La poesia della luce: il terzo canto del Paradiso

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La poesia della luce: il terzo canto del Paradiso
Renzo Scarabello
La poesia della luce: il terzo canto del Paradiso
di Renzo Scarabello
Io credo, innanzitutto, di dover rispondere ad una possibile, legittima obiezione, dal momento che, in questa sede, si propongono percorsi pluridisciplinari,
che hanno l’ambizione di fornire il resoconto culturale di un secolo, magari azzardando proiezioni e prospettive in direzione di futuri sviluppi. Nella variegata
sfaccettatura del panorama, è giustificata la preponderanza della poesia, o, quanto
meno, della letteratura, visto che su venti incontri, indicativi della situazione del
‘900, ben sette sono specificamente dedicati alla poesia, con sondaggi che, da
Ungaretti a Montale, dal romanzo del ‘900 a Eliot e a Yeats, recuperano à rebour
Leopardi, e addirittura Dante; e diventano dieci, l’esatta metà di quelli programmati, se vi si aggiungono teatro, storia della lingua e teoria della letteratura? Insomma,
tanto spazio concesso all’immaginario, in un itinerario novecentesco, non è un po’
sfrontato? Non è controtendenza, nell’aurora di un terzo millennio che nasce all’insegna della cibernetica, della biotecnica , della globalizzazione?
No, io credo proprio di no, perché l’immaginario di cui si nutre la poesia è
vitale per il nostro spirito, come lo è, per il nostro corpo, l’aria che respiriamo;
perché la poesia conserva, nella inesausta convertibilità della sua materia, la memoria degli uomini, cioè la loro identità, che più che di certezze si nutre di sogni, di
speranze, di ideali. Ed è a questi sentimenti, a questi sogni che danno voce i poeti,
come recita Borges in Ariosto e gli Arabi:
Nessuno può scrivere un libro. Un libro
Perché esista davvero, è necessaria
L’aurora col tramonto, secoli, armi
E il vasto mare che unisce e che divide.
Così pensava Ariosto, che al piacere
Lento si diede, nell’ozio delle vie
Di neri pini e di lucenti marmi,
di tornare a sognare il già sognato…
La letteratura, la poesia, esprimono l’autenticità, la libertà dell’uomo proprio
perché contraddicono all’arida massima leibniziana Nihil est sine ratione, perché il
calcolo, la verità assoluta, matematica, rendono il mondo piccolo, tarpano le ali
della speranza, e insinuano la depressione, tolgono, insomma, la gioia, il piacere
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della vita, disponendo a quel rischio denunciato dal più geniale pensiero moderno e
contemporaneo, da Leopardi a Nietzsche, da Schopenauer a Heidegger, da Cioran
a Kundera, al rischio, cioè, dell’ ”oblio” o della insostenibile leggerezza dell’essere”, all’”inconveniente di essere nati” o alla “caduta nel tempo”.
L’uomo, più che di certezze ha bisogno, soprattutto oggi, di sogni e di immaginazioni; e la saggezza, il fascino, la bellezza della letteratura, la sua intramontabile
attualità, va vista proprio nella denuncia del relativismo di ogni verità, della sostanziale relatività delle cose umane, il che è il più rassicurante e gratificante viatico
dell’uomo di ieri, dell’uomo di oggi, e di quello di domani.
E allora non indaghiamo da quale parte stia la ragione, se da quella di Don
Chisciotte o da quella di Sancho; di Karenin o di Anna; di K o dei suoi inquisitori;
non dispensiamo giudizi di condanna o di assoluzione su Emma Bovary; non cerchiamo a tutti i costi la verità sul memorabile endecasillabo di If XXXIII ( poscia ,
più che il dolor potè il digiuno), per leggervi la morte per fame del Conte Ugolino o
un terribile atto di cannibalismo paterno: o, se proprio vogliamo farlo, facciamolo
tacitamente, senza sbandierarlo agli altri, teniamocelo per noi.
Magari in questa condizione di permanente sospensione si ridimensioneranno le nostre certezze e cresceranno le nostre insicurezze, ma indubbiamente si dilateranno gli orizzonti della nostra anima e si consoliderà la nostra sintonia col mondo e con la vita.
