LibertàEdizioni

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LibertàEdizioni
LibertàEdizioni
Fabio Altieri
SAUNA
LibertàEdizioni
Questo libro è dedicato a tutti quelli che
hanno visto una scintilla in me e si sono
fermati ad ammirarla e a tutti quelli che
non l’hanno vista e son passati oltre.
Ed è dedicato a Maria che non ha mai
smesso di alimentare quella scintilla facendomi credere che fosse un fuoco.
F. A.
Orario Scolastico
Lunedì
Martedì
Mercoledì
Giovedì
Venerdì
Sabato
8-9
Italiano
Italiano
Italiano
Storia
Filosofia
Ed. Fisica
9-10
Chimica
Filosofia
Italiano
Chimica
Fisica
Latino
10-11
Inglese
Filosofia
Matematica
Chimica
Disegno
Matematica
11-12
Inglese
Religione
Inglese
Ed. Fisica
Latino
Fisica
Fisica
Matematica
Latino
Disegno
12-13 Storia
18-20
sauna
20-2
sauna
Domenica
sauna
Sauna
sauna
SAUNA
1.
Entro in bagno e chiudo la porta alle mie spalle. Il bagno di casa mia è piccolo e angusto. Vicino alla porta
c’è un mobiletto blu dove i trucchi di mia madre giacciono quasi sommersi da un mare di batuffoli di cotone.
Su di un ripiano si trovano gli assorbenti. Nonostante
mia madre sia ancora giovane non li usa più da molto
tempo. La scatola è rimasta immobile e inanimata per
anni come il ricordo della persa fertilità. La confezione
è di plastica verde e mi dà uno strano senso di tristezza,
come fosse un monito del passare del tempo. A volte la
prendo in mano o la sposto di qualche centimetro sul
suo ripiano, ma la sensazione di tristezza rimane permeata nella scatola.
Accanto al mobiletto blu c’è uno specchio. Non è a figura intera, ma se stai facendo la doccia dentro la vasca
puoi vederti bene fin sopra le ginocchia. Io lo faccio
spesso non perché abbia un bel fisico o perché sia una
specie di voyeur del mio corpo, ma perché a volte mi
sembra di vedere un lieve miglioramento della struttura
fisica, anche se probabilmente è solo la mia immaginazione.
Abbasso lo sguardo e fisso con attenzione una spugna
per il corpo immobile vicino al lavandino. La guardo
con concentrazione e insistenza, come se fossi in grado
di farla muovere. Quando ero bambino, come tutti i
bambini, credevo di avere poteri paranormali. Ho creduto a lungo che bastasse fissare gli oggetti e trovare la
giusta combinazione di sguardo e concentrazione perché
loro si spostassero.
Ora ho sedici anni, ma questo non mi impedisce di provarci ancora, certo non con la stessa frequenza di un
tempo. Fisso la spugna e una voce dentro di me dice
spostati, spostati!
Ma non succede nulla. Allora mi svesto ed entro sotto la
doccia.
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Lo specchio riflette la mia immagine e io ne guardo i
dettagli. Sono un ragazzo normale. Mi sento a disagio
per non essere propriamente alto, pur non essendo neanche basso. Una mediocre via di mezzo. I capelli sono
ondulati e anche loro non hanno per nulla idea di quello
che sono o diventeranno. A volte ricci e quasi belli, a
volti crespi e capricciosi nonostante il gel. Il resto del
mio corpo non ha nulla di anormale e nulla di eccezionale. Due capezzoli rossi piccoli e un ventre piatto, con
addominali poco segnati. Non ho la desiderata forma a
V, ma le spalle sono definite e sorreggono due braccia
magre e lunghe. Le labbra sono quello che realmente mi
piacciono. Sono piene e rosse. A volte provo la loro elasticità e disegno un sorriso studiato che si riflette sullo
specchio del bagno. Nella mia mente sono un’arma di
conquista. L’arma che conquisterà cuori e amori.
Oggi come ogni venerdì sono in bagno e compio il rituale della doccia. Una doccia lunga fatta come un antico sacrale. La preparazione consiste nel riscaldare con
la stufa il bagno e scegliere una musica che rifletta il
mio stato d’animo. Sento Erotica di Madonna, Dummy
dei Portishead o Ultra dei Depeche Mode a secondo
dell’umore. La doccia è come un battesimo. Uscito dal
bagno mi sento fresco, quasi purificato; con la stessa
sensazione di liberazione che ebbi anni fa dopo la prima
confessione. Leggero e felice. Come se i peccati di masturbazione di una intera settimana siano stati lavati via
e io diventi nuovamente angelico, con la faccia tonda e
rosa per l’acqua calda.
Mi piace l’espressione del viso appena fuori dalla doccia. Le labbra rosse spiccano sul resto della faccia da
bambino/ragazzo. Con l’asciugamano intorno alla vita
muovo i fianchi al ritmo della musica o mimo nuove espressioni facciali di gioia, sorpresa o risata che userò
domani a scuola. Canto strofe intere del brano Erotica
di Madonna. “…erotic…erotic put your hands all over
my body …erotic……EROTIKA…” canto e mi concentro
solo sulle labbra, il resto non è parte di me. Le mie labbra sono quelle di un famoso cantante che presenta a un
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pubblico in piena crisi puritana la sua nuova hit. Posso
quasi vedere le facce in pieno shock mentre canto la mia
canzone propaganda sul sesso libero e sfrenato.
La mia memoria è incredibile. Sono capace di assorbire
i testi di una canzone nell’arco di una giornata. Canzoni
che ho imparato a tredici anni sono ancora ben impresse
come poesie. Quando la canzone Erotica finisce e inizia
Fever, sempre dello stesso album, penso di ritornare alla
prima traccia, ma mi blocco.
Mi sento contento e vuoto allo stesso tempo. Domani
sarà sabato, il mio giorno preferito. Per il novanta percento dei ragazzi della mia classe sabato è il giorno preferito perché l’indomani non si andrà a scuola. Io faccio
parte di quel dieci percento che lo considera il giorno
favorito senza un reale motivo. Non ho molti amici e
non esco. Ho cambiato scuola da due mesi e questo è
l’inizio del mio quarto anno di liceo.
Ho conosciuto da poco i miei nuovi compagni di classe.
Essere circondato da trenta sconosciuti mi dà una sensazione surreale. Ho l’impressione di riuscire a interagire
con loro fino ad un certo punto. Come se intorno a me ci
sia una cappa di fumo che mi protegge e mi isola e mi
impedisce di invecchiare e di vivere come gli altri. Mi
piace pensare di essere diverso da loro. Da loro che vogliono uscire con le ragazze e bere birra, sposarsi, procreare e morire in pace. Io non sarò così! Ne sono convinto. Se dovrò morire lo faro con un botto e chiederò
che al funerale venga cantata una canzone triste, ma non
cattolica. Piuttosto Jesus to a child di George Michael.
La chiesa sarà piena di gente che ripenserà a me come
ad un eroe o come un ragazzo che si è immolato per una
giusta causa. Ma devo ancora lavorare sulla giusta causa
per la quale morirò.
Sento i rumori di mia madre in cucina che prepara la
pizza. Potrei descrivere ogni singolo movimento pur essendo in una stanza diversa. Il bagno è avvolto da una
coltre di vapor acqueo. Apro la porta e il vapore scappa
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via. Note e fumo escono. Finisco di vestirmi ed esco anche io. Raccolgo i panni sporchi sparsi sul pavimento. A
volte lavo le mutande prima di aggiungerle alla cesta dei
panni sporchi. Le strofino col sapone e le sciacquo soprattutto in prossimità del pene, in modo da eliminare
l’odore di pipì e sperma. Quella macchia gialla sullo slip
immacolato è un segno delle mie colpe. Più di una volta,
non riuscendo a liberarmene, le ho buttate di nascosto.
L’ho fatto furtivamente, come se stessi liberandomi di
un cadavere. Dopo di che mi sono sempre sentito in dovere di essere più buono e più obbediente per almeno
una giornata intera per giustificare il costo delle mutande.
Questa settimana non è necessario che le butti via.
Spengo la radio e nel tirare via la spina mi guardo nello
specchio appannato e canto: “My name was Dita… I
will be your mistress tonight.”.
Prendo lo stereo e lo ripongo nella mia camera. Raccolgo da terra il libro di letteratura latina, accendo la luce
del comodino e mi stendo sul letto a pancia in giù. È la
mia posizione preferita. Leggo la vita di Catullo.
L’odore della pizza vaga per casa invitante e io pregusto
la cena. Sotto la luce gialla della lampada mi sento protetto e a casa, contento di studiare e felice dei miei voti.
A volte in questa posizione comincio a muovere il bacino e quello che inizia per gioco finisce poi in una masturbazione resa più soddisfacente dall’attrito con i pantaloni e dal peso del corpo sul sesso. Una volta venuto
mi asciugo con dei fazzoletti, mi alzo con l’orecchio teso e se non c’è alcun rumore di passi mi dirigo col sesso
ancora semi eretto in bagno per lavarmi e prevenire
l’impudica macchia gialla. Oggi mi accontento di giocare un po’, non ho voglia di sporcarmi così in fretta e di
perdere questa sensazione di freschezza appena conquistata.
Mi è spesso difficile dissuadere i miei pensieri da fantasie sessuali di uomini nudi su donne compiacenti. Di
uomini con i loro corpi muscolosi e caldi che affondano
dentro carni delicate senza proferire parola, senza dare
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amore con semplice e atavico desiderio di sesso. Sotto il
mio peso il letto cigola lentamente. I miei occhi scorrono sul testo, ma i pensieri vagano su immagini ben diverse.
Sento il forno che si apre e il rumore della teglia che
scivola dentro.
Mio padre è di la al computer. Sta cercando di capire il
nuovo programma di progettazione edilizia in inglese
che ben presto sostituirà quello ormai obsoleto usato nel
suo studio di architettura. A volte lo aiuto. Molti termini
sono tecnici, ma insieme facciamo una discreta squadra
di traduttori. È un buon padre disponibile e attento ai
miei studi. A volte mi aiuta in fisica o geometria. Io lo
lascio fare, anche se spesso ho già capito la lezione. Lo
faccio giusto per fargli capire che è ancora parte della
mia vita e che non è solo il genitore che paga il cibo e i
miei studi.
Mio fratello vive nella stanza accanto, ma potrebbe vivere anche nel pianeta accanto. Siamo separati da cinque anni di età e da cinque milioni di costellazioni.
L’anno in cui sono entrato al liceo lui frequentava la
quinta. Tutti lo conoscevano. Io ero il fratellino di Guido. Poi quando ho iniziato il secondo anno lui si è iscritto ad architettura e io contavo di prendere una mia autonomia e di convincere tutti della mia incredibile personalità, ma ero ancora il fratello di qualcuno più bravo di
me negli sport e più simpatico di me. In terza liceo,
quando la nuova generazione era in primo liceo e la
vecchia si era scordata già di mio fratello, ero rimasto
una nullità tra le tante. Non ero parte dei fighi né parte
degli sfigati. Ero in una specie di purgatorio liceale.
Come il fratello di nessuno.
In terza liceo persi quasi l’anno. I miei voti erano come
le montagne russe. In forte ascesa o discesa libera. Fui
furbo abbastanza o sciocco abbastanza da far credere a
tutti che era colpa del cambio dei professori e convinsi i
miei genitori a cambiarmi di classe. Il tutto mi si ritorse
contro e, non trovando una classe poco numerosa per
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accogliermi, fui costretto a raccogliere i libri e i miei disegni e a cambiare liceo.
Giro la pagina del libro di letteratura latina mentre continuo a muovere il bacino in alto e poi in basso. Lo faccio lentamente e con la perizia acquisita negli ultimi
cinque anni. Ogni volta che mi sento troppo vicino a
venire mi fermo per un paio di minuti e mi concentro di
più su Catullo. Gaio Valerio Catullo nasce nel 87 a.C. a
Sirmione (sul lago di Garda) e muore nel 55 a.C. Vive
dunque nella prima metà del I secolo a.C., durante l'età
di Cesare. Il poeta non si occupa di guerre, ma solo di
sentimenti.
Memorizzo il tutto e poi ricomincio a muovermi.
Mia madre ci chiama dalla cucina la pizza è pronta e
Catullo dovrà aspettare e anche io!
Non so se posso definire il rapporto con i miei genitori
formale.
Sicuramente potrei definire la mia famiglia come una
efficiente macchina d’affetto. Mia madre autoritaria, ma
anche dolce, mio padre accondiscendente e lavoratore,
mio fratello distaccato e indipendente.
Io sono parte di questa cerchia; un po’ vezzeggiato perché il piccolo della famiglia, un po’ ignorato sostanzialmente per lo stesso motivo.
Così tra discorsi usuali mangiamo la pizza. Io ne prendo
un pezzo, lo alzo sopra la testa e gioco ad attorcigliare la
mozzarella intorno alla lingua. Vorrei avere uno specchio per capire se le mie labbra fanno un bell’effetto così aperte e voraci di mozzarella.
Sabato mattina arriva puntuale. Trovo la colazione pronta. Mio padre l’ha preparata ed è tornato a letto perché
oggi non deve lavorare. La casa intera dorme tranne me.
Mi chiudo la porta di casa alle spalle cercando di non
svegliare nessuno e cammino verso la fermata
dell’autobus. Dopo venticinque minuti di corsa scendo
in prossimità del liceo e faccio l’ultimo tratto di strada
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mimando con la bocca le parole di No ordinary love di
Sade che sto ascoltando dal lettore CD.
Quando suona la campanella entro nell’istituto seguendo il resto dei ragazzi. Intravedo tra il mare di teste
quella di Damiano della 5F. La mia classe e la sua hanno l’ora di educazione fisica insieme. A volte mi metto
ai bordi del campo mentre gli altri ragazzi giocano a
pallacanestro. Lui fa sempre parte di una delle due
squadre. Io sempre parte del bordo campo. Se il tempo
mi è favorevole e fa abbastanza caldo si toglie la maglietta mentre gioca. Io lo guardo con una palese erezione nei jeans. A volte i nostri sguardi si incontrano per un
solo istante e il mio stomaco si contrae in sintonia con il
pene stretto tra le mutande bianche. Pur avendo iniziato
la scuola da un paio di settimane sono diventato bravissimo a scorgerlo tra gli altri studenti. Sarei capace di distinguere la sua camminata e il suo modo di far oscillare
le braccia nel bel mezzo della confusione di una gita
scolastica. È come se fossi dotato di un radar, la cui antenna è però posta ben più in basso della mia testa!
Le lezioni sono finite, inclusa l’ora di educazione fisica,
durante la quale, purtroppo, Damiano non si è tolto la
maglietta. Torno, come al solito, alla fermata
dell’autobus. Fa abbastanza caldo e cammino tenendo il
giubbotto in mano con indosso solo maglietta e jeans.
Sulla strada che separa il liceo dalla fermata del bus decido di fermarmi a salutare i compagni del mio precedente liceo. Non ho instaurato con loro grandi rapporti
di amicizia, ma mi piace credere di mancargli un po’.
Così perdo fin troppo tempo a parlare di televisione e
cinema e arrivo quando gli autobus stracarichi di studenti sono tutti partiti.
Guardo l’orologio e so che dovrò aspettare più di quaranta minuti per il prossimo bus. Telefono a casa e comunico che farò tardi.
Al bar di fronte la fermata c’è un gruppo di muratori coi
jeans strappati e macchie di calce sulle magliette e sui
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pantaloni. Li fisso per un po’ in maniera distratta. Uno
dei muratori risponde al mio sguardo. Guardare fisso
negli occhi una persona non mi è difficile. Non mi sento
a disagio. Non ho vergogna, né provo alcuna sensazione
particolare. È un gioco, perde chi dei due abbasserà lo
sguardo per primo.
Quando gli altri muratori salgono le scale dell’edificio
accanto al bar dove stazionavano, lui rimane indietro. Io
ascolto Personal Jesus dei Depeche Mode e muovo un
po’ il bacino avanti e indietro al suono delle chitarre elettriche. Lui invece di salire con gli altri attraversa la
strada e si ferma all’edicola accanto alla fermata
dell’autobus. Lo guardo istintivamente e lui a questo
punto non mi toglie gli occhi di dosso. Sono in parte
spaventato e in parte eccitato. Conosco bene questa sensazione e so che qualcosa sta crescendo e aumentando
di volume in prossimità del cavallo dei miei pantaloni. Il
muratore compra un giornale e inizia a leggerlo a cinque
metri da me. A intervalli regolari alza lo sguardo e mi
fissa. Io lo fisso. Lui abbassa lo sguardo per un po’,
quindi lo rialza per tornare a incontrare il mio. Dopo un
paio di minuti, stanco del gioco, comincia a camminare
lentamente in direzione opposta a quella in cui mi trovo.
Si ferma e mi fa un gesto quasi impercettibile con la testa. Come se volesse che io lo seguissi. Non ne sono sicuro e forse mi sono immaginato tutto, ma si sta muovendo in una direzione che mi porta più vicino a casa.
Per cui, penso, non c’è nulla di male se lo seguo per un
pezzo e magari aspetto l’autobus alla prossima fermata.
Così lo pedino da una certa distanza mentre lui di tanto
in tanto si volta. Mi sento come se fossi in un film, come se nulla possa accadermi perché non è una cosa che
sto facendo io ma un attore, una persona estranea. Lui si
ferma davanti un portone con due grandi ante di alluminio e vetro. Lo apre ed entra. Il portone rimane o viene
lasciato aperto. Entro. Mi guardo intorno. Ci sono due
porte a pian terreno. Entrambe sono chiuse. Salgo di un
piano. Potrei dire che pensavo che un mio amico abitasse lì o solo che volevo vedere l’interno del palazzo. O
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potrei darmela a gambe. Ho almeno tre diverse scelte su
cosa fare in caso di emergenza. Arrivo al secondo piano.
Una delle porte è aperta. Intravedo dalla posizione in cui
mi trovo il corridoio all’interno della casa da dove il
muratore mi fissa ambiguo. Questa volta il suo segnale
non è un cenno ma un invito evidente ad entrare. La mia
testa sta esplodendo, così piena di informazioni e di desiderio, di paura, eccitazione e ormoni. Se mi toccassi
potrei venire in due minuti.
Entro e automaticamente, senza che me lo chieda, mi
chiudo la porta alle spalle.
Come nei miei sogni ad occhi aperti non ci sono presentazioni. Lui mi fissa. Si avvicina e mi mette una mano
sul fianco. Non posso trattenere un lieve sospiro. Vedo
me stesso che poggia la cartella a terra insieme al giaccone. La casa è vuota e in ristrutturazione. La sua mano
sul mio fianco è un ferro caldo su un vitello. Sta perforando la maglietta e bruciando la mia pelle. Mi abbasso
in ginocchio e sbottono i suoi jeans. Lui mi accarezza la
testa come si fa con i cani. Ma il gesto non mi dà fastidio, non mi sento umiliato. La sua erezione è quella di
un uomo. Il suo pene è grosso con una vena che scorre
dalla base fino in punta. Mi fermo. Non ho mai visto il
sesso di un uomo così da vicino se non il mio. Lo imprimo nella mente, poi chiudo gli occhi e lo faccio scivolare giù nella bocca umida di saliva e desiderio. Lo
sento caldo, grosso e liscio. Mi sembra di avere in bocca
un ghiacciolo di quelli che mangiavo una volta quando
ero bambino. Quelli cilindrici che riempivano la bocca
di ghiaccio e sciroppo alla frutta. Il muratore ha una
mano sulla mia testa e decide il ritmo dei miei movimenti. Non geme e non parla. Non c’è un solo rumore
che io riesca ad avvertite, tranne quello della mia bocca
che ingoia e rilascia come se stessi succhiando latte dalla mammella di una mucca. Lo succhio piano, con calma. La mia testa, presa in un movimento meccanico e
preciso, sembra scollegata dal cuore che batte
all’impazzata. Quando è sul punto di venire mi fa staccare. Io apro i miei pantaloni e lui mi guarda afferrarmi
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il pene con una mano mentre con l’altra mano tengo il
suo. Mi alzo. Gli arrivo alla spalla, sono almeno dieci
centimetri più basso di lui. Continuo a muovere i nostri
sessi all’unisono. Io vengo prima e lui dopo un minuto.
Quando vengo sento quasi le gambe cedere e mi aggrappo al suo fianco. Lui viene subito dopo senza ritegno e mi tempesta la maglietta di sperma. Ne sento il
calore attraverso la stoffa e penso che forse dovrò buttarla via.
Poi mi tiro su i pantaloni e metto la giacca sulla maglietta. Lui aspetta che esca dalla porta e la chiude alle mie
spalle. Non abbiamo scambiato una parola, solo i liquidi
dei nostri corpi. Il mio è sui suoi jeans tra le altre macchie bianche. Il suo già si sta asciugando sulla mia maglietta rossa. Scendo le scale e mi ritrovo a correre per
prendere l’autobus. Le porte si chiudono cigolando alle
mie spalle. Sono le due e mezza. Ho una fame da lupi.
Domani è domenica.
Di domenica mio padre mi sveglia sempre portandomi a
letto una colazione speciale. Latte macchiato e toast.
Adoro il sapore salato dei toast con sottiletta e prosciutto che si confonde con quello caldo e denso del latte.
Dopo colazione trascorro pigramente la mattina. La domenica mattina è ancora festa. È solo il pomeriggio che
arriva quella strana sensazione di paranoia e apatia,
chiara manifestazione di una nuova settimana che inizia.
Fortunatamente è ancora mezzogiorno. Sono seduto a
gambe incrociate sul letto di camera mia. Dalla cucina
sento l’odore delle polpette di carne che mia madre sta
friggendo come antipasto al pranzo domenicale.
Tra le gambe ho l’album da disegno. Con schizzi rapidi
e decisi tratteggio il corpo e il volto di un uomo. È il
volto di un muratore. Prendo la matita con la punta più
grossa e creo ombre a volte sottili a volte forti rendendo
il disegno sorprendentemente vivo. Con una matita a
punta più sottile mi diverto a disegnare i peli sulle braccia. È strano come le cose più insignificanti possano
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rimanere impresse in certe situazioni. Lo disegno in una
posizione statica. In una mano ha un secchio pieno di
calce e il suo sguardo è diretto alla parete appena finita.
Quando mia madre entra in camera con le polpette in
un piatto le mostro il disegno.
“È molto bello tesoro. È un muratore?” mi chiede.
“Si”.
“Mi piace molto. Perché non lo appendi in camera?”.
“Lo devo ancora finire” rispondo.
“Capisco. A me piace anche così com’è, ma tu ne capisci più di me… va bene tesoro, vado a vedere se papà
vuole delle polpette”. “Ok” le dico.
Ed esce dalla mia stanza. Mi vergogno un po’ del mio
pene eretto.
Anche lui ha apprezzato il disegno, proprio come mia
madre. Lei però non ha notato che la zip dei pantaloni
del muratore è abbassata mentre l’altra mano indica
quasi casualmente una macchia più chiara delle altre.
Solo un piccolo dettaglio, che probabilmente nessuno
noterà all’infuori di me.
Non sono mai di buon umore di lunedì mattina. Questo
lunedì sono particolarmente agitato. Esternamente sono
calmo. Ascolto la mia musica. Cammino con lo stesso
passo. Ma i miei occhi sono più vivi e scossi del solito e
mi chiedo se i ragazzi intorno a me lo possano notare.
La maggior parte di loro è in fila, come ogni giorno alle
undici, durante la ricreazione. Un pungente odore di unto ha riempito i corridoi del liceo. Una donna grassa e
un ragazzo di qualche anno più grande di me vendono, a
mani voraci di studenti, cornetti dalle dimensioni microscopiche per un prezzo iniquo. Ne compro uno. È caldo,
ma la sfoglia ha un sapore salato più che dolce. La qualità è decisamente scadente, ciò nonostante mi piace e lo
mangio di gusto, consapevole che ne vorrei comprare
altri due o tre.
Stanotte ho fatto un sogno. Un sogno strano e irriverente. Blasfemo e scioccante. Mi sono svegliato agitato
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come se realmente fosse successo. Come se realmente
avessi fatto sesso con mio fratello. Non so da dove sia
venuto questo sogno. So solo che è stato molto reale.
Nel tempo stesso in cui lo sognavo me ne vergognavo,
ma i sogni non si possono controllare né cancellare. Ricordo tutto perfettamente. Eravamo distesi sul divano,
uno accanto all’altro. Non eravamo nudi. Non ci siamo
baciati né toccati ma così, fermi in quella posizione, sapevo che avevamo avuto un contatto fisico non autorizzato.
Stamattina non ho avuto il coraggio di salutarlo e quando nel prendere lo zaino mi ha sfiorato ho sussultato
come se fossi stato attraversato da una scossa elettrica.
Lui non deve aver notato niente di strano. Non credo
possa aver realizzato che non riesco a guardarlo in faccia per la paura e che so bene non ci riuscirò per alcuni
giorni.
Compro un altro cornetto. Hanno scordato di riempirlo
con la nutella. Ne rimango deluso. È vuoto e sa di ben
poco. Damiano mi passa accanto mentre mi asciugo le
mani oliose su di una sciarpa appesa. Mi ha sorriso, credo. In lui rivedo lo stesso sguardo di mio fratello nel sogno. Ho paura e ne sono attratto in ugual misura.
Seconda ora di martedì. Il professore di filosofia mi ha
già richiamato due volte. La seconda volta ha voluto sapere cosa stessi scarabocchiando sul quaderno. Si è alzato e, prima che potessi nasconderlo, l’ha preso. Nel
vedere il mio disegno è ammutolito e mi ha guardato intensamente. Io ho retto lo sguardo anche se le mie guance erano in fuoco. Non so bene se fosse odio o un tentativo di ricordarsi cosa diceva Freud riguardo a un evento
del genere. Mi ha restituito il quaderno e intimandomi di
stare più attento che questa non era l’ora di disegno o
religione, ma di educazione all’arte della filosofia.
Il mio disegno non era tanto fuori tema se devo essere
sincero.
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Rappresentava un ragazzo con gli occhiali, tarchiato,
con occhi vivi e schietti e capelli lisci e neri. Il ragazzo
del disegno era vestito con una giacca identica a quella
che indossa oggi il professore. Quel ragazzo è la mia idea di quello che avrebbe dovuto essere il professore di
filosofia quaranta anni fa, quando era tra i banchi di
scuola.
Alla fine della lezione, prima di uscire di classe, il professore mi guarda dritto negli occhi come se avesse capito che il mio disegno era in realtà una domanda. O
meglio una curiosità. Mentre stavo mettendo insieme i
tratti del viso di quello che doveva essere il mio professore da giovane, mi chiedevo se questo era quello che
voleva diventare. Se ragazzo tra i banchi pensava che
non avrebbe mai lasciato la scuola e che sarebbe stato
costretto a venirci ogni giorno con una giacca fuori moda a parlare di Sant’Agostino o Aristotele. Ad insegnare
a una nuova generazione che fa finta di ascoltare. E mi
chiedevo se a lui fosse mai successo, in quei giorni tra i
banchi, di avere un’erezione durante una lezione noiosa
come a me capita spesso durante le sue. Come mi era
successo mentre disegnavo il suo volto e le sue mani
grassocce e tozze.
Alla fermata dell’autobus il mio sguardo vaga falsamente noncurante in direzione dei lavori che si stanno svolgendo nell’edificio di fronte. Il muratore lavora lì. L’ho
rivisto qualche volta. I nostri sguardi si sono incrociati
in un paio di occasioni. Ma l’invito non è stato ripetuto,
né io potrei mai avvicinarmi per fargli capire che sarei
disposto a un altro incontro. La monotonia di questi ultimi giorni mi sta uccidendo. Decido di tornare a casa a
piedi. Oggi pomeriggio, ho deciso, mi iscriverò in palestra per ammazzare il tempo e la noia dell’inverno.
Arrivato a meno di un chilometro da casa alzo lo sguardo e vedo di fronte a me una sagoma nota. In direzione
opposta alla mia cammina un ragazzo. Deve avere la
mia stessa età. Lo conosco per essere il compagno di
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giochi del mio vicino di casa, che ha un anno più di me.
Li ho osservati spesso giocare dalla finestra di casa mia
a pallone oppure a rugby. Quando è estate giocano entrambi senza maglietta. Il mio vicino di casa ha un corpo normale e un volto simmetrico. Niente che potrebbe
attirare l’attenzione. Ma un giorno, salendo le scale
mentre lui scendeva preceduto dal rumore dei suoi di
zoccoli di legno e vestito solo con jeans tagliati al ginocchio, un particolare mi ha colpito: i suoi capezzoli.
Più grandi del normale. Più grandi del dovuto. Piccole
montagne rosa che terminano a punta con uniformità e
bellezza. Quel semplice particolare ha dato al suo corpo
un altro significato e un aspetto chiaramente più appetibile. Ancora oggi ogni volta che lo incontro sotto casa e
lo saluto i miei occhi si soffermano un attimo di troppo
sulla maglietta all’altezza dei capezzoli e le mie mani
sudano come se volessero avvicinarsi e toccarli solo per
capirne la consistenza e carpirne la bellezza.
Il suo compagno di giochi, che cammina di fronte a me,
ha un fisico più asciutto e addominali scolpiti. Il volto è
simile a quello di un cavallo. Non è un bel paragone lo
so, ma in un certo senso gli dona. Non è brutto e il suo
viso allungato gli dà un certo fascino di ragazzo di strada. La sua camminata è sicura e ha lo sguardo di chi ha
visto cose che qualcuno della sua età non avrebbe dovuto vedere o forse a me piace immaginarlo così. Quando
ci incontriamo i miei occhi lo seguono e i suoi mi guardano, privi di emozione.
“Ehi ciao” mi dice.
“Ciao” rispondo preso alla sprovvista.
“Amico hai una sigaretta?”.
“No, non fumo”.
“Tu sei amico di Davide?” mi chiede squadrandomi.
“Sì, siamo vicini di casa abito sopra di lui”.
“Ecco dove ti ho visto. Beh ciao, ci vediamo”.
“Ciao”.
Poi, fatti due passi, mi richiama e mio malgrado sussulto:
“Ehi amico…”.
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“Cosa?” dico.
“Mi daresti una mano un attimo? Il mio motorino del
cazzo si è fermato. Ce l’ho qui dietro l’angolo. Sono
andato a chiamare un amico ma non è in casa e non lo
voglio lasciare qui” mi dice con spiccato accento dialettale.
“Ok” rispondo.
Cambio direzione e lo seguo. Dà una strana sensazione
camminare insieme a qualcuno che non conosci. Non so
cosa dire, quindi sto zitto.
“Stavi tornando da scuola?” mi chiede.
“Sì”.
“Che scuola frequenti?”.
“Il Liceo Majorana”.
“Io non vado più a scuola, faccio il meccanico”
“Ok” dico semplicemente.
“Ecco quello è il motorino” e indica un vecchio Ciao
blu parcheggiato sul marciapiede. Ci si siede e prova a
metterlo in moto. Il motorino scoppietta debole, ma non
si accende. Allora mi fa un gesto e io lo spingo. Dopo
tre tentativi parte.
“Grande! Questo stronzo!” grida.
Poi sorride e mi fa cenno di salire.
“Ti do un passaggio, dai monta”
Salgo dietro e non ho altra possibilità che tenermi dalla
sua vita. Il mio zaino è troppo pesante e se non mi tenessi cadrei all’indietro. Il motorino è chiaramente truccato e corre veloce. Anche attraverso il giubbotto riconosco la forma dei suoi addominali. Ogni volta che gira
si contraggono turgidi sotto la mia presa. Passiamo davanti casa mia, ma lui non si ferma e io non gli dico di
fermarsi. Imbocca una strada laterale che conosco. Infatti la usavo come scorciatoia quando ero alle elementari per tornare a casa.
Alla fine si ferma di fronte al portone di una cantina.
Scendo per primo e lui spegne il motorino.
“Grazie dell’aiuto, amico. Metto dentro il motorino” mi
dice.
Poi bloccandomi mentre sto per salutare aggiunge:
23
“Ho dell’erba dentro la cantina, vuoi fare un tiro?”
Ci penso solo un attimo e accetto vinto alla curiosità.
“Ok”.
La cantina è abbastanza grande. L’equivalente di due
stanze o di un piccolo monolocale. Dentro ci sono altri
due motorini. Uno rosso e un Ciao che è stato verniciato
da poco di giallo. Sotto il motorino sono stati messi dei
giornali per evitare di sporcare il pavimento. Su un lato
della stanza c’è un banco da lavoro con una morsa e una
sega elettrica. Delle chiavi inglesi di diversa misura e
una decina di cacciaviti sono fissati al muro con dei
ganci. Il manubrio di un motorino è sul bancone da lavoro, che sembra il tavolo operatorio di un medico dei
motori.
Macchie di olio sostituiscono quelle di sangue e i cavi
neri che escono dal fanale, posizionato al centro del manubrio, sembrano dei nervi scoperti. Poggio lo zaino a
terra e mi siedo. Di fronte a me è appeso il calendario di
una donna nuda e su un ripiano non distante una serie di
riviste porno. Questa sembra essere la sua capanna segreta.
“Accendila” dice e mi passa una canna già pronta.
La prendo dalle sue mani e l’accendo. Faccio due tiri,
tossisco e gliela passo. Il fumo riempie la stanza mentre
lui mi parla con accento dialettale sempre più marcato. I
miei occhi non possono fare a meno di notare che si
tocca il pene in continuazione, come per dimostrare di
essere un uomo duro.
Poi indica le riviste:
“Visto che collezione. Voglio diventare un attore porno.
Ci vuole una certa dotazione per farlo” dice toccandosi
di nuovo.
“Ci credo” rispondo nascondendo un sorriso “e devi anche farlo con ragazze che non ti piacciono”
“Ma li hai visti i giornali amico? Sono tutte fighe. Tutte!
Non avrei problemi, potrei farmene cinque o sei al
giorno”.
Sorrido e non rispondo.
“Basta tenersi in allenamento” e si tocca nuovamente.
24
Appoggio le gambe sulla sedia di fronte a me e vedo
che segue il movimento con gli occhi. Il mio gesto non è
studiato eppure so che quel semplice gesto lo ha innervosito. Si tocca di nuovo. Mi passa la canna e faccio un
altro paio di tiri. Quando gliela restituisco le sue mani ci
mettono un attimo di più del dovuto a recuperarla e ho
una strana sensazione, come se stesse per succedere
qualcosa. Lui sfoglia una rivista porno. Gira la pagina e
si tocca un attimo. Qualcosa sta diventando decisamente
ingombrante nei suoi pantaloni e anche nei miei.
