le
condizioni di vita presentano difficoltà tali da poter essere superate solo dallo stesso tipo di
individui; mi riferisco ad habitat particolarmente ostili, dove i cacciatori devono essere
particolarmente abili e forti (Harris cita il caso degli Eschimesi), e a tutte quelle condizioni in cui la
forza fisica gioca un ruolo determinante, ivi incluse anche quelle in cui si sono sviluppate le nostre
civiltà contadine, dove (pur non arrivando all’infanticidio delle femmine) la necessità di braccia
forti per il lavoro dei campi è stata imprenscidibile e addirittura proverbiale.
È in queste condizioni e in queste necessità che affonda le radici quel complesso di tradizioni e
pratiche culturali che va dal privilegio preventivo accordato agli individui di sesso maschile fin
dalla più tenera età, alla supremazia maschile, fino all’infanticidio delle femmine, e non, come
vorrebbero le femministe, in una occulta e indimostrata misoginia insita nell’inconscio maschile.
Come osserva Harris, il complesso dei privilegi e della supremazia maschile “rappresenta un
considerevole “trionfo” della cultura sulla natura. Era necessaria una potente forza culturale per
motivare i genitori […] ad uccidere o a trascurare più le femmine che i maschi. Fu la guerra a
fornire questa motivazione facendo dipendere la sopravvivenza del gruppo dell’allevamento di
maschi capaci di combattere114”.
113
114
Non dovr em mo sc andalizza rci più di tanto: pochi anno or sono (se mpre negli anni
’90!), n ella “civilissima” Gr an B retagna , è stata riscontrata una preo ccupante
s p r o p o r z i o n e t r a i l n u m e r o d i a b o r t i d i f e t i f e m m i n i l i e i l n u m e r o d i a b o r t i di f e t i
m a s c h i l i : u n a s p r o p o r z i o n e t u tt a a d a n n o d e i f e t i f e m m i n i l i . E t u t t o r a , i n C i n a ,
d o v e l ’ i n c r e m e n t o d e m o g r a f i c o r a p p r e s e n t a u n p r o b l e m a d i n on p o c o c o n to ( o l t r e
c h e u n ’ a r m a f o r m i d a b i l e n e l l e m a n i d e l go v e r n o d i P e c h i n o ) l ’ i n f a n t i c i d i o d e l l e
femmine è una pratica ampiamente diffus a.
Op. cit., pagg . 53-54.
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La guerra, da sola, senza la pressione demografica, non è sufficiente a spiegare l’infanticidio delle
femmine115; è evidente che in società che non abbiano problemi “immediati” di sussistenza, il modo
migliore per avere un esercito numeroso è allevare molte femmine che partoriranno futuri soldati116.
La pratica dell’infanticidio delle femmine presso i primitivi fa emergere, pertanto, dall’intreccio
delle relazioni che questi tre fattori intrattengono, il rapporto causale che li lega: pressione
demografica - guerra - infanticidio delle femmine; va sottolineato, peraltro, che l’infanticidio delle
femmine permette di conseguire due risultati con una manovra sola: avere un elevato numero di
combattenti in rapporto a un ridotto numero di abitanti.
Vediamo allora come questo modello117 agisce concretamente analizzando alcuni “casi clinici”.
Vedremo anche come la relazione causale tra i tre elementi considerati (pressione demografica,
guerra, infanticidio delle femmine) non sia così rigidamente univoca: infatti, non solo l’infanticidio
delle femmine può prescindere dalla guerra e la guerra dall’infanticidio delle femmine, come
abbiamo visto precedentemente, ma addirittura l’infanticidio delle femmine, sempre associato alla
pressione demografica, può essere causa di guerra.
Dato il modello, dunque, inseriamo i dati e facciamo “girare” il programma118.
115
116
117
118
Va notato che sen za pr essione demog raf ica neanch e la gue rra avrebb e molto
senso. Questo è ve ro non solo nelle società di bande e villaggi, ma anche n ella
nostra, dove, salvo eccezioni, il nesso causale, anche se meno evidente e
immediato, nondimeno sussiste. E a proposito di eccezioni, anche nel caso in cui,
ad esempio, un a nazione sia trascinata in guerra solo per arrecare p restigio al suo
capo, il riferimento pretestuoso a cause oggettive come la pressione demografica è
sempre efficace, co me dimostrata l’invocazione alla inalienabile necessità dello
“spazio vitale” d ella Ge rm ania, della propa ganda nazista .
Sarà un caso, ma la politica di incremento demografico è sempre stata un cavallo
di battaglia dell’estrema destra militarista.
A questo punto dell’indagine possiamo cominciare a p arlare di modelli; come
avevo acc ennato, con il materialismo cultu rale di Ha rris ci stiamo spostando dal
“perchè” al “ch e cosa”, ovvero ci stiamo av vicinando alla “struttura”.
C o n q u e s t i t e r m i n i st ò p r o b a b i l m e n t e “ v i o le n t a n d o ” l a t e o r i a d i H a r r i s ; H a r r i s n o n
è uno strutturalista, ma questa è la terminologia più consona a delineare
l’orizzonte verso il quale ci stiamo volgend o.
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§.4. Casi clinici.
1) Gli Yanomamo.
Gli Yanomamo, noti negli ambienti antropologici anglosassoni con l’appellativo, tanto eclatante da
un punto di vista giornalistico, quanto ingeneroso e riduttivo dal punto di vista scientifico, di
“popolo feroce” (Napoleon Chagnon), vivono nella foresta tropicale lungo il corso superiore
dell’Orinoco, al confine tra Brasile e Venezuela.
Oltre alla caccia praticano l’orticoltura e l’agricoltura, volta alla produzione soprattutto delle
banane. Rigorosamente poligini, e tradizionalmente legati alla pratica dell’infanticidio delle
femmine, vivono secondo il waiteri (una sorta di ferocia maschile istituzionalizzata), e si trovano in
uno stato di guerra pressoché costante tra di loro.
Napoleon Chagnon, che per primo li studiò in un modo sistematico (1964), rilevò come la densità di
popolazione fosse straordinariamente bassa rispetto alla disponibilità di risorse, sia vegetali che
animali. Considerata l’abbondanza di risorse e la carenza di donne (conseguenza questa, a suo
giudizio, della esaltazione della virilità), Chagnon concluse che i conflitti interni a ciascun villaggio,
con la conseguente disgregazione di questo in villaggi diversi, erano dovuti alla necessità degli
uomini di garantirsi il maggior numero di donne, in virtù della poliginia, e che le donne
rappresentavano pertanto un “premio”. Le guerre tra i villaggi, poi, non sarebbero state altro che gli
strascichi delle antiche tensioni nel villaggio originario.