Quanto poi alla ripetuta intrusione di Dante, in una serie di itinerari impeccabilmente novecenteschi, ricordo, en passant, il contributo del giugno scorso della
crestomazia dantesca magistralmente recitata da Nando Gazzolo (e rammento che
proprio questo mese di novembre si chiuderà, secondo programma, ancora all’insegna di Dante); è un fatto che la Divina Commedia, giusta l’affermazione continiana,
tiene ancora, e anche bene, ad onta dell’ostracismo della scuola, orientata sempre
più in direzione di un modernismo che privilegia la forma sulla sostanza, il vaniloquio
sui contenuti culturali; essa sarà per tutto il nuovo millennio, e per quelli a venire,
disponibile a sempre nuove letture, interpretazioni, confronti: inesauribile archetipo
di tutte le forme della poesia, quella già scritta e quella ancora da scrivere, insomma
il libro ideale della borghesiana biblioteca di Babele, immagine indistruttibile della
perennità dell’opera di Dante.
Uno dei grandi temi della Comedia, uno dei temi portanti, è quello dell’ineffabile, che, annunciato già nell’esordio del poema (Ahi quanto a dir qual era è cosa
dura…), e ripreso in diverse sequenze dell’Inferno e del Purgatorio, assurge a filo
conduttore nella terza cantica, dove celebra il suo trionfo.
Il motivo, naturalmente, non è nuovo; non estraneo alla poesia classica (basti, per tutti, il virgiliano infandum regina iubes renovare dolorem), diventa topos
privilegiato della poesia moderna a cominciare dal romanticismo, dove viene ad
intrecciarsi con la sehnsucht, con quell’ansia d’infinito, che è malessere, aspirazione
struggente, perché negata dalla coscienza (anche qui mi limito a un solo specimen, il
prodigioso distico settenario leopardiano: lingua mortal non dice/ quel ch’io sentiva in seno).
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Ma le proporzioni sono inadeguate, perché nel Paradiso dantesco l’ineffabile diventa connotazione, cifra, sostanza, fondamento della poesia stessa, tanto più
per noi moderni che, lontani anni luce dalla mentalità medievale, abbiamo perduto
inesorabilmente, coinvolti nel frenetico e insulso ritmo della nostra povera, materiale quotidianità, la coscienza della dimensione dello spirito, in quell’epoca, invece, così viva da sormontare quella della realtà fenomenica.
L’uomo del Medioevo, infatti, era pienamente consapevole dell’aleatorietà,
provvisorietà, transitorietà della vita terrena, e sapeva benissimo che ogni cosa si
protrae per gran tratto nell’aldilà: videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc
autem facie ad faciem. La verità, non quella ingannevole e vana dei sensi, ma quella
assoluta, sarà chiara solo post mortem.
Dante nel Paradiso ha voluto farsi portavoce al mondo di questa verità. E per
quanto si rivolgesse ad un pubblico ben più misticamente disposto dell’uomo moderno, ha dovuto mettere a profitto tutte le risorse del suo genio, per rendere
percepibile l’impercepibile, sensibile ciò che è spirito, tangibile ciò che esula dall’umana esperienza. Ecce perché il tema dell’ineffabile è dominante nella terza cantica.
Ma come si raffigurava l’uomo medievale lo spirito, quella vita piena, integra,
beata, che avrebbe sperimentato solo dopo il suo pellegrinaggio terreno? Semplicemente come luce, luce sfavillante.
Nei mistici medievali, da Alberto Magno a S. Bonaventura, da Roberto
Grossatesta a Tommaso d’Aquino, la luce è forma sostanziale dei corpi, la cui partecipazione all’essere è direttamente proporzionale all’irradiazione di luce che essi
ricevono, come suonano i primi versi del Paradiso:
La gloria di colui che tutto move
Per l’universo penetra e risplende
In una parte più e meno altrove.
La luce, sorgente, principio dell’essere, comprende tutte le cose, è forma perfetta, bellezza suprema, metafora dello spirito, identificazione con Dio, armonia
assoluta.