“Lo vuoi toccare?” mi chiede.
Fisso il cavallo dei suoi pantaloni, ma non rispondo. Lui
lo traduce in un sì e si abbassa la cerniera. La sua erezione è più consistente della mia e sembra voler trapassare le mutande nere. Con una mano tira fuori il pene
dagli slip, lo stringe un attimo e guarda la pagina del
giornale porno. Lo soppesa con una mano e me lo mostra come fosse una macchinina da collezione della quale va fiero. Lo prendo in mano e lo stringo come aveva
fatto lui un attimo prima. Lui inspira una boccata dalla
canna e tira un po’ su la maglietta. Io comincio a muovere il suo pene su e giù. Lo guardo in faccia e cambio
ad intervalli il ritmo della mano, cercando di capire quale gradisca di più. Sbottono i miei pantaloni e cerco con
la mano il mio pene eretto. Lui si avvicina e ricambia il
favore. È strano, ma la situazione mi dà l’idea di uno
scambio di opinioni o un confronto. Io sono ancora seduto. Lui è in piedi vicino a me con il giornale porno
davanti e le gambe un po’ piegate per afferrare meglio il
mio pene. Non lo fissa, lo muove soltanto e io muovo il
suo che è più scuro del mio, ma di grandezza comparabile. Non è circonciso e ogni volta che ne spingo indietro la pelle mi dà l’idea di un fiore che sboccia tra le mie
mani. Quando con la mano libera ha finito di sfogliare il
giornale si gira verso di me.
“Alzati” dice.
Io mi alzo e mi metto accanto a lui. Poi aumenta la velocità della sua mano e io faccio lo stesso. Veniamo
quasi in contemporanea e sporchiamo il pavimento con
25
il nostro seme. Nessuno dei due geme o urla. Lo facciamo come un patto silenzioso.
Alla fine mi passa dei fazzoletti. Ci puliamo. Poi io mi
alzo i pantaloni e dico:
“Io vado. Ciao, grazie del passaggio” parlo veloce e ho
fretta di uscire.
“Ciao. Grazie dell’aiuto col motorino. Ci vediamo” risponde.
Esco fuori e comincio a camminare. Sono a soli trecento
metri da casa. Accelero per recuperare il tempo perso,
ma so di essere molto in ritardo.
Mia madre ha lasciato come ogni giorno la porta di casa
aperta e quando entro mi viene incontro:
“Tesoro sei in ritardo” mi dice appena chiudo la porta.
“Lo so, scusa. Sono tornato a piedi. Ho perso l’autobus
per aiutare un mio amico col motorino”. Mento, ma solo in parte.
“Vai a lavarti le mani. La pasta è già fredda” mi dice lei
più calma.
“Ok”.
Mi siedo e anche se fredda la pasta mi sembra buonissima, ma forse è l’effetto della fame chimica dovuta alla
canna. La mangio con gusto e me ne servo una seconda
porzione.
26
2.
Dopo il mio incontro con il ragazzo del motorino ho
comprato un pacchetto di sigarette: Malboro light da
venti. Da un paio di settimane ho preso l’abitudine di
chiudermi in bagno a scuola per fumarne una, lezioni o
compiti in classe permettendo. La sigaretta mi aiuta a
rilassarmi. Mi piace disegnare mentre fumo. Mi sembra
che così diventi qualcosa di più impegnativo di un
hobby. Inoltre i bagni dei ragazzi sono una vera miniera
di informazioni. Puoi sapere chi si è scopato chi, chi è
una ragazza facile e chi non te la darà mai. Ci sono
scritte sulle mattonelle color blu acqua che risalgono a
diverse generazioni di studenti. Come un testamento fatto di insulti per i professori, di odio per le materie e di
immagini pornografiche di cazzi smisurati e fiche aperte
e umide. Fumo la sigaretta mattutina seduto sul water.
Sono le undici e tre minuti. Guardo a terra le macchie di
pipì sparse sul pavimento che è stato pulito l’ultima volta subito dopo la rivoluzione francese. Dal corridoio
sento dei passi che si avvicinano. Non mi innervosisco.
Ho preso la strana abitudine di considerare tutto quello
che faccio facilmente spiegabile.
Se qualcuno bussasse ora spegnerei la sigaretta nel bagno, tirerei l’acqua e infine aprirei la porta. Dietro la
porta ci sarebbe ovviamente il vicepreside. Il preside
non si abbasserebbe mai a venire nel bagno dei ragazzi. Lui mi guarderebbe da dietro gli occhiali spessi e
direbbe:
“Non dovresti essere in classe?”.
E io:
“Dovevo usare il bagno”.
Lui quindi, totalmente prevedibile:
“Cos’è questo odore? Stai fumando”.
“No”
“Ma qui c’è odore di sigaretta!”.
“Non è la mia”.
“Il fumo è recente”.
27
“Forse il ragazzo che è entrato prima di me”.
“Va bene, torna in classe subito”.
E Amen. La scena andrebbe più o meno così. Io tornerei
in classe con il solito sguardo di ammonizione alle spalle e lui continuerebbe la ronda mattutina.
I passi adesso si fanno più vicini. Dal buco della serratura, privato della chiave da chissà quanti anni, vedo chiaramente che qualcuno sta arrivando. La luce che entra
dalla serratura è infatti offuscata da una macchia nera in
avvicinamento preceduta da rumore di tacchi. Faccio
l’ultimo tiro, mi alzo e butto la sigaretta nel bagno. Scarico l’acqua e in contemporanea la porta si apre. Sono
preso alla sprovvista ed espiro il fumo. Tutta la mia copertura è chiaramente saltata.
“Ehi stronzetto stai fumando?” mi viene chiesto.
“Scusa?”.
Sento le guance in fuoco. La persona che mi sta davanti
non è il vicepreside, ma una ragazza.
“Che ci fai nel bagno degli uomini?” chiedo, ma la mia
voce non è ferma come vorrei.
“E tu che ci fai nel bagno degli uomini, non dovresti essere in quello dei bambini?”.
“Che vuoi?” rispondo un po’ nervoso.
“Una sigaretta” mi dice lei, calma e quasi divertita.
Prendo il pacchetto, lo apro e glielo porgo. Lei prende
due sigarette. Una la mette in bocca e l’altra la tiene tra
le mani. Non ho alcun interesse a rimanere in questa situazione ed esco dai bagni. Lei mi segue per un tratto,
poi mi ferma tirandomi un braccio. Ritiro il braccio dalla presa e la guardo.
“Cosa c’è?” le chiedo.
“L’altra sigaretta è per te” mi dice.
“Ho già fumato grazie” rispondo. Il tono della mia voce
è decisamente alterato.
“Beh fumatene un’altra”.
I nostri occhi si scontrano. Nessuno dei due cede o abbassa lo sguardo.
28
Prendo la sigaretta dalle sue mani e l’accendo. Lei nuovamente mi tira dal braccio e mi trascina riluttante
all’entrata dei bagni delle ragazze.
Colto il mio sguardo si giustifica:
“Non vorrai che qualche stronzo ci veda?”.
Fumiamo in silenzio. I suoi polmoni sono più capienti
dei miei e la sua sigaretta finisce velocemente.
“Da giorni ti ho visto fumare nei bagni e sapevo che
c’eri tu lì dentro. Io pure fumo durante l’intervallo.
Sempre. Tu invece solo i giorni dispari e il sabato. Hai
qualche rito segreto?” mi chiede.
La guardo curioso. Non si sta scusando per avere quasi
sfondato la porta del bagno in cui ero nascosto. La sua è
solo un’affermazione:
ha notato la mia presenza in questa scuola. Anche se
non mi piace, sono mio malgrado colpito da questa precisazione.
“Martedì e giovedì vado a fumare nei bagni del secondo
piano. Dopo la ricreazione ho religione il martedì ed educazione fisica il giovedì. Per cui posso metterci più
tempo e lì i bagni sono più grandi”.
“Logico” annuisce. “ Io sono in 5F”
“Io in 4D” rispondo come se questo bastasse a spiegare
a che tribù
apparteniamo.
“Beh 4D io torno in classe, a venerdì allora. Ciao”.
“Ciao”.
E c’incamminiamo nella stessa direzione senza scambiare altre parole. È nella stessa classe di Damiano.
Le prime tre ore del mio giovedì scolastico sono finite.
Guardo l’orario e scopro con disappunto che ho l’ora di
educazione fisica. Scendo le scale lentamente ed esco in
cortile. Mi siedo a bordo campo e sfoglio il libro da cinquecento pagine di storia. La copertina è verde e consumata.
Il libro è stato un vero affare, l’ho comprato di seconda
mano ed è già sottolineato nelle parti importanti e arric29
chito di appunti presi a matita sui bordi. Lo sfoglio con
una tecnica ben studiata: una pagina e un’occhiata ai
giocatori. Per il resto della classe sono il secchione di
turno, quando in realtà mi sento un voyeur navigato.
Perso nella mia tecnica di osservazione, non noto che il
professore sta cercando di richiamare la mia attenzione
fino a quando non si trova in piedi di fronte a me e mi
blocca completamente la visuale.
“Senti penso che dobbiamo chiarire alcuni punti io e te”
mi dice chiaramente alterato.
“Mi dica…” rispondo e mi alzo in piedi rosso in volto.
“Ecco tu dovresti partecipare al gioco. Pallacanestro o
pallavolo non importa quale, ti lascio la scelta. Se non lo
fai alla fine del semestre ti interrogherò sulle ossa del
corpo umano e intendo tutte le ossa. Ci siamo capiti?”.
“Sì professore”.
Le mie guance prima rosse adesso sono in fiamme. Ci
sono almeno altri dieci ragazzi che non partecipano mai
all’ora di educazione fisica, ma loro si fermano spesso a
parlare col prof. di partite di calcio, ragazze o che so io.
Mentre io non credo di essere mai andato oltre il buongiorno nelle giornate in cui sono di buon umore o quando casualmente mi passa accanto. Pensavo così di avere
raggiunto un accordo segreto accettato da entrambi. Io
non mi copro di ridicolo giocando e lui ha un ragazzo in
meno da controllare sul campo.
Chiaramente mi sbagliavo. Poso il volume di storia e
fisso alternativamente il campo di pallacanestro e poi
quello di pallavolo. Il primo occupa gran parte del cortile interno della scuola ed è visibile dalle finestre di quasi tutti i corridoi dell’edificio. Il campo da pallavolo è
invece sistemato lateralmente ed è visibile solo da
un’ala della scuola e dagli uffici dell’amministrazione e
dei professori. Opto per quest’ultimo. Naturalmente non
posso partecipare alla partita di pallavolo oggi. Sarebbe
troppo umiliante scattare all’attenti al primo richiamo
del professore. Giocherò questo sabato. Sospiro mio
malgrado e torno in classe per l’ora di matematica che
conclude la giornata.
30
Come nelle passate due settimane la ragazza della 5F mi
aspetta di fronte alle porte dei bagni per fumare. Il suo
nome, Giada, è un chiaro esempio di come a volte il
nome che viene dato ai bambini si trasformi in qualcosa
di totalmente inappropriato al carattere o all’aspetto della persona una volta cresciuta.
Giada ha una corporatura robusta anche se non grassa,
direi quasi matronale, se si può definire così qualcuno
della sua età. I capelli sono lisci, di colore corvino e tagliati a caschetto. Due ciocche sono ossigenate e vengono in continuazione trattate con colori che cambiano settimanalmente. Entrambe blu, una blu e una rossa, una
rossa e una gialla e così via ad esplorare sempre nuove
improbabili combinazioni. Ha un piercing sulla lingua e
non fa niente per nasconderlo. A volte, soprattutto se
parla con una ragazza che lei considera una “fighetta”,
ci gioca con la lingua e si diverte alle sue spalle se lei
assume un’espressione inorridita.
I suoi occhi sono incredibili. Sono due punte di ghiaccio
staccate al freddo polare. Le iridi sono così chiare da
sembrare quasi bianche.
Sotto la giusta luce sembrano gli occhi di un cieco. Bellissime e fredde e solitamente circondate da un dito di
matita nera che le rende ancora più suggestive.
“Ehi 4D…” mi chiama.
“Ciao come va?”.
“Solito. Ho preso un quattro in matematica”.
“Come mai?”
“Mi sono alzata quando ha chiamato il mio nome”
“Cioè?” chiedo curioso.
“La prof mi ha detto: se ti alzi e vieni a farti interrogare
ti metto quattro, se non vieni qui ti metto due”
“ E tu cosa hai fatto?”.
“ Mi sono alzata. Sono andata li. Non ho risposto alle
prime tre domande e poi le ho chiesto se potevo andare
a posto”.
“E lei?”.
“Lei mi ha messo quattro. Mi piace questa prof, è una
donna di parola” conclude soddisfatta.
31
Accendo la sigaretta con un cerino dalla testa blu e inalo
il fumo.
“Gioco da una settimana a pallavolo” le dico come se
questo potesse essere umiliante come un quattro in matematica.
“Non sembri tipo da sport, senza offesa naturalmente…” ghigna.
“Non lo sono, infatti. Se non gioco devo imparare le ossa di tutto il corpo umano. Inoltre finora non ho fatto
una figura disastrosa”
“Sembra che il professore Martini non ti abbia preso in
simpatia.
Solitamente non gli interessa cosa fanno i ragazzi nella
sua ora”.
“Sembra proprio di sì” le dico. Poi, come se me ne fossi
appena accorto, aggiungo:
“Cosa hai fatto al polso?”
“Niente l’ho sbattuto da stronza contro il corrimano e
me lo sono slogato. Però mi piace fasciato con la garza
nera. Sai quanto ho dovuto girare per trovarla di questo
colore?” risponde nervosa.
“Immagino”.
Poi velocemente aggiunge:
“Ok. Io devo andare. Alla prossima. Buon resto di settimana, ciao”
Cosi si allontana un po’ troppo in fretta. Non sa che ho
notato anche l’ematoma sulla guancia. Quello che ha
cercato di coprire con troppo fard e con la mano mentre
fumava nervosa.
Stamattina, quando mio fratello apre la porta della
mia stanza, sono ancora a letto perso tra le braccia di
Morfeo.
“Ehi ma stai ancora dormendo?” dice alzando la serranda.
“Uhm-uhm” rispondo sperando che il suono prenda la
forma di un chiaro vaffanculo. Ma lui continua ad alzare
32
la serranda fin quando la luce inonda con violenza la
stanza accecandomi.
“Ma che vuoi?” grido tirando le coperte sul viso per difendermi dal sole.
“È arrivato babbo natale!” dice e appoggia una scatola
nera sulla poltrona della mia stanza. Poi aggiunge:
“L’ho ripulito di tutto. Non è un gran che, è solo un Celeron, ma puoi sempre usarlo per giocarci, anche se la
scheda grafica è orrenda”.
“Uhm-uhm”.
“Va bene, te lo lascio qui. Divertiti”
“Ah-ah” rispondo e lui esce dalla stanza.
Un paio di minuti più tardi mi alzo a malincuore. Mi lavo la faccia in bagno e rientro in camera da letto. Ancora assonnato guardo da vicino la scatola nera. In realtà
la scatola è un computer portatile. Non ne ho mai posseduto uno e non so bene cosa farci. Per cui lo lascio lì
dov’è per l’intera mattinata. Durante il pranzo domenicale scopro che mio fratello ha a sua volta ricevuto un
nuovo portatile da mio padre, che gli ha però intimato di
regalarmi il vecchio in cambio.
Ora è pomeriggio inoltrato e sono seduto sul letto con il
portatile aperto e poggiato sulle gambe. Il computer
sembra alquanto vissuto, ma per quel che ne capisco tutto sembra funzionare bene. Gioco per un poco a mine e
faccio un solitario elettronico con le carte. Poi guardo
una ad una tutte le cartelle della memoria. Per la maggior parte sono vuote.
Apro la cartella con su scritto connessioni e faccio doppio click su una delle due possibili opzioni per il collegamento in rete. Il computer mi chiede se mi voglio collegare a Internet. Faccio spallucce poi, per scherzo, dico
a mezza voce:
“Perché no?”. Allungo il braccio, stacco il cavo del telefono, lo inserisco nel computer e clicco yes. Dopo una
serie di rumori striduli il computer compone il numero
registrato in memoria e mi comunica che sono connesso
al portale con velocità di 380 kb/sec. Quando quella sera
alzo lo sguardo per uscire dal mondo virtuale è ormai
33
mezzanotte. I miei occhi sono stanchi e arrossati e il
mio pene eretto e dolente: è stata una navigazione faticosa!
A scuola la fine del primo semestre si avvicina e con essa la paura dei voti. Sono riuscito a mantenere una media dignitosa e grazie alle mie sporadiche presenze nella
squadra di pallavolo non devo più imparare le ossa del
corpo umano. Tra l’ansia degli studenti per i voti e le
continue interrogazioni da parte dei professori nessuno
nota le mie occhiaie mattutine. Le notti si sono accorciate esponenzialmente da quando il computer è entrato
nella mia stanza. Questa mattina appena, arrivato a
scuola, sono come al solito andato al mio posto in terza
fila.
La mia tecnica collaudata è di arrivare in classe poco
dopo il suono della campanella, quando il professore
ancora non è arrivato ma tutti i miei compagni sono già
seduti e hanno finito i commenti di inizio giornata. Il
prof di filosofia entra in classe e inizia nuovamente le
interrogazioni.
Quando finalmente la campanella suona le undici prendo il quaderno con i disegni e vado in bagno per fumarmi una sigaretta. I bagni del secondo piano sono
grandi e la pavimentazione è più scura rispetto a quella
dei bagni del terzo piano dove si trova la mia classe. Mi
siedo sul water e apro il quaderno. Faccio un tiro dalla
sigaretta e comincio a ritoccare con la china il disegno.
Riproduce un ragazzo seduto a gambe incrociate su una
poltrona con un computer sulle gambe. La faccia del ragazzo è trasfigurata dalla meraviglia mentre dallo
schermo del computer esce un vortice che lo risucchia.
Intorno al vortice ci sono delle fotografie che volano.
Ognuna riproduce un ragazzo più o meno vestito. Sto
attento a non fare sbavature sul foglio e uso la carta igienica per pulire la punta del pennino. Di tanto in tanto
guardo l’orologio dicendomi che è ancora presto, fino a
34
quando mi tocca correre in classe perché ho fatto decisamente tardi.
Quando entro l’ora di religione è iniziata da venti minuti
e il prof non sembra molto contento dei miei continui
ritardi all’inizio delle sue ore. Mi guarda e annota qualcosa sul registro. Poi continua a parlare dell’aborto.
Mi siedo al mio posto e aspetto che la giornata finisca.
“Tesoro hai l’aria un po’ stanca. Come è andata a scuola?” chiede mia madre.
“Bene mamma”.
“Ti ricordi che oggi pomeriggio c’è la festa dei diciotto
anni di tua cugina? Vieni con noi o ci raggiungi più
tardi?”.
“Vi raggiungerò poi con Guido” rispondo.
“Va bene, ma cercate di non arrivare troppo tardi” mi
intima.
“Ok”.
Poi mi dà un bacio sulla fronte e io non posso fare a
meno di sorridere anche se vorrei gridare che sono troppo grande per queste cose, ma il profumo della sua pelle
che sa di crema per le mani e detersivo mi distrae come
al solito.
Dopo pranzo i miei genitori escono. A distanza di dieci
minuti Guido entra nella stanza:
“Ehi fratello, esco anch’io. Ti passo a prendere alle sette
così passiamo da zia. Ok?”.
“Ok”.
“Ti citofono e tu scendi. Penso che verrà anche Laura”.
“Va bene” gli rispondo svogliato. L’idea di arrivare
alla festa con lui e la sua ragazza non mi riempie di
entusiasmo.
La porta di casa si chiude nuovamente alle sue spalle.
Sono solo. La rarità di questi momenti è tale da renderli
particolarmente graditi. La casa è vuota e silenziosa.
Nessuno parla. Solo sporadicamente si sente uno scricchiolio familiare dei mobili o delle porte. Mi alzo e
prendo il computer. Lo apro e mi collego a Internet.
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Immetto l’indirizzo che ho memorizzato in questi giorni
ed entro nella stanza principale delle chat.
Qui ci sono nomi di nazioni, regioni e città. Scelgo la
stanza che mi interessa e ci entro con un semplice click
del mouse. Ci sono altri centoventidue ragazzi connessi.
L’orologio del computer segna le tre in punto. Scelgo
come pseudonimo Eros.
Scorro col mouse accanto i nomi dei diversi partecipanti
alla chat.
Alcuni usano normali soprannomi quasi scontati: Giancarlo-73, Alessandro.28, giulio81. Altri sono specifici:
sessoora22, dotato30enne, sposato43, tosto29. Accanto
ai nomi ci sono le foto. Volti, corpi, cazzi, un paio di ragazzi hanno riportato le foto delle loro mutande. Non so
bene se questo dovrebbe eccitarmi. Accanto al mio nome c’è una foto che ho fatto tempo fa e che ho trasformato in file jpeg usando lo scanner di mio padre. È una
foto normalissima con gli occhiali da sole. Potrei essere
io o qualsiasi altro ragazzo della mia età. Gli occhiali
coprono gran parte del viso e la maglietta senza maniche rivela un fisico asciutto e abbronzato. Ho un’altra
foto scattata al mare questa estate dove sono senza maglietta, che però tengo di scorta in caso qualcuno mi
chieda un ritratto più chiaro.
Quando entro nella stanza della mia città diverse persone tentano di contattarmi contemporaneamente. Uno
degli pseudonimi usati mi fa ridere e accetto di rispondere.
Torello27: “Ciao come va?”.
Eros: “Bene tu?”.
Torello27: “Bene, bene. Certo andrebbe meglio con un
po’ di sano sesso!”.
Eros: “Eh eh! Da dove digiti?”
Torello27: “Centro città e tu?”.
Eros: “Idem”.
Torello27: “Zona?”.
Eros: “Piazza Mazzini”.
Torello27: “ Cosa cerchi?”.
Eros: “Non so, cosa mi proponi?”.
36
Torello27: “Ti va di fare un giro in macchina sulle colline? A meno che tu non possa ospitare. Ospiti?”.
Eros: “Non posso ospitare. Un giro nelle colline per fare
cosa?”.
Torello27: “Ci possiamo divertire un po’. Niente di che.
Io faccio solo soft sex. Sono fidanzato. Ti posso passare
a prendere se ti va”.
Eros: “Come sei fisicamente?”.
Torello27: “181 cm 70 chili. Atletico, moderatamente
peloso. Ben dotato. Tu?”.
Eros: “174 cm , 64 chili magro, glabro”.
Eros: “Ma sei fidanzato con una ragazza o con un ragazzo?”.
Torello27: “Ragazza. Io cerco solo persone discrete. Tu
sei discreto?”.
Eros: “Sì”.
Torello27: “Bene!”.
Torello27: “Quando sei libero? Sei libero ora?”.
Eros: “Sì potrei. Ma devo tornare per le sei al massimo”.
Torello27: “Non c’è problema ti riporto in tempo”.
Eros: “Dove andiamo sulle colline?”.
Torello27: “Conosco un posto appartato. Non ci va mai
nessuno”.
Eros: “Capito”.
Torello27: “Dove ci vediamo?”.
Eros: “Aspetta, non incontro senza foto. Hai una foto?”.
Torello27: “Sì, ma solo da scambiare con una tua. Manda la tua a [email protected]”.
Eros: “ Ok un secondo”.
Eros: “Mandata”.
Torello27: “Sei carino ti ho mandato la mia”.
Eros: “Aspetta controllo. Hai un bel corpo ma il
volto?”.
Torello27: “Non mando volto mi spiace … allora?
Ti va?”.
Eros: “ Sì!”.
Torello27: “Ok ci vediamo tra 20 min sotto la statua di
piazza Mazzini”.
Eros: “Come ti riconosco?”.
37
Torello27: “Non ti preoccupare ti riconosco io”.
Eros: “Ok a dopo”.
Torello27: “Va bene ciao”.
Quando chiudo il collegamento le mie guance sono in
fiamme. Sento il cuore che mi batte in petto e penso che
esploderà presto. Apro la cartella dei file ricevuti e
guardo nuovamente la sua foto.
Dall’immagine è stata tagliata via la testa. Si vedono
due spalle grandi e definite. Un petto un po’ peloso ma
ben modellato che si restringe per disegnare addominali
piatti e scolpiti. Poi più in basso un paio di pantaloni neri coprono le gambe che sono lunghe e terminano coi
piedi piuttosto grandi che fanno bella mostra su un pavimento di marmo chiaro.
Piazza Mazzini è dieci minuti a piedi da casa mia. Entro
in bagno e mi spoglio. Faccio una doccia in cinque minuti. Mi metto dei vestiti nuovi e mi pettino. La casa è
ancora in silenzio. Nessuno tenta di trattenermi. Il telefono non squilla. Prendo le chiavi e mi chiudo la porta
alle spalle. Inspiro, espiro e scendo le scale.
Quando arrivo a piazza Mazzini sono in lieve ritardo sui
venti minuti concordati. Mi guardo intorno. Un vecchio
dà da mangiare ai piccioni e mi guarda per un attimo…
non può essere lui. Un ragazzo passa in bicicletta veloce
di fronte a me… non può essere lui… troppo giovane.
Una donna fa la fila per il gelato davanti al chiosco della
piazza. Continuo a guardarmi in giro nervoso. Forse non
verrà. Meglio così. Mi accendo una sigaretta e siedo ai
piedi della statua in bronzo scuro di Giuseppe Mazzini.
Decido che se per quando avrò finito la sigaretta non sarà arrivato tornerò a casa. D’altra parte devo ancora finire degli esercizi di matematica. Forse domani sarò interrogato.
“Ciao” si annuncia una voce alle mie spalle.
Scatto in piedi e mi odio per il panico che mi assale:
“Ciao” riesco a dire.
“Mi chiamo Mauro”.
“Giulio” rispondo. È il primo nome che mi viene in
mente.
38
“Ho parcheggiato la macchina alle spalle della piazza.
Ho fatto tardi perché non trovavo parcheggio”
“Non ti preoccupare. Ho visto che c’era molto traffico.
Ti avrei comunque aspettato” mento spudoratamente.
“Allora andiamo a fare un giro?”.
“Ok”.
Mi ci vogliono altri cinque minuti prima di riuscire a focalizzare i suoi lineamenti. La sua descrizione in chat è
stata abbastanza precisa. È di un paio di centimetri più
alto di me. Ha i capelli ondulati anche se meno mossi
dei miei. I suoi occhi sono marroni e hanno una lieve
inflessione orientale. Ha una barba di due o tre giorni
che però non gli sta male. La bocca è piccola e i suoi
denti sono dritti e bianchissimi. Ha un bel sorriso. Man
mano che assimilo i dettagli il mio cuore riprende a battere normalmente e la mia voce si fa più normale. Indossa un maglione nero con collo a v e sotto una maglietta azzurro chiaro. Un paio di jeans e delle scarpe
nere della marca Puma. Le sue braccia sono ben più
piene delle mie e le mani sono belle e sorrette da un polso grande e maschile.
Mauro guida e si ferma con calma ai semafori. Poi arrivati vicino le mura di cinta gira a destra e la città rimane
alle nostre spalle.
“Studi?” mi chiede.
“Sì sono al primo anno di Università”.
“Che facoltà?”“Studio lingue. Arabo e inglese” mento di nuovo prendendoci anche un certo gusto.
“Interessante. Non conosco nessuno che studi l’arabo”.
“Beh questo è solo il mio primo anno. Abbiamo cominciato da poco” dico e mi viene quasi da ridere.
“Quanti anni hai Giulio?”.
“Ventuno”.
“Sembri più giovane”.
“Beh in realtà venti, ne faccio ventuno ad aprile”.
“Tu cosa fai?” gli chiedo cercando di spostare la sua attenzione dalla mia falsa vita.
“Sono impiegato”.
39
“Ok”.
L’autoradio suona Missing degli Everything but the
Girl. La sua mano scivola dal cambio sulla mia gamba.
È un gesto così spontaneo e caldo da farmi chiudere gli
occhi. Lascio scivolare la mia mano sulla sua. Le dita si
incrociano e rimaniamo in silenzio fino a quando non
deve cambiare marcia.
Le case diminuiscono e gli alberi aumentano. La strada
diventa più stretta e arriviamo ad una biforcazione.
Mauro gira a sinistra poi imbocca una stradina sterrata
che porta ad una villetta.
“Questa casa è dei miei. Ma non la usano mai. A volte vengo con gli amici per un fine settimana per far
baldoria”.
“Bella”.
Scendiamo dalla macchina e lui mi prende per mano. Mi
faccio guidare dentro casa e mi siedo su un divano. Sono stranamente calmo.
“Vuoi qualcosa da bere?” mi chiede.
Mi metto comodo sul divano:
“Sì . Hai del Martini Orange?”.
“Certo te lo preparo”.
“Grazie”.
Quando torna non indossa più le scarpe e si è tolto il
maglione. La foto che mi ha inviato è decisamente la
sua. Posso intravedere le spalle larghe e i capezzoli sotto
la maglietta che indossa. Mi passa il Martini e ne bevo
un terzo con un sorso. Dopo un minuto la sua mano è di
nuovo sui miei jeans e la mia sui suoi. Siamo così vicini
che sento l’odore del suo alito. Mi mette una mano sul
fianco e la strofina come per volermi riscaldare. Mi avvicino e lo bacio. Le sue labbra sono morbide e invitanti. Mi dà una serie di piccoli baci sul labbro superiore.
Poi si avvicina di più e le nostre lingue si avvinghiano
avide. Si rincorrono, disegnano cerchi, si perdono e si
ritrovano. Le nostre gambe sono sapientemente incrociate. La mia gamba destra è tra le sue e il suo piede
gioca con il mio. Non so come siamo arrivati in questa
posizione ma è comoda e sexy allo stesso tempo. Con
40
una mano risalgo fino al cavallo dei suoi pantaloni e lui
allora allontana il volto dal mio e mi fissa. Nei suoi occhi c’è lo stesso fuoco che c’è nei miei. Mi prende per
mano e mi fa alzare. Poi solleva la base del divano che
diventa un letto a una piazza e mezza. Lo fa con un
braccio solo e il bicipite si gonfia nello sforzo. Io mi
tolgo le scarpe e risaliamo sul letto. Siamo in ginocchio
uno di fronte all’altro le sue mani mi incorniciano il volto mentre mi bacia le labbra e il collo. Poi con la lingua
risale dal collo fino all’orecchio destro che mordicchia
dolcemente. Curvo la testa per facilitargli il compito,
quindi la rialzo e lo costringo a baciarmi di nuovo. Lentamente ci stendiamo. Non ho mai baciato così a lungo
una persona. Sono eccitato oltre ogni misura. Le sue
labbra, le mie braccia sui suoi fianchi, le sue mani che
frugano sotto la mia maglietta, le nostre gambe incrociate, i nostri piedi che a volte si sfiorano; tutto questo mi
assale a ondate e mi fa sentire vivo. Ci togliamo la maglietta fissandoci negli occhi. Il suo petto è un po’ peloso e una striscia di peli scende dall’incavo del torace giù
sugli addominali perdendosi nel mistero dei pantaloni. I
peli non sono lunghi. Sono morbidi e piacevoli al contatto. I capezzoli sono grandi e rossi. Mi stendo sul suo
corpo e ne assorbo il calore. Petto sul petto. Bacio le sue
labbra e il collo. Gioco con i capezzoli, li stringo e
quando geme di piacere alzo la testa e gli sorrido. Con
una mano sbottono i pantaloni e mi siedo sopra di lui.
Le sue mutande sono verde militare e mi chiedo se siano
state un regalo della sua ragazza. Lui mi guarda curioso.
Con una mossa del bacino mi butta giù, si stende su di
me e comincia baciarmi ovunque. Mi bacia sotto le ascelle. Io gemo e mi contorco mentre le sue mani mi
tengono fermo e aumentano questo piacere nuovo che
mi risale dallo stomaco e mi fa spalancare gli occhi.
Quando anche i pantaloni vengono tolti la pelle delle
nostre gambe si incontra. Il contatto fisico dei nostri
corpi è completo. Le dita della mani sono incrociate così
come le gambe.
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Siamo due serpenti che si baciano nel deserto. Scivoliamo l’uno sull’altro. I nostri sessi sono duri sotto le
mutante e non aspettano altro che di essere parte del
gioco. Il tempo sospira e prende una pausa intorno a noi.
Tutto sta succedendo in attimi o forse in milioni di anni.
Gli tolgo le mutande e lui toglie le mie. Il suo pene è
grosso, più tarchiato del mio, ma possente. Non ha un
sapore in particolare. Tra le mie labbra lo sento pulsare
dei battiti del suo cuore. Entrambi siamo stesi su un
fianco, la mia faccia sul suo sesso, la sua faccia sul mio.
Non c’è avidità in noi, non c’è fretta entrambi assaporiamo ogni centimetro dell’altro con piacere e desiderio.
Mi giro e risalgo il suo corpo con la bocca e so che non
potrò resistere a lungo a questa dolce tortura.
“Posso venire su di te?” mi chiede in un sospiro.
“Sì se io posso fare lo stesso”.
“Ok”.
Veniamo insieme e per la prima volta mi sento realmente connesso con qualcuno mentre gemo di piacere. È
una connessione fatta solo di corpi, liquidi e odori. Riapro gli occhi e lui mi attira a sé. Mi stendo su di lui e
sento sulla pancia il mare del nostro seme appiccicaticcio che ricopre il suo corpo. Lo guardo ed entrambi ridiamo.
Quando il giorno dopo a scuola la professoressa di matematica mi mette sei meno nell’interrogazione non mi
sembra affatto un brutto voto. Oggi la giornata scolastica è di due ore più corta a causa dell’assemblea di istituto. Per me significa un’ora di fisica e una di disegno risparmiate e in più è sabato. Alla fine della lezione uscendo dalla classe trovo Giada che mi aspetta davanti
alla porta.
“Ciao 4D”.
“Ciao, che ci fai qui?” le chiedo sorpreso.
I miei compagni di classe ci fissano increduli. È la prima volta che qualcuno mi aspetta davanti alla porta di
classe. In più Giada è più grande di me e ha un aspetto
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decisamente più minaccioso. Sento gli occhi che fissano
me e poi lei velocemente. Lei tira fuori la lingua e mostra il suo piercing a una mia compagna che ci passa accanto. Sento alle spalle i commenti dei ragazzi. Commenti che includono il mio nome e quello di Giada. Sono sorpreso e in parte compiaciuto. Giada sa bene tutto
questo.