Chagnon ha ragione quando rintraccia nella carenze di donne, dovuta all’infanticidio, una causa
“diretta” della guerra; dimentica però la causa “indiretta” – di cui l’infanticidio delle femmine è a
sua volta un effetto – che è poi la causa prima di questi fenomeni: la scarsità di risorse.
Di fatto, anche le donne sono “risorse”, solo che in questo caso si tratta di risorse “limitate
artificialmente”, tramite l’infanticidio. Perchè allora combattere per le donne quando se ne
potrebbero avere in abbondanza, evitando di ucciderle da piccole? Perchè, come sappiamo, e come
Chagnon non vuole riconoscere (almeno per quanto riguarda gli Yanomamo), in questo modo si
attua un controllo demografico volto alla limitazione del numero di individui in rapporto alle risorse
naturali.
E quali sono queste risorse, la scarsità delle quali spingerebbe gli Yanomamo a mettere in atto
questi comportamenti? Harris le identifica nelle proteine. Le risorse alimentari legate alla
selvaggina sono soggette ad un deperimento nettamente maggiore rispetto alle risorse vegetali: una
volta sfruttato un terreno si può passare alla coltivazione del terreno immediatamente adiacente, ma
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il totale esaurimento delle risorse faunistiche comporta il trasferimento dell’intero villaggio in
un’altra area.
Ecco allora che la guerra, anche presso gli Yanomamo, riacquista la sua primitiva funzione;
disperdere le popolazioni onde diminuire la pressione demografica.
La relazione causale sarebbe allora: scarsità di risorse- (infanticidio delle femmine)-guerra, dove
l’infanticidio delle femmine solo apparentemente figura come causa di guerra119. Chagnon ha
semplicemente invertito il rapporto causale facendo derivare l’infanticidio delle femmine del
waiteri; è il waiteri, semmai, un effetto, o, al più, un corollario dell’infanticidio delle femmine,
derivanti entrambi dalla stessa causa, la scarsità di risorse, alla stessa stregua di tutte le altre
istituzioni della supremazia maschile.
Ed è queste, ora, e alle loro cause, che, con il secondo caso clinico, volgiamo lo sguardo.
2 ) Gl i Iro ch esi .
Riprendiamo, con questo caso, un tema affrontato all’inizio di questo lavoro, il rapporto causale tra
guerra e natura umana, sviluppandolo questa volta sia in relazione alle implicazioni sessuali, sia,
soprattutto, alle implicazioni culturali.
Tutte le forme di supremazia maschile, dalla gerarchia (sia politica che religiosa), alla divisione del
lavoro (a tutto vantaggio dell’uomo), alla poliginia (in cui le donne spesso, sono un premio per
l’aggressività maschile), sono, come afferma Harris, “il portato del monopolio maschile delle armi e
dell’uso del sesso quale stimolo di personalità maschili aggressive. E la guerra, come già mostrato,
non è l’espressione della natura umana bensì una risposta a pressioni demografiche ed ecologiche.
La supremazia maschile non è pertanto più naturale della guerra”120.
Se questo è vero per le guerre dei primitivi, per il combattimento delle quali si rende necessaria la
prestanza fisica di uomini aggressivi, non lo è altrettanto per le nostre guerre, dove il progresso
tecnologico permette anche ad un uomo su una sedia a rotelle di lanciare un missile balistico
premendo semplicemente un pulsante. Non è un caso, pertanto, che da diversi anni, ormai, nelle
forze armate di vari paesi, si stiano facendo strada anche le donne. Se poi, a fronte di questo
“allargamento degli organici”, fa riscontro un incremento delle tendenze pacifistiche, questo è
dovuto non tanto a una sorta di legge di compensazione, quanto al fatto che è proprio la guerra che
119
120
L’ abbondanza di risorse cui acc ennavo all ’inizio è pertanto un effetto di questa
politica.
Op. cit., pag . 67. Bisogna rico rdare che qu ello che vale per la guer ra vale anche
p e r t u t t e q u e l l e c o n d i z i o n i d i v i t a e q u e ll e a t t i v it à i n c u i il r i c o r s o a ll a f o r z a
fisica si rivela i mpres cindibile.
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sta cambiando, per cui se da un lato le armi di distruzione di massa necessitano di una minima
quantità di energia per essere impiegate, dall’altro suscitano nelle coscienze il terrore del loro
utilizzo121.
Per quanto mi riguarda, reputo la diffusione e la democratizzazione (intesa come accessibilità e
disponibilità per il maggior numero possibile di nazioni) delle armi di distruzione di massa la
migliore garanzia di pace. È probabile che questa pace, per così dire, “forzata”, dettata più dalla
reciproca deterrenza che da una utopistica fratellanza, comporti degli effetti collaterali, come la
revisione dei rapporti di forza tra le nazioni, in particolare tra il Primo e il Terzo Mondo, con una
conseguente radicalizzazione delle tensioni e dei conflitti interni alle singole nazioni (uno stato non
po’ autobombardarsi con ordigni nucleari), e una certa “stagnazione” delle dinamiche
internazionali.
Ma chiudiamo questa breve parentesi politica, che potrebbe condurci molto lontano, e torniamo nei
binari dell’antropologia.
Il monopolio maschile della guerra e dei suoi strumenti, e quindi, in una parola, della “forza”, ha
portato, nelle società primitive (e non solo), a un accentramento delle responsabilità e dell’autorità
nelle mani degli uomini, con tutte le implicazioni sociali, politiche e culturali che questo comporta,
come il patriarcato, la patrilinearità, la patrilocalità, l’esaltazione, talvolta mistica, della virilità, e la
poliginia, e a una conseguente “qualificazione” del sesso femminile.
Responsabile del mancato riconoscimento della correlazione tra guerra e supremazia maschile è,
secondo Harris, la forma esasperata di militarismo propria della società matrilineari. Gli Irochesi,
più di altre popolazioni, presentano in maniera inequivocabile questo binomio.
