Intervista a Sumaya Abdel Qader: “Porto il velo, adoro i Queen” - i

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Intervista a Sumaya Abdel Qader: “Porto il velo, adoro i Queen” - i
Intervista a Sumaya Abdel Qader: “Porto il velo, adoro i Queen”
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Intervista a Sumaya Abdel Qader: “Porto il velo, adoro i Queen”
Sara Capraro (March 08, 2009)
Sumaya Abdel Qader è un’italiana figlia di immigrati giordano-palestini. Ha fondato l’associazione
Giovani Musulmani d’Italia: “Si può essere sia Musulmani che Occidentali. Tutto dipende della misura
in cui scegliamo di vivere le due identità”.
Sumaya Abdel Qader nasce a Perugia il 16 Giugno 1978. Figlia di immigrati giordano-palestinesi ha
conseguito una laurea in biologia e sta per prenderne una seconda in lingue e culture straniere.
Collabora con Università e scuole italiane tenendo conferenze, lezioni e corsi su Islam, mondo araboislamico, musulmani europei, immigrazione, nuovi italiani, multicultura. Tra i fondatori
dell'associazione GMI (Giovani Musulmani d'Italia), ha ricoperto la carica di Segretario Generale e
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Vice Presidente. Scrive per il settimanale "Vita" e il suo inserto mensile "Yalla Italia". Ha pubblicato
per "Sonzogno Editore" nel settembre 2008 "Porto il velo, adoro i Queen" - nuove italiane crescono.
Sumaya, già nel titolo del suo romanzo, “Porto il velo, adoro i Queen”, lei esprime un paradosso
molto importante, messo lì quasi a lanciare una sfida al lettore. Cosa ci vuol raccontare con questa
scelta? Crede che due azioni così contrapposte, che chiaramente rispecchiano uno stile di vita,
possano convivere?
Bisogna rendersi conto che ognuno è la sintesi delle sue esperienze. Si può essere sia Musulmani che
Occidentali, magari in modo diverso dallo ‘standard’, nella misura in cui scegliamo di vivere le due
identità. Le leggi e la Costituzione italiana non sono in contrasto con quelle islamiche.
Ci possono essere divergenze in alcuni aspetti, abitudini, modi di vivere la propria vita, che
comunque sono risultato di scelte (entro la libertà e la legge) che sono espressione di una tradizione.
Il livello religioso ed il livello civico sono piani diversi. Non si può chiedere ad una persona se è più
italiana o musulmana. Al massimo si può chiedere se una persona è più araba o italiana, se è più
vicina al cristianesimo o all’islam. Quindi si può essere musulmani-italiani-europei, o meglio, nuovi
musulmani-italiani-europei (per nuovo intendo coscienza nuova della propria identità naturalmente
espressa, facente parte del contesto civile nuovo) senza contraddizione, ma come espressione di
scelte.
Il testo del libro scorre attraverso il racconto di Sulinda e di come ella vive le sue giornate. Le parole
della protagonista sonno anche un po’ le sue?
Si, le parole di Sulinda sono in gran parte anche mie.
In un nostro speciale abbiamo parlato dell’organizzazione ‘Rete G2 - Seconde generazioni [2]’,
attraverso cui lei si è già raccontata proprio in veste di appartenente alla seconda generazione, in
quanto figlia di immigrati nata e cresciuta in Italia. Cosa può raccontarci della sua esperienza da G2?
Quali sono i problemi principali che un figlio dell’immigrazione si trova a dover affrontare all’interno
della società italiana?
La prima difficoltà che si incontra è essere accettati per come siamo: diversi, nuovi, speciali,
portatori di ricchezza, ecc… Così non si riesce a normalizzare la nostra vita. Tutto sembra diventare
dicotomico. Siamo approcciati per opposti contrari. Quando si è giovanissimi la logica del branco
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degli amici-compagni diventa: ‘o sei come noi o sei fuori’. Questo nelle persone più sensibili crea
senso di inferiorità, impotenza, esclusione. Essere accettati non solo dalla gente, ma anche dalle
Istituzioni, difficilmente riconosciuti come parte della società. La questione della cittadinanza che nel
libro racconto non è la sola storia sfortunata di Sulinda, ma di centinaia di ragazzi. Il riconoscimento
è un passo importante verso un’interazione normalizzata.
Il secondo problema è il rapporto con le famiglie. I genitori a volte (non sempre) rappresentano tutto
quello che di negativo gli ‘altri’ vedono in te. Quindi è facile l’allontanamento da loro, il senso di
vergogna, il conflitto. Allontanamento che diventa ancor più frequente nella fase dell’a
dolescenza.
Un capitolo del libro è dedicato ad un Suo viaggio negli Stati Uniti. Come vivono invece i giovani
musulmani in uno dei paesi più cosmopoliti al mondo? Riscontrano gli stessi problemi dei cugini
italiani?
I giovani americani crescono con caratteristiche tipiche dei loro connazionali. Amano l’America
davvero perché l’America li ama. Li ‘regolarizza’ e ‘normalizza’ da subito. È il pregio della
meritocrazia, a dispetto della ahimè Italia che tende al clientelarismo e campanilismo.
Quale futuro vede per i giovani musulmani, e dunque per tutti i ragazzi di seconda generazione, qui
in Italia? E negli Stati Uniti?
Vedo un futuro che deve essere impegnato. Contro corrente forse, ma coraggioso e portatore di
ricchezza.
Nonostante il clima internazionale, difficile e teso, lavorare per il bene comune deve restare la parola
d’azione!
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