“A quanto pare qualcuno si è divertito ieri sera?” mi
dice.
“Scusa?” rispondo di scatto imbarazzato.
“Beh dai tuoi occhi e dall’aspetto delle tue labbra direi
che qualcuno ha fatto baldoria”.
“È solo il freddo”.
“E ha un nome questo freddo?” mi chiede.
Le mie guance prendono fuoco. Poi, prima che possa
difendermi, aggiunge:
“Vai all’assemblea?”.
“Sì, penso che mi fermerò un’oretta. Ti va di fumare?”.
“Sì, ma che ne dici di evadere?” aggiunge.
“Per fare?”.
“Beh potresti darmi una mano per esempio” dice lei misteriosa.
“Certo. A fare cosa?”.
“Traslocare”.
“Ah!” rispondo sorpreso.
“Ieri ho firmato un contratto di locazione e oggi prendo
possesso della mia nuova dimora. Sarai il primo a vederla” poi fa un mezzo inchino e aggiunge: “è un onore,
sai”
È la prima volta che la conversazione tra me e Giada
prende una direzione diversa da scuola, professori o sigarette. E non so perché, ma credo che Giada sia sorpresa quanto me. Tira fuori un mazzo di chiavi dalla tasca e
lo fa tintinnare davanti ai miei occhi.
“Andiamo?” chiede.
Sa già che ho accettato.
Seguiamo la scia di studenti che scendono al pian terreno per andare nel cortile della scuola e all’ultimo momento, quando il bidello è distratto, imbocchiamo il por43
tone e siamo fuori. L’assemblea di istituto si terrà nelle
ultime due ore di scuola per cui nessuno farà l’appello
alla fine per sapere chi è rimasto e chi no. Giada cammina davanti a me con passo quasi militare. I suoi piedi
seguono una perfetta linea immaginaria e le braccia oscillano un po’ più del dovuto. Si ferma davanti a una
moto. È una Aprilia nera e sportiva con cromatura rossa
intorno al fanale anteriore e sotto il motore. Una catena
di metallo a maglie larghe tiene unita la ruota posteriore
a un palo passando attraverso la visiera di due caschi.
“Sei mai stato su una moto?” mi chiede mentre apre il
lucchetto.
“Sì” mento pensando al motorino truccato del ragazzo
incontrato poco di tempo fa.
“Balle!” dice lei guardandomi. Poi prende tra i due caschi quello rosso e me lo lancia. Sorrido. Mentire non è
una buona tattica con Giada. Il fatto di dover essere costretto a dirle sempre la verità non mi mette a mio agio.
Ma la maggior parte delle volte, come questa, non ripete
la domanda per sapere la verità, puntualizza solo che sa
che ho detto una bugia.
“Ti devi posizionare un po’ piegato in avanti e fare perno sui poggiapiedi. Se vado troppo veloce tieniti dietro
o in vita. Non fare l’eroe, non voglio raccogliere le tue
ossa per la città”.
“Sì comandante”.
“Sali scemo” ride.
“Ok boss!” rispondo ridendo eccitato.
Salgo dietro di lei. Poi con un colpo deciso del piede lei
aziona il motore e tre secondi dopo siamo partiti. Damiano è fermo davanti al portone metallico della scuola.
Maledico il casco che indosso e mi chiedo se avrà riconosciuto il mio zainetto. Ma lui sta guardando dal lato
opposto della strada.
La moto di Giada è veloce, non vibra come il motorino
sul quale ero salito. Mantiene perfettamente i movimenti
che le vengono imposti. A volte per girare Giada non
curva il manubrio, ma piega il corpo e io faccio lo stesso
come una canna che si piega al vento. Mi sembra di es44
sere acqua che scorre fluida tra il traffico e lo smog del
centro. Sento il vento che entra dentro il casco e mi
scompiglia i capelli. Mi sento libero e se lei volesse
guidare per tutto il giorno non sarei io a fermarla.
Arrivati davanti un palazzo rosso ci fermiamo.
“Aspettami qui. Prendo le mie cose e andiamo. Non c’è
bisogno che tu salga”.
“Va bene” rispondo.
Poi si allontana ed entra nel portone con fare guardingo.
Mi siedo sulla moto e nell’attesa accendo una sigaretta.
Quando ritorna ha in mano una borsa rossa più o meno
grande come il sacco che uso per andare in palestra.
“Tutto qui?” le chiedo
“Sì. Mi piace viaggiare leggera e poi ho fatto un primo
viaggio stamattina prima delle lezioni”.
Prende il mio zaino e se lo mette sul petto e io infilo sulle spalle la borsa rossa, in realtà è più pesante di quanto
avessi pronosticato. Di nuovo il motore romba e siamo
in strada. Attraversiamo tutta la città costeggiando le
mura che ho superato ieri con Mauro per andare a casa
sua. Infine Giada rallenta e ferma il motore lasciando
che la moto percorra per inerzia gli ultimi metri che ci
separano da un palazzo grigio.
Il palazzo è mimetizzato tra altri dieci edifici identici.
Non è di certo un quartiere residenziale. Quando apre il
portone mi dirigo istintivamente verso l’ascensore.
“Ehi 4D fossi in te non sarei così ottimista: dobbiamo
scendere”.
“Scendere dove?” le chiedo.
“All’inferno!” dice e mima una faccia da diavolessa con
la bocca aperta e il piercing bene in mostra. Poi aggiunge tirandomi:
“Vieni è di qua”.
Scendiamo in una sorta di seminterrato dove ci sono due
appartamenti. Entriamo in un locale piccolo e angusto.
È un monolocale di trenta metri quadri. Appena dentro
sulla sinistra ci sono la cucina, il frigorifero e un lavabo.
Sulla destra c’è un divano nero e di fronte un televisore.
Poi una libreria, una scrivania attaccata alla parete, un
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comodino e un letto. C’è un piccolo corridoio dietro la
cucina dove si trovano un armadio a muro e un bagno.
L’appartamento è totalmente immerso nell’oscurità e
nel tanfo di chiuso. Ci sono due micro finestre, ma per
aprirle si deve salire su una sedia a meno che non siano
state appositamente disegnate per il precedente proprietario: un uomo di oltre due metri!
“Cosa ne pensi?” mi chiede incerta.
“Un po’ buio” dico, è la cosa più bella che mi viene in
mente.
“Perché pensi mi sia procurata una televisione? Così
posso sapere sempre che tempo fa” dice e indica il piccolo apparecchio.
“Beh un vantaggio è che la polvere non si nota
nell’oscurità” aggiungo.
“Senza menzionare che sarò iper-informata sull’ultima
moda in fatto di scarpe, dato che è l’unica cosa che si
riesce a vedere da quelle cazzo di finestre” dice ridendo
e indicando le micro finestre che danno sul marciapiede.
“Sai cosa ti dico 4D? Non mi importa: fa schifo, ma è
pur sempre mia!” conclude.
“Cosa hanno detto i tuoi che vai a vivere da sola?”,
“Che era ora. Penso sia meglio così. La situazione stava
degenerando e più tempo fossi rimasta peggio sarebbe
stato per tutti”.
Dal tono della voce Giada non sembra felice di spiegare
quale fosse la situazione e io non voglio saperlo. Sono
solo contento di essere in questo seminterrato polveroso
e di sentirmi per la prima volta parte di quella che non
posso definire altro se non un’amicizia, anche se decisamente non comune.
“Metti un cd” mi dice
Mi avvicino allo stereo che è sopra la scrivania circondato da un dito di polvere. Scelgo un cd dei Cure e seleziono la canzone Lulluby. Dalla quantità di ragnatele e
polvere che c’è nella casa il video potrebbe benissimo
essere stato girato qui dentro.
“Ehi” grida Giada dall’altro lato della stanza e mi lancia
uno straccio zuppo d’acqua.
46
Mi colpisce in pieno sui pantaloni e la guardo stupito:
“Non penserai che ti abbia mostrato il mio antro senza
chiederti niente in cambio” mi dice: “forza ragazzo, olio di gomito”.
“Che stronza!” rispondo e ridendo comincio a pulire la
scrivania.
Dopo un’ora mi sento anch’io pieno di ragnatele e comincio a starnutire a più non posso.
47
3.
È mattino presto. Guardo la sveglia. Sono solo le sei,
ma mi sento stranamente sveglio. Allungo il braccio e
prendo il lettore cd. Metto su di nuovo Erotica di Madonna e chiudo gli occhi. La canzone inizia con il suono
di un disco graffiato e subito le immagini partono. Mi
vedo sdraiato su un divano di pelle nera nell’atto di
dormire mentre una donna fantasma vestita con un corpetto nero e autoreggenti si avvicina e mi sussurra
all’orecchio:
“My name was Dita, I’ll be your mistress tonite… I’d
like to put you in a trance”. Poi entra nel mio corpo e io
come se ne venissi posseduto apro gli occhi. Mi alzo dal
divano e vado in bagno. Mi guardo allo specchio e fisso
le mie labbra che cantano seguendo il ritmo della prima
strofa.
Quando mi giro per uscire dal bagno sono vestito. Ho
dei jeans strappati dalle caviglie fin sopra il ginocchio.
Dagli strappi si possono vedere quasi interamente le mie
gambe ora abbastanza lunghe e stranamente muscolose,
anche se la mia presenza in palestra negli ultimi mesi
non è coerente né quotidiana. Indosso una camicia aderente e strappata all’altezza del capezzolo destro. È una
camicia di seta nera e il contatto con la pelle è fresco ed
eccitante. Esco di casa e cammino per strada con le mani in tasca mentre una macchina mi segue a distanza
ravvicinata come fosse il mio cagnolino. Mi supera e si
ferma in modo che io sia vicino al passeggero seduto sul
sedile posteriore. Il finestrino si abbassa e dentro una
donna mi fa cenno di avvicinarmi. Non so bene cosa mi
dice, ma sono incuriosito e abbagliato dai suoi gioielli. I
suoi capelli sono biondo oro. Lei è di statura minuta, ma
non piccola. Anche se avrà almeno venti anni più di me
è di una bellezza chiara e appariscente. Quando ha finito
di dirmi parole incomprensibili apro la bocca e dico “let
my mouth goes where it wants to”. Salgo in macchina.
La luce all’interno della vettura è rossa e soffusa e i no48
stri corpi si avvolgono. Sotto il visone bianco lei ha solo
una camicia da notte trasparente che lascia intravedere
un bel seno pieno che sento stretto sul mio petto. Le nostre labbra si sfiorano per poi lasciarsi andare in un lungo bacio di passione.
Quando inizia la seconda strofa della canzone sono di
nuovo in strada con gli stessi vestiti, come se niente fosse successo. Mi fermo davanti ad un’insegna al neon
che dice Only boys e ci entro. Sono in un labirinto pieno
di ragazzi. Alcuni sono seminudi e in tute sadomaso, altri mi si avvicinano vogliosi. Mentre risuonano le parole: “Erotic erotic put your hands all over my body…” ne
sono totalmente circondato. I loro corpi sono tutti intorno al mio seminudo e io a tratti canto a tratti bacio uno
di loro. Chiudo gli occhi e mi trovo seduto su un trono
fatto di corpi di ragazzi nudi e muscolosi. Sono vestito
con un pantalone di pelle e una maglietta in lattex aderente. Bevo da un calice largo un liquido rosso smeriglio. Mi alzo dal trono umano mentre qualcuno mi porge un guinzaglio. “Only the ones that hurt you can make
you feel better…only the ones that inflict you pain can
take it away…”. La canzone finisce con lo stesso suono
di disco graffiato con la quale è iniziata mentre io cammino per strada con al guinzaglio cinque uomini che mi
precedono a quattro zampe come fossero i mie cani.
“Erotic…a”.
Apro per un secondo gli occhi e premo replay. Le scene
ricominciano. Mi aggiusto il cuscino sotto la testa e con
la mano tocco il pene eretto nelle mutande.
Quando mio padre mi sveglia indosso ancora le cuffie,
ma il cd è finito da tempo. Metto nella cartella i libri del
giorno: matematica, italiano, fisica e inglese e i relativi
quaderni. Poi mentre sto per salire in macchina ricordo
che oggi è il giorno della consegna delle pagelle.
Arrivato in classe il panico domina i miei compagni.
Tutti fanno congetture sui loro voti. Alcuni architettano
improbabili piani per non dare la pagella ai genitori.
A metà della prima ora il vicepreside entra in classe a
con la busta contenente i fogli incriminati, sulla classe
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scende il silenzio assoluto. Il vicepreside ovviamente
prende tempo giusto per darsi importanza. Mi guardo
intorno e sospetto che Giovanni, seduto al primo banco,
voglia saltargli alla gola per strozzarlo gridando: “Dacci
quelle pagelle stronzo!” Ma nessuno si muove. Infine,
dopo un paio di minuti lunghi una vita, il vicepreside
lascia l’aula dando la busta in consegna alla prof di italiano. Lei la apre e comincia la distribuzione. Quando
dice il mio nome mi alzo, ritiro la scheda e la leggo in
un attimo.
Materia Scritto Orale
Italiano 7 - 7
Latino 6 - 7
Matematica 7 - 7
Fisica - 8
Inglese 7 - 7
Storia - 8
Filosofia - 5
Ed. artistica 8 - 9
Chimica - 7
Ed. Fisica - 7
Religione - suff.
Condotta - ottimo
Piego il foglio in due e lo metto dentro il diario. Il cinque in filosofia è un chiaro avvertimento. Il disegno non
è stato gradito.
Due giorni dopo mio fratello fa irruzione nella mia stanza. Sono sdraiato sul letto con il libro di filosofia tra le
mani mentre leggo senza voglia la vita di un filosofo tedesco di inizio Ottocento.
“Ehi secchione, questo è da parte di mamma e papà” dice e mi lancia una scatola bianca che prendo al volo con
uno scatto che quasi mi sorprende. Mi siedo sul letto. E
lui si siede sulla poltrona che uso come postazione per
le mie serate in chat.
“Che cos’è?” chiedo.
“Una bomba a orologeria riempita di antrace ed esplosivo per la tua pagella”
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“Oh perfetto, proprio quello che avevo chiesto” e comincio ad aprire la scatola. Dentro c’è un cellulare. Un
Samsung blu con un bel design arrotondato.
“Il numero di telefono è dentro la scheda. La sai attivare?” mi chiede.
“Sì, credo di sì” rispondo con falsa sicurezza.
“Ok, se non sei capace fammi un fischio” ed esce dalla
stanza chiudendosi la porta alle spalle.
Guardo il cellulare. Mi piace anche se non è l’ultimo
modello. Apro il libretto delle istruzioni e cerco il modo
per attivare la scheda o qualcosa che mi spieghi cosa significhi “attivare la scheda”. Due ore dopo ricevo il mio
primo messaggio dalla compagnia telefonica che mi
comunica che il cellulare è funzionante e che ho venti
euro di carica.
La combinazione della chat e del nuovo cellulare diventa ben presto parte del mio quotidiano. Dopo la consegna delle pagelle i professori si sono concentrati nel
portare avanti i relativi programmi. Questo significa per
un po’ stop alle interrogazioni, quindi più tempo per esplorare i segreti meandri di internet.
È giovedì sera. È mezzanotte. Spengo la televisione della mia camera mentre passano i titoli di coda del film
che ho guardato: conteneva diverse scene di nudo e ha
acceso i miei ormoni che ora chiedono soddisfazione.
Mi collego in chat. So bene che a questa ora non ho alcuna possibilità di incontrare qualcuno. Sarebbe impossibile sgattaiolare fuori senza che i miei chiamino la polizia pensando all’adduzione da parte di alieni. Per cui
mi diverto a chattare con le persone più strane, quelle
che usano gli pseudonimi più spinti. So che non è corretto mentire, ma la curiosità e gli ormoni guidano le
miei mani sulla tastiera. Ho la gola secca e uno strano
senso di agitazione misto all’eccitazione. Scruto con occhio attento i partecipanti alla chat. Passo in rassegna
foto e nomi dei cento e più uomini insonni che cercano
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compagnia in un corpo straniero da stringere per un paio
di ore. Ne contatto uno.
Eros: “Ciao”.
Barebackingu: “Ciao”.
Eros: “Come va?”.
Barebackingu: “Cerchi?”.
Eros: “Può darsi. Tu cosa cerchi?”.
Barebackingu: “Un culo da sfondare. Hai un bel culo?”.
Eros: “Sì”.
Barebackingu: “Ti piacerebbe che ti infilzassi con il mio
cazzo?
Scommetto godresti da morire”.
Eros: “Cosa ti piace fare?”.
Barebackingu: “Mi piace essere il master. Farmi leccare
i piedi.
Sottometterti. Farmelo succhiare a fondo mentre ti spingo in gola la mia cappella. E poi incularti a caldo. Solo
la tua pelle e la mia pelle”.
Eros: “Niente profilattico?”.
Barebackingu: “No. Tu fai barebacking?”.
Eros: “No. Non mi fido. Faccio solo sesso sicuro”.
Barebackingu: “Non ti preoccupare io sono pulito e
HIV-. Mi fa impazzire il contatto del cazzo con il culo
senza profilattici. E comunque non ti vengo dentro. Caso mai in bocca. Ti piace se ti vengo in bocca?”.
Eros: “Eros è uscito dalla chat privata”.
Riporto il mio respiro alla normalità e mi guardo intorno
come per accertarmi che il tipo non sfondi la porta da un
momento all’altro col suo cazzo sguaiato in mano. Poi,
ripreso il controllo, rispondo ad un altro partecipante.
Belmoro34: “Ciao, lo sai che sei carino!”.
Eros: “Grazie”.
Belmoro34: “Cosa cerchi?”.
Eros: “Incontri, amicizie, sex e tu?”.
Belmoro34: “Non so. Credo incontri. Ma non frequento
ambienti gay. Tu?”.
Eros: “No. Per niente”.
Belmoro34: “Sono stato solo un paio di volte in sauna o
in metroflex. E vado di rado in discoteca o in bar gay”.
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Eros: “Io non sono mai stato in nessuno di questi posti.
Cos’è la sauna?”.
Belmoro34: “Sei un novellino allora. La sauna è beh…
una sauna,
ma per soli uomini dove si va principalmente per scopare. Alcune sono squallide. So per certo che ne apriranno
presto una nelle vicinanze del centro molto bella”.
Eros: “Quando?”.
Belmoro34: “Non so di preciso quando. Tra un mese
credo”.
Eros: “E il metroflex?”.
Belmoro34: “È un sex club. È come la darkroom di una
discoteca.
Una stanza senza luce dove si va per dieci minuti di sesso. Solo che è molto più grande di una darkroom perché
il sex club può essere diviso in temi o aeree. Il sex club
è una via di mezzo tra darkroom e sauna. Entri vestito o
senza maglietta. Poi come ne esci beh è una tua scelta.
Nella sauna vedi le persone perché ci sono le luci, mentre in darkroom non vedi niente”.
Eros: “Eh eh”.
Belmoro34: “Quanti anni hai?”.
Eros: “20! Tu?”.
Belmoro34: “34. Mi sa che sono un po’ grande per te”.
Eros: “No, preferisco ragazzi con esperienza, ma non
posso incontrare stasera”.
Belmoro34: “Peccato. Puoi un altro giorno?”.
Eros: “Di pomeriggio per me è meglio. Tu puoi sabato
pomeriggio?”.
Belmoro34: “Non so. Ti lascio il mio numero di cellulare, mandami un sms quando puoi e vedo se sono libero.
332-9867589”.
Eros: “Ok ciao”.
Luvpissing: “Ciao disturbo? Ti piace il pissing? Ho visto la tua foto mi piaci”.
Eros: “Ciao. Come sei?”.
Luvpissing: “185 cm 80 chili muscoloso 37 anni”.
Eros: “Bello. Foto?”.
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Luvpissing: “Aspetta. Clicca su foto private così le puoi
vedere”. Faccio come dice e le foto private cominciano
a caricarsi. Nella prima c’è il volto attraente di un uomo
con capelli neri un poco brizzolati. Un bel petto forte
depilato e due braccia muscolose. Uno dei due capezzoli
ha un piercing. Ha un po’ di pancia, ma questo aumenta
l’impressione di potenza del suo corpo. Le gambe sono
pelose e muscolose. Nella seconda foto privata c’è il
primo piano di un cazzo semieretto e lievemente piegato
a sinistra. È circonciso e ha una cappella molto grande.
Infine l’ultima foto è fatta di spalle. La sua schiena
sembra quella di un body builder. Le spalle sono aperte
e robuste con i muscoli segnati. Nel mio cervello comincio già a fare piani di fuga dalla mia stanza. Le
mani mi tremano un poco per l’eccitazione mentre gli
rispondo.
Eros: “Belle foto. Per quando cerchi?”.
Luvpissing: “Subito se puoi oppure in settimana. Ti piace il pissing?”.
Eros: “Sarebbe?”.
Luvpissing: “Giochi d’acqua”.
Eros: “Cioè?”.
Luvpissing: “Giocare con la pipì. Ti piace berla?”.
“Merda” dico tra me a voce un po’ troppo alta.
Eros: “No, mi spiace. Non credo mi piacerebbe”.
Luvpissing: “Beh allora ciao bello, non sai cosa ti perdi.
Luvpissing è uscito dalla chat privata”.
Spengo il computer e mi metto sotto le lenzuola. Poi la
mia mano scivola tra le mutande e con ben impresse le
foto dell’ultimo ragazzo mi masturbo lentamente.
Quando mi sveglio alle tre del mattino il mio pene è
nuovamente eretto. E io mi sottometto un'altra volta ai
suoi desideri con lo stesso piacere di poche ore fa.
“Tesoro stai uscendo?”.
“Sì mamma vado in palestra”.
54
“Ok. Guarda ti cercava papà per continuare la traduzione di quel programma. Dovrebbe essere a casa tra un
paio d’ore”.
“Va bene cercherò di tornare in tempo. A dopo”.
“Ciao. Divertiti”.
La palestra alla quale mi sono iscritto ormai da tre mesi
si trova a dieci minuti a piedi da casa. Non è particolarmente grande, né nuova, se devo essere sincero. Sembra
più che altro un vecchio magazzino adibito a palestra.
Al suo interno ci sono tre stanze in tutto. Appena superato l’ingresso si trovano diverse file di cassette di sicurezza per lasciare portamonete o documenti. Da qui si
accede alla prima stanza che è piena di macchinari per
esercizi cardio come la corsa, il rematore o lo step. Nelle altre due stanze ci sono gli attrezzi per la pesistica.
Prendo da un raccoglitore la mia scheda e dopo essermi
cambiato comincio gli esercizi. Ci sono in totale cinque
istruttori che fanno a turno per seguire gli iscritti in palestra. Solo uno mi rivolge di tanto in tanto la parola.
Per il resto passo il mio tempo facendo un esercizio dietro l’altro concentrandomi sul dono dell’invisibilità. Mi
vergogno ancora del mio corpo che sembra essere stato
messo insieme in maniera un po’ casuale. Negli ultimi
dodici mesi sono cresciuto visibilmente di un paio di
centimetri e le braccia mi sembrano sproporzionatamente lunghe.
Decido di cominciare facendo venti minuti di corsa e
dopo gli addominali. Mi concentro sul megaschermo
posizionato al centro della sala. È sintonizzato su MTV
e manda video musicali a ripetizione. Mentre sto per finire la terza serie di addominali tra le note di If you
cann’t say no di Lenny Kravitz, uno degli allenatori si
avvicina. Ha in mano un bastone di legno di quelli che
si usano per fare le rotazioni del tronco. Fa girare il bastone in aria e mentre sono piegato con gli addominali
contratti lo impugna con una mano e lo fa rimbalzare
due o tre volte sul mio addome indolenzito dallo sforzo.
“Ahia!” mi lamento.
“Forza fammene altri cinque” dice.
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Lo guardo torvo e continuo l’esercizio anche se avevo
già finito la serie. Mentre spingo in su il torace con le
mani posizionate dietro la testa lui conta “Uno, due, tre,
quattro , quattro… quattro... quattro…” ad ogni numero
segue un leggero tocco del bastone sui miei addominali
doloranti.
“Ehi…” gli dico con la faccia rossa per lo sforzo.
“Quattro… e cinque… ben fatto” dice divertito.
Sorrido e rilascio gli addominali con uno sbuffo.
“Vedo che gli esercizi stanno facendo il loro effetto” mi
dice: “sei decisamente più tonico. La prossima settimana voglio cambiarti la scheda. Questa mi sembra troppo
facile”.
“Va bene” riesco a rispondere e mi chiedo se è vero che
sto diventando più tonico. Il complimento mi risuona
nella testa e mentre eseguo una serie di esercizi per i
pettorali mi sento stranamente più forte del solito. Alla
fine della ripetizione raccolgo l’asciugamano e sto per
cambiare strumento, ma un ragazzo mi saluta prendendomi alla sprovvista.
“Ciao” mi dice.
“Uhm… ciao” dico voltandomi sorpreso.
Lui mi squadra e dice:
“Sono Giulio. Tu sei al liceo Majorana vero?”.
“Sì” rispondo.
“Io sono in 4F. Ti ho visto in giro. La mia classe ha
l’ora di educazione fisica dopo la tua classe. Sei il fratello di Guido giusto?”.
“Sì. Lo conosci?”
“No…. beh sì e no” dice confuso.: “io sono il fratello di
Giacomo. Lui e tuo fratello erano nella stessa classe.
Guido è venuto spesso a casa nostra ai tempi del liceo”.
“Ah sì, conosco Giacomo. Non sapevo che avesse un
fratello” dico e subito me ne pento.
“E invece sì!” risponde per niente imbarazzato: “non
frequentiamo gli stessi giri per via della differenza di
età. Inoltre lui ora è andato fuori città per l’università”.
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“Beh buon per te. Mio fratello ha deciso di rimanere
qui. E io che speravo di avere la sua stanza che è due
volte più grande della mia”
dico sorpreso dalla mia stessa eloquenza.
Sorride e poi aggiunge:
“Tu vieni la settimana prossima a Pompei per la gita
scolastica?”
“Sì. Tra tanti posti proprio Pompei: immagino che divertimento”.
“Beh magari sarà interessante. Tu ci sei mai stato?” mi
chiede.
“Sì, da piccolo con i miei genitori, ma non ricordo
granché”.
“Io no. Non deve essere così male. Comunque meglio di
niente; poi solitamente il viaggio più bello si fa al quinto
anno. Le quinte quest’anno vanno a Praga. Deve essere
veramente bella”.
“Sicuramente meglio di Pompei. Almeno lì ci sarà qualche persona con cui parlare che non sia mummificata”
dico .
Ridiamo insieme. Poi ognuno torna ai suoi esercizi.
Mentre eseguo le ripetizioni per i tricipiti vedo la sua
immagine riflessa nello specchio. Giulio è un po’ più
basso di me. Ha gli occhi verdi e il suo sorriso è spezzato dalla macchinetta per i denti. Indossa un berretto grigio bagnato vicino alla visiera per il sudore. Ha un fisico compatto nascosto da una maglietta di due taglie più
grandi e una pelle bianca candida quasi quanto il mio
asciugamano. Non l’avevo mai notato a scuola.
Alla fine degli esercizi faccio un po’ di stretching poi
ripongo la scheda nel raccoglitore e sospiro rassegnato.
Per me il momento più difficile dell’allenamento è il
confronto con gli spogliatoi. Mia madre ha insistito perché io faccia la doccia in palestra. Secondo lei tornare a
casa sudato può causare raffreddori od otiti. Al secondo
raffreddore preso da quando ho iniziato a venire in palestra e al suo milionesimo:
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“Te l’avevo detto io!” le ho dato mio malgrado ragione.
Per cui ora alla fine di ogni allenamento c’è la tortura
della doccia.
Il mio piano è di entrare negli spogliatoi guardingo come se mi stessi infiltrando in casa di estranei per rubare.
Aprire lo zainetto lentamente. Poi quando non c’è nessuno spogliarmi alla velocità della luce ed entrare sotto
la doccia.Oggi purtroppo non ho scelta. Due ragazzi appena usciti dalle docce si stanno asciugando e con tutta
la buona volontà non posso continuare a far finta che il
contenuto del mio zaino sia così interessante da tenermi
occupato per i prossimi quindici minuti. Così mi metto
di spalle e mi spoglio. Poi con gli occhi ben piantati al
pavimento mi dirigo verso la doccia. Mentre sto per
chiudere la tenda alzo lo sguardo giusto in tempo per
vedere uno dei due ragazzi che si tira su gli slip. È girato verso di me e posso vedere bene le sue gambe muscolose e le braccia definite che tirano su le mutande. I miei
occhi si spalancano e chiudo il resto della tenda con un
gesto rapido. Poi apro l’acqua ad una temperatura un
po’ più fredda del solito per bloccare ogni possibilità di
erezione.
Quando esco da sotto la doccia dieci minuti più tardi
sono entrambi andati via. Con un sospiro di sollievo mi
vesto con calma e raccolgo le mie cose. Una volta pronto apro la porta degli spogliatoi per uscire e mi trovo di
fronte Giulio che sta per entrare con la faccia imperlata
di sudore.
“Ciao ci vediamo” dice con il respiro affannato. La sua
mano sfiora il mio braccio.
“Ciao, buona serata” rispondo e mi dirigo all’uscita.
Sulla strada del ritorno sorrido stranamente euforico.
Forse l’istruttore ha ragione: sono decisamente più
tonico.
A scuola l’uso del cellulare durante le lezioni è severamente proibito. I professori hanno requisito in diverse
occasioni i cellulari che devono essere tenuti spenti in
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aula, soprattutto durante i compiti in classe. Alcuni insegnanti, tra cui quello di filosofia, hanno introdotto delle punizioni esemplari in caso di uso improprio del telefonino. Così se un cellulare squilla durante la lezione
per un messaggio ricevuto o per una chiamata viene requisito per il resto della giornata. In più il prof segna un
due a matita sul registro. Usa la matita per ricordarsi che
nella prossima interrogazione il voto conseguito dallo
studente verrà, come punizione, scalato di uno o due
punti a sua discrezione. Infine il cellulare requisito dovrà essere recuperato dalla stanza dell’odiato vicepreside. Il recupero è la parte più dolorosa.
Solitamente una fila di studenti che può arrivare fino a
venti persone aspetta quotidianamente il proprio turno
per farsi restituire il cellulare.
Il vicepreside ovviamente anticipa la restituzione con
una ramanzina personalizzata diversa da studente a studente e di durata variabile secondo il suo livello di odio
per il singolo alunno. Per questo tutti odiano il professore di filosofia. L’idea della punizione è una sua diabolica invenzione.
Stamattina al termine della seconda ora consecutiva di
filosofia la campanella suona e la classe tira un sospiro
di sollievo. Il professore, noncurante, comincia a dettare i compiti per la settimana successiva che segna sul
registro di classe. Infine si avvia verso la porta, ma prima di afferrare la maniglia, nell’aula risuona un rumore
estraneo. Lui si blocca mentre le sue labbra sottili disegnano il suo tipico sorriso di disprezzo:
“Chi di voi ha lasciato il cellulare acceso durante la lezione?” tuona.
Il mio cellulare Samsung ha appena vibrato da sotto il
banco emettendo uno strano suono soffocato. Devo aver
messo il vibracall invece della modalità silenziosa. Le
mie guance si dipingono di rosso mentre cerco di capire
se il prof sa da dove sia giunto il suono. Il prof gira la
testa dalla mia parte:
“Allora di chi è quel cellulare?” e mi fissa consapevole.
Alzo la mano:
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“Mi spiace devo avere messo il vibracall invece…”
“Dammi il cellulare” intima.
Prendo il cellulare dalla tasca e glielo porgo. Tutti mi
guardano e so che stanno controllando i propri telefoni
per accertarsi che siano spenti o settati correttamente.
Lui con calma torna alla cattedra, apre il registro e segna un due a matita all’altezza del mio nome. Poi prima
di uscire di classe mi dice:
“Lo darò in consegna al vicepreside. Potrai riaverlo alla
fine delle lezioni” ed esce.
“Merda” dico sottovoce. Non capisco come possa essere
così sfigato: chi può avermi mandato un messaggio alle
undici di mattina mi chiedo. Fortunatamente il professore di religione che abbiamo all’ultima ora ci fa uscire
sempre cinque minuti prima. Ho buone possibilità di essere tra i primi in fila davanti la porta del vicepreside,
anche perché oggi abbiamo solo quattro ore. Così con
grande sorpresa del professore mi faccio trovare in classe puntuale rompendo la mia tradizione della pausa sigaretta. Lui mi guarda come se fosse un evento storico e
ottimista richiede il mio intervento sul tema del giorno:
la pena di morte.
Rispondo con un semplice:
“Favorevole”
Una parte della classe ride. Io pure sorrido mentre penso
al professore di filosofia che viene preso a colpi di randello a forma di due dai suoi alunni capeggiati da me. Il
professore di religione, per niente impressionato, strizza i piccoli occhi nascosti dietro le lenti spesse e riprende il monologo da dove l’ha interrotto. Di tanto in tanto
mi guarda come per dire che mi sono giocato per sempre il mio posto in paradiso. Io passo il resto dell’ora a
disegnare draghi ed esseri sputa fiamme intorno al ritratto del prof di filosofia.
Quando arrivo davanti la porta del vicepreside sono il
quinto della fila. Ho la sensazione di essere in coda
all’ufficio postale. Gli altri ragazzi come me si lamentano e imprecano augurando al vicepreside ogni sorta di
malattia infettiva. I minuti trascorrono lenti. Il mio oro60
logio ne conta quaranta prima che il vicepreside mi comunichi che posso andare. Tra le mani ho il cellulare
traditore. Sul display lampeggia ancora l’icona di una
busta con scritto sotto messaggio ricevuto.
Apro il messaggio e leggo: ”Ciao sono belmoro34. Scusa se non ho risposto al tuo sms prima, ma ero preso dal
lavoro. Ti va di vederci sabato pomeriggio. Io sono libero. Possiamo andare da me. Fammi sapere. Un bacio”.
Lo rileggo una volta e poi una seconda volta. Quindi rispondo:
“Sabato va bene per me. Ci vediamo alle tre alla stazione dei treni di fronte al capolinea dell’autobus 11. Il
primo che arriva fa uno squillo”.
Metto il cellulare in tasca e mi dirigo verso la fermata
dell’autobus.
Ancora una volta dovrò aspettare per un bel po’ alla
fermata. Quando arrivo sotto casa è l’una passata. Apro
la cassetta della posta e prendo le lettere che ci sono
dentro. Poi mentre salgo le scale un nuovo messaggio
arriva e il mio cellulare vibra in tasca. Lo prendo e leggo: “Ok a sabato. Un bacio”.