Gli Irochesi, costretti oggi a sopravvivere nelle riserve, come molte altre popolazioni autoctone
dell’America del Nord, vivevano lungo il tratto orientale del confine tra Stati Uniti e Canada. La
loro società era organizzata in base alla matrilinearità, alla matrilocalità, e alla monogamia122; i loro
eserciti effettuavano lunghe campagne di guerra anche in territori molto lontani, ed erano soliti
riservare un trattamento particolarmente cruento ai prigionieri.
Ecco come Harris sintetizza il rapporto tra la guerra degli Irochesi e la materilinearità: “gli uomini
sposati che si trasferiscono in una casa di una comunità matrilineare irochese provengono da
famiglie di villaggi diversi. Questo cambiamento di resistenza impedisce loro di concepire i loro
121
122
Con le n ecessarie distinzioni, questa situazione è vagamente evocativa della
opinione di Freud, secondo la quale, per scongiurare i rischi derivanti dalla
d i s t r u t t iv i t à d e l l a p u ls i o n e d i m o r t e , s a r e b b e n e c e s s a r i o s v i l u p p a r e “ u n t e r r o r e
fondato della forma che assumeranno le g uerre future”, vedi “Perché la guerra,
Carteggio con Eintesin e altri scritti”, Tori no, 1965.
Bisogna fare attenzione a non confondere la matrilinearità e la matrilocalità con il
matriarcato. Sebben e matrilinerarità e mat rilocalità costituiscano un’argine alla
supremazia degli uo mini, l’autorità maschil e rimane tuttavia indiscussa.
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interessi esclusivamente in termini di ciò che è buono per i loro padri, fratelli e figli e allo stesso
tempo li porta a contatto quotidiano con uomini di villaggi vicini.
Ciò promuove la pace fra questi ultimi e getta le basi di una cooperazione tra gli uomini per la
formazione di ampi gruppi di combattimento capaci di attaccare i nemici distanti centinaia di miglia
[…]. Divale ha ampliato questo ragionamento suggerendo che i popoli patrilineari che venivano
attaccati da gruppi organizzati matrilinearmente dovevano adottare anch’essi un’analoga
organizzazione in breve tempo, altrimenti venivano distrutti”123.
Il caso degli Yanomamo, patrilinerai, e il caso degli Irochesi, matrilineari, dimostrano come a
culture diverse corrispondano guerre diverse: la guerra praticata dalle società patrilineari viene
definita “guerra interna”, si risolve in rapide incursioni a breve raggio e i villaggi in conflitto
provengono generalmente da uno stesso villaggio originario; la guerra praticata dalle società
matrilineari invece viene definita “guerra esterna”, e consiste in lunghe campagne di guerra a medio
e largo raggio contro nemici etnicamente diversi.
C’è un’ambiguità nella argomentazione di Harris: egli non chiarisce se sia il tipo di società a
determinare il tipo di guerra, o se sia il tipo di guerra a determinare il tipo di società. Stando al
passo che ho riportato tra virgolette, sembra che si possano verificare entrambe le possibilità,
ovvero, sembra che tra i due fattori sussista un rapporto di implicazione reciproca124. È altresì
probabile che organizzazioni socio-culturali e forme di guerra siano aspetti correlati di uno stesso
meccanismo che affonda le radici nelle condizioni oggettive dell’esistenza: è difficile immaginare
gli Yanomamo che compiono lunghe spedizioni militari in un ambiente come la foresta tropicale,
dove la fitta vegetazione rende difficili anche i banali spostamenti da un villaggio all’altro; è ovvio
pertanto che questo tipo di ambiente generi una conflittualità a breve raggio e una organizzazione
patrilineare. Per altro verso, gli Irochesi vivevano in un habitat più favorevole, dove era certamente
più agevole per gli uomini effettuare lunghi spostamenti sia per commerciare che per combattere; e
una società i cui uomini, per un motivo o per un altro, si trovano spesso lontano da casa, deve per
forza affidare i bambini al ramo materno125.
123
124
125
Op. cit., pag . 72.
Non è la prim a volta che incontria mo que sto tipo di relazione, vedi la guerr a e
l’infanticidio delle femmine.
Val e la pena di acc ennare , sia pur breve m ente, alla obiezione che Harris muove
alla psiconalisi freudiana, invertendo il rap porto causale stabilito da quest’ultima,
in virtù del quale la guerra sarebbe una conseguenza del complesso edipico.
Ha rris sostiene invece ch e il complesso e dipico è la conseguenza d ella guerra e
dei suoi correl ati, co ma la matrilinearità. L’ argom entazione di Harris è coer ente,
ma c’è d a chiedersi che senso abbia continuare a parlare di “complesso edipico”,
u n a v o l t a c h e s i s i a t o l t a a d e s s o q u a l s i a si v a l e n z a c a u s a l e . I n a l t r i t e r m i n i : s e
rifiutiamo il postulato freudiano secondo cui il complesso edipico è una “tappa
o b b l i g a t a ” d e l l o s v i l u p p o p si c o - s e s s u a l e d e g l i i n d i v id u i , n o n s i c a p i s c e p e r q u a l e
motivo un bambino, il cui padre è andato a combattere in terre lontane, debba
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La guerra esterna non è però una prerogativa assoluta delle società matrilineari. I Nuer, una
popolazione pastorale seminomade, praticano la guerra esterna pur adottando un’organizzazione
patrilineare-patrilocale126.
Ma le popolazioni pastorali, generalmente nomadi o seminomadi, presentano una caratteristica:
quando i loro guerrieri invadono i territori altrui alla ricerca di nuovi pascoli, si portano appresso
tutta la famiglia; pertanto, non è necessario che, in assenza del padre, i bambini vengano ascritti al
ramo materno, perché in questi casi è una intera popolazione che si sposta. Con i nomadi non
abbiamo a che fare con una occupazione militare dovuta ad una incursione temporanea o a una
conquista; qui ci troviamo di fronte ad una vera e propria “migrazione” etnica, ovvero
all’occupazione del territorio di un popolo da parte di un altro popolo127.
La guerra esterna svolge però una funzione particolare nella struttura sociale dei Nuer. Se con
l’analisi dei precedenti casi clinici avevamo superato la metà del guado, nel passaggio dal “perché”
al “che cosa”, ovvero dalla natura alla struttura, traghettati dalla cultura, ora, con i Nuer, abbiamo
finalmente raggiunto l’altra riva. È giunto il momento di abbandonare l’eziologia della guerra, per
affrontare la sua ontologia.
126
127
sviluppare una attrazione sessuale nei con fronti della madre.