Se l’Inferno è il regno della notte eterna, dell’aura sanza tempo tinta, il luogo
d’ogne luce muto, il cieco carcere; e il Purgatorio quello della penombra, degli albori
crepuscoli, dei tramonti chiaroscuri, il Paradiso, regno dello spirito, della perfezione, della compiutezza, non può che essere il trionfo del fulgore, del sole sfavillante,
del raddoppio, dei laghi, delle fiumane di luce, delle maree e degli oceani di splendore. Perché Dio, luce eterna e pura, irradia, per atto d’amore, la sua energia,
dall’Empireo ai cieli rotanti:
Non per avere a sé di bene acquisto,
ch’esser non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,
in sua etternità di tempo fore,
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fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.
E questo splendore, questa luce- energia, viene trasmessa dagli astri superiori
a quelli inferiori, che si comportano, così, come specchi riflettenti, in un ininterrotto processo dall’alto in basso, dai cieli alla terra, un processo che perpetua, miracolosamente, l’atto d’amore della creazione.
È per questo che il tema dell’ineffabile si connette indissolubilmente nel Paradiso con quello della luce, sino a lasciarsene, addirittura, soggiogare, in un dettato che non conosce soluzioni di continuità, e che costituisce gran parte del fascino di questa straordinaria poesia dell’intelligenza e della fede.
Rivediamo l’incipit del Paradiso:
La gloria di colui che tutto move
Per l’universo penetra e risplende
In una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più della sua luce prende
Fu’ io, e vidi cose che ridire
Né sa né può chi di lassù discende;…
La gloria di colui che tutto move: Dio è luce suprema, grazia illuminante, e la
luce della Sua grazia penetra e risplende nell’universo, investendo le cose di diversa
intensità luminosa; Nel ciel che più della sua luce prende/ fu’ io…: Dante ha avuto la
grazia di essere stato, vivo, in carne e ossa, nell’Empireo, nella sede diretta di Dio,
in quel cielo che è maggiormente inondato dalla Sua luce! E vidi cose che ridire/ né
sa né può chi di lassù discende: ecco annunciati, intimamente concatenati, già nella
protasi della terza cantica, questi due temi portanti dell’ineffabile e della luce.
Ma se quello dell’ineffabile tornerà esplicitamente a riaffiorare singolarmente
in più riprese (già nel primo canto, ove si ricordi il sublime Trasumanar significar per
verba/ non si poria;…), rinforzandosi, ovviamente, nell’appressamento alla mirabile
visione, nei canti finali, con le reiterate similitudini del fantolin, dell’infante che, incapace di articolare il linguaggio, balbetta (Omai sarà più corta mia favella,/ pur a quel
ch’io ricordo, che d’un fante/ che bagni ancor la lingua a la mammella.), il tema della
luce sarà, invece, un continuum, inglobando, incorporando in sé lo stesso ineffabile
che, nel miracolo della poesia di Dante, diventa esprimibile.
Il terzo canto del Paradiso esordisce proprio all’insegna della luce, con Beatrice sole, fiamma, ardore di carità:
Quel sol che pria d’amor mi scaldò il petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e si sigilla con Beatrice luce di verità, ardore intellettuale:
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ma quella folgorò nel mio sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo;
connotando la donna della salute delle due supreme virtù, amore e sapienza,
quelle stesse che caratterizzano i massimi gradi delle gerarchie angeliche, i serafini e
i cherubini; S. Francesco e S. Domenico vengono, appunto, in Paradiso XI, così
presentati da S.Tommaso:
L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapienza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.
De l’un dirò, però che d’amendue
Si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
perch’ad un fin fur l’opere sue.
Il Paradiso è soprattutto un ritorno alla Vita Nuova, un recupero, attuato
all’insegna della luce, della donna della salute, allora, simbolicamente, solo intuita
nelle sue implicazioni mistico-cristologiche, ma già gratificata in somma misura
dalla grazia illuminante:
Voi le vedete Amor pinto nel viso,
là ‘ve non pote alcun mirarla fiso.