Faccio le scale a due a due pieno di entusiasmo ed eccitazione. Sabato è tra tre giorni!
Sabato mattina controllo il cellulare ogni cinque minuti
in attesa di qualche ripensamento dell’ultimo momento.
Controllo in maniera maniacale che il telefonino riceva
il segnale perfettamente. Quando arrivano le due di pomeriggio mi convinco che il cellulare non funzioni nonostante non ci sia alcun guasto apparente. Mi telefono
da casa e il cellulare suona. Non ho scelta. Preparo i vestiti che avevo programmato di indossare e penso a che
cosa raccontare ai miei genitori. Alla fine mi convinco
che un pomeriggio al cinema sia la scusa migliore. La
comunico a mia madre, che la prende con sorpresa e con
più gioia del dovuto.
“Ti sei fatto degli amici a scuola quindi?” mi chiede.
“Così sembra” rispondo.
“Torni a casa per cena o ceni fuori?” mi chiede speranzosa.
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“Non lo so. Se ceno fuori te lo faccio sapere”.
“Va bene. Tesoro, se vai sul motorino di qualche tuo
amico stai attento. Non mi fido di quei trabiccoli”.
“Non preoccuparti” poi aggiungo: “vado a prepararmi,
sennò faccio tardi”
“Ok. Se vuoi tuo padre potrà passarti a prendere”.
“Grazie, in caso chiamo” dico uscendo dalla cucina.
Cerco tra i miei cd qualcosa che mi possa dare la giusta
carica. Prendo il cd dei Garbage e scelgo la traccia due:
I’m only happy when it rains. La musica mi calma e non
mi fa pensare troppo. Quando la canzone finisce sono
pronto. Controllo di nuovo il cellulare ed esco di casa
scordandomi di salutare. La stazione è abbastanza lontana a piedi, ma sono uscito con largoanticipo e sono il
primo ad arrivare all’appuntamento. Faccio lo squillo
concordato al belmoro e aspetto. Dopo dieci minuti abbondanti una Punto rossa si ferma davanti il capolinea
dell’11 e lampeggia con gli abbaglianti. Il mio cellulare
vibra. Cammino con tutta la calma della quale sono capace ed entro in macchina.
“Ciao come va?” mi chiede.
“Bene, tu?” rispondo; il tono della mia voce è decisamente più acuto del normale.
“Bene” e aggiunge: “un po’ nervoso. Sai, non incontro
solitamente persone conosciute in chat”.
Il fatto che lui sia nervoso mi rende per qualche motivo
molto più sicuro di me. Sorrido e mi stupisco di quanto
rapidamente mi sia calmato.
“Tu vivi in città?” gli chiedo allacciando la cintura di
sicurezza.
“No, vivo a Tessarico, un paesino appena fuori città.
Cosa ti va di fare? Vuoi bere qualcosa?”.
“Sì, ok”.
Esce dal parcheggio e fa manovra tra il traffico che affolla la stazione. Poi si immette in una delle strade laterali che porta alla periferia della città. Il bar nel quale
entriamo si chiama Caffè Roma è uno dei più belli del
centro. Ne ho sentito parlare spesso, ma non ci sono mai
entrato. I tavoli all’interno sono pesanti e di legno scuro.
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Sono alquanto barocchi e sembrano essere stati disegnati per una casa di bambole. Ci sediamo ad un tavolo libero e studiamo ognuno il volto dell’altro.
“Io mi chiamo Luca” esordisce.
“Io Damiano” mento. E mi chiedo nel momento stesso
in cui lo dico cosa mi spinga a tenere la mia identità nascosta.
“Studi?” mi chiede.
“Sì, sono iscritto alla facoltà di storia e conservazione di
beni culturali e architettonici” rispondo più preparato
che con Mauro.
“Wow. Devi essere molto bravo in disegno allora”.
“Sì. Mi piace molto disegnare” e sorrido: almeno questo
è vero!
Prendo un po’ di tempo per guardarlo. Luca è un uomo.
Molto bello per la sua età. I suoi gesti sono sicuri e veloci. Non hanno la mia goffaggine adolescenziale. I capelli sono castani pettinati all’indietro. Sono belli e folti
e non sembra abbiano intenzione di diventare bianchi
velocemente. Gli occhi sono neri e caldi. Intorno ci sono
delle rughe appena accennate che diventano un po’ più
evidenti quando sorride. Ha un viso gentile e le sue mani sono lunghe e affusolate. È alto quanto me, ma ha
una struttura fisica ben salda e forse un po’ di pancetta.
Quando usciamo dal caffè mi apre la porta e nel suo gesto non leggo desiderio di sesso e in un certo qual modo
me ne dispiace.
“Se ti va ti faccio vedere dove abito” dice. “Però è venti
minuti fuori città. Hai tempo o devi tornare a casa?”.
Guardo l’orologio. Sono solo le quattro. Un film non
può durare così poco. Accetto l’invito.
Durante il viaggio in macchina si accende una sigaretta
e me ne offre una che prendo dal pacchetto cercando un
contatto con le sue mani. Manco le sue dita di due centimetri abbondanti, ma riesco a non dare a vedere che
mi dispiace.
“Come mai non frequenti locali gay?” gli chiedo.
“Non lo so. Non mi sono mai piaciuti. Neanche da ragazzo, quando avevo più o meno la tua età”. Sorride e
63
mi guarda: “Non mi piace l’esibizionismo. E poi ho
avuto una relazione molto lunga. Per cui non sentivo la
necessità di conoscere altre persone”.
“Con un uomo?”.
“Certo, ho avuto solo una donna in vita mia” poi mi
guarda ed espira il fumo: “mia madre!”
Entrambi ridiamo. La sua risata è bella e sincera. Non è
sguaiata e ha un suono piacevole.
“In un certo senso mi sento a disagio nei locali gay”
spiega. “Non mi fraintendere, non ci vedo niente di male. Mi piacciono, mi mettono allegria così pieni di gente.
È solo che non sono il tipo che si presenta e fa amicizia
velocemente. Finirei per restare tutto il tempo appoggiato ad un muro a vedere gli altri che si divertono. Da
questo punto di vista sono proprio un ragazzo di campagna” e di nuovo ride.
Quindici minuti più tardi la macchina si ferma davanti
ad un cancello che protegge una villetta gialla a due
piani. Luca aziona il telecomando e il cancello si apre.
Mentre entriamo fisso stranito un albero che è stato
piantato in prossimità del garage. Non ho mai visto
niente del genere.
L’albero è per metà pieno di arance e per metà pieno di
limoni. Glielo indico e dico:
“Ma come è possibile?” con la bocca semiaperta per lo
stupore.
Lui sorride: “Quello? Tutto opera di mio padre. Lui è un
contadino.
L’albero del limone e quello dell’arancio possono essere
innestati.
Questo originariamente era solo un arancio. Poi quando
è arrivato a una certa altezza mio padre ha fatto un taglio e ha innestato il tronco di un albero di limone. Ha
legato il ramo all’albero e l’anno successivo c’erano due
limoni da una parte e due arance dall’altra. Io avevo dodici anni e ho pensato che mio padre fosse un mago. Nel
giardino di dietro ne ha piantati diversi che hanno prugne nere da un lato e prugne gialle dall’altro”.
Lo fisso e dico: “Beh tuo padre è un mago!”.
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Lui sorride e spegne la macchina. Poi mi fa strada verso
il portone di casa. All’interno l’appartamento è accogliente e grande almeno il doppio della casa dei miei
genitori. La cucina dà sul giardino interno. C’è un tavolo al centro della stanza e intorno quattro sedie. Si toglie
il giaccone e lo appoggia su una delle sedie. Io tolgo il
mio e faccio lo stesso. Il salone, al quale si accede dalla
cucina, ha un caminetto davanti al quale c’è un divano a
forma di L e un tavolino in vetro. Alle spalle del divano
c’è una libreria piena da cima a fondo di volumi. Mi avvicino e leggo alcuni titoli. Prendo uno dei libri e lo giro
tra le mani. Sento il suo sguardo che mi fissa alle spalle.
“Ti piace leggere Damiano?” mi chiede.
“Si, leggo molto”.
“Se vuoi dopo ti presto qualcosa. Ho un sacco di libri,
molti li tengo in cantina perché ho finito lo spazio in libreria”
“Ti va un tè?” mi chiede poi.
“Si volentieri”.
“Che gusto preferisci?”.
Lo seguo in cucina. Lui mi mette davanti un piccolo
cassettino fatto in legno. Dentro ci sono almeno venti
varietà di tè e tisane. Prendo una bustina con scritto tè
nero e glielo porgo. Lui sta per prendere la bustina dalla
mano, io afferro il suo braccio e lo tiro a me lentamente.
Poi lo bacio. L’aria di sorpresa nei suoi occhi mi eccita.
Gli ci vogliono trenta secondi prima di lasciarsi realmente baciare. È un bacio un po’ strano in realtà. Non
mi abbraccia. È come il bacio che si scambiano due
bambini o due principianti. Ognuno è fermo nella sua
posizione un po’ troppo rigida. La mia mano destra è
nella sua. La bustina del tè è stritolata nel mezzo della
nostra presa.
Dopo un po’ lui si allontana e dice: “Ops l’acqua bolle”,
spegne il gas sotto il bollitore e mette la mia bustina del
tè pestata in una delle due tazze.
Quando il mio orologio segna le cinque dico che devo
andare in bagno. Al mio ritorno mi siedo accanto a lui
sul divano. Sono passate due ore da quando ci siamo
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conosciuti. Ma una cosa è chiara. Se voglio che succeda
qualcosa devo essere io a fare la prima mossa. Non so se
sia la sua timidezza o il modo in cui tiene la tazza del tè
con entrambe le mani, ma qualcosa in lui mi piace sul
serio. Quando mi avvicino di nuovo per baciarlo lui mi
lascia fare. La sua lingua scivola sapiente nella mia bocca e ne esplora ogni angolo. Ci baciamo a lungo. Le mie
mani camminano sul suo corpo ancora nascosto dal maglione.
Dopo dieci minuti di baci e mani che frugano un po’
ovunque, lui mi guarda:
“Certo che tu non sei un ragazzo di campagna” dice.
Ed entrambi ridiamo. Mi sdraio sulle sue gambe e faccio
di no con la testa. Lui ride e scuote la testa e riprende a
baciarmi. Quando mi alzo per trovare una posizione più
comoda per entrambi afferra la mia mano e mi porta
nella stanza da letto. La camera è poco più grande della
cucina ed è occupata per gran parte dal letto. Il piumino,
che c’è steso sopra, è rosso e ha un tema orientale. Mi
butto sul letto e gli faccio cenno di venire anche lui. Lui
si sfila il maglione e si stende. Ricominciamo a baciarci.
Sono senza scarpe, lui si toglie le sue. La camicia blu,
che ha indosso, sa di pulito. Con una mano prende una
delle mie gambe e sento il suo palmo che sale dalla coscia fin sulla mia natica. Sento il calore della sua mano
mentre gli bacio il collo. Lo faccio stendere di schiena,
mi siedo sopra e gli sbottono la camicia. Bottone dopo
bottone. Sotto c’è la pelle del suo corpo. Ha un bel petto
con pochi peli e due braccia forti. I suoi muscoli sembrano frutto di un dono genetico e non di uno lavoro in
palestra. Forse sono merito di una discendenza contadina. Ha un po’ di pancetta e un filo di peli neri che
dall’ombelico scende giù. Glieli bacio e poi gioco con la
mia lingua dentro l’ombelico. Lui ride e mi scompiglia i
capelli. Mi rialzo e mi tolgo il maglione. Non ho nessuna maglietta sotto e resto a petto nudo.
Gli prendo le mani e le faccio scorrere sul mio corpo.
Mi sento a mio agio. Lui mi fa stendere e mi sbottona i
pantaloni. Li toglie con uno scatto dalle mie gambe e mi
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sfila i calzini. Poi si toglie i suoi. Intravedo il suo pene
semieretto dentro i boxer scuri e lui sorride vedendo dove è caduto il mio sguardo.
“Sei un piccolo demonio!” dice.
“Ah ah” rispondo annuendo con la testa.
Poi si gira e mi sale sopra. Il suo corpo è pesante sul
mio. Ma la pressione della sua carne è piacevole e calda.
Mi bacia sulla fronte, su una guancia, sulle labbra, sul
collo e poi con lentezza su ogni parte del corpo fino ai
piedi. Le sue labbra mi fanno il solletico e mi eccitano
in ugual misura. Risale dai miei piedi e bacia il mio pene evidentemente eretto sotto le mutande. Poi tira giù il
pezzo di stoffa che lo separa dal mio sesso e ne bacia la
punta. Spasimi di piacere mi fanno sorridere mentre scivola con la bocca dalla punta fin giù alla base. Nessuno
dei ragazzi con i quali sono stato era cosi bravo. Ogni
volta che risale con la testa la muove lateralmente stimolando nervi e tessuti che non sapevo di avere. Ho
paura di venire troppo presto e lo faccio fermare con un
lieve gesto. Lui capisce e mi bacia a lungo. Quando arrivo all’altezza del suo boxer e lo sfilo via sento l’odore
del suo sesso eretto e ne sono inebriato. Provo il suo
stesso trucco baciandogli la punta prima di assaporarne
interamente il gusto. Il suo sesso è più largo rispetto al
mio. È simmetrico e circondato da peli neri più densi
intorno alla base. Lo lecco da cima a fondo e lo ingoio.
Le sue gambe sono aperte e io le sfioro con le mani. I
muscoli sono contratti ed eccitati sotto il mio tocco.
Quando sono sazio scivolo di nuovo sul suo corpo disteso e lascio che i nostri peni stiano in contatto. Entrambi
rigidi e pulsanti. Lui mi chiede di girarmi e io lo faccio
un po’ nervoso. Non ho mai lasciato nessuno entrarmi
dentro e non sono sicuro di essere pronto. Luca mi bacia
nuovamente sul collo. Sento il suo pene all’altezza delle
mie natiche. Giro il collo e ci baciamo. Sentire il suo
corpo steso sul mio mi fa sentire protetto e caldo. Lui
scende giù e comincia a baciare le mie natiche. Prima
una poi l’altra e poi mi lecca in prossimità dell’ano. È
una strana sensazione. Inizialmente non piacevole, ma
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poi man mano che mi rilasso sento il calore della sua
lingua e comincio lentamente a gemere ogni volta che
scende un po’ più giù. Con una mano mi fa un po’ alzare e afferra il mio sesso mentre un dito scivola dentro il
mio stomaco che prima si contrae e poi si lascia esplorare. Il piacere esplode come un mal di testa e improvvisamente senza preavviso vengo sul suo piumino. Quando ho finito quasi me ne vergogno. Lui sembra capire e
si stende accanto a me.
“Non ti preoccupare non importa” dice.
“Mi spiace per il piumino” dico imbarazzato. E poi aggiungo: “… e perché non ti ho aspettato”.
“Ehi… che scemo sei” e mi bacia. Io chiudo gli occhi e
avvicino la testa sul suo petto contando i suoi respiri. Mi
addormento. Quando mi risveglio lo faccio di soprassalto. Mi giro in cerca di un orologio. Lui mi accarezza la
testa e mi dice:
“Stai calmo, sono passati solo dieci minuti”.
L’orologio sul suo comodino segna le sei e zero cinque
e io desidero di nuovo il suo corpo. Sento il desiderio
salire dallo stomaco attraverso il mio sesso e su nel mio
cervello. Lui se ne accorge e sorride. Mi bacia e sento
che anche il suo sesso è già semieretto. Gioco con i suoi
capezzoli e lui con i miei. Li stringo tra le dita a volte
gentilmente a volte con più forza e la sua bocca si apre
in una esclamazione di piacere frammista al dolore.
Prendo il suo pene con la mano sinistra e comincio a
muoverlo mentre lui chiude gli occhi. In quell’istante so
che voglio sentirlo dentro di me. So che voglio qualcosa
in più di quello che ho già provato.
Lascio la presa del suo sesso e lui apre gli occhi. Mi giro di schiena e lui capisce cosa voglio. Comincia a stuzzicare il mio ano gentilmente e lungo i bordi con le dita.
Poi scende, lo bacia ripetutamente leccandolo tutto intorno. Sento il rumore di un cassetto che si apre e di
qualcosa di plastico che viene rotto. Con la coda
dell’occhio vedo che si sta mettendo il profilattico. Mi
giro di nuovo e cerco di rilassarmi pensando che forse
sarà doloroso e cerco di convincermi che questo è quel68
lo che voglio. Mette un po’ di lubrificante sul profilattico e un po’ dentro di me con un dito. Poi mi fa stendere
sul letto e si stende sulle mie spalle. Mi sussurra: “Rilassati. Se ti faccio male dimmelo” io annuisco nervoso.
Centimetro dopo centimetro sento un corpo estraneo entrarmi dentro. Non provo dolore. È più che altro una
sensazione strana, come se qualcosa stesse riempiendo il
mio stomaco. Poi quando è dentro di me fino alla base si
ferma. Aspetto un poco. Io spingo indietro con i reni e
lui allora comincia a muoversi lentamente. Le mie braccia sono distese sul letto. Luca incrocia le sue dita con le
mie. Poi mi bacia. Si muove dentro di me con attenzione
fino a quando io gli do il permesso di tenere un ritmo
più consistente. Dopo pochi minuti riesco a rilassarmi e
mi ritrovo a gemere sotto di lui. Ora le sue mani sono
strette sul mio petto e il mio corpo e il suo uniti in una
cosa sola. Quando sta per venire esce fuori e si toglie il
profilattico che butta a terra. Mi giro e il suo seme arriva
caldo sulla mia pancia e poco dopo del nuovo seme si
aggiunge al suo: il mio. Di nuovo ci baciamo a lungo
soddisfatti.
Per tutto il tragitto da casa sua alla stazione mi tiene per
mano mentre guida. Quando scendo dalla macchina e
comincio a camminare verso casa realizzo che oggi ho
perso la verginità.
69
4.
Accendo la sigaretta e inalo una buona dose di fumo.
Sento dei passi in lontananza e so per certo che Giada
sta arrivando. Quando appare da dietro l’angolo la sua
sigaretta è già accesa e io le faccio segno dalla porta dei
bagni dei ragazzi. Una ragazza le passa accanto e si gira
di scatto, probabilmente cercando di capire chi sia così
stupido da camminare per i corridoi con una sigaretta
accesa. Lei si gira e le soffia un bacio. Poi non contenta
le mostra il suo piercing facendole la linguaccia. Infine
senza indugio entra nei bagni degli uomini da dove ho
assistito nascosto a tutta la scena. Un ragazzo del primo
anno esce da una delle toilette e i loro sguardi si incrociano. Giada lo fissa un attimo e gli dice:
“Io sono per la parità dei diritti. Per cui uso il bagno che
mi va di usare. Problemi?”
Lui fa di no con la testa e sparisce .
“Ciao, di buon umore vedo” le dico.
“Sì, a dir la verità sì. Oggi ho preso sei e mezzo in matematica. La professoressa mi ha detto: “Giada se continui di questo passo dovrò
ammettere anche te agli esami di stato. La scuola sarà
così noiosa senza te in classe”.
Io all’esame di maturità: ci pensi?” dice divertita.
“Certo che vivere da sola ti fa bene. Non è che domani
ti vedo in gonnella di raso?”
“Ehi 4D se vuoi che ti faccia del male puoi chiedermelo.
Lo sai che ti picchio sempre con piacere” dice e mi tira
una gomitata amichevole sulle costole. Io le sbuffo il
fumo in faccia.
“Dobbiamo festeggiare stasera. Che ne dici di pizza e
birra?” dico.
“Perfetto a casa mia alle otto”.
“Possiamo vederci prima se ti va e guardare un dvd”
propongo.
“No, non posso prima: ho un impegno… purtroppo”
70
“Ok alle otto allora” guardo l’orologio e aggiungo di
fretta:
“Merda devo scappare in classe. La scorsa settimana la
prof di inglese mi ha interrogato perché ero in ritardo e
mi ha detto che ogni volta che arriverò tardi alla lezione
mi chiamerà alla cattedra”.
“A stasera” mi grida dietro mentre cammino veloce verso la mia classe.
“Stai uscendo tesoro?”.
“Sì mamma, ceno fuori”.
“Ok ma non fare tardi. Domani devi andare a scuola”.
“Va bene. Ciao”.
Faccio le scale di casa a due a due contando mentalmente i gradini.
Quando esco dal portone del mio palazzo una folata di
vento mi investe. L’aria mi pizzica il volto e mi fa sentire stranamente vivo. Casa di Giada è abbastanza lontana. Per arrivarci devo prendere due autobus e fare un
pezzo di strada a piedi. Ma non mi dispiace. Accendo il
lettore cd e la musica di Bjork mi fa compagnia. Ho il
tempo di ascoltare tutto l’album Homogenic durante il
tragitto in autobus. Quando mi tolgo le cuffiette sono
sotto casa sua. Premo il campanello senza nome e aspetto a lungo una risposta. Finalmente il portone si apre.
Entro e scendo le scale. Giada mi aspetta davanti la porta. Alzo la busta di plastica che contiene diversi chili di
patatine e popcorn e annuncio:
“Babbo natale è arrivato!”.
Giada mi fissa con i suoi occhi gelidi. Esce
dall’appartamento e si chiude la porta alle spalle. Non
mi vuole far entrare.
“4D forse è meglio che rimandiamo” dice gelida.
Nel buio delle scale non vedo praticamente niente, so
che è lei davanti a me, ma non ne scorgo i lineamenti.
Sento solo i suoi occhi che perforano il buio che ci circonda.
“Perché? È successo qualcosa?” le chiedo allarmato.
71
“Non ne voglio parlare. Ci vediamo domani a scuola”.
Il mio stomaco si contrae e uno spasmo di dolore e delusione si diffonde nel resto del corpo.
“Ho capito…” dico anche se non ho idea di quello che
sta accadendo. “Beh ciao” aggiungo e la mia voce suona più soffocata di quello che vorrei.
Risalgo le scale lentamente. Sento la porta del suo appartamento che si chiude alle mie spalle. Sto per rimettermi le cuffie mentre il portone del palazzo scivola lentamente sulla mia mano chiudendosi, ma quando rimane
aperto solo uno spiraglio cambio idea, metto la mano in
mezzo per bloccarlo e mi ci chiudo le dita dentro.
“Cazzo” impreco a voce alta.
Riapro il portone con la mano dolorante e scendo di
nuovo le scale diretto al suo appartamento, mi fermo
davanti alla porta e busso con insistenza. Il cuore mi
batte nel petto all’impazzata. Giada mi apre: tutto il suo
appartamento è immerso nel buio. Sta per parlare ma la
precedo e grido tutto di un fiato:
“È perché vado con gli uomini?”.
Lei fa un passo indietro presa alla sprovvista. Poi, inaspettatamente, comincia a ridere. La sua risata risuona
alta nella tromba delle scale. Imbarazzato ne subisco
l’eco e mi vergogno della mia confessione.
“Oh 4D” dice piegata in due nel tentativo di nascondere
un nuovo attacco di risate “ti prego dimmi qualcosa che
non so”.
Io sono rosso e imbarazzato e vorrei scappare. Ma Giada mi mette una mano sulla spalla e me la stringe.
“Entra dai” dice.
Non vedo nulla e inciampo su qualcosa che è a terra:
“Cosa è successo alla luce?” chiedo mentre le mie
guance sono ancora in fiamme.
Lei, senza dire una parola, accende l’interruttore. La luce inonda l’appartamento. Apro la bocca stupito: è
completamente a soqquadro. Quello su cui sono inciampato è lo stereo o, meglio, ciò che ne rimane. La scrivania, che ho pulito un paio di giorni fa, giace a terra. Ci
sono dei vetri sul pavimento e un piatto rotto vicino alla
72
cucina. Un quaderno strappato è ai miei piedi. Quando
alzo lo sguardo Giada è di fronte a me. Con una mano
preme del ghiaccio sulla guancia. Dalle labbra le esce
un piccolo rivolo di sangue quasi rappreso. Credo di avere la bocca spalancata, il mio cervello gira a vuoto
tentando di trovare le parole da dire e cercando di mettere ordine di priorità tra le domande che vorrei farle. Lei
si gira e apre una mensola. Prende un bicchiere e ci versa cinque dita di rum. Ne beve la metà e poi mi passa il
bicchiere sedendosi sul divano. Mi accorgo che sto tremando quando lo afferro; bevo d’un fiato e sento una
lingua di fuoco che mi attraversa l’esofago per arrivare
allo stomaco. Chiudo gli occhi cercando di attutire il
colpo. Quando li riapro sono un poco più calmo, ma di
certo non meno confuso di prima. Mi siedo sul divano
accanto a lei.
“Cosa è successo?” dico sottovoce.
“La mia visita non è stata calma come pensavo” risponde apparentemente calma.
“Stai bene?”.
“Sì, non ti preoccupare, sono stata peggio. Non è niente
che un po’ di ghiaccio e un chilo di fard non possano
nascondere” tenta di minimizzare.
“È stato il tuo ragazzo vero? Lo hai lasciato?” chiedo.
“4D….non posso lasciarlo” risponde abbassando gli
occhi.
“Ma come non puoi? Guarda casa tua! Guarda come…
guarda cosa ti ha fatto. Devi lasciarlo. Puoi denunciarlo
se vuoi. Puoi stare a casa mia nel frattempo” parlo veloce e nuovamente i pensieri si accavallano nella mia testa. Sento la rabbia che mi sale al cervello e ricomincio
a tremare.
Poi lei mi guarda: “Non posso lasciarlo…” ripete. “Anche se lo volessi non posso… lui è mio padre”.
Il suo sguardo è privo di gioia o di una qualsiasi altra
emozione. Mi alzo confuso e la guardo con occhi spalancati. Le parole rimangono pesanti e violente dentro la
mia testa e io cerco di digerirle. Poi la fisso e una lacri73
ma scioglie parte del suo trucco disegnando una scia nera sulla guancia.
“Quel figlio di puttana ha preso a calci la mia moto. La
forcella è andata” dice e si prende la testa tra le mani.
Due ciocche di capelli blu pendono con dolore tra le sue
dita.
Vado verso la cucina, prendo la bottiglia di rum e riempio nuovamente il bicchiere, questa volta fino all’orlo.
Ne bevo due dita e lo porto a Giada. Lei lo prende e ne
beve un sorso. Poi si stende sul divano. Passano diversi
minuti. Il silenzio è rotto solo dal rumore di passi che
entra dalle micro finestre e rimbomba sui muri del suo
appartamento.
Mi avvicino alla porta e apro il mio zainetto. Ne estraggo il quaderno che contiene tutti i miei disegni. Trovo
una pagina bianca. Giada fissa il quaderno e i miei disegni con aria interrogativa.
“Posso farti un ritratto?“ le chiedo.
Lei mi fissa stranita.
“Disegnare mi rilassa” le spiego.
“Ok”.
Mi trema la mano e la scuoto per stenderne i nervi. Bevo un altro po’ di rum. Poi chiudo la presa sulla matita e
la lascio scorrere sul foglio come una melodia. Il suo
fruscio diventa l’unico suono della stanza. Stereo, piatti
e bicchieri rotti scompaiono. Il divano è un’isola. Su
quell’isola Giada comincia a parlarmi di suo padre. Della sua infanzia spezzata. Di sua madre troppo buona o
troppo debole o solo troppo stanca per cambiare. Delle
ribellioni e delle botte prese. Il suo sguardo gelido si
scioglie in gocce di acqua salata che cadono nel silenzio
della notte.
Quando apro la porta di casa mio padre mi viene incontro e mi dice:
“Ehi mi stavo preoccupando, perché non mi hai chiamato? È tardi,
potevo passarti a prendere”.
“Mi hanno accompagnato” mento e subito me ne pento.
Poi prima di entrare nella mia stanza mi giro e gli dico:
74
“Grazie”. Lui mi fissa come se mi volesse chiedere per
cosa, ma non sarei mai capace di spiegarglielo.
Per tutta la mattina durante le lezioni cerco di mettere
ordine tra le mie idee. Ho parlato di nuovo con Giada
all’entrata della scuola. Lei non ha i soldi per fare aggiustare la moto e io da questo punto di vista non posso
aiutarla. Lei vorrebbe cercarsi un lavoro, ma già riesce a
fatica a stare dietro la valanga di compiti che le assegnano, in più è indietro in diverse materie e passa gran
parte del suo tempo libero chinata sui libri tentando di
recuperare.
Passo il pomeriggio a fare i compiti e mi preparo per la
palestra. Esco di casa tenendo il borsone con una mano
sola appoggiato sulla spalla destra. Comincio a contare i
gradini, ma a metà della seconda rampa vengo folgorato
da un’idea.
Esco, ma invece di andare in palestra percorro lentamente i trecento metri che separano il mio portone dalla
cantina del ragazzo col motorino che ho conosciuto un
paio di settimane fa. Arrivo davanti alla cantina. La luce
è accesa. Busso due volte sulla porta metallica. Lui
dall’interno abbassa il volume della radio che sta trasmettendo una canzone di Bob Marley e chiede:
“Chi è?”.
“Ehm sono un amico…” dico, poi incerto aggiungo: ”ti
ho aiutato tempo fa a spingere il motorino che non partiva. Ti volevo chiedere una mano per aggiustare una
moto”.
Lui apre la porta. Ha una sigaretta in bocca e le mani
sporche di grasso. Nonostante faccia ancora freddo indossa solo una maglietta nera a mezze maniche piuttosto
aderente. Mi squadra, poi prende la sigaretta tra le dita
della mano sinistra e mi porge la destra piena di grasso.
La stringo.
“Ehi amico, come va? È tanto che non ci si vede” dice
come se ci conoscessimo da non so quanto tempo.
“Ehm già” rispondo.
75
“Entra” aggiunge e mi fa un cenno con la mano.
La sua cantina non è cambiata molto. Istintivamente
guardo la pila di giornali porno che si trovano sempre
nello stesso posto bene in vista . Sopra il tavolo da lavoro c’è quello che sembra il motore di un motorino al
quale sta lavorando. Stavolta è lui a sedersi sulla sedia
dove ero seduto un paio di mesi fa. Da lì mi squadra curioso. Il mio stomaco è chiuso dall’emozione e
dall’eccitazione di essere di nuovo nella sua cantina.
“Una mia amica ha una moto, un’Aprilia. La forcella si
è rotta o danneggiata. Questo è il modello della moto”
dico e gli passo un foglietto sul quale ho ricopiato i dati
della moto. “Pensi di poterci dare una mano?”
Lui mi guarda con un mezzo sorriso e prende il foglietto
dalle mie mani:
“Sì, si può fare”.
“Quanto credi che verrebbe a costare?”.
“Dipende. Una forcella nuova costa pure mille euro”.
“Oh merda!” dico sottovoce.
Lui mi guarda e spegne la sigaretta sul bancone.
“Possiamo fare così. Io non scordo mai chi mi aiuta” dice con aria ambigua: “è possibile che riesca a trovare
una forcella usata che vada bene. Nel frattempo dille di
portarmela che cerco di ripararla temporaneamente così
che lei possa usare la moto. Poi appena trovo il pezzo la
riportate qui, lo monto e mi pagate solo il pezzo di ricambio. Che ne dici?”.
“Fantastico!” rispondo e il mio volto si allarga in un sorriso.
Lui pure sorride, poi si alza, guarda il motore davanti a
sé e mi dice:
“Passami la chiave inglese”
Io la prendo dalla rastrelliera sopra il bancone e gliela
passo. Poi con calma mi accendo una sigaretta. Passiamo un paio di minuti in silenzio fino a quando lui prende la sigaretta dalla mia bocca, aspira un paio di tiri e
me la restituisce. Poi dice:
“Lo sai che contavo di rivederti qualche volta. Pensavo
che frequentassi il batuage. Ma non ti ho mai visto lì. Io
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ci vado così di tanto in tanto. Non perché sia... beh
hai capito cosa intendo. Ci vado cosi per divertirmi
un poco”.
Lo guardo con aria interrogativa. Poi gli dico:
“Beh, veramente io non so cosa sia il batuage. Non lo
frequento”.
Lui mi guarda come se fossi un marziano e mi spiega
che il batuage è un posto o, più precisamente una piazza non lontano dal nostro quartiere, dove gli uomini girano di notte. Si scambiano occhiate, si conoscono e poi
trascorrono la notte insieme o anche solo pochi momenti
di piacere a loro discrezione. Mentre parla si tocca
all’altezza del cavallo e i miei occhi scivolano sui suoi
lineamenti tonici sotto la maglietta aderente. Entrambi
abbiamo decisamente voglia. Ma lui distoglie lo sguardo
dal mio volto e punta col cacciavite l’orologio:
“Merda devo finire questo motore per le cinque. Quando pensi di portarmi la moto?” mi chiede.
“Credo in settimana. Devo parlare con la mia amica: la
moto è la sua”.
“Ah ok. Allora ci vediamo in settimana o chissà, magari
ci vediamo un giorno di questi in piazza Plebiscito”.
Quando glielo chiedo mi spiega che piazza Plebiscito è
il luogo del batuage.
“Beh meglio che vada” dico infine con un sorriso.
Lui fa un cenno col capo e mi stringe la mano. Il suo gesto è maschile e ambiguo in ugual misura e mi spiace
che la sua consegna sia così urgente. Con la mia mano
ancora stretta nella sua gli dico:
“Grazie, a presto. Ciao”.
“Ciao”.
Lancio la sigaretta a terra ed esco dalla cantina.
Una volta a casa, dopo la palestra, passo il resto del pomeriggio su internet e raccolgo tutte le notizie possibili
sul batuage. Non ho notizie di Luca da un paio di giorni
e dopo il nostro incontro non ha risposto al mio sms.
L’incontro con il ragazzo del motorino ha risvegliato i
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miei desideri e i miei ormoni. Decido di fare un salto al
batuage dopo cena.