Questo dimostra quanto ho sostenuto in preced enza , in disaccordo con Keegan ,
circa la capacità dei nomadi di praticare la guerra, e non soltanto scorrerie.
Mi chiedo, però, se, in questi casi, la definizione di guerra esterna sia ancora
pertinente, dal mo mento che, a gu erra finita, i soldati “non tornano a casa”,
perché il territorio occupato è la loro nuova casa.
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CAPITOLO IV
CHE COSA È LA GUERRA?
METAFISICA DEL CONFLITTO
§.1 Ontologia della guerra.
Possiamo affrontare il tema dell’ontologia della guerra da quattro differenti punti di vista,
senza che questi entrino in contrasto tra loro: minimalista, f o r m a l e, m e t af i s i c o - s t r u t t u r al e e
s t r u t t u r a l - funzionalista.
Un’ottica minimalista è quella che viene proposta da Clausewitz, quando definisce la guerra
“…un duello su vasta scala. La moltitudine di duelli particolari di cui si compone, considerata nel
suo insieme, può rappresentarsi con l’azione di due lottatori. Ciascuno di essi vuole, a mezzo della
propria forza fisica, costringere l’avversario a piegarsi alla propria volontà; suo scopo immediato è
di abbatterlo e, con ciò, rendergli impossibile ogni ulteriore resistenza.
La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi
alla nostra volontà”128.
Se a questo aggiungiamo che la guerra non è un conflitto privato, ma appartiene “al dominio
della sfera sociale”129, abbiamo le coordinate per inquadrare la guerra come la forma minimale del
conflitto tra nazioni, o – per attenersi ad una visione più propriamente minimalistica – tra gruppi130.
Il punto di vista formale ci è offerto di nuovo da Clausewitz. Abbiamo già incontrato il
concetto di gioco come metafora della guerra. Secondo la teoria linguistica elaborata dal Circolo di
Praga (vedi in particolare il fonologo russo Roman Jakobson) due oggetti, o gruppi di oggetti, sono
in rapporto metaforico quando presentano una identità non materiale, bensì formale, tra le loro
relazioni. Claude Levi-Strauss, il padre dell’antropologia strutturale, ha utilizzato questo principio
per rivoluzionare la teoria del totemismo: quando, ad esempio, in una tribù ci sono il clan del cane e
il clan del gatto, questo non significa che i due clan si identificano con i rispettivi animali totemici;
significa invece che tra i due clan sussiste lo stesso rapporto che intercorre tra il cane ed il gatto,
cioè un rapporto conflittuale.
128
129
Ka rl von Clause witz, op. cit., p ag.19.
Op. cit., pag .130.
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È un rapporto metaforico quello che, per Clausewitz, lega la guerra al gioco: “Da quanto
precede vediamo come la natura obiettiva della guerra si riduca ad un calcolo di probabilità; non
occorre più che un solo elemento per farne un gioco, ed esso non ne fa difetto: il caso. Nessun
genere di attività umana è così costantemente e generalmente in rapporto con il caso, come la
guerra. Ma con il caso viene ad avere anche gran parte l’elemento incertezza, e con questo
l’elemento fortuna […]. Vediamo dunque come, fin dal principio, l’assoluto, il cosiddetto elemento
matematico, non trova alcun saldo punto d’appoggio nei calcoli dell’arte di guerra; e che già fin da
principio la guerra si estrinseca in un gioco di possibilità, probabilità, fortuna e sfortuna, il quale
continua in tutti i grandi e piccoli fili della sua intelaiatura, e fa sì che, di tutti i rami dell’attività
umana, la guerra sia quello che più rassomiglia ad una partita con le carte da gioco”131.
Bisogna fare attenzione però – come ammonisce Levi-Strauss a proposito del totemismo – a
non confondere il rapporto metaforico con il rapporto metonimico: due oggetti in rapporto
metonimico sono praticamente identici. Uno degli errori più comuni commessi dai critici
superficiali della guerra (che vogliono, in questo modo, tacciare indirettamente di puerilità chi, la
guerra, la pratica o la sostiene) è quello di assimilare in maniera assoluta la guerra al gioco, e in
particolare alla competizione sportiva.
Sarebbe il caso di ricordare a costoro le macroscopiche differenze che sussistono tra guerra e
gioco sportivo: in guerra l’importante non è partecipare, è vincere132; e questo deriva da un fatto
drammaticamente evidente: in guerra non ci sono medaglie d’argento per chi arriva secondo; per gli
sconfitti c’è la morte, o, nella migliore delle ipotesi, la schiavitù133.
Il punto di vista metafisico-strutturale è quello che ho espresso alla fine del primo capitolo
della Prima Parte. La guerra è una delle due possibili realizzazioni del conflitto; il conflitto è una
componente strutturale della storia, e quindi ineliminabile.
L’immanenza e la connotazione strutturale del conflitto sono rintracciabili – prima ancora
che nella riflessione storica e politica – già all’alba del pensiero filosofico. Eraclito, nel frammento
53 afferma: “Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dei e gli altri come
uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi”134.
La guerra, nel pensiero di Platone, ha una connotazione meno metafisica, rispetto a Eraclito,
ma più politica: “Sempre c’è guerra per tutti gli Stati contro tutti gli Stati, continuamente, finché
130
131
132
133
134
È un a con cezione che ci riconduc e, in un c e rto senso, a Hobbes.
Op. cit., pagg .34-35.
Or mai è così anche nello sport.
Per schiavitù intendo anche la subordinazione e la dipendenza economica e
culturale.
Ritrovere mo più avanti, nell’analisi del gioco di Ozieri , il ruolo che la guerr a
svolge nella distinzione degli uomini in oppressori e oppressi.
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duri il genere umano” (Leggi, I, 625e). “Pace non è che un nome; di fatto ogni Stato, per sua stessa
natura, si trova sempre con tutti gli altri in guerra non proclamata” (Leggi, I, 626a)135.
Lo struttural-fuzionalismo rappresenta in qualche modo l’anello di congiunzione tra
l’ontologia e l’eziologia – che ho analizzato nel capitolo precedente. Secondo la scuola strutturalfunzionalistica, compito dell’indagine è definire in maniera sincronica la funzione che ciascun
elemento svolge all’interno della struttura di cui fa parte. L’antropologo inglese Radcliffe-Brown
sintetizza così l’ottica struttural-funzionalistica: “Per capire come un cavallo corre non ho bisogno
di risalire ai suoi antenati preistorici: mi basta vedere come si coordinano impulsi nervosi e
contrazioni muscolari nel mio attuale sistema anatomico-fisiologico”.