Tanto gentile e tanto onesta pare
La donna mia , quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven, tremando, muta
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
La trasfigurazione spirituale di Beatrice è parallela all’ascesa del suo fulgore,
un fulgore portato alle estreme conseguenze. Già nella prima epifania registrata nel
poema, Beatrice si lascia alle spalle ogni stilnovistica oltranza retorica; in Inferno II
Virgilio racconta a Dante l’apparizione di lei nel Limbo:
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce , in sua favella…
La luce di Beatrice, che nella Vita Nuova era sostanzialmente luce evangelica
di carità, diviene ora, in prospettiva allegorica, splendore intellettuale, raggio che
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eleva alla suprema conoscenza. E il Paradiso è tutta un’ascesa verso l’integrazione
totale, attuata nella piena sintonia di ragione e fede, ardore e splendore, voglia e
argomento, affetto e senno( Pd XV).
Il terzo canto del Paradiso, stemperando, nella struttura teatrale, il dettato
narrativo-didascalico dei primi due, si propone come esemplare dell’intera cantica,
come una sorta di concentrato tematico in cui, attraverso un abile gioco di intrecci,
associazioni , allusioni, e, soprattutto, attraverso un sapiente uso di incomparabili
risorse tecniche e retoriche, si viene a comporre il tessuto di quella poesia della fede
e dell’intelligenza, che segna forse il più alto livello di poesia della civiltà occidentale. Rileggiamo le prime battute del canto:
Quel sol che pria d’amor mi scaldò il petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;
ma visione apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan de’ nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men tosto a le nostre pupille,
tali vid’io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e il fonte.
Subito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
Sol… scaldò… scoverto… aspetto… visione… vedersi… vetri trasparenti e
tersi… acque nitide e tranquille… visi… perla… bianca… pupille… vidi… accese… specchiati sembianti… veder… occhi… vidi… lume… sorridendo… ardea…
occhi: è un lessico tutto convergente nella direzione dell’idea, dell’immagine della
luce, luce come calore e fulgore, come carità e sapienza.
Quali per vetri trasparenti e tersi: come per incanto, entriamo con il poeta nel
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Paradiso, negli interni di una cattedrale gotica, inondata dai riverberi della luce che
penetra dai rosoni di marmo traforato e si rifrange nel tripudio policromo delle
vetrate a sesto acuto, irradiandosi su nelle concavità e nervature delle volte, comunicando lo slancio verticale, mistico, verso l’empireo, regno della luce totale. Da
quelle vertiginose altezze Piccarda snocciola la sua dichiarazione di fede:
Frate, la nostra volontà quieta
Virtù di carità, che fa volerne
Sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
Se disiassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne:
che vedrai non capère in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
Tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace,
come a lo re che al suo voler ne invoglia.
E ‘n la sua volontà è nostra pace:
ell’è quel mar al qual tutto si move
ciò ch’ella cria e che natura face.
L’entrata in scena di Piccarda, questo spirito diafano, questo specchiato sembiante, che richiama nella sua inconsistenza le silhouettes delle angelette e angiolelle
stilnovistiche, è preparata da un sapiente gioco lessicale e sintattico, inteso a creare
una magica atmosfera di spiritualità, evanescenza e impalpabilità.
La frequente, insistita, ossessiva aggettivazione smussa, ridimensiona, attenua, diluisce la fisicità, il peso comunicato dal sostantivo: la verità è bella, l’aspetto
dolce, i vetri trasparenti e tersi, le acque nitide e tranquille, i fondi persi, le postille
debili, la fronte bianca. La rarefazione dell’atmosfera è ulteriormente sottolineata
da immagini e similitudini di indefinitezza, di sospensione, come di una lontananza
sfocata, impercettibile:
Debili sì, che perla in bianca fronte
Non vien men tosto a le nostre pupille;
…Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende un non so che divino;
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immagini che percorrono anche il secondo intervento di Piccarda (Iddio si sa
qual poi mia vita fusi), e, come ne avevano annunciato l’apparizione, così ne suggellano il dileguarsi:
Così parlommi, e poi cominciò “Ave
Maria” cantando, e cantando vanio
Come per acqua cupa cosa grave.
Ma non mancano altre risorse, come quelle fonosimboliche, timbriche, che
fanno di questo canto una sorta di inno, di canto liturgico, di lauda intonata
coralmente, che, come in un gioco meraviglioso, si fonde e si confonde con la luce
in questa cattedrale gotica che accoglie Dante nell’ingresso del Paradiso e la inonda
di bellezza e di armonia. Si pensi alle rime in –enne e in –ille, alle finali aperte –anti,
-ati, o a certe flessuose allitterazioni (quelle stimando specchiati sembianti); ma si
pensi, soprattutto, alle iterazioni, ai ritorni della parola su se stessa: li occhi torsi…e
ritorsili; sorridendo…sorrida; a voto…per manco di voto; beati…beata; li nostri
voti…e voti; divina voglia…voglie; di soglia in soglia; per questo regno, a tutto il
regno; Ave Maria cantando e cantando.