Il posto è a dieci minuti di autobus. Ma posso anche
raggiungerlo a piedi. A cena sono così emozionato che
riesco a malapena a toccare cibo. Dopo avere aiutato a
raccogliere i piatti mi cambio e mi preparo ad uscire. Ho
detto a mia madre che esco per un paio di ore e che tornerò prima di mezzanotte. Quando l’orologio scocca le
nove prendo il mio lettore cd ed esco di casa. Aziono
play e la musica dell’album Bedtime stories di Madonna
riempie il silenzio della notte. Quando arrivo alla fermata, un autobus chiude le porte e mi parte davanti. Decido
di proseguire a piedi. Giunto in piazza Plebiscito mi
guardo intorno. Ci sono ancora delle persone che si affrettano a tornare a casa. Per la prima mezz’ora non
succede niente di anormale. Poi verso le dieci il numero
delle macchine intorno alla piazza comincia ad aumentare. C’è un parco alle spalle della piazza e alcuni uomini vi entrano. A volte sono soli, altre sono in gruppi di
due o più. Comincio a riconoscere delle macchine che
pur non fermandosi continuano a girare intorno alla
piazza. Si fermano una a fianco all’altra in modo che i
rispettivi conducenti possano guardarsi in faccia. Alcune partono insieme nella stessa direzione. Io giro in tondo senza sapere bene cosa fare. La vista di uomini e
macchine che arrivano e partono mi eccita. È come se
l’aria fosse elettrica di sesso tutto intorno la piazza. Infine quando mi rendo conto che si sta facendo tardi mi
faccio coraggio e decido di entrare nel parco.
Il parco in realtà sembra fin troppo silenzioso per essere
così pieno di gente. Ma a volte dai cespugli arrivano sospiri o rumori inconfondibili di baci e gemiti di piacere.
Arrivato alla piazzetta centrale dove un gruppo di uomini sta ridendo prendo una stradina laterale e mi dirigo
verso la zona dove anni fa c’erano le gabbie con i leoni.
Ora ci sono solo le gabbie che vengono usate dagli extracomunitari per dormire durante le notti fredde quando non trovano altro riparo. Mentre cammino mi rendo
conto che c’è un ombra alle mie spalle. Sussulto e co78
mincio a camminare più velocemente. L’ombra mi segue a una certa distanza e gira ogni volta che svolto
l’angolo. Dopo cinque minuti ho la certezza che mi stia
seguendo. Non sono sicuro di quelle che siano le usanze
del parco. Mi devo fermare? Devo lasciare che mi raggiunga? Devo andargli incontro? Mi viene quasi da ridere pensando che qualcuno dovrebbe scrivere il libro del
bon ton del batuage. Incerto mi fermo vicino a un pino.
Lui con mia sorpresa mi passa accanto senza proferire
parola. Forse fermarsi accanto ad un pino significa non
sono interessato. Boh. Poi mentre mi sto per rialzare
l’ombra spunta nuovamente e si avvicina. Io lo guardo
mentre i metri tra di noi diventano sempre di meno fino
a ridursi a pochi centimetri.
“Ciao” mi dice.
“Ciao” rispondo fingendomi calmo.
“Sei nuovo del parco? Non ti avevo mai visto in giro”.
“No, non sono nuovo” mento.
“Ok. Ti va di fare un giro?”.
Lo squadro da capo a piedi. Ha circa trent’anni. È biondo con occhi azzurri, alto come me con mani grandi e
peli biondi che escono da sopra il colletto della camicia
e dai polsini. La sua voce è bassa, quasi da baritono.
“Va bene” rispondo.
“Ti va se andiamo da qualche parte in macchina? Non
mi piace stare nel parco”.
“Ok”.
Così camminiamo uno a fianco all’altro. Usciamo dal
parco e andiamo verso la sua macchina: una Bora con la
carrozzeria verde metallizzata. Lui accende il motore e
partiamo. La Bora va velocissima e lui la guida con perizia. Non scambiamo parole o commenti. Non so bene
perché ma non mi va di parlare con lui. Lo vedo di
profilo con il suo naso aquilino concentrato nella guida. Alla radio passano la canzone Karma Police dei
Radiohead.
Dopo venticinque minuti in macchina l’orologio segna
pericolosamente le undici e trenta. So di non avere molto tempo. Quando finalmente si ferma non ho ben idea
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di dove ci troviamo. Lui si volta verso di me e lascia la
radio accesa. Poi si avvicina. Io pure mi accosto per baciarlo, ma lui gira il collo e comincia a leccarmi
l’orecchio destro invece di baciarmi. Ne rimango in una
certa maniera sorpreso, ma lo lascio fare. Con una mano
comincia a toccarsi fino a quando la sua erezione è
grossa dentro i pantaloni gialli. Allunga verso di me la
mano libera e mi prende da dietro il collo spingendomi
in basso. Non so cosa stia succedendo, ma una scintilla
scatta nel mio cervello. Il modo in cui mi spinge da dietro il collo mi fa male. Tutto il mio desiderio in un attimo sparisce. L’unica cosa che voglio è tornare a casa.
Nonostante la mia resistenza lui continua a spingere
sempre più forte.
Io dico sottovoce:
“Mi spiace non penso di volere…”.
Non molla la presa e io entro in panico. È decisamente
più forte di me e spinge la mia testa con forza verso il
basso. Quando sono vicino ai suoi calzoni che si sta
sbottonando con l’altra mano, cerco di divincolarmi con
tutte le mie forze e finisco con sbattere la bocca contro
il cambio.
“Succhiami il cazzo frocio!” dice con voce da baritono.
Sento la mascella dolorante e il sapore metallico del
sangue che mi scende in gola. Apro la bocca spaventato
e un misto di saliva e sangue cade sui suoi pantaloni.
“Merda!” impreca e lascia la presa.
Finalmente libero cerco di uscire dalla macchina. Apro
la portiera, ma inciampo nella cintura di scurezza e cado
a terra.
“Cazzo. Frocio del cazzo!” Continua a gridare guardando me e poi i suoi pantaloni. Il mio cuore batte
all’impazzata. Mi allontano in parte strisciando con la
netta impressione di essermi slogato una caviglia mentre
lui chiude lo sportello alle mie spalle. Accende il motore
e parte facendo una curva a U. L’aria si riempie di polvere.
Poi prima di andarsene mi guarda e grida:
“Ricchione del cazzo. Vaffanculo!” e parte a razzo.
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Tossisco per la polvere e sputo a terra saliva e sangue.
Tento di alzarmi. La caviglia mi fa male, ma riesce in
qualche maniera a sorreggermi. Seguo la scia della
macchina zoppicando e mi trovo in strada. Mi guardo
intorno: da quello che posso capire sono da qualche parte della tangenziale est ad un paio di chilometri fuori città. In lontananza non ci sono luci a parte la M gialla di
un MacDonald. Sono le undici e quarantacinque. Prendo
il cellulare e cerco di riconquistare uno stato di calma.
Non posso chiamare mio padre. Non potrei mai dirgli
come sono finito in questo pasticcio. Giada non ha la
moto. Sono nella merda fino al collo, coperto di polvere
e vergogna per essere stato così stupido. Non ho scelta!
Nella rubrica del telefonino scelgo il numero di mio fratello e aspetto col fiato sospeso.
“Pronto?”.
“Guido, sono io”.
“Cosa vuoi a quest’ora?”
“Dove sei?” gli chiedo. La mia voce trema chiaramente.
“Ho appena accompagnato Laura a casa. Tu dove sei?”
mi chiede con sospetto.
“Sono… sono da qualche parte sulla tangenziale est. Mi
puoi passare a prendere?”
“È successo qualcosa? Come sei finito lì?”.
Apro la bocca una prima volta e la richiudo. Poi una seconda. Non so proprio da che parte iniziare.
“Stai bene?” mi chiede.
“Sì… sì, mi puoi passare a prendere?”.
“Ok. Dove sei precisamente?”.
“Sono vicino ad un MacDonald, dovresti vederlo da
lontano”.
“So dov’è. Arrivo. Tra quindici minuti sono lì, non ti
muovere” dice e chiude la comunicazione.
Raggiungere il MacDonald non è stata una impresa facile. La caviglia ha iniziato a gonfiarsi a metà strada e ora
la sento pesante nella scarpa che comincia ad essere decisamente stretta. Quando arrivo sotto la M che gira luminosa mi siedo sul marciapiede. I locali sono chiusi e
la speranza di pulirmi quantomeno il viso svanisce mi81
seramente. Dopo cinque minuti la macchina di mio fratello compare in lontananza. Mi alzo dal marciapiede
dove sono seduto. So di non avere un bell’aspetto. Guido scende dalla macchina e mi squadra da capo a piedi.
“Ma cosa hai fatto? Stai bene?”.
“Sì, sì sto bene. Non volevo chiamare papà... io… non
volevo si preoccupasse…” dico cercando di trattenere la
rabbia che sento dentro. I suoi occhi sono strani. Non so
per quale motivo ma non pensavo di leggerci dentro
l’ansia che riesco a vedere così chiaramente. Mi apre la
portiera e vede che zoppico.
“Come sei finito qui fuori? Hai litigato con qualcuno?”.
“Sì” mento.
“Ho capito” dice e non aggiunge altro.
Prende dal cruscotto uno dei fazzolettini umidificati e
me lo passa.
“Pulisciti la bocca. Se mamma ti vede così le prende un
colpo. Per fortuna dovrebbe essere già a letto. Ho chiamato e ho detto che ti passavo a prendere. Pensi che la
caviglia sia rotta? Vuoi che ti porti al pronto soccorso?”
“No, credo sia solo slogata”.
”Va bene, a casa ti do una pomata. Tienila in alto su due
cuscini stanotte e se per domani non comincia a sgonfiarsi ti porto a fare i raggi”.
Lo lascio parlare e annuisco soltanto quando lui si ferma. Le sue parole hanno lo stesso effetto di una cioccolata calda dopo una lunga camminata sulla neve e io ne
assaporo ogni singola goccia.
Arrivati a casa vado in bagno e mi pulisco per bene. Il
labbro inferiore è solo un poco gonfio. Mi tolgo la scarpa e spalmo sulla caviglia dolorante la pomata che mi ha
dato Guido. Torno nella mia stanza e mi metto a letto.
Sento mio fratello che gira per casa, apre un secondo la
porta della mia camera e la richiude lentamente credendo che stia dormendo. Nel silenzio della casa chiudo gli
occhi. E nel buio comincio a piangere.
82
5.
La visita a Pompei inizia con il tipico viaggio in autobus. Mi sento come un ragazzino delle elementari con la
mia colazione al sacco nello zaino, seduto davanti
l’ingresso della scuola ad aspettare che i due pullman
affittati per la gita arrivino. Uno stuolo di genitori ansiosi aspetta vicino ad alcuni studenti come se ci apprestassimo ad una traversata transoceanica invece di una breve gita a Pompei. Per fortuna ho convinto mio padre a
non aspettare la partenza promettendogli di telefonare al
mio arrivo. Saliti sull’autobus indosso le cuffiette e appena il pullman parte accendo il lettore cd isolandomi
dalle canzoni sguaiate dei miei compagni di classe e
dalle continue risate delle ragazze. Janet Jackson canta
The Velvet Rope nella mia testa, con la voce simile a
qualsiasi altro componente della famiglia Jackson. Non
è una voce potente, ma il risultato è comunque bello e
mi trastullo tra le note dell’intero album cercando di
scacciare il malumore mattutino.
Né io né Giada siamo ancora riusciti a trovare una via
d’uscita per ripagare la forcella danneggiata da suo padre. Il ragazzo del motorino ha detto che potrà ripararla
temporaneamente, ma non sa per quanto tempo potrà
reggere senza rompersi. Mi ha anche detto che ha trovato una forcella di seconda mano ma, anche se non ci farà
pagare la manodopera, il pezzo costa in totale 175 euro:
un vero capitale. Cavolo. Chiudo gli occhi sospirando e
sulle note di Got till it is gone mi addormento.
Quando, frastornato e con la bocca impastata, scendo
dall’autobus ci troviamo all’entrata degli scavi. La vecchia Pompei è stata divisa dagli archeologi in regioni.
Noi ci troviamo di fronte all’anfiteatro, che la mia mappa indica come regione II. Un signore sulla cinquantina
si presenta come la nostra guida e comincia a camminare facendo di tanto in tanto ampi gesti con le braccia per
farsi seguire. Ha un forte accento napoletano ed è un vero e proprio maratoneta. Le sue scarpe sono consumate,
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probabilmente per le continue camminate tra gli scavi e
sono piene di polvere. Anche le mie, dopo solo
mezz’ora di cammino nelle strade della sepolta Pompei,
sono coperte da un sottile strato di polvere lavica. La
caviglia si è quasi totalmente sgonfiata negli ultimi
giorni, anche se mi dà ancora un po’ fastidio, specialmente quando sono costretto a camminare veloce come
in questo momento per star dietro alla guida.
Pompei è, al contrario delle mie aspettative e dei miei
ricordi di bambino, sorprendente. L’idea che una città
distrutta nell’80 d.C. sia rimasta quasi intatta sotto una
coltre di polvere scura è affascinante. I miei occhi corrono avanti e indietro tra il giardino pompeiano e gli edifici disposti lungo la strada dell’Abbondanza mentre
cerco di tenere il passo con la guida che cammina rapida
e biascica informazioni alla velocità della luce. Per fortuna il professore che ci accompagna è quello di disegno. I miei voti in disegno sono eccellenti e lui ha sempre un occhio di riguardo per me. Questo mi dà
l’opportunità di allontanarmi a volte dalla fila di studenti e fermarmi davanti a statue o antichi dipinti che mi
interessano. Ho portato con me il quaderno dei disegni e
alterno schizzi veloci su fogli bianchi a fotografie delle
rovine più belle.
Quando la classe entra nelle lupanare, le antiche case di
prostituzione di Pompei, le mura dell’antico edificio risuonano di risate maliziose e battute irriverenti. Le lupanare, ci spiega la guida, sono state chiamate così dal
verso del lupo che era imitato dalle prostitute per richiamare l’attenzione dei possibili clienti che passavano
in strada. All’interno l’edificio è costituito da una serie
di piccole celle in pietra disposte in fila. Sopra ogni cella è riportata la specialità della ragazza o del ragazzo
che la occupava. Prendo il quaderno e comincio a riprodurre un dipinto collocato su una delle ultime celle della
fila. Il dipinto raffigura una donna nuda che monta un
uomo con i baffi, anche lui nudo, tirandolo per i capelli
come se fossero la criniera di un cavallo. Il dipinto, anche se vecchio, ha un indiscusso fascino. Ho
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l’impressione che le donne, spesso sottomesse ai lavori
più umili, dentro quei cubicoli non siano state solo oggetto di desiderio, ma anche caparbie amanti, forse alla
ricerca di un potere sugli uomini che fuori dal cubicolo
non poteva esser loro riconosciuto. Così, per vendetta o
diletto, come leoni afferravano le loro prede e si trasformavano da dominate in domatrici per cinque minuti
di piacere.
Quando alzo gli occhi dallo schizzo che ho fatto sul
quaderno, la mia classe si è dileguata e un’altra sta entrando tra nuove risate e battute. Raccolgo lo zainetto in
fretta e mi preparo ad uscire, ma vengo fermato da una
mano:
“Bello il tuo disegno” dice Giulio.
Le mie guance diventano scarlatte e chiudo il quaderno
di fretta.
“Ehm ciao” riesco a mettere insieme.
“Ti avevo visto stamattina sul pullman, ma non ho fatto
in tempo a salutarti. Sono arrivato in ritardo e tu eri già
salito”.
“Sono nello stesso pullman della 4E” dico.
“Noi siamo con la 4G”.
Poi fissa da sotto il suo cappello da basket uno dei disegni che raffigura un uomo che sodomizza una donna. La
figura è molto rovinata e nulla esclude che quella che
sembra una donna non sia in realtà un ragazzo.
“Cavolo deve essere stato un po’ scomodo fare certe cose in degli spazi così piccoli” dice e ride.
“Forse ai tempi le persone erano più piccole di statura”
aggiungo ridendo.
“Forse erano dei contorsionisti” propone lui.
“Forse ricevevano un training speciale” rispondo.
“Sì certo, come no e magari mettevano le inserzioni:
“Cerchiamo prostitute. Pregasi essere flessibili!” ribatte
ed entrambi ridiamo.
Giulio continua ad osservare i dipinti uno dietro l’altro e
io lo seguo divertito. Si ferma davanti ad una delle celle,
piega la testa da un lato e guarda la relativa figura. La
sua macchinetta per i denti riflette un raggio di luce.
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“Cavolo chissà che lividi però” dice.
“Io mi sarei spezzato in due in questa posizione” aggiungo preso dall’impeto della conversazione. Ma mi
pento quasi subito di aver detto una cosa simile e mi
sento imbarazzato.
Giulio guarda il dipinto, poi me e dice ridendo:
“In due pezzi? Ma scherzi? Io probabilmente mi ritroverei in mille pezzi! Mi potrebbero praticamente spazzare
dal pavimento e usare come concime per le piante”.
Entrambi scoppiamo a ridere di nuovo. In quel momento il professore di disegno mette la testa dentro e mi fa
segno di seguirlo.
“Cavolo devo andare! Scusa”.
“Ciao” dice e i suoi occhi colpiti dalla luce sembrano
quelli di un gatto.
Rispondo con un sorriso e lui mi fa segno col cappello
da basket grigio mostrandomi il suo sorriso robotico.
Esco dalla stretta entrata delle lupanare. Il sole mi acceca e mi copro il volto con una mano. Il professore mi fa
segno di raggiungere la fila degli altri ragazzi, ma non
sembra particolarmente infastidito dal mio ritardo. Mentre sforzo nuovamente la caviglia per rimettermi in fila
il cellulare vibra nella mia tasca. Lo prendo in mano e
proteggendo il display dal sole leggo il messaggio:
“Ciao. Come va? Scusa non mi sono fatto vivo per un
po’ di tempo. Ti volevo chiedere se ti andava di vederci
questo sabato se non hai niente altro da fare. Se ti va
possiamo vederci allo stesso posto della volta scorsa.
Capolinea dell’autobus numero 11 alle tre. Magari possiamo prendere un tè insieme a casa mia. Che ne dici?
Un bacio. Luca”.
Mi fermo sul posto e perdo di colpo la strada guadagnata a spese della mia caviglia. Non posso nascondere uno
strano sorriso che mi riempie le labbra mentre una ragazza della mia classe, anche lei in ritardo, mi passa accanto. Si gira verso di me e mi lancia uno sguardo indagatore.
“Chi ti ha mandato un sms? La tua ragazza segreta?”
chiede curiosa.
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Non mi aveva mai rivolto la parola prima.
“È solo un messaggio divertente” rispondo riprendendo
a camminare.
“Beh leggimelo. Magari rallegri anche la mia di giornata. Questa Pompei è una vera palla”.
“Io invece mi sto divertendo. Comunque non posso leggerti il messaggio. È divertente solo se conosci la persona. Così non farebbe gran che ridere” dico.
Lei mi guarda con aria decisamente sospettosa e in parte
offesa. Io rallento e prendo dallo zaino i miei occhiali da
sole. Con un movimento preciso della mano apro le astine e li indosso. Il gesto mi riesce perfetto e naturale, a
metà tra sexy e drammatico. Mi viene da ridere al pensiero di quello che Giada avrebbe detto se mi avesse visto. Poi con noncuranza riprendo a camminare accanto
alla mia compagna di classe. Mi sento stranamente allegro e aspetto con ansia che arrivi l’ora di cena per rispondere al messaggio di Luca. Un semplice “Ok” andrà bene.
Quando la macchina di Luca svolta e si immette nella
corsia che porta di fronte alla fermata dell’autobus gli
vado incontro con passo sicuro. La sensazione di panico
del nostro precedente incontro è piacevolmente diminuita. Sento uno strano senso di eccitazione che mi fa seccare la gola insieme a un certo timore che Luca, nel periodo di tempo nel quale non ci siamo visti, si sia trasformato nel maniaco sessuale incontrato al parco. Entro
in macchina e chiudo la portiera alle mie spalle un poco
teso, ma quando non sento il click che blocca automaticamente le porte, mi rilasso. Luca mi sorride calmo:
“Ciao Damiano. Allora che novità ci sono?”.
Si allunga e mi dà un bacio sulla guancia che mi fa sorridere. Avevo completamente scordato di chiamarmi,
almeno temporaneamente, Damiano.
“Bene. Poche novità, niente di eclatante” rispondo cercando di vestire i panni dell’universitario annoiato. “Tu
cosa hai fatto in questi giorni?”.
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“Sono stato sommerso dal lavoro. Scusa sono stato un
cafone, non mi sono fatto neanche sentire”.
“Non ti preoccupare” dico e appoggio spontaneamente
la mano sulla sua gamba.
Lui mi guarda e scuote la testa. Poi sfiora il mio maglione con le dita. Nuovamente vengo colpito dalla bellezza delle sue mani affusolate.
“Mi piace il tuo maglione. Ti sta bene” dice.
“Grazie” sento che la mia faccia si sta colorando di rosso. Quindi sfacciato gli dico : “Allora mi porti a prendere questo tè?”.
Prendo la sua mano e la stringo un attimo. Lui ride e
mette in moto la macchina. Lentamente ci dirigiamo
fuori città. Quando apre la porta di casa ci stiamo già
baciando. Il tè passa decisamente in secondo piano di
fronte al desiderio delle sue labbra sulle mie. Le nostre
mani fameliche cercano il contatto della pelle nascosta
sotto inutili strati di vestiti. Maglione, camicia, maglietta, pantaloni, scarpe vengono sparsi nell’appartamento
senza un ordine preciso, senza alcuna attenzione o rispetto per mobili e suppellettili di antiquariato. Gli slaccio la cintura e invece di lasciarla cadere al suolo la lancio mancando un vaso di diversi centimetri. Nel silenzio
si sente il rumore di un vetro che viene dolorosamente
colpito, ma nessuno dei due si gira per capire se si sia
rotto. Entriamo nella camera da letto con i corpi avvinghiati e ci lasciamo cadere sul letto fermandoci per un
attimo. Lui mi guarda, scuota la testa ancora una volta e
ride. Quindi ricomincia a baciarmi.
L’orologio segna le quattro e mezza quando, madido di
sudore, appoggio la testa sulla sua pancia, esausto e
soddisfatto. La sua mano mi accarezza i capelli e rimaniamo in silenzio in questa posizione che assomiglia a
una T umana. La sua pelle è scura e spicca sotto il pallore della mia. Il suo corpo emana un bel calore. Giro la
testa e lentamente poi il resto del corpo, incrocio le
braccia sul suo petto e vi poggio sopra il capo. Da questa posizione studio i suoi lineamenti dall’alto in basso.
Luca alza la testa e i suoi addominali si contraggono
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mentre mi dà un bacio sulla fronte. Chiudo gli occhi per
ricevere il bacio e li riapro subito dopo.
“Quando hai scoperto di essere gay?” gli chiedo.
I suoi occhi sono fissi su di me e mi fanno sentire piacevolmente desiderato. Il torace si alza e si abbassa sotto
di me ritmicamente seguendo l’istinto del respiro.
“Beh è stato tempo fa” racconta: “c’era questo ragazzo
nella mia classe quando andavo alle superiori. Si chiamava Giovanni, ma tutti lo chiamavano Gioia. Era chiaramente gay. Si vestiva con quei jeans attillatissimi che
lasciavano ben poco spazio all’immaginazione. Penso
che sia stato uno dei primi ragazzi a farsi un piercing al
naso. Devi capire che quando andavo alle superiori era
una cosa abbastanza stramba se una ragazza si faceva il
piercing al naso. Figurati un ragazzo”.
“Beh certo nel paleozoico, quando andavi tu alle superiori, doveva essere decisamente una cosa nuova” dico
sarcastico.
“Che scemo”.
“A mensa vi davano carne di dinosauro come ai Flintstones?” lo incalzo.
Lui ride di nuovo scoprendo i denti bianchi: “Ehi” dice
e mi tira uno schiaffo sulla coscia.
“Scusa continua. Non vorrei perdessi il filo… sai con
l’Alzheimer non si scherza”.
“Beh per farla breve…” continua lui ridendo, ”un giorno Gioia viene da me e mi saluta. Io ero imbarazzato da
morire, non avevamo mai scambiato una parola. Lui,
notato il mio imbarazzo, mi fissa negli occhi e dice:
“’Tesoro, guarda che pure tu sei frocio. Faresti bene a
fartene una ragione di vita piuttosto che evitare chi è
come te’. Lui già lo sapeva, prima ancora che lo sapessi io”.
“E siete diventati amici?” chiedo curioso.
“No, no. Diciamo che mi ci sono voluti altri cinque anni
per accettarmi. Ma è stato il mio battesimo del fuoco.
Quando mi sono detto che forse aveva ragione, che forse mi piacevano gli uomini. Ma una cosa la sapevo di
certo. Anche se mi piacevano gli uomini non avrei mai
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indossato dei pantaloni attillati come quelli che usava
lui. E non l’ho mai fatto” conclude soddisfatto.
“Come facevi per conoscere altri ragazzi? Visto che mi
hai detto che non ti piace andare nei club. Non deve essere stato facile conoscere qualcuno. Usavi internet?”.
“No, ho cominciato a usare il computer da poco tempo.
In realtà conoscere ragazzi è stato molto più semplice
del previsto. Durante l’ultimo anno di scuola superiore
ho cominciato a lavorare come part-time in una agenzia
di viaggi. E lì ho conosciuto, Matteo un ragazzo carino.
Poi una cosa tira l’altra e siamo finiti a letto insieme”.
“Scommetto che l’hai affascinato offrendogli del tè”.
“No” dice lui ridendo: “a dire il vero ha fatto tutto lui”.
“Perché questo non mi stupisce affatto?” gli chiedo sornione.
Poggio la testa di lato e chiudo gli occhi. Mi piace stare
nel suo letto, così disteso su di lui. So per certo che se
adesso mi chiedesse quanti anni ho, oppure il mio vero
nome glielo direi. Fare sesso apre un livello di intimità
tra due persone che è al di sopra dell’amicizia. È come
se permettendo a qualcuno di entrare fisicamente dentro
di te gli aprissi anche una porta sulle tue emozioni e sui
tuoi pensieri.
“Anch’io vorrei tanto trovarmi un lavoro part-time”
confesso. “Sono troppo grande per continuare a farmi
pagare tutto dai miei genitori. E in parte me ne vergogno. Mi piacerebbe comprarmi le cose con i miei soldi”.
“E cosa ti compreresti?” mi chiede curioso.
Alzo la testa e lo fisso con uno sguardo di falsa sfida:
“Tanto per iniziare del tè. Mi hai invitato qui per prenderne uno e sto ancora aspettando”.
Entrambi ridiamo. Mi abbraccia gentile e unisce le mani
sulla mia schiena. Io richiudo gli occhi e mi sdraio
completamente su di lui accomodando la testa nello
spazio tra il suo petto e il mento.
“Ti va di fare una doccia?” mi chiede.
“Ah ah” rispondo ad occhi chiusi.
“Ok” e mi dà due pacche sul sedere per farmi alzare. Ma
io non mi muovo e sorrido mantenendo gli occhi chiusi.
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“Ehi sei troppo pesante per poterti portare di peso” dice
lui.
“Mmmm” rispondo imbronciato.
Così rimaniamo in questa posizione per non so quanto
tempo. Fin quando decido di alzarmi. Lui allora mi
guarda e scuote la testa. Mi piace il modo in cui lo fa
come per dire che sono senza speranza. Nessun altro ha
mai pensato a me come a qualcuno senza speranza!
Quando mi alzo dal letto mi prende per mano e camminiamo nudi per casa. Mi viene in mente la canzone You
learn di Alanis Morissette nel punto in cui dice “I recommend walking around naked in your living
room…yeah…” ed è proprio quello che stiamo facendo
in questo momento.
Il bagno dove mi guida è molto grande. Ha una struttura
perfettamente quadrata, con piastrelle verdi a terra e
bianche sulle pareti alleggerite da eleganti motivi a
rombo che si intrecciano all’infinito. Apre la porta di
plastica della doccia e regola l’acqua per me, poi mi fa
cenno di entrare. L’acqua è tiepida al punto giusto e lava via il sudore e la miscela dei nostri liquidi dal corpo.
La doccia è grande abbastanza e pure lui ci entra comodamente. Non faccio la doccia con qualcuno da quando
ero piccolo e io e mio fratello d’estate ci lavavamo insieme nel cortile della casa al mare di mio zio.
“Non hai mai fatto la doccia con un uomo?” mi chiede.
“No” rispondo.
“Un vergine della doccia” dice lui.
Io faccio di sì con la testa. Lui sorride e prende dello
shampoo da un ripiano vicino. Se ne riempie la mano e
me lo mette in testa massaggiandomi i capelli. Ammetto
che farsi lavare è una sensazione strana, ma decisamente
piacevole. Mi lascio insaponare i capelli e chiudo gli
occhi quando me li sciacqua. Una valanga di acqua e
sapone mi cade sulla faccia e mi viene da ridere senza
motivo. Luca prende una spugna e ci mette sopra del
bagnoschiuma al miele. Ne sento il profumo e spero in
cuor mio che l’odore vada via con l’acqua o scompaia
prima che torni a casa e mia madre possa sentirlo.
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“Girati” mi dice.
Mi volto e gli do le spalle. Lui mi insapona le spalle minuziosamente, poi scende con la spugna e mi fa il solletico all’altezza dei reni. Quindi si inginocchia e passa
alle gambe e ai miei piedi. Mi preme con una mano sul
fianco e mi fa girare di nuovo. Vederlo così piegato di
fronte a me con le gambe flesse e muscolose mi infonde
un nuovo desiderio di sesso. Il mio pene comincia ad
indurirsi e Luca passandogli sopra la spugna non può
non averci fatto caso. Ma fa finta di niente e riapre
l’acqua. Io richiudo gli occhi fino a quando tutto il sapone è andato via. Gli prendo la spugna dalle mani e
comincio a lavare io il suo corpo. Lui si lascia insaponare. I miei gesti sono meno sapienti dei suoi, ma decisamente più carichi di desiderio. Giro con la spugna intorno ai suoi capezzoli e li lecco con la lingua prima di insaponarli. Piego la testa e gli bacio lo stomaco. Poi
strizzo la spugna appoggiata sul suo petto e un filo di
schiuma gli scende lento addosso. Io lo precedo con la
lingua. Quando la schiuma arriva in prossimità del suo
pene vedo che pure lui ha un’erezione evidente. Lo
guardo e lui alza le spalle come per dire che è colpa mia
e che se provoco ne devo pagare le conseguenze. Beh,
se queste sono le conseguenze ben vengano. Mi inginocchio facendo presa con le mani vicino le sue natiche.
Bacio il suo sesso dalla punta alla base fino a quando si
erge in tutta la sua lunghezza lo ingoio fino a sfiorarne
la base con il viso. L’odore del suo pene è coperto dal
sapore acre del bagnoschiuma. Con le mani gli accarezzo le gambe lentamente. In una delle due mani ho ancora la spugna che faccio scorrere sulla gamba destra. Luca muove il bacino avanti e indietro facendosi strada
nella mia bocca. L’acqua mi scorre in testa tiepida mentre con una mano comincio a masturbarmi. Lui viene
più velocemente di quanto mi aspettassi. Schizzi del suo
sperma mi colpiscono caldi in pieno petto mentre mi alzo facendo perno su una delle pareti.
Quando a sua volta si abbassa su di me e ingoia il mio
pene sento il calore della bocca che si muove con estre92
ma sapienza e mi fa chiudere gli occhi in spasimi di piacere. Dopo pochi minuti anche io sto già per venire e gli
faccio segno di alzarsi, ma lui non ha intenzione di farlo. Tra eccitazione e sgomento gli vengo in bocca. Mi
appoggio con le mani alla parete di fronte per non cadere perché le ginocchia mi stanno per cedere dal piacere.
Sento le labbra che si stringono intorno al mio sesso che
continua a spargere il mio seme nella sua bocca.
Alla fine si alza, mi dà un bacio leggero sulle labbra e
mio malgrado riconosco il sapore di sperma. In silenzio
ci laviamo nuovamente. Luca chiude l’acqua, prende un
asciugamano e me lo strofina addosso. Quindi mi porge
un accappatoio e ne indossa uno anche lui.
Insieme usciamo dal bagno. Mi siedo sul divano del salotto e guardo rapito piccole nuvole di vapor acqueo che
si alzano dalla mia pelle.
“Vuoi un tè?” mi chiede Luca ridendo.
“Sì certo. Finalmente!”.
Luca allora si allontana scalzo diretto verso la cucina. È
vestito solo con l’accappatoio. Le sue gambe sono più
che esposte ed è proprio un bel vedere. Prendo due sigarette da un pacchetto lasciato sul tavolino di vetro vicino
al divano dove sono seduto. A terra giace la sua cintura.
Il tavolino sembra miracolosamente intatto. Accendo
entrambe le sigarette e vado in cucina dove Luca aspetta
che il bollitore emetta il suo fischio. Lo cingo da dietro
e lui si gira. Per poco non gli brucio la faccia con la sigaretta.
“Ehi. Attento” mi dice.
“Scusami” rispondo rosso in viso.
Lui prende una delle due sigarette dalla bocca e fa un
tiro.
“La tua cintura ha colpito il tavolo, m a non ci sono stati
morti o feriti”.
“Meno male!” ride e con una mano mi scompiglia i capelli.
Sicuramente asciugandosi diventeranno orribili, ma al
momento sono ricci a causa dell’acqua e di sicuro fanno
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un bell’effetto. Quando l’acqua si sarà asciugata saranno
crespi, ma spero di essere già a casa per allora.
“Stai veramente cercando un lavoro Damiano?”.
“Sì, certo. Non mento mai dopo aver fatto sesso” dico
serio.
“Buono a sapersi”.
Poi aggiunge: “ Ti ricordi che ti ho detto che stanno aprendo una sauna in città?”
“Certo”
“Beh stanno cercando del personale. Il gestore è un mio
amico di vecchia data. O meglio, per essere onesti è
Matteo. Il mio primo ragazzo”.
“Matteo quello dell’agenzia di viaggi?” gli chiedo.
“Sì, proprio lui. Se sei interessato basta che ti presenti a
mio nome.
Sono sicuro che stia ancora cercando personale. Solitamente i ragazzi che lavorano in Sauna sono discretamente pagati. Prima di accompagnarti ti lascio il suo
numero in caso tu sia interessato”
“Va bene. Grazie”.
Prendo il tè con due mani imitando il suo gesto e ne bevo un po’.
Lavorare in sauna sarebbe bello, ma ai minorenni non è
permesso neppure di entrare in una sauna. Ho controllato via internet un paio di settimane fa e infatti l’ingresso
in sauna è permesso solo ad un pubblico adulto. Considerando che ho compiuto diciassette anni da un mese la
differenza tra me e un adulto è di ben undici lunghi mesi. Mi sdraio sul divano e cerco tra i cd di Luca qualcuno che mi piaccia. Scelgo infine una collezione di vecchi successi di Whitney Houston e metto I’m your baby
tonite. Guardo Luca e mimo le parole della canzone. Lui
sorride divertito. Poi mi avvicino sempre di più apro
l’asciugamano e cominciamo a fare sesso di nuovo.