Ritorniamo allora al discorso che avevamo interrotto alla fine del capitolo precedente, e
abbandoniamo il materialismo deterministico di Harris, per lasciarci guidare dallo strutturalfunzionalismo di “Sir” Edward Evan Evans Pritchard.
135
Chissà quanta eredità di Pl atone c’è n ell’analisi che Hobbes compie d ella
conflittualità tra gli stati.
70
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§.2. La struttura: i Nuer.
I Nuer sono una popolazione nilotica che vive in un’area del Sudan centro-meridionale, in
prossimità del punto dove il Sobat e il Bahr el Gazal affluiscono nel Nilo.
Sono allevatori di bovini e praticano quella forma di semi-nomadismo legata la bestiame che è la
transumanza. I Nuer sono una di quelle popolazioni pastorali presso le quali il bestiame riveste una
importanza che va ben al di là della funzione prettamente alimentare, tanto da assumere una valenza
e un ruolo socio-culturale136; la loro è una società che potremmo definire “bovinocentrica”.
Il sistema clanico-familiare è strutturato in segmenti, i lignaggi, di tipo agnatico-patrilinerare.
Anche il sistema politico è strutturato in segmenti, distinti e gerarchizzati in base a criteri di tipo
spazio-territoriale: il segmento più grande è la tribù: in questa si distinguono dei raggruppamenti
maggiori (sezioni primarie), a loro volta suddivisi in segmenti territoriali distinti (sezioni
secondarie), che a loro volta si frammentano in piccoli gruppi di villaggi (sezioni terziarie). Non
esiste una leadership effettiva, e l’ordine è garantito dalle relazioni strutturali che i segmenti
intrattengono tra di loro; è questo sistema di relazioni che ha spinto Evans-Pritchard a dare dello
stato nuer l’efficace definizione di “anarchia ordinata”137.
L’importanza del bestiame e la struttura politica rappresentano il sistema di coordinare in cui
inserire, e attraverso cui definire, la guerra dei Nuer: infatti, se il bestiame rappresenta la causa – il
perché – della guerra, dal sistema politico emerge la funzione che la guerra svolge nella struttura
sociale – il che cosa -.
Il bestiame non viene solo allevato, viene anche razziato. Le razzie a danno dei popoli vicini
rappresentano il modo più rapido ed efficace per compensare le perdite di capi di bestiame,
decimato spesso dalle frequenti epizoozie e pesti bovine. Ma le razzie non hanno soltanto una mera
funzione compensativa: il bestiame è causa di guerra anche all’interno della comunità nuer, ma la
guerra rivolta all’esterno, contro i popoli vicini, viene programmata e attuata in relazione a una
precisa volontà di saccheggio; è volta cioè all’acquisizione di nuove ricchezze. Evas-Pritchard
giustamente non manca di far rilevare la particolarità e la novità di questo aspetto della guerra nuer
rispetto alla guerra degli altri primitivi: con le analisi di Harris avevano appunto considerato come
la guerra dei primitivi fosse volta a garantire lo sfruttamento delle risorse più che a incrementarle138.
Questa finalità della guerra nuer è determinata dalle proprietà intrinseche del bottino: mentre i
raccolti e le abitazioni possono essere distrutti, il bestiame è una ricchezza che si riproduce e che
136
137
138
Vedi , al riguardo , l’importan za ch e assu mono i maiali pr esso i Ma ring della
Nuova Guinea.
E.E. Ev ans-Pritcha rd, I Nu er: un’an archia o rdinata. Milano, 1991 , p. 37.
Vedi pag. 31 di questo lavoro .
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può essere confiscata; sono “queste qualità, che hanno dato ai popoli pastori una tendenza per l’arte
della guerra più che per l’arte della pace”139; con le parole degli stessi nuer: “sono più quelli che
muoiono per causa di una mucca che non per altre cause”140.
I destinatari delle attenzioni offensive e predatorie dei Nuer sono, tradizionalmente, i Dinka.
Nonostante Nuer e Dinka siano pressoché identici per cultura, sistema sociale, e rapporto ecologico,
la guerra è l’unica forma di relazione che li lega. Eppure è proprio questa identità la base del
conflitto: “La guerra tra Dinka e Nuer non è soltanto uno scontro di interessi, ma anche una
relazione strutturale tra due popoli, relazione che richiede un certo riconoscimento da ambo le parti
di una qualche comunanza di sentimenti e di abitudini”141.
L’identità tra Nuer e Dinka, in ragione della quale è possibile la guerra, è l’anello di congiunzione
che ci permette di passare, dal valore strutturale che la guerra ha nelle relazioni esterne tra i due
popoli, al valore strutturale e funzionale che essa assume nelle relazioni interne tra i segmenti della
società nuer. Vedremo così come le relazioni esterne e interne siano fortemente interrelate e come le
prime siano in funzione delle seconde.
Lasciamo parlare Evans-Pritchard: “I Nuer preferiscono fare guerra a un popolo dalla cultura simile
alla loro, piuttosto che lottare tra loro stessi o contro genti dalla cultura molto differente… Se i
nuer non avessero avuto la possibilità di espandersi a spese dei Dinka e di razziarli, sarebbero stati
più antagonistici verso gente del loro stesso tipo e i cambiamenti strutturali risultanti avrebbero
portato a una eterogeneità culturale degli stessi nuer maggiore di quanto non esista oggi… Questo
fatto può spiegare non solo le poche guerre intertribali tra i Nuer ma anche l’estensione notevole di
molte tribù nuer, le quali non potrebbero mantenere quel grado di unità che hanno, se le loro
sezioni si dessero a razzie le une contro le altre con la persistenza con cui attaccano i Dinka”142.
Emerge da queste righe la funzione fondamentale che la guerra verso l’esterno svolge all’interno
della struttura politica nuer. Essa, polarizzando l’ostilità contro un nemico esterno, “altro”, permette
di mantenere la coesione tra le sezioni, garantendo così la pace e l’unità all’interno del gruppo;
emerge pertanto la necessità della guerra come coagulante della società. È una situazione di
ispirazione squisitamente machiavelliana: è una regola esplicita del realismo politico quella secondo
cui, quando le tensioni interne a una comunità politica raggiungono il livello di guardia e il popolo
“scalpita” pericolosamente, è opportuno mandarlo in guerra contro un nemico esterno, e, qualora
quest’ultimo non esista, inventarselo. Come insegnano i capi delle super-potenze contemporanee: è
buona norma avere un nemico sempre a portata di mano (è cronaca dei nostri giorni!).