La gotica cattedrale del cielo della Luna, questa architettura vertiginosamente slanciata verso Dio, è animata, dunque, non solo dalla poesia della luce, ma anche
da quella della musica. E non poteva mancare, in questo trionfo delle arti, la pittura.
Le sequenze drammatiche, infatti, si dispongono, come ha acutamente evidenziato
M. Marti, a mo’ di pala d’altare, di ancona, di trittico gotico, in cui troneggia la
maestà di Piccarda, figura centrale del canto, contornata dai due pannelli laterali
istoriati, il primo, rispondente alla sequenza iniziale, dai personaggi di Dante e Beatrice, e l’altro, epilogo del canto, da Piccarda stessa e da Costanza d’Altavilla:
Questa è la luce della gran Costanza,
che dal secondo vento di Soave
generò il terzo e l’ultima possanza.
L’epifania di Costanza, e la citazione perifrastica del figlio Federico II (il terzo e l’ultima possanza) ribadiscono ulteriormente la struttura squisitamente gotica
del canto, evidente in quel gusto, in quel compiacimento dei parallelismi, delle simmetrie, complicato dall’architettura simbolica dei numeri, che trova nella trilogia,
nel legame trinitario, la sua espressione più alta.
Qui, infatti, in questo terzo canto del Paradiso, vengono finalmente al pettine tre nodi ideologici del poema, si completano, insomma, tre trilogie, illuminanti
del pensiero, della cultura, dell’umanità del poeta: quella dei Donati, quella degli
Svevi, quella del femminino.
Piccarda rinvia, infatti, al fratello Forese, che espia il peccato di gola nella
sesta cornice del Purgatorio, ma anche all’altro fratello Corso, ancora in vita al142
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l’epoca del nostos dantesco, ma già, in Purgatorio XXIV, collocato, in profezia, nel
profondo inferno; Costanza d’Altavilla conclude la trilogia degli Svevi, richiamando il figlio Federico, citato in Inferno X da Farinata tra gli epicurei, e il nipote
Manfredi, che sta espiando, nell’Antipurgatorio (Purgatorio III), la sua “presunzion”; infine, ancora Piccarda suggella la trilogia del femminino, delle donne, cioè,
rappresentative delle tre cantiche, chiamando in causa Francesca da Rimini, tra i
lussuriosi di Inferno V, e Pia de’ Tolomei (Purgatorio V) tra i negligenti morti violentemente, e tardivamente pentiti, che sostano nell’Antipurgatorio; tre donne accomunate dalla violenza subita, tre donne che vivono in dimensioni incompatibili:
nell’eros, nella fol’amor, Francesca; nell’agape, nella carità, nella fin’amor Piccarda,
nel rimpianto degli affetti terreni, adombrato dalla viva speranza della luce eterna,
Pia; tre donne, infine, che reagiscono al male del mondo in piena coerenza col loro
carattere: la passionale Francesca maledice perentoriamente il marito assassino (Caina
attende chi a vita ci spense); l’elegiaca Pia accenna a una larvata accusa, più per il
risentimento di essere stata tradita negli affetti, che per odio o vendetta (Sena mi fe’,
disfecemi Maremma:/ salsi colui che ‘nnanellata pria/ disposando m’avea con la sua
gemma); nessuna condanna, nessuna accusa, neppure per perifrasi, al fratello persecutore pronuncia, invece, Piccarda, che, lontana anni luce dalle miserie terrene, si
limita ad una generica, quanto sofferta e dolente considerazione sulla malvagità
umana:
Uomini poi, a mal più che a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
Canto, dunque, questo terzo del Paradiso, della poesia, dell’arte, della musica, ma anche, e soprattutto, degli affetti e delle passioni umane: io credo che nessun’altra poesia abbia saputo esprimere simili altezze.
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