Questa volta sul suo divano. D’altra parte dicono che tre
sia il numero perfetto.
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Al ritorno mi faccio lasciare vicino casa mia. Gli do un
bacio sulla guancia ed esco dalla macchina. Luca suona
il clacson una volta e io non mi giro per il gusto di tirarmela un po’. Allora lui suona il clacson di nuovo per
farmi capire che sa che me la sto tirando. Ma io continuo a camminare verso il portone senza voltarmi. Naturalmente c’è la possibilità non remota che tutto questo
sia solo un mio film mentale, ma non mi importa.
Entro nel portone e salgo le scale a due a due. È già notte, ma non mi va di accendere la luce delle scale. Arrivato al terzo piano cerco la chiave di casa al buio. Immagino per gioco che ci sia qualcuno che mi sta inseguendo per le scale per prendermi i soldi o uccidermi. Io
in pieno panico cerco la chiave giusta per entrare a casa
ed essere al sicuro. Nella mia mente lo immagino salire
le scale con il sorriso da carnefice, un gradino dopo
l’altro. Le mani mi tremano un po’ per la paura, ma finalmente riesco a trovare la chiave giusta del mazzo. Mi
guardo alle spalle… lui è vicinissimo. Apro la porta velocemente. Entro e la chiudo. Sospiro. Sono salvo!
Sorrido del mio gioco un po’ stupido. Poi mi fermo e penso che Luca mi piace veramente. Chissà se mi manderà un
messaggio stasera per augurarmi la buonanotte o per dirmi
che si è divertito. Forse dovrei mandargli io un messaggio.
Sento i passi di mia madre che si avvicina e mi sveglio dai
miei vaneggiamenti. Dal salotto di casa si sente un brusio
di persone che parlano. Guardo mia madre con aria interrogativa.
“Ciao tesoro ti sei divertito al cinema?” mi chiede.
“Sì, molto”.
“Che cos’hai visto?”.
“Davano un vecchio film: The Rocky Horror Picture show.
Era tutto in inglese. Una fatica per capirlo… forse dovrei
fare un viaggio in Inghilterra” mento spudoratamente.
“Per adesso basta un figlio che parte. Forse quando sarai
all’università: se partite sia tu sia Guido io poi cosa faccio?” e mi stampa un bacio sulla faccia.
“Mmmmm…” dice: “tesoro, stai usando un nuovo dopobarba?” e sorride curiosa.
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“No, no” rispondo e agito forse un po’ troppo le mani.
Sento il volto in fuoco e odio mia madre che mi fa sentire
così piccolo quando mi parla con l’aria di chi la sa lunga.
Mi guarda con aria sospetta, poi aggiunge:
“Vai di là a salutare i compagni di tuo fratello; Guido parte
domani, lo sai. Sono venuti tutti a salutarlo. Speriamo si
diverta in Germania. Magari andremo a trovarlo, che ne
dici?”.
“Ma mamma, starà via solo sei mesi. Poi non sono sicuro
che la Germania mi piacerebbe!” rispondo.
“Vai comunque a salutarlo. Mi avrà chiesto almeno mille
volte se sapevo dov’eri”.
Con una mano mi scombina i capelli. Lo stesso gesto fatto
da Luca un paio di ore fa. Prima di entrare in salone per
salutare mio fratello controllo il cellulare. Nessun messaggio. Merda. Forse il mio cellulare non funziona bene. Proverò a chiamarmi.
Da quando mio fratello è partito per l’Erasmus in Germania, la casa mi sembra più vuota. Il giorno dopo la sua partenza aprendo il computer che mi ha regalato ho trovato
un messaggio scritto su un post-it arancione. Diceva semplicemente: "Mi raccomando stai attento e cerca di non fare cazzate". Il suo modo per farmi capire che in questi mesi non ci sarà lui a salvarmi dagli stupratori.
È strano notare adesso il silenzio che ha lasciato in casa
andandosene. Anche se prima d’ora non ho mai fatto particolarmente caso al suo ruolo nella famiglia, adesso la sua
presenza mi manca. Forse è normale notare l’importanza
di certe persone solo quando se ne vanno o le perdiamo.
La campanella suona segnando la fine dell’ennesima ora di
chimica. Raccolgo il libro e lo chiudo ponendolo
all’interno dello zainetto. Mi alzo dal banco e con la mia
classe vado verso il cortile della scuola. Sono quasi due
settimane che non partecipo all’ora di educazione fisica e
penso che oggi dovrò proprio giocare. Sabato scorso, alla
fine della lezione, il professor Martini mi ha lanciato
un’occhiata chiaramente minacciosa e nei suoi occhi ho
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letto che non ha scordato la discussione che abbiamo avuto
il primo semestre riguardo le ossa del corpo umano.
Percorro lentamente il campo da basket fino ad arrivare al
piccolo campo di pallavolo posto all’estremità sud del cortile esterno. Aspetto che tutti quelli che vogliono giocare
arrivino in campo. Mi sento sempre imbarazzato durante la
formazione delle squadre. La maggior parte dei miei compagni di classe non è entrato a scuola per evitare
l’interrogazione di latino, per cui siamo un totale di sei ragazzi. Due non giocano e sono seduti a bordo campo a
leggere fumetti Manga. Il professore naturalmente li ignora. Così per far numero alcuni ragazzi della 5F si uniscono
a noi. Solitamente per organizzare le squadre due studenti
si autoproclamano capitani. Giovanni, un ragazzo della
mia classe, sarà il capitano della prima squadra. Gli altri
due miei compagni guardano a terra senza proporsi come
secondo capitano. Io gioco con l’accendino ripetendomi
che dopo la prima mezz’ora fingerò un attacco cardiaco e
mi trascinerò fuori dal campo.
Una voce alle mie spalla annuncia: “Faccio io il secondo
capitano!”
Mi giro decisamente troppo velocemente. Conosco bene
quella voce. È la voce di Damiano. Merda! Perché non ho
preso lezioni private di pallavolo? Avrei decisamente dovuto iscrivermi a una squadra all’età di tre anni ed essere
adesso capace di schiacciare da qualsiasi posizione e murare qualsiasi tiro.
I due capitani cominciano a scegliere i compagni. Giovanni chiama prima un mio compagno di classe poi un suo
amico della 5F. Damiano invece recluta per primo il suo
migliore amico. Al momento di scegliere il secondo componente si guarda intorno riflettendo. Io continuo a giocare
col mio accendino. Poi succede l’improbabile. Chiama il
mio nome. Damiano conosce il mio nome? Mi cade
l’accendino di mano e mi piego per raccoglierlo. Spero che
nessuno noti che ho le guance in fuoco. Mi avvicino alla
parte del campo dove c’è il resto della squadra. Passo sotto
la rete e Damiano mi accoglie mettendomi per un secondo
una mano all’altezza delle costole per spingermi dal suo
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lato del campo. Il suo amico mi guarda con indifferenza.
Se potessi fermare questa scena e rivederla al rallentatore
per mille volte lo farei senza mai stancarmi e terrei il video
in cassaforte per gli anni a venire. Guardo la maglietta che
indosso e decreto che da oggi sarà la mia maglietta portafortuna.
Dopo un paio di minuti le squadre sono al completo. Siamo cinque contro cinque. Io mi metto in difesa in modo
che facendo il giro sia l’ultimo a dover battere. La squadra
avversaria batte per prima. Essendo solo in cinque siamo
disposti in uno schema tre-due: tre in attacco e due in difesa. La palla viene battuta nella mia direzione. La mia tecnica di gioco è molto semplice: fare in modo che la palla
vada ovunque tranne che fuori campo. Non colpire mai
troppo piano; piuttosto troppo forte! Infine giocare pensando a tutt’altro perché se mi concentro sul gioco finisco
puntualmente per sbagliare. Mi piego leggermente sulle
ginocchia e penso che mi piacerebbe visitare il Giappone.
Prendo la palla in baker! La palla fa un buon rimbalzo e
finisce tra le mani di un mio compagno di squadra che la
alza. Damiano salta e schiaccia. Non ho visto se sia andato
a segno o meno. Quando si è alzato la maglietta gli ha scoperto parte della schiena e questo particolare ha preso tutta
la mia attenzione. La battuta ora spetta a noi. Naturalmente
ho fatto male i calcoli e mandano me a battere. Faccio
rimbalzare la palla a terra due volte. Poi mi chiedo cosa
starà cucinando mia mamma per pranzo e batto. Faccio
punto. Damiano grida: "Bene così!" Sorrido compiaciuto.
Vinciamo facilmente il primo set. Faccio una serie di buoni passaggi e, cosa più importante, riesco ad evitare di rendermi ridicolo.
Alla fine del secondo set sono di nuovo in difesa. Damiano
batte e la palla viene ripresa dalla squadra avversaria. Riescono a schiacciare nel nostro campo. La palla è in direzione di Damiano ma lui la prende male e questa va
all’indietro. Mi lancio all’inseguimento. Pur avendo scattato quasi subito nella giusta direzione non posso raggiungerla... a meno che... Con decisione mi lancio e so per certo, nel secondo in cui lo faccio, che è stata una pessima,
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pessima idea. Incredibilmente riesco a prendere la palla un
secondo prima che il mio corpo, vinto dalla forza di gravità, entri in contatto col suolo del campo. Chiudo gli occhi e
mi preparo all’impatto. Tutto quello che riesco a pensare
prima che avvenga è oh merda! E poi buum, atterro pesantemente sul cemento. Ci metto un paio di secondi a riprendermi dall’idea che sono a terra e che tutti mi guardano
stupiti. Penso di non essermi rotto niente. Questa è
l’azione più atletica che abbia mai fatto. Sono sotto shock
e dalla faccia degli altri giocatori non sono l’unico. La palla è andata miracolosamente a punto. Damiano mi tende
una mano per aiutarmi ad alzarmi. La prendo e mi tiro su.
Forse è solo la mia immaginazione post trauma, ma l’ha
tenuta stretta un po’ più del dovuto.
“Grazie” dico.
“Bel recupero. Grande!” dice.
“Grazie” rispondo. Mi sento un po’ confuso. È come se
grazie fosse l’unica parola rimasta nel mio vocabolario. Ho
una delle due mani sbucciate. Onestamente però ne è valsa
la pena. Faccio il gesto di togliermi con le mani la polvere
di dosso, ma un rumore in vicinanza mi distrae. Qualcuno
sta applaudendo a bordo campo. Mi giro e Giada è lì che
mi guarda esibendo il suo migliore sorriso accusatore.
Mette le mani ad imbuto davanti la bocca e grida:
“Bravo 4D! Uh-uh!” .
Tutti si girano. Io le faccio segno con la mano ancora più
rosso in viso. Poi rivolto a Damiano dico: “Io esco”.
”Ok. Abbiamo quasi finito. Bella partita” dice e mi dà una
pacca sulla spalla.
Guardo l’orologio e infatti mancano meno di dieci minuti
alla fine dell’ora. Ho giocato per cinquanta minuti. Incredibile.
“Andiamo a fumarci una sigaretta” propongo a Giada.
Damiano si gira verso di noi e ci fissa fino a quando non
viene richiamato da un suo compagno per riprendere la
partita.
“Certo andiamo” risponde Giada e mi strizza l’occhio.
Questa deve essere la mia giornata fortunata. Damiano mi
ha scelto nella sua squadra e non ero l’ultimo rimasto tra i
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ragazzi; ho giocato la più bella partita di pallavolo della
mia vita e possibilmente della storia umana e ho fatto
un’uscita plateale grazie a Giada. Per la prima volta non
mi sento fuori luogo nella mia scuola!
Cammino alla destra di Giada felice e passo accanto al
professore di educazione fisica. Nel mio tono più naturale
possibile gli dico:
“Arrivederci professore” lui mi guarda come se fossi un
marziano. E forse oggi lo sono davvero.
Giada sottovoce aggiunge: “Ciao stronzo” ed entrambi ridiamo.
Saliamo insieme le scale che portano allo spiazzo piastrellato sul quale si affaccia il portone di ingresso ai campi da
gioco. Da qui si può vedere tutto il campo di basket. Lei si
siede a terra e incrocia le gambe. Io faccio lo stesso. Poi
accendiamo entrambi una sigaretta. Ne assaporo il gusto
ed espiro il fumo.
“Come mai sei in cortile?” le chiedo.
“Niente prof oggi. Ci hanno lasciate libere perché non
c’era nessuna supplente disponibile. Il vicepreside ci ha
fatto un discorso sul fatto che siamo grandi e responsabili e che dovremmo essere in grado di passare un’ora
da sole”.
“E tu sei uscita di classe appena lui è sparito”.
“Chiaro!” dice ed espira una boccata di fumo.
“Domani il tuo amico viene a prendersi la moto. L’ho
chiamato ieri e gli ho spiegato i danni. Mi ha detto che può
aggiustarla in modo che la possa momentaneamente usare,
non per lunghi tragitti perché la forcella potrebbe rompersi
del tutto. Non so proprio come trovare i soldi per una forcella nuova. Mi ha detto costerà almeno duecento euro!
Cazzo”.
“Ti vorrei aiutare, ma non possiedo così tanti soldi” rispondo.
“Merda”.
“Già merda” confermo e abbasso la testa.
“Se solo avessi diciotto anni il problema non si porrebbe”
aggiungo poi a bassa voce.
“In che senso?” mi chiede.
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“Un mio amico mi ha proposto un lavoro in un club. Ma
dovrei essere maggiorenne per lavorarci. Mi ha detto che
pagano bene: massimo in due settimane potrei procurarmi
i soldi”.
“Lo sai che te li restituirei appena posso?” mi dice.
“Certo che lo so, ma il problema resta: ho pur sempre diciassette anni”.
Giada mi guarda intensamente con una strana espressione
che non riesco a decifrare. Spegne la sigaretta a terra e si
alza in piedi. La campanella suona e i miei compagni rientrano nell’istituto.
“Dai andiamo” mi dice. “Se ti va possiamo fare un pezzo
di strada insieme all’uscita. Tanto pure io sono appiedata
come una comune sfigata”.
“Ok” rispondo.
Butto la sigaretta a terra e mi incammino verso l’entrata.
Siamo gli ultimi a uscire. Damiano sta già salendo le scale.
“Ciao, come va?” dice un ragazzo alle mie spalle.
Mi giro in direzione del saluto e vedo a pochi passi da me
un cappello da basket blu che nasconde il volto di Giulio.
Lo saluto con un cenno della mano. Lui fa per fermarsi a
parlare, ma io tiro dritto seguendo Giada e salgo le scale.
Giulio mi fissa un attimo e poi esce in cortile accodandosi
ai suoi compagni di classe.
All’uscita da scuola trovo Giada appoggiata sul muro del
cortile che mi aspetta.
“Andiamo” dice; non sembra gran che di buon umore.
“Sono stato interrogato in storia” le comunico.
“Hai fatto la tua solita figura da secchione?”.
“Un poco”.
Lei sorride e dice: “Che sfigato che sei”.
Ma io sono troppo di buonumore per prendermela. Percorriamo la discesa in silenzio circondati da altri studenti che
vanno a casa o salgono sulle macchine dei genitori. Un
plotone di cartelle colorate e grida si diffonde in strada
come una valanga di neve. Vedo Damiano che si allontana
in sella ad uno scooter. Dietro di lui c’è il suo migliore a101
mico. Sarebbe bello se un giorno, tornando a casa, lui mi
vedesse e mi offrisse un passaggio. Ci fermeremmo a parlare e magari a mangiare delle patatine insieme e diventeremmo amici. Lui mi passerebbe a prendere ogni mattina e
faremmo colazione prima di entrare a scuola.
“4D ci facciamo delle foto?” mi dice Giada.
“Cosa scusa?” chiedo e mi fermo.
“Ma a cosa stai pensando?” mi domanda. Poi, indicando
una cabina per foto istantanee ripete: “Ti va di farci una
foto?”.
Io la guardo stupito:
“Sai che non ti facevo proprio tipo da fare queste cose?”.
“E io non ti facevo tipo da andare a letto con gli uomini.
Quindi siamo pari. Dai muoviti, pago io” dice tirandomi
per un braccio.
La seguo poco convinto e rosso in viso. Lei entra nella cabina e fa girare lo sgabello di metallo. Ci si siede sopra e
controlla che l’altezza sia giusta. Poi lo abbassa di un giro
per metterlo alla mia altezza, mi guarda e dice:
“Dovrebbe andare bene. Dai entra tu per primo”.
Entro un poco imbarazzato. Lei inserisce i tre euro nella
macchinetta e una voce metallica detta le istruzioni. Comincia il conto alla rovescia e scatta il primo flash che mi
prende in pieno volto. Poi Giada mette la testa dentro la
cabina e mostra il suo piercing. Il secondo flash ci colpisce
entrambi. Al terzo stiamo ridendo. Il quarto flash arriva
troppo presto e preferisco non immaginare quale sarà il risultato.
Usciamo dalla cabina e aspettiamo in silenzio. Le quattro
foto vengono sputate fuori. Una luce rossa indica che non
le possiamo ancora raccogliere, infatti si sente il rumore
del getto di aria calda che le sta asciugando. Alla fine la
luce rossa si spegne e Giada le raccoglie, le guarda e poi
me le mostra.
Onestamente sembriamo due zombi. I flash erano troppo
forti o troppo vicini. Potremmo apparire entrambi in uno
spot per bisognosi di donazioni di sangue. Nella prima foto
ci sono solo io in una postura alquanto rigida. Le altre tre
102
sono simpatiche, specialmente l’ultima dove sia io sia
Giada abbiamo la bocca spalancata e gli occhi semichiusi.
“Facciamo che io prendo le prime due e tu le ultime due”
dice lei.
“Ma che te ne fai della prima foto? Ci sono solo io!”.
Lei non risponde, strappa le ultime due foto e me le passa.
Poi riprende a camminare e la seguo. Arrivati all’incrocio
successivo mi saluta e svolta a destra. Io continuo a scendere e arrivo alla fermata dell’autobus. Guardo nuovamente le foto e le metto nel portamonete. Il pullman per tornare
a casa sta per arrivare. È stracarico di studenti. Grandioso!
Oggi è l’ultimo giorno prima delle vacanze di Pasqua. Ho
cercato per tutto il giorno Giada nella sua classe, ma non
sono riuscito a trovarla. Le ultime due ore abbiamo assemblea d’istituto e le volevo proporre una fuga da Alcatraz
per andare al pub qui vicino e ingozzarci di patatine. Alla
fine delle tre ore di lezione, pur non essendo riuscito a trovarla, decido di uscire ugualmente. Uso lo stesso trucco
della volta scorsa ed imbocco il portone. Solo una decina
di ragazzi sono fuori dell’ingresso, ma può darsi che essendo domani vacanza nessuno abbia fretta di tornare a casa. Cammino a testa bassa mentre con le mani cerco le sigarette. Ne metto una in bocca e un accendino si illumina
davanti a me. Alzo lo sguardo e Giada mi fissa con i suoi
occhi di ghiaccio.
“Conosco bene i miei polli o che?” dice.
“Ehi, ti ho cercata in classe oggi”.
“Lo so, me l’hanno detto. Sono andata con la prof di italiano in un’altra classe per finire di ricopiare il compito.
Un piccolo trucco per saltare l’ora di fisica. Geniale no?”.
“Geniale” Le faccio eco colpito.
“Dai andiamo. Vediamo se la forcella regge il tuo peso
piuma o ci lascia in mezzo alla strada”.
“Ehi, l’ha aggiustata allora?”
“Sì. Il tuo amico è un grande: me l’ha restituita ieri sera. Si
è presentato a casa mia sulla moto e poi l’ho riaccompa103
gnato a casa. Mi ha fatto vedere dove abiti. Per cui stai attento, so come rintracciarti”.
“Starò attento” dico e faccio l’espressione spaventata.
La sua moto è parcheggiata a pochi metri davanti a noi. Su
un fianco sono ancora ben visibili le ammaccature dovute
ai calci del padre e alla conseguente caduta a terra. Giada
monta e accende il motore, io indosso il casco rosso e partiamo. La moto sfreccia tra traffico e macchine. Una o due
volte ho l’impressione che una delle mie ginocchia stia per
sfracellarsi contro il paraurti di un’auto. Chiudo gli occhi
per la paura del dolore. Ma il mio senso degli spazi deve
essere meno accurato di quello di Giada. Ci fermiamo ad
una rosticceria e compro tre euro di patatine fritte. Risalgo
in moto e imbocchiamo la strada che porta verso casa sua.
L’ultima volta che sono entrato nel suo appartamento,
l’interno era alquanto disastrato per la visita del padre.
Stavolta tutto è stato riportato all’ordine iniziale. La libreria è di nuovo in piedi. La radio è stata sostituita da un piccolo lettore cd e Giada ha messo delle luci natalizie blu intorno alle microfinestre. Non fanno molta luce, ma creano
un certo effetto coreografico. Mi tolgo le scarpe e mi siedo
sul divano. Prendo il sacchetto di patatine e ne verso il
contenuto in un piatto. Giada prende una birra e le apre.
Poi mi lancia una canna già pronta e dice:
“A te l’onore”.
L’accendo e ne faccio un tiro. Tossisco per il primo minuto. Lei si siede accanto a me e mi da due colpi sulle spalle
ridendo mentre io gli passo la canna.
Mi sento rilassato e chiudo gli occhi. Giada accende il lettore cd e mette su gli Skunk Anansie. Le patatine finiscono
velocemente e le birre sul tavolo diventano prima due, poi
tre, infine quattro. Sono decisamente alticcio e mi viene da
ridere senza motivo. Quando comincia la canzone Hedonism Giada si alza.
“Ho un regalo per te” mi dice.
“Oh” rispondo sorpreso: “non è il mio compleanno”.
“Oh sì che è il tuo compleanno!”.
Apre un cassetto, tira fuori qualcosa e me lo lancia. Il “regalo” è un biglietto di auguri in miniatura di un colore rosa
104
acceso. Lo prendo da terra e lo guardo. Non è un biglietto,
è una patente. La apro. È la mia patente!
“Ma come cazzo hai fatto?” le dico stupito.
Giro la patente tra le mani. La foto è quella fatta alla cabina una settimana fa, però è ingiallita come se fosse stata
fatta invecchiare. Non sono un esperto, ma a me sembra
una normalissima patente di guida. Poi guardo il nome.
“Mattia Fortezza? E chi sarebbe Mattia Fortezza?”.
“Per quello che ne so io, tu sei Mattia Fortezza”.
Entrambi scoppiamo a ridere.
“Tu sei pazza. Non posso usare un documento falso”.
“Ehi, ehi chi ti ha detto che sia falso! Il documento è verissimo. Ho solo cambiato la foto. E poi ho messo il tutto in
lavatrice per due o tre volte. Sai quanto mi ci è voluto per
cambiare la foto… Per fortuna il tuo amico meccanico mi
ha dato una mano”.
“Cazzo” dico e non so aggiungere altro.
Guardo la data di nascita. Apparentemente ho ventun anni.
“Ma dove hai trovato la patente?” le chiedo allarmato.
“Diciamo che il mio ex ha scordato qui il suo portafogli”.
“Scordato?” chiedo sarcastico.
“Ok senti. C’è questa remota possibilità che io sapessi dove l’aveva scordato, ma non gliel’ho detto o mi sono scordata di farlo. Decidi tu a quale delle due versioni credere”.
“E se scopre che sto usando la sua patente?”.
“Tu ti fai troppi problemi. E poi lui ora non c’è. È andato a
Londra per un paio di mesi o anni per cui il problema non
si pone. Ora ti dico cosa facciamo. Tu vai a questo colloquio per farti dare il posto. Loro ti chiedono un documento. Tu glielo mostri. Poi dici che vuoi essere pagato in contanti senza spiegare il perché. Se vuoi esser pagato in contanti saranno affari tuoi, giusto? Loro ti danno il posto e tu
mi restituisci la patente. Io cambio la foto e tutte le prove
sono sparite. Lo so che Mattia è un nome del cazzo, ma c’è
di peggio”.
La guardo e mi viene di nuovo da ridere. Non ho una sola
obbiezione da fare e questo mi spaventa.
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“Cosa succede se l’amico che mi ha dato il numero del
proprietario, viene a sapere che ho detto che mi chiamo
Mattia?” le chiedo.
“Beh, digli che gli avevi dato un nome falso e che il tuo
vero nome è Mattia”.
Poi, colta la mia espressione divertita, socchiude gli occhi :
“Che figlio di puttana… Tu… tu gli hai già dato un nome
falso!”.
Io faccio di sì con la testa. La combinazione di canna e birra prendono il sopravvento ed entrambi cominciamo a ridere. Le lacrime mi scendono sulla faccia mentre mi tengo
lo stomaco. Rotolo giù dal divano e mi lascio cadere a terra. Mi fa male il fianco, ma non riesco a smettere. La risata
di Giada riempie l’appartamento facendo da eco alla mia.
La sua faccia è segnata da una riga nera di rimmel che cola
dagli occhi. Vedere lei che ride scatena ancora più la mia
ilarità e continuo a ridere mentre mi rotolo a terra tenendomi la pancia.
“Basta, basta. Cazzo il fianco…” dico tenendomi con una
mano il fianco e stringendo con l’altra la mano di Giada.
Rido e rido ancora e vorrei tanto fotografare questo momento e viverlo ancora mille volte.
Quando finalmente ci riprendiamo sono passati quasi venti
minuti. Di tanto in tanto abbiamo nuovi attacchi incontrollati di riso. Apriamo un’altra bottiglia di birra e il resto
della mattina passa velocemente tra assurdi progetti di fuga all’estero in caso che tutte le mie identità false vengano
scoperte. All’una Giada mi lascia sotto casa. Per fortuna
sono quasi di nuovo padrone di me. Salgo le scale e cerco
sul cellulare il numero del proprietario della sauna. Nella
tasca posteriore dei miei jeans c’è un foglio rosa: la mia
patente di guida falsa.
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6.
Venerdì santo di Pasqua. Mia madre si prepara per andare
a messa, mio padre è costretto a seguirla e non sembra che
la cosa lo riempia di gioia. Quando escono di casa mi preparo in tutta fretta: il mio appuntamento con Matteo è per
le quattro in punto, tra venti minuti. Ho segnato su un pezzo di carta l’indirizzo che mi ha dato per telefono. La sauna è vicina alla stazione centrale, quindi dovrebbe essere
facilmente raggiungibile da casa mia. Giada mi aveva proposto di accompagnarmi, ma non ho avuto il coraggio di
spiegarle esattamente che tipo di club sia quello in cui mi
hanno offerto il posto. Le ho detto che preferivo andarci
solo. Faccio le scale di corsa e uscito dal portone inforco la
bicicletta al volo. Pedalo verso la stazione lasciandomi alle
spalle il viale a tre corsie che porta a casa mia. Per la fretta
ho lasciato a casa il lettore cd e me ne pento. La musica mi
avrebbe aiutato a non pensare a quello che sto facendo.
Sento dentro di me una legione di emozioni contrastanti
che combattono. Sento l’eccitazione della situazione che
mi stringe lo stomaco, la paura per il documento falso che
mi brucia dentro la tasca dei jeans, il desiderio di visitare
una sauna e magari di essere assunto e il peso di quello che
so essere una scelta che mio padre definirebbe non oculata.
Alla stazione lego la bicicletta a un palo con la catena.
Passo sotto il cavalcavia ed esco dalla parte opposta. Prendo l’indirizzo dalla tasca del giubbotto di jeans e lo guardo
furtivo come se qualcuno lo potesse leggere e scoprire dove sto andando. Mi giro per controllare il nome della strada. Sono nella strada giusta. Con gli occhi comincio a
guardare la successione di numeri civici. Il numero riportato sul mio foglietto di carta è l’81. Sono di fronte al 79 e il
mio cuore accelera ulteriormente i battiti. Non posso fare a
meno di immaginare Matteo come un uomo grasso e sudaticcio con i capelli unti e gli occhi assatanati di sesso che
ha aperto una sauna per disseminarla di telecamere tutte
collegate ad un cubicolo dove lui segretamente si masturba
cinque o sei volte al giorno. Tengo il cellulare a portata di
107
mano per qualsiasi evenienza. Lo stringo e la mano destra
si copre di sudore. Leggo il numero successivo: 83. Devo
tornare indietro. Merda. Tra il numero 79 e l’83 in realtà
non c’è nessun edificio, solo una stradina interna. Dopo un
attimo di esitazione la imbocco e fatti cinquanta metri mi
trovo davanti una porta chiusa e un campanello. Accanto
alla porta una piccola targa informa che sono di fronte alla
sauna Nettuno. La targhetta è piccola e dorata. Sembra
quella che viene usata per indicare uno studio legale. Non
c’è niente esternamente che faccia pensare a un luogo di
perdizione. Mi chiedo se quello che mi ha raccontato Luca
non sia altro che una balla. Forse la sauna è in realtà solo
una semplice sauna del cavolo. Non so cosa mi aspettavo,
sicuramente niente di così normale. Per essere sinceri immaginavo di trovare un’insegna luminosa a neon visibile
nell’arco di tre chilometri con scritto “Sauna per soli uomini!” Magari con una freccia puntata su un vecchio edifico vittoriano dalle finestre perennemente appannate. E forse anche un cartello messo dai vicini con su scritto a caratteri cubitali: “Attenzione zona fortemente gay!” o qualcosa
del genere.
Quello che ho davanti è la facciata di un edificio bianco.
Un piccolo portone d’ingresso non tanto diverso dal portone di casa mia e una micro targhetta. Squadro per la terza
volta il tutto per essere sicuro di non avere avuto
un’allucinazione. Poi premo il campanello.
Nessuno mi risponde, ma la porta si apre in automatico.
Entro e all’interno tutto cambia. Davanti a me c’è un ampio ingresso che termina con un arco dorato. La stanza dà
uno strano senso di calore e benvenuto. L’arco di fronte a
me è sorretto da colonne in stile etrusco e sopra la volta c’è
una statua di Nettuno con in mano un tridente. La sua
struttura fisica muscolosa e statuaria è sexy e dominante
allo stesso tempo. Sotto l’arco c’è una guardiola e un ragazzo che mi fissa. Dallo stupore non ho chiuso ancora la
porta alle mie spalle e questa comincia ad emettere uno
strano suono accusatore. Lascio la presa e la porta si chiude. Il suono cessa immediatamente. Sono qui da un minuto
e mi sembra chiaro che il mio piano di comportarmi come
108
se entrassi nelle saune ogni giorno stia già miseramente
sfumando.
Cammino verso lo sportello e sento sotto i piedi la moquette morbida che affonda. Le pareti della stanza sono ornate da una fila di statue che raffigurano dei tritoni. Sono
tutti muniti di tridente puntati verso l’alto come canne di
fucile durante un’esercitazione militare.
“Ciao hai la tessera?” mi chiede il ragazzo con un forte accento ispanico.
“No, veramente dovrei parlare con Matteo. Ho un appuntamento per un colloquio di lavoro”.
“Colloquio di lavoro? Oh amore…” dice e scoppia a ridere.
Le mie guance si colorano di rosso. Perché non mi sono
preparato cosa dire una volta dentro? La faccia ispanica
sparisce e dopo trenta secondi un nuovo volto si affaccia
dalla guardiola e mi fa segno di entrare. Mi giro e vedo
una porta nera con sopra dipinto un tridente color oro. La
porta scatta anche questa in automatico, la spingo ed entro
dentro la sauna.
Sono in uno spogliatoio. L’interno della sauna mantiene
gli stessi accostamenti di colori che ci sono fuori. Una serie di armadietti neri sono disposti in tre file. Ce ne sono di
due tipi: quelli stretti e alti e quelli più piccoli. Due armadietti piccoli occupano in totale lo stesso volume di uno
grande. Sulla porta di ogni armadietto c’è un numero dorato e un po’ più in basso c’è, in rilevo, un piccolo tridente
dorato. Ci sono delle panchine tutte intorno per cambiarsi.
Su una di queste un uomo di mezza età è seduto e parla al
cellulare. È nudo a parte un asciugamano nero che gli cinge i fianchi. Si gira verso di me e mi squadra. Ho la netta
sensazione che mi stia facendo una analisi a raggi X per
capire come sono fatto sotto i vestiti. La temperatura
all’interno dei locali è decisamente superiore a quella esterna e mi fa venire voglia di spogliarmi e rimanere in costume.
Matteo compare da dietro una porta. È alto quasi due metri
e ha una corporatura slanciata. I capelli sono neri con delle
punte bianche qua e là che segnano la sua età non più gio109
vane. Le ciglia sono molto folte e gli occhi castani mi fissano indagatori. Le mani sono affusolate con delle unghie
ben curate. Sotto la sua maglietta nera a mezze maniche
riesco a vedere chiaramente la forma dei suoi capezzoli.
Mi stringe la mano e mi sorride. I muscoli del suo avambraccio si contraggono nella stretta ed evidenziano la differenza di massa muscolare tra il mio braccio e il suo. La sua
altezza mi domina, ma lo sguardo è quello di un bambino.
“Ciao, tu devi essere Mattia” dice.
“Sì, come va?” rispondo imbarazzato.
“Bene. Mi hai detto che Luca ti ha dato il mio numero. È
un po’ che non lo sento, se lo vedi salutamelo. È venuto
all’inaugurazione della sauna un paio di settimane fa. Ma
da allora non l’ho più visto: lui non ama molto le saune o i
ritrovi gay in generale”.
Mi verrebbe da dire meglio così, ma preferisco annuire e
lasciarlo parlare.
“Ok Mattia. Io cerco un ragazzo che lavori part-time. In
particolar modo durante il fine settimana quando c’è più
movimento. La paga è di 15 euro all’ora per la prima settimana. Poi se siamo contenti l’uno dell’altro sarà di 20 euro all’ora”.
“Ok” rispondo.
“Farai la maggior parte dei turni con Manuel, il ragazzo
adesso in guardiola. Lui ti spiegherà esattamente cosa fare.
Abbiamo aperto da solo due settimane, quindi siamo ancora in fase di assestamento se così si può dire. Io e i miei
soci abbiamo deciso di anticipare l’apertura che sarebbe
dovuta essere a settembre. La sauna rimarrà aperta fino a
fine giugno. Poi d’estate la chiuderemo per finire alcuni
lavori”.
“Ho capito” dico.
Matteo allunga il braccio su uno scaffale e prende due magliette in mano. Mi guarda e me ne allunga una.
“Questa è la tua tenuta di lavoro. Indosserai delle infradito
ai piedi e dei pantaloni a tre quarti preferibilmente neri. La
taglia della maglietta è medium, dovrebbe andarti bene. È
un poco stretch” poi, senza prendere alcuna pausa mi chiede: “Mattia quanti anni hai?”.