139
140
141
142
E. E. Evans- Pritchard, I Nuer: un ’anar chia ordinata, Milano, 1991, p. 92.
Op. cit.,pag. 91.
Op. cit., pag . 194. (Il corsivo è mio) .
Op. cit., pagg . 184-185 (I corsivi sono miei ).
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L’unità interna del gruppo non è un valore univoco, dato una volta per tutte: la segmentazione opera
a vari livelli, ed è pertanto necessario scendere nel dettaglio delle relazioni che essa intrattiene con
la guerra.
Un gruppo riconosce se stesso per contrasto, per opposizione dialettica: il senso di identità di una
sezione è il frutto, il riflesso, del senso di alterità che quella sezione ha sviluppato nei confronti
delle altre. “C’è sempre contraddizione nella definizione di un gruppo politico, perché è gruppo solo
in relazione ad altri gruppi”143; come dire: io sono io perché non sono te, e ho bisogno di te per
poter dire “io sono”.
Aiutiamoci con una tabella144:
A
B
X
Y
X1
Y1
X2
Z1
------------Z2
Un membro della sezione terziaria Z2 si riconosce come tale rispetto all’altra sezione terziaria Z1,
ma rispetto a Y1 egli si riconosce come membro della sezione secondaria Y2, e rispetto a X come
membro della sezione primaria Y: confrontandosi con A, si riconosce come membro della tribù B.
“Infatti, un uomo si vede come membro di un gruppo solo in opposizione ad altri gruppi”145.
Come si traduce tutto questo nella dinamica della guerra?
“Quando Z1 combatte con Y1, Z1 e Z2 si uniscono e la loro unità è indicata come Y2. Quando Y1
combatte con X1, Y1 e Y2 si uniscono e così fa X1 con X2. Quando Y1 combatte con A, X1, X2, Y1 e
Y2 si uniscono nell’unità B.
Quando A fa una razzia contro i Dinka A e B si uniscono”146.
Quella che emerge è una dinamica “ad elastico”, in cui la strutturale irrinunciabilità della guerra
risulta incontrovertibile: “i valori politici sono relativi e il sistema politico è un equilibrio tra le
143
144
145
146
Op.
Op.
Op.
Op.
cit.,
cit.,
cit.,
cit.,
pag.
pag.
pag.
pag.
204.
200.
192.
200.
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tendenze opposte di fissione e fusione […] i valori politici sono in tal modo sempre, strutturalmente
parlando, in conflitto”147.
Ci si potrebbe chiedere se la guerra sia una conseguenza della segmentazione, o la segmentazione
una conseguenza della guerra. Il problema è meno ozioso di quanto possa apparire, perché, come
abbiamo visto, se ci si divide per la guerra, al tempo stesso ci si riunisce per la guerra. Volendo
sottilizzare, potremmo dire che se la divisione in gruppi è una premessa della guerra, la riunione in
gruppi ne è una conseguenza; non a caso, Haas, partendo dalle considerazioni di Roberto Carneiro,
ricorda come la guerra si stata un imprenscindibile fattore di aggregazione, fin dall’alba dei
tempi148.
Ma se è vero che non ci sarebbero gruppi contrapposti se non ci fosse un conflitto pregresso in virtù
del quale, appunto, i gruppi si dividono e si contrappongono (non ci sarebbe bisogno di gruppi
diversi, ma esisterebbe un unico, grande gruppo, i cui membri vivrebbero in pace e in armonia tra di
loro), è altrettanto vero che, in definitiva, la divisione in gruppi è una precondizione della guerra
(non ci sarebbe guerra se non ci fossero gruppi contrapposti). Consapevole del rischio di incappare
nell’annoso dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina, lo affronto, convinto del fatto che, come
le galline sono nate ovipare, così la alterità e il conflitto sono nati insieme, implicandosi a vicenda come ci è già capitato di constatare per altri fenomeni -, espressioni necessarie, entrambe, di una
condizione soggiacente. Non c’è alterità (non solo di gruppi, ma anche di individui) senza conflitto,
e non c’è conflitto senza alterità.
La guerra pertanto presuppone la divisione in gruppi, e questa presuppone il conflitto e la alterità.
Ci si potrebbe chiedere anche se i Nuer pratichino la guerra verso l’esterno con la consapevole
intenzione di scongiurare il rischio di tensioni interne; del resto, come gli Yanomamo studiati da
Harris vanno in guerra convinti di combattere per le donne, ma in realtà sono spinti dalle pressioni
demografiche, così i Nuer analizzati da Evans-Pritchard potrebbero razziare il bestiame dei Dinka
mossi dalla inconsapevole necessità di mantenere compatto il tessuto sociale.
Al di là delle intenzioni, rimane il dato incontrovertibile della funzione che la guerra oggettivamente
svolte nella struttura sociale nuer: “la loro struttura politica dipendeva per la sua forma e continuità,
dall’antagonismo bilanciato che poteva esprimersi soltanto nella guerra contro i vicini, se si voleva
mantenere tale struttura149”. È proprio quel soltanto che induce ha sostenere la tesi della loro
consapevolezza: in una società come quella nuer, priva di una leadership politica, la pace sociale
può essere garantita soltanto dal mantenimento della struttura politica, e a questo obiettivo si può
147
148
149
Op. cit., pagg . 204-192, (Il corsivo è mio) .
Jonathan Haas, voce “ War” in Encyclopedi a of Cultural Anthropology, Ne w York,
1996, vol. III, pag. 1359.
Op. cit., pag . 189 (Il co rsivo è mio).
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sacrificare tutto, anche la pace “esterna”. È difficile immaginare che i Nuer facciano questo
sacrificio inconsapevolmente.
In assenza di guerra, il ricorso, anche sistematico, alla faida150 difficilmente risulterebbe sufficiente
a tenere sotto controllo il proliferare delle tensioni e dei conflitti interni.
Harris ha sostenuto che la pace interna non è una motivazione sufficiente a giustificare la guerra
esterna: “La tesi che il reciproco massacro sia “funzionale” non può essere basata sui vaghi
vantaggi astratti della coesione sociale… Nessuno finora ha dimostrato né potrà dimostrare che le
conseguenze di una minore solidarietà siano peggiori della morte in guerra151”. Se non
conoscessimo già le opinioni di Harris sulla guerra, queste frasi ci potrebbero apparire come il frutto
di una visione pregiudiziale.