110
“Ventuno” rispondo e spero che la mia voce non tremi.
“Hai un documento?”.
“Sì!” metto la mano nei pantaloni e sfilo la patente. La allungo verso di lui, ma non la prende in mano.
“Ok va bene. Cominci domani. Il tuo turno è dalle 8 di sera alle 2 del mattino”.
Mi cade la patente a terra. La recupero forse troppo velocemente e me la metto in tasca.
“Va bene” dico.
“Benvenuto tra noi” conclude e mi dà una pacca sulla spalla. Poi aggiunge:
“Scusami, ora devo andare: abbiamo un problema ai computer. Se vuoi puoi fare un giro. Conosci comunque
l’uscita”.
“Ok. Ciao”.
“A domani” dice e sparisce dietro la porta da dove era entrato.
Mi lascia lì nello spogliatoio. L’uomo che prima mi osservava è andato via. Sento ancora il cuore che batte rumorosamente nelle tempie per l’emozione. Incerto cammino seguendo la fila degli armadietti che arriva fino al numero
350. Mi trovo così davanti un’altra porta. La spingo e vengo investito da un’ondata di calore ancora maggiore. Ho
caldo e comincio a sudare. Un gruppo di uomini tra i venti
e i sessant’anni affollano lo spazio circostante. Uno di loro
si gira e mi guarda come se fossi un elemento estraneo.
Tutti i clienti sono coperti solo da un asciugamano; io ho
ancora il giubbotto di jeans. Da questa posizione vedo diverse persone sedute a dei tavolini di un bar o in piedi vicino al bancone che ordinano da bere. Alcuni leggono il
giornale o mangiano degli spuntini che sono disposti su un
tavolo. L’ambiente sembra molto rilassato e le persone
parlano tra di loro indifferenti di essere praticamente quasi
nudi. Decido di tornare sui miei passi e uscire. Visiterò la
sauna domani, quando sarò vestito in maniera più appropriata per resistere agli sguardi interrogativi delle persone.
Torno allo spogliatoio e suono un campanello interno per
farmi aprire la porta che immette all’entrata. La porta scatta ed esco.
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“Grazie” dico diretto a Manuel.
“Ben fatto…. per il colloquio di lavoro intendo” mi dice in
tono canzonatorio: “A domani allora”.
“Ok” rispondo e mi affretto ad uscire dall’ingresso.
Il portone si chiude alle mie spalle e mi lascio sfuggire un
sospiro. Sono le quattro e venti. In soli venti minuti tutto è
cambiato. Da domani lavorerò in sauna! Ripenso al post-it
arancione scritto da mio fratello. Mi chiedo in che posizione si trovi, nella sua scala delle cazzate che non dovrei fare, lavorare in una sauna usando una carta di identità falsa.
Probabilmente fuori scala. Scuoto la testa come ho visto
fare a Luca diverse volte. Penso a lui e al suo sorriso.
Chissà cosa starà facendo adesso?
“Tesoro proprio non capisco per quale motivo tu senta la
necessità di trovarti un lavoro” mia madre mi guarda con
aria apprensiva.
“Mamma, è un’esperienza che voglio fare. Voglio avere,
nel mio piccolo, dei soldi da poter spendere”.
“Ma quelli che ti diamo io e il papà non sono sufficienti?
Non sono sicura di volerti vedere lavorare. Sei così giovane. Nel tuo tempo libero dovresti uscire con gli amici, divertirti. La giovinezza guarda che non torna più. Avrai tutto il resto della vita per lavorare”.
”Lo so, mamma, ma è solo due o tre volte la settimana nel
week-end. Sarà divertente. Conoscerò nuove persone. E
poi è una cosa che mi va di fare” le dico con un tono di
supplica.
Mia madre mi guarda e sta per ripartire all’attacco, ma mio
padre la ferma poggiandole una mano sul braccio. Ho pensato a lungo prima di intavolare questa discussione con i
miei genitori. Avrei potuto non dirglielo. D’altra parte il
lavoro in sauna è tutto concentrato nel fine settimana
quando sono più libero di uscire. Il problema è che mia
madre ha un istinto troppo spiccato. Avrebbe comunque
capito qualcosa. Per cui, ho pensato che sarebbe stato meglio giocare d’attacco. Ora non sono più sicuro che sia stata la tattica migliore.
112
Sin dall’inizio della discussione ho notato chiaramente il
nervosismo sul viso di mia madre. Non capita spesso che
durante la cena me ne esca con un: “Vi devo dire una cosa” Odio questa frase, perché nasconde sempre una notizia
sgradevole o che fará arrabbiare qualcuno.
Mio padre mi fissa intensamente. Reggo lo sguardo anche
se il mio stomaco mi consiglia di scappare in camera da
letto e mettere su un Cd di musica rock.
“Forse cara non è poi una cattiva idea” dice.
Io e mia madre lo guardiamo con la bocca aperta.
Lui, catturata la nostra attenzione, prosegue:
“Se lui vuole fare questa esperienza e ci garantisce o meglio ci dimostra che i suoi voti non cambieranno, allora
penso che gliela dobbiamo lasciar fare. Naturalmente se il
rendimento scolastico risentirà del tuo lavoro dovrai lasciarlo. Questo è ovvio”.
Rimango in silenzio e annuisco con la testa. Mia madre apre la bocca come se volesse dire qualcosa poi la richiude.
Con la forchetta separa metodicamente nel piatto i piselli
dai pezzetti di macinato.
“Che tipo di lavoro ti hanno offerto?” mi chiede poi senza
alzare lo sguardo.
“Sarò aiuto-barman” improvviso.
“Ma non devi essere maggiorenne per bere cocktail?” dice
alzando di scatto lo sguardo.
“Per berli sì, per prepararli no. Poi penso che per la maggior parte del tempo pulirò i tavoli o laverò bicchieri”.
“Dov’è questo bar?” domanda cercando di nascondere la
curiosità.
“Ė vicino alla stazione” rispondo.
Conosco mia madre abbastanza bene da sapere esattamente cosa le passa nella mente, per cui gioco d’anticipo.
“Mamma, ti prego non pensarci neanche di venire a vedermi. Farei la figura del ragazzino”.
Questa è una delle mie armi migliori. Mia madre, quando
ero più piccolo, raccontava spesso a me e mio fratello che
suo padre la voleva accompagnare ovunque. Ogni anno,
all’inizio della scuola, l’accompagnava in classe. Anche
quando era in quinta superiore. La portava a tutte le feste
113
personalmente e a volte si fermava anche un po’ di tempo
a casa del festeggiato, indifferente all’imbarazzo generale
che questo procurava. Non voleva che nessuno la riaccompagnasse a casa al di là di lui. Così mia madre ci raccontava come si fosse più volte ripromessa che se avesse avuto
dei figli non avrebbe mai fatto una cosa del genere, ma gli
avrebbe concesso quella autonomia e libertà che lei non
aveva mai avuto fino al matrimonio.
La guardo mentre posa la forchetta sul tavolo e alza lo
sguardo. Mi fissa per un attimo e poi dice:
“Va bene, puoi avere il lavoro se è quello che vuoi”.
E dentro di me so che non mi farà altre domande sul bar né
tenterà di trovarlo.
Mi alzo da tavola e le do un bacio sulla guancia. Poi vado
in camera mia e mi chiudo la porta alle spalle. Mi sento
pesante e pieno di sensi di colpa. Mi lancio sul letto. Prendo il mio cellulare e mando un sms a Giada: “Comincio a
lavorare domani”.
Dopo un tempo indefinito il mio cellulare trilla rompendo
il silenzio dei miei pensieri. La forma di una busta da lettera appare sul mio display. “Ciao Damiano. Cosa fai di bello? Ti va di vederci? Possiamo affittare un film e vederlo
da me. Un bacio. Luca”.
E così come sono arrivati, i sensi di colpa verso i miei genitori spariscono. Nuovi sensi di colpa si presentano al mio
cospetto. Cosa dirò a Luca per il lavoro in sauna? Cosa gli
dirò se parlando con Matteo verrà a sapere che ho detto di
chiamarmi Mattia? Chiudo gli occhi. Ho una voglia matta
di fumare. E ho una voglia matta di stare stretto tra le
braccia di Luca.
Il mio primo giorno di lavoro in sauna inizia tra due ore.
Prendo dallo zaino il completo che dovrò indossare. Ho
recuperato un paio di pantaloni neri a tre quarti tra i vestiti
estivi, hanno un aspetto un po’ militare: sono a vita bassa e
terminano con dei lacci neri che mi fanno il solletico alle
caviglie. Se non ho capito male le infradito mi verranno
date in sauna, ma ho deciso di portarne anche un paio mio.
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Mi guardo davanti lo specchio vestito della mia tenuta di
lavoro. La maglietta della sauna è smanicata e con disegnato un tridente d’oro sul petto e la statua di Nettuno sulle spalle. Mi sta addosso come una seconda pelle.
Decido che nell’insieme il completo mi piace, quindi mi
spoglio e lo rimetto nello zaino. Alle sette e mezza saluto
rapido e mi precipito in strada. Prendo la bicicletta e parto.
La sauna è già piena di persone. Matteo mi dà rapidamente
le prime istruzioni:
“Per adesso siamo in quattro a lavorare nella sauna” dice.
“Manuel è all’entrata e fa a turno con Gianni che è al bar.
Io sono un po’ il tuttofare della situazione. Tu oggi sarai il
braccio destro di Manuel: darai una mano in guardiola e lo
aiuterai a pulire i cubicoli”.
“Va bene” rispondo nervoso.
“Bene, buon lavoro!” Dice e si allontana.
Mi giro verso Manuel e mi aspetto che mi detti istruzioni
con lo stesso fare militaresco di Matteo. Lui mi ignora per
un po’ senza parlare e io faccio lo stesso. Manuel è un bel
ragazzo dai capelli corvini e ricci. La sua pelle ha un naturale colorito abbronzato, gli occhi sono neri e intensi come
quelli di un cerbiatto. È più basso di me di quasi dieci centimetri.
Quando è sicuro che Matteo non ci possa più sentire comincia a parlare rapidamente:
“Non ti preoccupare per Matteo. Lui è buonissimo, è solo
entrato in questa fase di generale del cazzo. È così perché
prima di questa sauna ne aveva aperta un’altra che è andata
malissimo per cui ora è molto nervoso. Io ho lavorato anche nell’altra sauna, che a dir la verità era un poco squallida. Questa è bellissima, deve essere costata un capitale. È
sempre piena di gente. E di bei ragazzi" dice e mi strizza
l’occhio. Il suo italiano è quasi perfetto se non si considera
una lieve inflessione ispanica.
“Allora, il lavoro in guardiola è molto semplice” continua:
“quando qualcuno entra tu gli chiedi la tessera e la passi
allo scanner, gli dai una chiave di uno degli armadietti interni e un paio di ciabatte del suo numero. Il lavoro al bar è
ancora più semplice. Naturalmente essendo tutti svestiti
115
non hanno soldi con sé, quindi devi solo dargli quello che
chiedono e segnare al computer cosa hanno preso in relazione al numero del loro armadietto: pagheranno il dovuto
all’uscita. Semplice no?”.
“Sì” rispondo e spero di ricordarmi tutto.
“Ok. Allora queste sono le regole ufficiali. Ci sono poi un
paio di regole ufficiose ugualmente importanti” e si avvicina al mio viso come se qualcuno possa carpire un segreto
di stato. Si mette una mano su un fianco e continua: “Per
pulire i cubicoli o controllare che ci siano abbastanza gradi
in sauna faremo a turno. Se tu vedi che io ci metto più del
dovuto perché... non so, diciamo ho trovato un contrattempo, mi copri e io faccio lo stesso per te. E per contrattempo
intendo proprio un bel manzo... moro, con le spalle così e
occhi neri”
mentre ne fa la descrizione muove le braccia per disegnare
spalle larghe, bicipiti gonfi e petto muscoloso. Io sorrido e
Matteo spunta improvvisamente alle sue spalle con aria
interrogativa.
Manuel,senza perdere il sangue freddo, aggiunge: “E queste sono le regole!” poi si gira di colpo con espressione
serissima, ma altrettanto ridicola. Saluta Matteo soffiandogli un bacio e parte. Io ho un sorriso ebete stampato in faccia e Matteo di fronte che mi fissa. Manuel mi fa un gesto
di con la mano di seguirlo e gli corro dietro.
Quando siamo nuovamente abbastanza lontani da Matteo,
Manuel dice:
“Per iniziare direi che dovresti fare un giro per la sauna,
ma non ti perdere e niente pompini in giro il primo giorno:
depone male. Ti do al massimo mezz’ora... Andale!” conclude e mi dà una pacca sul sedere.
Incitato dalla spinta di Manuel mi dirigo verso l’entrata
della sauna. Supero la fila di armadietti e passo la porta
che immette all’interno di un ambiente decisamente ben
riscaldato. Alla mia sinistra c’è un bar con dei tavolini disposti tutti intorno. Al bar è stato allestito sapientemente
un tavolo pieno di stuzzichini. Qui fanno bella mostra microtramezzini, grissini con prosciutto crudo e pomodorini
al forno con sopra un filo d’olio e basilico sminuzzato che
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hanno un aspetto particolarmente invitante. Ai tavoli ci sono persone dell’età più disparate. Uomini di quaranta o
cinquant’anni dal fisico ancora tonico leggono il giornale o
guardano il megaschermo a cristalli liquidi appeso alla parete. Mangiano arachidi e bevono cocktail dai colori più
improbabili. In un angolo c’è un gruppo di ventenni che
parlano tra loro usando esclusivamente la desinenza femminile e gesticolando a più non posso.
Superato il bar ci si trova davanti a una scala che porta al
piano di sopra e che divide il pianterreno in due zone:
l’area bar alla sinistra delle scale e una dalle luci decisamente più soffuse alla sua destra. Da qui proviene un chiaro rumore d’acqua. Passo davanti le scale e seguo il rumore. Mi ritrovo così in un ampio corridoio. Vicino al muro
c’è una fila di docce. Le docce sono comuni. Ce ne sono in
totale una ventina una di seguito all’altra. Il corridoio e le
docce sono separate da un muro discontinuo. Per cui
camminando è possibile scorgere la maggior parte delle
persone che si stanno lavando. Mi giro e vedo chiaramente
un uomo sui trentacinque anni che si sta insaponando con
perizia. Sentendo dei passi si gira verso di me. Ha la corporatura massiccia di un ex giocatore di rugby con un po’
di pancia, le spalle sono larghe e il petto villoso. Continua
a insaponarsi fingendo di non guardarmi e io continuo a
camminare cercando di non guardarlo. In realtà siamo
l’uno consapevole della presenza dell’altro.
Ci sono altre cinque o sei persone che stanno facendo la
doccia in questo momento. Uno di loro è in corridoio e si
sta asciugando, ha un’età indefinita tra i trenta e quarant’anni. Si asciuga lentamente lasciando intravedere di
tanto in tanto il suo pene che è enorme anche se non eretto.
Alla fine del corridoio c’è una piscina di circa trenta metri
in lunghezza e cinque di larghezza. Sul fondo sono stati
posti dei faretti che fanno un bel gioco di luce. Al centro
della piscina c’è un’isoletta con sopra la statua di Nettuno.
Sulle pareti circostanti sono stati messi dei ganci coloro
oro per gli asciugamani con sotto un numero. Una parte
dei ganci è occupata dagli asciugamani neri dei clienti che
sono in piscina. In un angolo ci sono delle panchine
117
dall’aspetto piuttosto scomodo. Due uomini sui sessant’anni sono seduti su una panchina e si scambiano occhiate e opinioni sugli uomini che nuotano.
La piscina è discretamente affollata: qualcuno è a bordo
vasca, alcuni nuotano e altri guardano e basta. La luce di
uno dei faretti si riflette sulle natiche ben modellate di un
ragazzo che nuota tra gli sguardi di estranei che ne seguono i movimenti aggraziati. Sento la pressione di
un’erezione che riempie i miei pantaloni e cerco di convincere i miei ormoni che questo non è il momento opportuno. Faccio dietro front con una certa fretta e torno alle
scale che portano al piano superiore. Vicino alle scale la
temperatura è più fredda, ma ancora decisamente piacevole. Salgo al piano di sopra con calma per dare tempo
all’erezione di sgonfiarsi.
Il secondo piano comprende diversi ambienti. C’è, vicino
alle scale, un’ampia sauna della capienza di quindici o
venti persone. La sauna è tutta in legno e più o meno dieci
uomini sono al momento al suo interno. Due di loro sono
coinvolti in un’animata conversazione e ridono rumorosamente mentre gocce di sudore ne imperlano la fronte e
scendono sui corpi. Alla sinistra della sauna c’è un bagno
turco. Non potendolo vedere dall’esterno come per la sauna decido di entrare. L’interno è costituito da
un’anticamera dove ci sono dei ganci dorati al muro. Anche questi, come in piscina, hanno un numero per permettere ai clienti di riconoscere il proprio asciugamano
all’uscita dal bagno turco. Superata l’anticamera c’è
un’altra porta che permette di accedere all’interno del bagno turco vero e proprio. Qui tutto è circondato da
un’immensa nuvola di vapor acqueo. L’ambiente non è illuminato, quindi è possibile vedere solo le sagome delle
persone. Alcune di queste si toccano tra loro, altre si passano la mano sul ventre o sono sotto la doccia fredda per
rinfrescarsi. Nella parte più interna del bagno turco c’è
un’altra stanza nascosta da una parete dalla quale provengono dei sospiri inconfondibili. Decisamente qui dentro
qualcuno sta facendo ben altro oltre a rilassarsi. L’aria è
umida e irrespirabile e il caldo non fa che aumentare il de118
siderio di sesso.
Esco totalmente sudato. Uso la maglietta per asciugarmi il
volto e riprendo a camminare. Anche su questo piano ci
sono delle docce, ma meno numerose del piano inferiore.
Di fronte alle docce ci sono dei gradini, cinque in tutto,
che immettono in una zona rialzata dove c’è una jacuzzi
che può ospitare fino a dieci persone. Intorno alla vasca
sono state disposte delle pietre dall’aspetto lavico e un sottile strato di fumo esce dalla base di ogni pietra. Il fumo dà
alla jacuzzi l’aspetto di un bagno termale. Dentro la vasca
ci sono tre uomini: due stanno parlando e uno è messo di
spalle, è piuttosto grasso e tiene il culo ben in vista per
possibili acquirenti. Di fronte alla jacuzzi ci sono le scale
che portano all’ultimo piano. Guardo l’orologio con una
certa ansia, ma sono passati solo dieci minuti dall’inizio
del mio giro turistico. Decido di visitarlo con calma. Salgo
le scale ed entro in un ambiente piuttosto silenzioso. Qui le
luci diventano, se è possibile, ancora più soffuse grazie ad
una serie di faretti rossi attaccati alle pareti. Il piano è una
specie di enorme labirinto. Ad ogni angolo ci sono uomini
che aspettano il passaggio di altri uomini. Il desiderio di
sesso e di contatto è palpabile ed eccitante. Sul corridoio si
aprono le porte di molte stanzette e cubicoli privati. Dentro
ogni stanza c’è un dispensatore di fazzoletti per pulirsi e
un letto in plastica morbida della stessa consistenza di
quelli negli ambulatori medici. Un po’ ovunque ci sono
delle bolle di vetro piene di profilattici e creme lubrificanti. Due uomini mi passano accanto tenendosi per mano e si
vanno a chiudere nella stanza di fronte a me. Tutto intorno
si sentono sospiri o rumori di corpi che vengono sbattuti
contro le sottili pareti in legno dei cubicoli. Cammino lentamente e arrivo alla fine del corridoio/labirinto dove c’è
una stanza più grande. È una specie di cinema dove sullo
schermo viene proiettato un film porno. Nella sala ci sono
sei persone. Due semisdraiate nell’ultima fila si stanno
masturbando a vicenda. Un uomo sulla sessantina si gira
verso di loro toccandosi a sua volta. Passo attraverso la sala e raggiungo un’altra entrata, questa volta senza porta,
che immette in un ambiente totalmente buio. Entro stando
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attento a non guardare il film per evitare che la mia erezione prenda ancora più consistenza. Appena all’interno della
stanza sento delle mani che mi frugano all’altezza del cavallo. Le scaccio a metà tra scioccato e spaventato, ma subito di nuove mi si attaccano addosso. Devo esser entrato
in una darkroom! Cerco la strada per uscire, ma gli occhi
non si sono ancora abituati al buio e sbatto in continuazione contro corpi e pareti in legno. Mi appoggio al muro e
seguo la parete fino a quando, un paio di minuti e molte
palpate più tardi, riesco ad uscire. Mi ritrovo così in uno
stanzone un po’ più illuminato con un lettone centrale. Sopra il letto c’è un uomo nudo a faccia in giù. Tutto intorno
ci sono una ventina di persone. Alcuni fissano uno schermo a cristalli liquidi dove viene proiettato lo stesso film
del piccolo cinema. Altri sono in gruppo. All’interno di
uno di questi gruppi un uomo è inginocchiato davanti a
due ragazzi che dimostrano poco più di venti anni. È inutile dire che la differenza tra quello che sta avvenendo nel
film e quello che stanno facendo è minima. L’uomo tiene
in mano il pene di uno dei due ragazzi stringendolo alla
base e muovendolo lentamente, mentre con la bocca succhia con perizia il sesso del secondo ragazzo. I due ragazzi
si contendono le sue attenzioni avvicinandogli il sesso a
turno fin quando l’uomo in ginocchio non li prende entrambi in bocca. Cerco di distogliere lo sguardo e passo al
centro della sala fino ad arrivare ad un corridoio. Lo seguo
consapevole che vorrei unirmi ai giochi sessuali dei due
ragazzi. Il corridoio riporta alle scale. Le scendo quasi di
corsa fino al pian terreno. Avrei bisogno di farmi una doccia per recuperare il controllo e liberarmi dalla mia erezione, ma non penso di avere così tanto tempo. La mezz’ora
concessami è quasi passata. Mi aggiro tra la folla di uomini in asciugamano cercando i capelli ricci di Manuel per
cominciare a lavorare.
Quando rientro a casa sono le due passate. La sauna continua ad essere aperta tutta la notte fino alle sei
dell’indomani. Manuel mi ha detto che alla chiusura delle
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discoteche sabato notte, una parte delle persone si riversa
in sauna che rimane affollata fino alle quattro o le cinque
del mattino.
Faccio scivolare la chiave nella toppa cercando di fare il
minor rumore possibile. Entro in casa e chiudo la porta col
chiavistello. In cucina c’è una luce accesa. Lascio lo zainetto all’entrata e vado a spegnere la luce, ma la stanza
non è vuota come immaginavo.
“Ehi tesoro, come è andato al lavoro?” mi chiede mia
madre.
“Bene. Ma mamma, non mi dovevi aspettare alzata”.
“Non riuscivo a dormire” mente.
“Capisco” dico.
“Cosa ti hanno fatto fare?” mi chiede.
“Per lo più ho lavato bicchieri e raccolto quelli sporchi. Ho
aggiunto patatine nei piatti e a un certo punto ho pure fatto
degli scontrini”. Triste come può sembrare, la realtà non è
molto diversa da quello che le sto raccontando. Certo se
non si considera che il locale in cui ho fatto tutto questo è
solo per uomini. Per uomini nudi per la precisione.
“Siediti qui accanto a me” mi dice e mi siedo.
Mi dà un bacio tra i capelli. Lei probabilmente spera di
non sentire odore di alcool nel mio respiro, mentre io spero
che non senta quello di sperma che aleggia inesorabile tra i
cubicoli del terzo piano.
“Ti sei divertito?” mi chiede poi.
“Sì. Ho conosciuto un po’ di gente e abbiamo parlato. È
divertente come lavoro, davvero! E non ti preoccupare,
non diventerò alcolizzato né smetterò di fare i compiti”
cerco di rassicurarla.
Lei sospira, poi dice:
“Tesoro, questa settimana è festa, ma dalla prossima il sabato e il lunedì mattina dovrai andare a scuola. Dormirai
poco e sarai distratto in classe. Se proprio vuoi lavorare
puoi trovare qualche altra cosa da fare. Magari durante il
pomeriggio. Io continuo a pensare che questo lavoro non
sia una buona idea”.
“Lo so mamma” concludo.
Un tempo non troppo lontano, forse solo un anno fa, avrei
121
potuto dire tutto a mia madre. Raccontarel per filo e per
segno quello che avevo fatto a scuola, le persone che avevo incontrato, quelle che trovavo simpatiche e quelle che
odiavo. Non sono mai stato un ragazzo molto loquace, ma
mia madre ha sempre trovato mille domande alle quali dovevo rispondere e che usava come arma per sapere tutto
quanto che mi girava intorno. Ora guardandola ho la consapevolezza che non può più essere così. Forse crescere
significa anche questo: staccarsi dalle persone che ti hanno
guidato e trovare una tua via e un tuo modo di pensare e
vivere. Sono certo che mia madre ne è consapevole e lo
accetta. Ciò nonostante mi sembra di vedere nei suoi occhi
sempre più spesso il rimpianto di quei giorni in cui in un
certo senso tutto era più semplice per entrambi.
“Ha chiamato Guido?” le chiedo per smorzare la tensione
del silenzio.
“Sì. Ha chiamato proprio oggi. Mi ha detto che si sta divertendo molto in Germania e ha fatto amicizia rapidamente. Laura è un po’ preoccupata di queste “amicizie” mi sa:
l’ultima volta che l’ho sentita parlava già di salire a trovarlo. Dopo solo tre settimane”.
“Hai capito Guido…” dico sinceramente stupito.
Entrambi ridiamo.
“Shhh. Zitto, zitto, che papà dorme” mi intima.
Cerco di recuperare il controllo bevendo un po’ del te rimasto nella sua tazza. Mentre lo faccio lei mi accarezza
capelli. Ho un flash-back di quando ero bambino diversi
anni fa, di quando non riuscivo a dormire e chiamavo mia
madre dalla camera da letto. Lei veniva e mi calmava. poi
puntualmente le chiedevo di preparare un tè. Lei ne faceva
due tazze, una per entrambi. La mia tazza aveva una mucca disegnata sopra, lei me la riempiva di tè fumante e me
la porgeva. Poi mi metteva a letto e si sedeva accanto a
me. Non ricordo cosa dicesse e forse non ha importanza.
Ricordo la sua mano che scivolava sui miei capelli e la
consapevolezza che tutto sarebbe stato ok. Mi chiedo che
fine abbiano fatto quella tazza e quella consapevolezza.
“Mamma, vado a letto” le dico guardando il fondo della
tazza che stringo con entrambe le mani.
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“Sì tesoro, vengo pure io”.
Spegne la luce e insieme camminiamo come gatti nella
notte. Io entro nella mia stanza e sento la porta della camera da letto dei miei genitori che si chiude. Mi spoglio velocemente e mi metto sotto le coperte pregustando le ore di
sonno. Prendo dai miei cd una raccolta di canzoni di Vasco
Rossi e seleziono Gli angeli. La ascolto con gli occhi fissi
sul soffitto in piena oscurità e la rimetto per tre volte;
quando spengo finalmente il lettore e mi giro verso il muro
per dormire la canzone risuona insistente nella mia testa.
Mercoledì è uno dei giorni più lunghi a scuola. La giornata
inizia con due ore di italiano. La prof di italiano entra
sempre puntualissima in classe, è una bella donna sulla
quarantina con una cultura enorme e una predilezione per
assegnarci l’interpretazione delle poesie più difficili che
siano mai state scritte per sviluppare la nostra vena critica.
Alla fine delle sue ore la professoressa di matematica fa il
suo goffo ingresso. Il contrasto tra le due professoresse è
evidente: la signorina Verdi sembra la versione femminile
di Archimede pitagorico. È una donna di statura minuta
con un naso aquilino su cui sono appoggiati un paio di
grandi occhiali le cui astine sono tenute insieme da una
collana di perline rosa. Nel momento stesso in cui entra in
classe chiama qualcuno alla lavagna per fargli da assistente
durante tutta la lezione. Il malcapitato sarà torturato con
problemi di algebra o funzioni di ellissi che non passano
mai per i punti giusti. Oggi io sono stato il fortunato prescelto. Grandioso!
Alla fine delle prime tre ore la mia mente è talmente piena
di informazioni da non avere più spazio per altri pensieri.
A volte questo è decisamente un vantaggio. Appena suona
la campanella, mi alzo dal mio banco in terza fila e mi avvio verso il bagno con le mani ancora piene di gesso. A
metà strada vedo Damiano col suo migliore amico. Parlano
con due ragazze. Damiano si gira e mi saluta velocemente,
rispondo con un cenno della testa e con trecento battiti
cardiaci al minuto. Una voce dentro di me dice che a lui
123
non importa niente di me e che sta organizzando un’uscita
a quattro con il suo amico e le due ragazze, un’uscita di
quelle classiche che fanno i ragazzi. Prima cinema poi una
pizza insieme e infine magari andarsi a baciare al parco o
scorrazzare con il motorino per la città tenendosi per mano. Conosco una delle due ragazze, è in 4F ed è molto carina. La invidio e odio in ugual misura perché parla con
lui. Un’altra voce però mi dice che si è voltato a salutarmi
e avanza una successione di ipotesi surreali. Forse non si è
messo a parlare con me perché non sapeva come giustificare con i suoi amici il fatto che tenesse più a me che a loro, forse adesso mentre mi allontano si è girato per guardarmi di sfuggita. Forse si starà chiedendo dove sto andando e magari spunterà tra due minuti all’angolo del corridoio. Ma questa voce è molto più lontana della prima,
che continua a ripetere ad alta voce che a lui non gliene
importa niente di me.
Cammino per l’androne del piano leggendo distrattamente
le scritte sui muri fino ad arrivare di fronte ai bagni. Mi
guardo intorno, ma non vedo Giada. Se Damiano è fuori
dalla classe anche Giada dovrebbe essere in giro. Entro nel
bagno degli uomini e mi accendo una sigaretta, dopo due
boccate Giulio entra alle mie spalle:
”Ehi ciao. È tanto che non ti vedo in giro, come va?”.
“Ciao Giulio, tutto ok”.
Espiro il fumo e Giulio mi guarda curioso. Poi fa un paio
di passi e si ferma davanti un orinatoio attaccato al muro.
Io non riuscirei mai a farla se qualcuno mi stesse guardando. Ho sempre provato invidia per i ragazzi che fanno pipì
uno accanto all’altro per strada facendo a gara a chi la fa
andare più lontana.
Quando ha finito tira su la zip e si va a lavare le mani. Ha
indosso una maglietta grigia a maniche lunghe sopra la
quale indossa un’altra maglietta blu a maniche corte.
Quest’ultima è abbastanza attillata da mostrare le spalle
ben modellate e la vita stretta. Si gira verso di me con le
mani gocciolanti e sorride indifferente o probabilmente abituato al fatto di dover mostrare ogni volta il suo apparecchio per i denti.
124
“Non vieni più in palestra?” mi chiede.
“No, ho poco tempo ultimamente, sai lavoro durante il fine
settimana”.
“Veramente e che lavoro fai?”.
“Ehm… lavoro in un bar, faccio l’aiuto cameriere” rispondo.
Cerco nella mia mente una bugia credibile per rispondere
alla domanda che sento pesare sulla mia testa come una
spada di Damocle: “In che bar lavori?”.
Lui però non mi chiede altro e si aggiusta il capello di basket sulla testa. Sembra che per Giulio il silenzio tra due
persone non sia fonte di imbarazzo. Io non trovo nulla da
dire per cui sto zitto.
“Hai poi finito il disegno che stavi facendo a Pompei?” mi
chiede infine.
“Sì. L’ho ripassato a china. Non è bello come l’originale,
però non è venuto male”.
“Disegni molto bene invece. Magari saresti dovuto andare
al liceo artistico”.
“Ci avevo pensato all’inizio, ma poi... non so… ho cambiato idea” dico sapendo bene che questo non è stato il vero motivo.
“Pensavi che lì ci sarebbero stati ragazzi più bravi di te?”
mi chiede.
Non posso fare a meno di avere un’espressione sorpresa.
Non l’avevo mai detto a nessuno, ma questo è esattamente
il motivo per il quale ho deciso di non andarci. Forse legge
nel pensiero.
“Sì, forse” rispondo fissando il pavimento rosso in viso.
Butto il mozzicone della sigaretta a terra e la spengo con la
suola della scarpa da ginnastica.
“Scommetto invece che avresti fatto scalpore. Beh, comunque non vuol dire niente. Puoi sempre scegliere
all’università architettura o qualcosa che abbia a che vedere col disegno”.
“Certo! Direi che tu pensi al mio futuro più chiaramente di
quello che faccio io” rispondo ridendo.
“Forse perché dall’esterno le cose sono più facili da vedere
rispetto a te che ne sei direttamente coinvolto”.
125
“Forse…” rispondo colpito.
Un ragazzo con i capelli lunghi e una maglietta dei Led
Zeppelin entra nei bagni e io e Giulio ci chiudiamo immediatamente in un silenzio imbarazzato. Nessuno dei due si
muove per uscire. Lui si mette le mani ancora bagnate in
tasca e mi fissa per una frazione di secondo. Io arrossisco
senza motivo.
“Ok, io torno in classe adesso” dice e si gira dandomi le
spalle.
Io prendo dal pacchetto un’altra sigaretta e l’accendo.
Quando si gira i suoi occhi verdi mi guardano in uno strano modo che non so decifrare. Ho come la sensazione che
mi voglia chiedere qualcosa; rispondo allo sguardo con un
goffo segno della mano destra ancora chiusa intorno
all’accendino. Lui a quel punto si gira e va via.
Dal bagno proviene il rumore della pipì che colpisce
l’acqua del water con forza, poi quello di poche gocce che
cadono. Infine il ragazzo con i capelli lunghi esce dal bagno, chiude con un calcio la porta e si allontana senza lavarsi le mani. Uscendo sento che saluta qualcuno che sta
per entrare:
“Ciao Giada”
“Ehi ciao Led, come va?” risponde lei.
Giada entra in bagno con la sua naturale indifferenza al
fatto che questo sia il bagno degli uomini.
”Ehi 4D, dammi una sigaretta”.
Prendo la terza sigaretta della giornata dal pacchetto la
metto in bocca, l’accendo e gliela passo. Giada inspira il
fumo e poi lo espira dal naso.
“Ah, mi ci voleva proprio”.
“Che fine avevi fatto?” le chiedo.
“Ero in sala professori”.
“Non mi sembra che sia una buona notizia”.