L’approccio di Harris, in questo caso, è erroneamente riduttivo: qui non si tratta di “vaghi vantaggi
astratti” o “di una minore solidarietà”; qui si tratta della sopravvivenza o della morte di una società!
Che cosa sono poche decine (fossero pure milioni) di morti in guerra, di fronte alla totale
distruzione, o meglio, auto-distruzione del tessuto sociale a causa di una guerra civile? La salvezza
della società è una cosa troppo seria perché i Nuer possano misconoscerne l’importanza e ignorare i
mezzi per garantirla.
Come si può allora continuare a sostenere l’assoluta necessità della guerra, senza essere costretti a
vestire gli scomodi e imbarazzanti panni del “Dottor Stranamore?”152
La soluzione va cercata ad un più alto livello di astrazione.
150
151
152
Il termine faida, spregiativamente usato nel linguaggio corrente per indicare
brutali regolamenti di conti tra clan malavitosi, indica in realtà una forma, sia
pure primitiva, di “codice penale”, efficaci ssima presso quelle popolazioni ch e la
a d o t t a n o . S e c o n d o l a f a i d a d i s a n g u e , i l s an g u e v e r s a t o d a u n m e m b r o d i u n c l a n
può essere co mpensato solo a “prezzo di s angue” di un membro del clan avverso
responsabile. Vendetta, faida e rappr esaglia sono manifestazioni a livelli diversi –
r i s p e t t i v a m e n t e i n d i v i d u a l e , c l a n i c o e c o l l et t i v o – d i u n o s t e s s o p r i n c i p i o : l a l e g g e
di reciprocità.
Sono forme di conflittualità che meriterebb ero una indagine a parte.
Marvin Harris, Op. cit., pag. 47.
In questo film di Stanley Kubrick – una meravigliosa satira anti-militarista –
viene fatto dire a un generale dell’aeronautica militare statunitense che alcune
decine di milioni di morti sono un prezzo più che accettabile se la contropartita è
la distruzione del nemico e la salvezza della nazione. Messa nei termini in cui la
mette il film, la frase semb ra il delirio di un paranoico; eppure il calcolo
preventivo dei morti, durante la pianificazione di una guerra, non solo non è il
frutto di una mente paranoide, ma è addiri ttura indice di prudenza e buon senso:
infatti, non solo può limitare il numero di vittime facendo optare per una condotta
tattica più prudente, ma può addirittura ev itare che abbia luogo il conflitto, se il
prezzo di vite umane è tale da non giustificare l’interv ento militare.
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PARTE TERZA
CONCLUSIONI
MORS TUA, VITA MEA
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CAPITOLO I
LA META-STRUTTURA: IL GIOCO DI OZIERI
Il gioco di Ozieri è stato praticato fino ai primi anni del XX secolo; le prime attestazioni risalgono
al XII sec. e le sue radici affondano in analoghe tradizioni balcaniche e medio-orientali.
Questo gioco è stato oggetto di una accuratissima analisi di Alberto Mario Cirese, che, ai fini delle
indagini che stiamo svolgendo, risulta imprenscindibile.
Passiamo allora alla descrizione del gioco.
“A Ozieri, in Sardegna, fino a una cinquantina di anni fa, il primo giorno di maggio, ragazzi e
ragazze si sedevano in circolo sotto un baldacchino, depositavano oggetti personali (anelli e simili)
entro un cestello posto al centro del circolo, affidavano a un bambino l’estrazione a sorte dei pegni,
uno alla volta, mente ad ogni estrazione una ragazza cantava alternativamente strofette di buono e di
cattivo augurio. Si riteneva che ciascuno avrebbe avuto in sorte quel che annunciava la strofetta
cantata in coincidenza con l’estrazione dell’oggetto che gli apparteneva. Secondo La Marmora
(1836), al termine del gioco i fortunati erano lieti e gli sfortunati tristi”.
Il gioco appare “un fenomeno di divinazione di gruppo in forma di sorteggio collettivo”.
In esso vi è, come afferma Cirese, una “tipologia ideologica” sottesa, che lo lega ad altre cerimonie
simili e che, soprattutto, ne fa un “modello” di una condizione dell’esistenza.
Il gioco da un lato “assegna” il bene e il male, dall’altro “divide” il gruppo in fortunati e sfortunati.
Ora, dal momento che i valori sono limitati e assegnati dalla sorte, conditio sine qua non perché a
qualcuno vada bene è che a qualcun’altro vada male: sia il bene che il male rimangono all’interno
del gruppo, non vengono espulsi come nel gioco dell’”assopigliatutto” e nelle cermonie del “capro
espiatorio”.
L’importanza del gioco va ben al di là del primaverile intrattenimento per ragazzi, perché la
struttura del gioco è l’espressione di una “ideologia implicita”: “una società a regime di prodotti
assolutamente insufficienti e non equamente distribuiti […]. Se il bene è limitato (e non
aumentabile), e se gli aspiranti a quel bene sono più della disponibilità, occorre condannare al male
una parte del gruppo: mors tua, vita mea. E la funzione del sorteggio è appunto quella di decidere, a
tempi determinanti, chi dovrà vivere e chi no […] il gioco esprime una ideologia che nega che tutti
possano essere felici […]. Il sorteggio allora appare come un istituto diretto ad assicurare la
sopravvivenza del gruppo assegnando quei beni solo ad una sua parte; o come mezzo per garantire
un avvicendamento delle posizioni. Da una situazione drammatica nasce un’ideologia altrettanto
drammatica, e si genera un istituto culturale […] che ha il compito di garantire da un lato che il
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gruppo viva, e dall’altro che resti aperta […] la possibilità di un passaggio dei singoli da una ad
altra condizione”.
La drammatica chiarezza delle parole di Cirese esprime meglio di qualsiasi altro commento la
metastrutturalità del gioco di Ozieri, cui faccio riferimento nel titolo di questa sezione.
È giunto il momento, dunque, di chiarire alcuni punti che, pur andando al di là dell’orizzonte
antropologico, sono legati a filo doppio al gioco di Ozieri e trovano nel suo modello la loro
giustificazione.
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CAPITOLO II
TRA LA VITA E LA MORTE: IL CONFLITTO
Guerra e politica sono, entrambe, lotta per il potere; chi non lo esercita, lo subisce. Il potere si
configura come l’insieme di quelle modalità che garantiscono le maggiori possibilità di
sopravvivenza.
Guerra e politica sono le due facce di una stessa medaglia: il conflitto; il conflitto può essere
“mediato” (la politica) o “immediato” (la guerra).
Il conflitto è una componente strutturale della storia, e quindi ineliminabile. Sebbene una struttura
sia auto-referente, nel senso che, per la sua giustificazione, non deve far riferimento ad altro che a
se stessa, la valenza strutturale del conflitto affonda le sue radici in una struttura di ordine superiore:
la meta-struttura del gioco di Ozieri. Il modello che esso ci offre ci presenta un universo a
disponibilità limitata di risorse, non riproducibili all’infinito e insufficienti per tutti.
L’universo descritto dal gioco di Ozieri è l’universo della condizione umana. Noi siamo il Primo
Mondo perché altri sono il Terzo; ma la guerra svolge, nella storia dell’uomo, il ruolo che la sorte
svolge nel gioco di Ozieri: infatti, se è vero che il ricorso alla guerra consente, tramite la vittoria sui
nemici, di poter godere dei beni disponibili, è altresì innegabile che il ricorso alla guerra da parte
degli sconfitti consente di rimettere in gioco i rapporti di forza, e, in caso di vittoria, di garantirsi lo
sfruttamento delle risorse disponibili a danno dei precedenti vincitori, permettendo così quella
redistribuzione che altrimenti sarebbe impossibile.
Si potrebbe obiettare che la disponibilità di risorse non è limitata, ma sono alcuni gruppi che la
limitano artificialmente per poter godere delle risorse a danno degli altri gruppi, determinandone
pertanto la subordinazione. In questo caso la lotta non sarebbe per le risorse, ma per la ricchezza e,
in definitiva, per il potere. Ma, come ho rilevato poc’anzi, anche la lotta per il potere non è che una
forma, sia pure indiretta, di lotta per la sopravvivenza.
Dalla connotazione strutturale e dalla ineliminabilità del conflitto derivano importanti conseguenze
di carattere morale e ontologico. Tutta una serie di argomentazioni, se non diventano prive di senso,
certamente subiscono un drastico ridimensionamento.
Infatti, se il conflitto è strutturale e ineliminabile:
1) dal punto di vista della morale estrinseca alla guerra, ha poco senso chiedersi quale dei due
contendenti abbia le migliori ragioni per combattere. Nell’ottica filosofico-antropologica con cui ho
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impostato l’analisi del problema, quando si combatte per la sopravvivenza, diretta o indiretta,
entrambi i contendenti hanno ragione. Quella che emerge pertanto dal conflitto, non è una dialettica
degli opposti, ma una dialettica degli uguali "contrapposti”153;
2) dal punto di vista della morale intrinseca alla guerra, non ha più senso chiedersi se la guerra in sé
sia giusta o sbagliata; e anche dal punto di vista epistemologico, non ha più molto senso la domanda
“perché la guerra”: la guerra, semplicemente, è;
3) il concetto di libero arbitrio sfuma in quello di scelta obbligata: nel momento in cui la scelta tra
la guerra e la pace coincide con la scelta tra la vita e la morte – sia fisica che politica -, a meno che
non si abbiano delle tendenze suicide, non si può non scegliere la guerra.
In quest’ottica risulta ormai chiaro che, con buona pace di Freud e dei suoi discepoli, l’uomo che
combatte non è mosso da una pulsione di morte, ma, semmai, da una “pulsione di vita”154; nelle
condizioni in cui il genere umano si trova a vivere, la sopravvivenza di un gruppo dipende talvolta
necessariamente dalla morte di un altro, come vuole il paradigma del gioco di Ozieri: “mors tua,
vita mea”.
E se è vero che, da qualche decennio a questa parte, con le armi di distruzione di massa, per la
prima volta nella storia l’uomo è arrivato a possedere i mezzi materiali per auto-distruggersi, è
altrettanto vero che, se non fosse stato in grado di lottare contro l’ambiente e contro i suoi stessi
simili, non sarebbe nemmeno arrivato a correre questo rischio: si sarebbe estinto prima!
Contravvenendo a un luogo comune, ai fini della sopravvivenza, è meglio “vivere in guerra” che
“morire in pace”.
Da quanto precede emerge pertanto la strutturale necessità della guerra: artefice e vittima di una
storia che si staglia contro un orizzonte darwiniano-nietzscheano, l’uomo fa la guerra perché non
può non farla.
Un’immagine più di ogni altra mi si affaccia alla mente quando penso alla guerra: è una delle scene
iniziali di un altro capolavoro di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello Spazio, in cui due gruppi di
ominidi scimmieschi combattono intorno a una pozza d’acqua per garantirsene il possesso.
153
154
C o n q u e s t o n o n s t o s o s t e n e n d o c h e t u t t e l e s i n g o l e g u e r r e s i a n o i n e v i t a b i li . L a
storia ci mostra un gran numero di guerre, di cui si sarebbe potuto (e dovuto) fare
a m e n o , e c h e , n o n o s t a n t e t u t t o , s o n o s t at e c o m b a t t u t e l o s t e s s o , d e t e r m i n a n d o
spesso, per questo, la rovina delle nazioni. Quella che qui è in discussione non è
la singola guerra, ma la guerra co me realtà storico-antropologica.
È interessante notare come, nell’org anismo maschile, l’ormone che presiede
a l l ’ a g g r e s s i v i t à – i l t h a n a t o s – è l o s t e s s o ch e p r e s i e d e a l l a s e s s u a l i t à – l ’ e r o s - e d
è i l t e st o s t e r o n e . L u n g i d a l r a p p r e s e n t a r e u n a s i n t e s i “ h e g e l i a n a ” t r a t e s i e d
antitesi, questo dimostra ch e pulsione di vita e pulsione di mo rte non sono in
opposizione dialettica.
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Non ho la sfera di cristallo, ma, a meno che non intervenga una tanto miracolosa quanto
improbabile scoperta di sorgenti perenni di acqua, sufficiente per tutti, credo che gli uomini
trascorreranno il resto della loro storia a combattere intorno a quella pozza, per non morire di sete.
Perché questo, e nient’altro, è la guerra: l’immagine riflessa della vita nello specchio nero della
morte.
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