“Stavo parlando del mio futuro” dice.
“E con chi?”.
“Con la prof di matematica e quella di italiano principalmente, ma c’erano anche il prof di filosofia e quella
di lingue”.
“Cosa ti hanno detto?” le chiedo curioso.
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“Mi hanno detto che la mia situazione è quella di una persona sull’orlo del precipizio. Un passo indietro e sono salva, uno avanti e sono nel baratro e devo ripetere l’anno.
Matematica e filosofia sono dalla mia, italiano e lingue
contro. Devo migliorare i voti in inglese e latino se voglio
essere ammessa all’esame di stato”.
“Io potrei aiutarti un po’ in inglese se ti va, ma il latino
non è il mio forte” propongo preoccupato. Per quanto mi
farebbe piacere avere Giada a scuola l’anno prossimo, ho
la certezza che se non venisse ammessa agli esami di stato
probabilmente non tornerebbe comunque più in classe.
“Non ti preoccupare 4D, tu hai il lavoro a cui pensare e poi
ho già reclutato chi mi aiuterà in inglese”.
“Chi?” chiedo.
“Damiano”.
La mia gola si prosciuga di botto. Il fumo mi va di traverso
e comincio a tossire. Giada sorride soddisfatta dell’effetto
causato. Quando finalmente riesco a respirare nuovamente
ho gli occhi pieni di lacrime e la vista un po’ annebbiata
per la tosse.
“Cos’hai detto al tuo amico per la storia del nome falso?”
mi chiede cambiando discorso.
“Niente ancora: non l’ho rivisto, per cui il problema non si
pone” rispondo alternando parole a colpi di tosse.
“Lo conosci bene?”.
I suoi occhi di ghiaccio perforano la mia corazza di dubbi
e bugie come se fosse fatta di burro. Una parte di me vorrebbe mantenere il silenzio e cambiare argomento come ho
imparato a fare di fronte alle domande di mia madre. Ma
un’altra parte vorrebbe parlarne apertamente, consapevole
che Giada è l’unica con la quale sarei in grado di farlo.
“Sì… ehm… beh… non lo so. Ci siamo visti qualche volta a casa sua. È un bel tipo, però non so se posso dire di
conoscerlo bene”.
“Ti piace?” mi chiede diretta.
Spengo la seconda sigaretta sul muro e butto il mozzicone
dalla finestra.
“Penso di sì. Non so… è tutto un po’ strano… ci sono tante cose che lui non sa di me”.
127
“Come il tuo nome... e forse la tua vera età?”.
“Già” dico fissando il pavimento.
“Se ha una casa sua non sarà certo un ragazzino immagino”.
“No, non lo è” le dico quasi sottovoce.
“Ė carino?” mi chiede e strizza l’occhio.
Io divento rosso e non rispondo, lei allora si avvicina e affonda col gomito nelle mie costole. Poi, quasi in un sussurro, mi chiede: “Più carino di Damiano?”.
Io sorrido con un’aria stupida e so che per Giada è una risposta più che eloquente. Entrambi allora cominciamo a
ridere scambiandoci una serie di sguardi complici.
Come chiamato all’appello Damiano entra in bagno con la
sua camminata sicura. Vede Giada poi me e perde parzialmente la concentrazione.
“Ehi Giada, ma ancora non hai imparato la differenza tra
uomo e donna?” le dice.
Io sono in stato di shock. Spero non abbia sentito la nostra
conversazione. Se lo ha fatto non sembra mostrarlo. Giada
lo guarda completamente a proprio agio, lascia che la domanda rimanga in sospeso abbastanza da dare un effetto
maggiore alla sua risposta:
“E tu Damiano? Sai quale è la differenza tra uomo e donna? Perché per saperla dovresti aver provato entrambi”.
Damiano la fissa incredulo: un attacco in pieno petto. Poi
sorride apparentemente calmo, scuotendo la testa. Gli occhi tradiscono la sua ricerca di una via di fuga, continua a
camminare e si chiude in bagno. Giada spegne la sigaretta
e io rimango in silenzio godendomi il fatto di non essere
l’unico bersaglio delle sue parole. Un minuto dopo Damiano esce e va a lavarsi le mani. Al suo polso fa bella
mostra un orologio digitale dal quadrante molto grande.
Segna chiaramente le undici e quindici minuti.
“Cazzo… oh merda” dico fissandolo.
Damiano si gira a guardarmi con aria interrogativa.
“Sono fregato, è tardissimo, devo andare”.
“Che succede?” mi chiede Giada.
“Ho la Jenkins, inglese. A dopo” e mi incammino veloce
verso il corridoio.
128
Alle mie spalle sento un: “In bocca al lupo”. È di Damiano. Sorrido e allungo il passo pronto a correre appena sarò
fuori dalla loro visuale.
Dieci secondi dopo apro la porta della classe tendendo il
viso ben puntato a terra in segno di lutto per quello che so
sta per succedere.
“Mr late-boy rimanga alla cattedra” mi dice la professoressa senza voltarsi a guardarmi. “Oggi ci parlerà di Coleridge and it’s better be good!”.
Sospiro abbattuto e mi affianco a Giovanni, anche lui interrogato alla cattedra. Quando vengo interpellato prendo
fiato e comincio a ripetere la lezione usando il mio migliore accento inglese. Il suo in bocca al lupo non ha funzionato. Forse mi sarei dovuto voltare per rispondere crepi o anche solo per guardare ancora una volta i suoi occhi di un
perfetto color nocciola.
129
7.
Mi capita spesso, quando una persona mi piace veramente,
di non essere in grado di descriverla fisicamente. Come se
le sue fattezze spariscano dai miei ricordi. Quello che invece ricordo chiaramente sono le sensazioni provate. La
bellezza dei suoi occhi. L’odore della sua pelle. Il calore
del suo abbraccio. Ma se dovessi mettere insieme tutte
queste cose per ricostruire come un puzzle la persona, non
ci riuscirei se non davanti ad un album da disegno.
Sono steso sul letto di nuovo tra le braccia di Luca. Ha gli
occhi chiusi e uno strano sorriso compiaciuto sulle labbra.
Guardo i suoi piedi e penso che sono veramente belli. Sono un po’ tozzi e con delle unghie più corte del normale.
Una vena corre dalla base della caviglia e finisce per formare un semicerchio che copre gran parte del dorso del
piede. Faccio scivolare le mie gambe e accarezzo i suoi
piedi con i miei. Lui emette uno strano rumore. Una specie
di "mmmm" prolungato che interpreto come
un’espressione di piacere.
Quando questo pomeriggio è passato a prendermi ero più
nervoso del solito. Lui è arrivato puntuale e mi aspettava
appoggiato sulla Punto rossa. Al mio arrivo mi ha abbracciato e mi ha aperto la portiera della macchina.
"Prego signorino” mi ha detto facendo un mezzo inchino.
Io ho sorriso e sono entrato. Ho messo nel suo lettore cd
una compilation che avevo preparato con delle canzoni che
volevo ascoltasse: Alanis Morrisette, Portishead, Smiths e,
tra le altre, due canzoni dei Depeche Mode. Luca mi ha
ringraziato del regalo con un bacio soffice sulle labbra.
Ha guidato tenendomi per mano e canticchiando alcune
delle canzoni che già conosceva. Arrivati davanti casa sua
siamo rimasti un po’ in macchina parcheggiati davanti
l’albero con metà arance e metà limoni a sentire il resto
del cd.
Organizzare il nostro incontro per giovedì non è stato
semplice. Lui ha preso il pomeriggio libero dal lavoro e io
sicuramente domani andrò a scuola quasi totalmente im130
preparato. Ma non c’era altra soluzione. Venerdì, sabato e
domenica lavoro in sauna. Ci saremmo potuti vedere sabato pomeriggio, che è l’unico giorno in cui inizio il mio turno alle 8 di sera e non alle 6, ma lui aveva un impegno di
lavoro al quale, mi ha detto, non poteva mancare.
Guardo l’orologio digitale sul comodino. Segna le sette di
sera. Fuori è già buio. Mi stringo più forte a lui sperando
che il tempo trascorra lentissimo nelle prossime ore. Luca
apre gli occhi e ci scambiamo un bacio.
“Che film hai affittato?” gli chiedo.
“Le fate ignoranti. Tu l’hai visto?”.
“Sì, ma lo rivedo volentieri”.
“Cosa vuoi mangiare? Ordiniamo una pizza?” mi domanda.
“Mmmm melanzane e olive nere per me… oppure no…
aspetta: crudo e mais”.
“Come fai a mangiare crudo e mais su una pizza?”.
“A me piace” dico e allungo il collo. Tocco con la mia
guancia la sua. La sua barba mi fa il solletico quando sfiora la mia pelle quasi liscia.
Lui scuote la testa lentamente e io sorrido.
“Hai fame adesso?” mi chiede.
“Sì, molta”.
Allora prende il cordless e ordina le pizze. Una bianca ai
quattro formaggi e una mais e crudo. Ci alziamo dal letto e
sistemiamo il tavolo di vetro di fronte al divano in modo
da poter cenare e vedere il film comodamente. Abbiamo
fatto la doccia insieme ed entrambi abbiamo ancora i capelli bagnati. Camminiamo per casa scalzi. Io indosso uno
dei suoi maglioni, mi sta largo e ho caldo perché è di puro
cashmere. La stanza è già di per se molto calda, ma non ho
alcuna intenzione di togliermelo. Combatto con i miei pensieri: so che devo chiarire il problema dell’età, del nome e
del lavoro in sauna, ma non so da dove iniziare. Un segreto
può essere accettato, ma tre? Mi accendo una sigaretta e
Luca si siede accanto a me. Mi passa una mano tra i capelli
e io incastro una gamba tra le sue. Lasciamo che il tempo
scorra lento. Quando l’orologio segna le otto passate si alza, prende dell’acqua e innaffia le piante del suo apparta131
mento.
“Hai il pollice verde?” gli chiedo.
“Sì, mi piace avere del verde in casa. Spezza la monotonia
del cemento”.
“Io non sono mai stato bravo con le piante. Un paio di anni fa ho messo del detersivo in un vaso per vedere se le foglie della pianta si sarebbero schiarite. Mia madre mi ha
fatto una predica di due ore sulla bellezza della natura e
sull’importanza della salvaguardia di animali e piante. Da
allora non mi sono più avvicinato ad una pianta”.
“Sono sicuro andrei molto d’accordo con tua madre. E non
toccare le mie piante” mi dice. Poi ride e aggiunge “Puoi
dar da mangiare ai pesci per favore?”.
“Certo. Sono bravissimo con gli animali. Mai aggiunto detersivo ad un acquario… anche se…. chissà quante bolle
farebbe” rispondo sarcastico.
“Ehi… da domani ogni volta che verrai qui tutti i detersivi
saranno messi sotto chiave” mi dice. Io sorrido e gli faccio
una linguaccia.
In un angolo del salone fa bella mostra un acquario dove ci
sono una decina di pesci di specie diverse. Una conchiglia
si apre ad intervalli regolari per fare uscire delle bolle
d’aria. Quando i pesci vedono che mi avvicino col mangime risalgono in superficie e aprono la bocca muta per la
loro cena di mosche tritate. In casa regna il silenzio. Un
silenzio che diventa quasi familiare come se stessimo dividendo un momento di quotidianità. So che devo parlargli e
ho paura.
“Luca…”
“Sì Damiano, che c’è?”.
Apro la bocca e il campanello suona quasi immediatamente. La pizza è arrivata. Sospiro. Lui va ad aprire la porta e
torna con due cartoni fumanti che appoggia sul tavolino di
vetro. Io prendo l’accendino dalla tasca e illumino le candele disposte sui candelabri in metallo vicino al divano.
“Cosa mi volevi dire?”.
“No niente, non importa” rispondo rosso in viso e vinto
dalle mie paure.
Luca spegne le luci e ci sediamo sul divano per mangiare e
132
guardare il film al lume di candela. Mi sdraio sopra di lui.
“Sei scomodo?” gli chiedo.
“No, sto benissimo”.
I nostri piedi scalzi si sfiorano. Se riprendessi il discorso
iniziato sono certo rovinerei la bellezza di questo momento. Prendo un pezzo di pizza dalla scatola e mi stendo di
nuovo su di lui. Luca mi abbraccia da dietro. Un chicco di
mais cade a terra e finisce sul tappeto persiano sotto il tavolo di vetro. Lo guardo cadere, ma non lo raccolgo. Per
farlo dovrei sciogliermi dal suo abbraccio e allontanarmi
dal suo odore. Di nuovo mi manca il coraggio.
La lezione di educazione fisica del sabato mattina è diventata per me un’ora di meritato riposo. Il giovedì mi presento puntualmente al campo di pallavolo per fingere di essere
interessato all’attività fisica, ma, da quando ho cominciato
a lavorare in sauna, il sabato lo passo sempre ai bordi del
campo. Indosso i miei occhiali scuri e riposo tentando di
recuperare un po’ del sonno perso. Naturalmente le previsioni di mia madre erano esatte. Il sabato e il lunedì sono
dei giorni terribili. Per combattere il sonno, la mattina ho
iniziato a bere caffè. Non potendolo prendere a casa, lo
prendo al bar di fronte alla scuola prima di entrare in classe. Lo ordino macchiato e aggiungo una quantità sproporzionata di zucchero. L’effetto non tarda a farsi sentire e
anche se non totalmente sveglio mi sento quanto meno
parte del genere umano. Il pomeriggio, poi, mi chiudo in
camera e dormo per almeno tre ore dopo pranzo, col risultato di passare il resto della giornata vagando per casa come uno zombie.
Oggi il professore di educazione fisica è assente per cui,
invece di nascondermi negli angoli più oscuri del campo,
mi cerco un bel posto al sole che in questi giorni di inizio
maggio sta diventando sempre più caldo. Mi metto gli occhiali scuri e allungo le gambe. Sento un brivido di piacere
che mi scivola lungo la schiena mentre i raggi mi riscaldano il volto. Come ogni sabato sono arrivato tardi e non ho
fatto in tempo a portare lo zainetto in classe. Lo apro e tiro
133
fuori il mio album da disegno. Ultimamente tra impegni
scolastici e lavoro ho sempre meno tempo da dedicare al
mio hobby. Le ultime cinque pagine dell’album sono piene
di piccoli disegni schizzati velocemente in sauna o tra una
lezione e l’altra. Decido di iniziare un nuovo foglio. Incrocio le gambe in posizione yoga e cerco la mia matita sottile
preferita. Metto una mano in tasca e ne tiro fuori il cellulare. Giovedì scorso ho fatto una foto all’albero davanti la
casa di Luca e voglio incorporarlo nel disegno.
Tratteggio con mano veloce le mura di una stanza, il pavimento e una finestra. Poi dispongo un divano, una libreria, un tavolo di vetro, la televisione, dei candelabri, le
piante e un acquario. Cambio matita e tratteggio le sagome
di due persone che guardano fuori dalla finestra verso
l’albero piantato dal padre di Luca. Cerco la proporzione
giusta per rendere le arance ben diverse dai limoni in forma e grandezza. Cancello diverse volte i frutti e li ridisegno fino a quando non sono soddisfatto del risultato.
Quindi comincio con calma a ritoccare i contorni degli oggetti aggiungendo giochi di ombre. Preferisco i disegni in
bianco e nero o a china che quelli a colori, ma per questo
decido di usare le matite colorate su alcuni dettagli. Coloro
le arance e i limoni, i pesci dell’acquario e il maglione di
cashmere azzurro. Faccio un puntino giallo sul tappeto sotto il tavolo in vetro. Dopo quarantacinque minuti di incessante lavoro lo allontano da me e lo guardo soddisfatto.
Sposto lo sguardo colpito da un corpo in movimento. Damiano si sta avvicinando dal campo di basket correndo
verso di me. Faccio finta di non vederlo. Ha giocato per
tutto il tempo a basket ed è grondante di sudore. Ciocche
di capelli lisci sono attaccati sulla fronte e il viso è rosso
per lo sforzo. Raggiunge di corsa il suo zaino che è poggiato vicino a dove sono seduto a disegnare. Lo apre e ne
tira fuori una maglietta a mezze maniche rossa. Si sfila
quella sudata che indossa e se la passa sul corpo. Ha un fisico statuario. I muscoli sono perfettamente scolpiti, i capezzoli sono rosa e turgidi per il sudore, i deltoidi sono rotondi e modellati. Ogni parte del corpo sembra essere stata
intagliata da uno scultore. Si gira verso di me. Si avvicina
134
e si piega facendo perno sulle ginocchia per vedere il disegno assumendo una posizione decisamente sexy. Sento
l’odore acre del sudore e il sapore dell’alito che esce veloce dalla sua bocca e si riversa attraverso il naso nel mio
corpo provocando ondate di emozioni e ormoni. Alzo la
testa fingendo di averlo visto in quel secondo. I nostri volti
sono pericolosamente vicini.
“L’hai fatto tu?” mi chiede.
“Sì, l’ho quasi finito” rispondo.
“Ė molto bello. Cos’è quel puntino giallo? Hai sbagliato?” dice indicando col dito il foglio appoggiato sulle
mie gambe.
“No. È un chicco di mais”
Lui mi fissa con aria interrogativa.
“Ė una storia lunga” gli dico stupendomi della mia capacità di fare il misterioso.
“Come vanno le tue lezioni di inglese con Giada?” gli
chiedo.
“Bene, bene. Quella ragazza è un po’ strana, però
s’impegna, devo ammettere. Siete molto amici?”.
“Sì. Beh, spero di sì. Forse sarà perché anch’io sono un
po’ strano”.
Lui apre la bocca per rispondere alla mia affermazione
provocatoria, ma un ragazzo della sua classe si avvicina a
noi. Pure lui si toglie la maglietta, la piega a metà e la infila nella parte posteriore dei jeans rimanendo a petto nudo.
Damiano si alza quasi di scatto e indossa la sua maglietta
asciutta. Si gira verso il nuovo arrivato e gli mette una mano sulla spalla.
“Che caldo del cazzo” gli dice e il tono della voce ha
un’inflessione ben diversa da quella usata con me.
“Sono sudato come un porco” risponde il ragazzo.
Damiano ride di una risata che mi sembra un po’ forzata. Il
ragazzo prende lo zaino e Damiano fa lo stesso mettendoselo in spalla e ignorandomi palesemente. Entrambi mi
danno le spalle e parlano passando in rassegna alcuni dettagli della partita. Poi lui si gira forse per salutarmi, ma io
non ci sono più. Mentre erano voltati mi sono alzato, ho
raccolto le mie cose e ho attraversato il campo passando
135
dalla parte opposta. Da qui lo posso vedere mentre si gira
prima in direzione della mia precedente postazione, poi
verso dove sono adesso. Gli faccio un cenno con due dita
sulla testa mimando un saluto militare. Se aveva qualche
dubbio ora di certo penserà che sono decisamente strano
anch’io. Essere strano è sempre meglio di essere uno sfigato, mi dico. Continuo a camminare facendo finta di non
pensare alla perfezione del suo corpo o all’erezione nei
pantaloni. Cerco di non analizzare quello che ci siamo appena detti, ma ogni parola è tatuata nella mia mente e so
che ci penserò mio malgrado tutto il giorno.
Quando alla fine delle lezioni rientro a casa mangio in fretta e mi chiudo in camera. Mi stendo sul letto e riapro il disegno fatto stamattina. Damiano scivola via dai miei pensieri. Ripenso agli ultimi incontri con Luca dopo la serata
della pizza. Chiudo gli occhi e riassaporo ogni momento
passato a casa sua. Ci vediamo molto spesso adesso, forse
siamo una coppia. Decido che la prossima volta gli dirò
tutto. Gli dirò che ho diciassette anni, che lavoro in una
sauna e che ho dato a Matteo un nome e un’età falsa. Perché non dire anche che vengo da Marte e che so leggere
nel pensiero? Non riesco a credere di essere finito in questo casino. Mi aggiusto il disegno davanti e ritocco con
una matita grossa gli ultimi dettagli del salone di casa sua.
Poi mi alzo dal letto e prendo dall’armadio il suo maglione
di cashmere e ne inalo l’odore intrappolato nel tessuto azzurro. Non ha voluto che me lo togliessi e l’ho tenuto forse
troppo a lungo. Glielo restituirò la prossima volta. A volte
ho paura di nascondere i miei veri sentimenti per Luca con
stupide fantasie su Damiano. Giro il disegno e trascrivo la
traduzione della canzone In your room dei Depeche Mode
sul retro del foglio. Ogni strofa mi ricorda un angolo della
casa di Luca.
136
Nella tua stanza
Nella tua stanza
dove il tempo resta immobile
O scorre a tuo piacimento
Farai sorgere il sole presto
O mi lascerai steso qui?
la tua oscurità preferita
la tua semi oscurità preferita
la tua coscienza preferita
il tuo schiavo preferito
Nella tua stanza
Dove le anime spariscono
Solo la tua esiste qui
Mi guiderai sulla tua poltrona
O mi lascerai steso qui?
La tua innocenza preferita
Il tuo premio preferito
Il tuo sorriso preferito
Il tuo schiavo preferito
Pendo dalle tue parole
Vivo del tuo respiro
Sento con la tua pelle
Starò per sempre qui?
Nella tua stanza
I tuoi occhi incandescenti
Provocano un’esplosione di fiamme
Lascerai il fuoco morire presto
O starò qui per sempre?
La tua passione preferita
Il tuo gioco preferito
Il tuo specchio preferito
137
Il tuo schiavo preferito
Pendo dalle tue parole
Vivo del tuo respiro
Sento con la tua pelle
Starò per sempre qui?
So la canzone a memoria e l’ho già tradotta diverse volte
mentalmente. Guardo per l’ultima volta il disegno e rileggo il testo. Poi chiudo il quaderno e lo metto da parte.
Prendo il cellulare e cerco il nome di Luca nella rubrica.
Compongo il numero e lascio squillare diverse volte. Lui
non risponde. Ieri l’ho chiamato due volte. Anche ieri non
mi ha risposto. L’orologio segna le tre e mezza. Non posso
togliermi dalla testa che lui abbia scoperto tutto: ogni mio
segreto messo a nudo e giudicato senza pietà e senza alcuna attenuante. Chiudo gli occhi e cerco di dormire perché
so che mi aspetta una lunga notte in sauna. Ma il sonno mi
è passato del tutto.
Quando il pomeriggio entro nel portone che immette in
sauna sono stanco per la giornata scolastica e sbadiglio ripetutamente per il sonno. Accosto la porta alle mie spalle e
il caldo mi inonda. Chiudo gli occhi un momento e mi lascio riscaldare. Mi sento rinvigorito. Questa sensazione
non mi è nuova. Entrare in una sauna è come entrare in un
altro mondo. Le regole del mondo esterno qui non valgono: la sauna è un microcosmo con leggi proprie. Qui preoccupazioni e ansie non sono ammesse, vengono lasciate
negli armadi insieme ai vestiti.
Apro lo zainetto e mi cambio. Matteo mi vede nello spogliatoio e mi saluta con un gesto rapido della mano. I suoi
occhi da bambino brillano riflettendo la luce a neon. Matteo non parla molto, ma è più calmo rispetto ai miei primi
giorni di lavoro, i suoi sorrisi si sono fatti più rilassati e
numerosi. La tensione delle prime settimane è passata. La
138
sauna è sempre piena di gente e gli affari vanno bene. Durante le prime due settimane di lavoro pure io ero in un
continuo stato di tensione. Stando alla cassa o al bar sono
più visibile di un semplice cliente della sauna e avevo paura che la gente cominciasse a riconoscermi per strada e
magari mi fermasse con frasi del tipo: “Come va il lavoro
in sauna?” .
Però un giorno parlandone con Manuel lui mi ha tranquillizzato.
“La maggior parte delle persone che viene in sauna non va
certo a raccontarlo” mi ha detto col suo accento ispanico.
“Quello che succede qui dentro, rimane qui dentro. Nessuno va in giro a dire sai oggi sono andato in sauna e mi sono fatto tre persone che non rivedrò mai più. Non è possibile!”.
Da allora sono molto più rilassato e per la maggior parte
del tempo riesco quasi a convincermi che questo è un lavoro come ogni altro. Ho imparato a distinguere i volti degli
habitué da quelli di persone di passaggio o semplici curiosi. Puoi distinguere i clienti dal loro livello di nervosismo,
dagli sguardi bassi o dal fatto che chi non si vuol far riconoscere entra, si spoglia e va diretto nel labirinto dove
resta fino a quando è soddisfatto. Poi fa una doccia e
sparisce.
Indosso la maglietta della sauna e vado dietro il bancone
del bar. Dispongo gli antipasti in bella mostra e riempio i
vassoi di arachidi e patatine. Finito tutto questo decido di
rilassarmi pure io. Afferro una rubrica dalla pila di giornali
e la sfoglio con calma. Un signore di mezza età si avvicina
al banco. Lo conosco bene. Arriva qui puntuale ogni sabato alle 9 e rimane fino a notte tarda. Ha una barba brizzolata e gli occhi color nocciola, un corpo atletico e un viso regolare.
“Mi fai un Martini?” mi chiede.
“Certo. Vuoi un’oliva?” dico posando il giornale.
“Sì grazie. Come vanno le cose? Hai visto bei ragazzi in
giro?” domanda come ogni sabato.
“È ancora un po’ presto, tra un paio d’ore sarà pieno” rispondo.
139
Ho imparato da Manuel diversi trucchi su come comportarmi con i clienti. Prima cosa: mai dare del lei. Li farebbe
sentire estranei o inadeguati. Il lei è abolito in sauna. Tutto
deve esser caldo e familiare, proprio come l’ambiente iper
riscaldato. Manuel è bravissimo con le persone. Ride con
loro e scambia battute più o meno sconce. Io sono molto
più riservato da questo punto di vista, però c’è un gruppo
di clienti che sembra preferisca chiedere da bere a me che
non a lui. Anche se magari Manuel è libero e li potrebbe
servire prima.
Manuel logicamente ha una sua teoria in riguardo:
“Ė perché tu hai un modo di fare gentile e delicato. Con te
la gente si sente rilassata” mi ha spiegato. “Ti vedono come il ragazzo con cui metter su famiglia. Da me vogliono
solo sesso, si sentono timidi con me. Claro no?”.
La rubrica del cellulare di Manuel è stracolma di numeri di
telefono dei suoi presunti amanti. Paragonato a lui sono un
novellino semi-vergine.
L’uomo si siede al bancone e beve il Martini con calma.
Un ragazzo si accomoda al tavolo più lontano dal bancone.
Guarda il megaschermo a cristalli liquidi posto vicino agli
aperitivi che è sintonizzato su MTV e di tanto in tanto sposta lo sguardo su di me. Non riesco a vederlo bene da questa distanza, ma ha decisamente un bel corpo. I nostri occhi si intrecciano diverse volte falsamente noncuranti. Perso nel gioco di sguardi non mi accorgo di Manuel che entra alle mie spalle.
“Ciao. Come va al bar?” dice e mi tocca con una mano il
sedere.
“Ehi…” gli dico rosso in volto. Ancora non mi sono abituato a suoi modi. Lui lo sa bene e ne approfitta per prendersi in continuazione gioco di me.
“Buongiornoooo” dice poi fissando il ragazzo seduto
all’ultimo tavolo. Lui se ne accorge e abbassa lo sguardo.
Manuel si gira verso di me e mi chiede con un tono da film
di spionaggio:
“Cosa sappiamo di lui?”.
“Niente. Non l’ho mai visto in giro” rispondo asciutto.
“Carino. Molto carino… ops e sembra che sia interessato
140
alla tua merce” dice notando l’ennesimo sguardo rivolto a
me. Io divento rosso. È innegabile che mi stia guardando,
ma Manuel certo non rende le cose semplici.
“Ok io vado a vedere se ha bisogno… di una mano” dice
con tono effeminato. Nel pronunciare mano passa alle mie
spalle e mi pizzica nuovamente il culo.
“Ohi…” dico e faccio un balzo in avanti saltando dalla
sedia. Il ragazzo vede la scena e ride. Io gli sorrido in
risposta.
Manuel fa tutta la strada sculettando vistosamente.
Nell’ultima settimana ha abrogato l’uso del pantalone e va
in giro indossando un costume nero attillato abbinato alla
maglietta nera con tridente dorato che indosso anch’io. La
sua è di almeno una taglia più piccola del dovuto, mi sembra impossibile che riesca a sfilarsela senza l’uso di una
forbice. Si piega sul tavolo del ragazzo e metà delle persone del bar si girano ad ammirare il suo posteriore che
riempie perfettamente il costume nero dandogli la forma di
un chicco di caffè.
“Ciao. Ti posso essere di aiuto in qualcosa?” gli chiede.
“No, grazie va bene così” risponde il ragazzo a disagio.
“Che peccato” risponde Manuel. “Non posso aiutarti proprio in niente?” Il suo accento spagnolo è più marcato che
mai.
Lo straniero scuote la testa un’altra volta e Manuel alza le
mani in segno di resa. Torna dietro il bancone e sancisce:
“Un timido. Che palle. Materiale per te. Forse in tre settimane ti dirà il suo nome e poi tra dieci anni avrete una casa con un giardino pieno di fiori, ma niente crisantemi.
Portano mala suerte. Margherite va bene oppure viole. Sì
le viole mi piacciono! Mi inviterete ogni domenica per il
tè. Io sarò solo e desolato, devastato e geloso della vostra
felicità. Voi adotterete tre bambini. Una volta adulti ci
penserò io a prendermi cura di loro. Ma solo maschietti,
niente donne” mentre parla agita le mani a più non posso.
Poi appoggia entrambi i gomiti sul bancone e mette la testa
sulle mani lasciandosi andare ad un sospiro sognante: ”Aaaaahhh”
Io sorrido e gli dico: “Beh hai scordato il cane stavolta”.
141
“Niente cane. Lui palesemente non ama i cani . Forse un
gatto”.
Il ragazzo alza lo sguardo nella mia direzione. Manuel gli
fa un saluto con la mano. Lui abbassa lo sguardo e dopo
due minuti si alza e se ne va.
“Scusa. Mi sa che te l’ho spaventato. Che timido o sono
io? Sono così brutto oggi? Devo controllarmi al bagno torno subito” e scompare dietro la tenda dove ci sono le cucine e un bagno privato.
Torna dopo dieci minuti insieme a Matteo parlando di un
problema in una delle sale. Sembra che il proiettore della
sala cinema al terzo piano non funzioni e qualcuno deve
salire a controllare.
“Puoi andare a vedere cosa è successo?” mi dice Matteo.
“Queste sono le chiavi della stanzetta dove c’è il proiettore. Se non ci capisci niente torna e ci salgo io”.
“Ok. Vado” dico e salto giù dallo sgabello.
Prendo le chiavi e salgo al terzo piano. Mantenere uno stato di calma tra le mura del labirinto è impossibile. Sospiri
e rumori di corpi che scivolano l’uno sull’altro risuonano
insistenti. Cerco di ignorare il sentore di sesso che circola
tra le mura del corridoio. Attraverso il labirinto ed entro in
quella che Manuel chiama la sala pornografica. In fondo
alla sala sulla sinistra c’è, ben nascosta, la porta della stanza dove si trova il proiettore. Ci entro. Mi guardo un po’
intorno cercando di capire il guasto. Spengo e accendo il
proiettore. Magicamente il film riparte. Sono un genio!
Sullo schermo due uomini si stanno spogliando strappandosi i vestiti l’un l’altro. Sono in campagna o in uno studio
cinematografico allestito a campagna. Entrambi hanno un
corpo da sogno, palestrato e completamente glabro. Esco e
mi chiudo la porta alle spalle. Meglio andare prima che i
miei ormoni si risveglino. Chiudo la porta e mi giro per
tornare al lavoro in bar. Davanti a me, come dal nulla,
compare il ragazzo misterioso. Sorride compiaciuto
dell’incontro inaspettato pure per lui. Da vicino è ancora
più bello. Avrà venticinque anni. I capelli sono nerissimi e
ondulati, il corpo è forte. Ha una muscolatura definita e
due occhi nocciola mi fissano con avidità e desiderio. La
142
sua erezione è evidente sotto l’asciugamano che gli cinge i
fianchi. Sorride e io sorrido di conseguenza. Con una mano sfiora veloce il mio addome piatto. Una frazione di secondo è quanto basta per sfondare la mia barriera ormonale. Poi lascia scivolare la mano dallo stomaco sulla mia
mano. La stringe e mi tira dentro la darkroom. La mia ultima esperienza in darkroom è stata un paio di settimane
fa, quando nella prima visita alla sauna l’ho attraversata e
ne sono uscito quasi senza pantaloni. Ogni sera io e Manuel dobbiamo pulirla, ma facendolo alla luce non ho mai
prestato particolare attenzione alla sua struttura. So che ha
una forma simile a quella del labirinto. Anche qui ci sono
delle stanze dentro le quali ci si può chiudere, ma non sarei
in grado di trovarle. Stringo la mano dello straniero nella
mia, ma faccio resistenza ad entrare. Lui si gira e mi bacia.
Il bacio sa di sigaretta e coca cola. Le labbra sono morbide
e soffici. Mi lascio andare. Questo incoraggiamento è più
di quello che avevo bisogno per farmi convincere. Lui mi
porta dentro. Nuovamente sono sopraffatto dal buio e la
mia erezione diminuisce notevolmente. Lo straniero riesce
a muoversi bene e mi fa entrare in una delle stanzette. Dopo essere a sua volta entrato chiude la porta di legno alle
sue spalle. I miei occhi ci mettono pochi secondi ad abituarsi al buio e riesco a riconoscere i suoi lineamenti. Si
toglie l’asciugamano e mi sbottona i pantaloni. Il mio pene
nuovamente eretto è di fronte al suo, alla stessa altezza. Li
spingiamo uno contro l’altro come se fossero le nostri armi
di battaglia. Lui mi dà un bacio quasi casto poi scende e
poggia la bocca sul mio pene. Sospiro e metto la mano sulla sua testa. Spingo sulla nuca dandogli il ritmo voluto. Lui
si lascia guidare ubbidiente e capace. Stimola con la lingua
ogni nervo fermandosi diverse volte per baciare la punta
del mio sesso. Riconoscente ricambio il favore e mi inginocchio ai suoi piedi. Le mie mani si stringono intorno al
suo bacino sudato per lo sforzo e il piacere. Il suo sesso sa
del bagnoschiuma col quale riempiamo i dispensatori delle
docce. Quando mi fa segno mi alzo e ci mettiamo uno accanto all’altro. Ci scambiamo un bacio mentre ci masturbiamo a vicenda fino a quando i nostri corpi si contraggo143
no in spasimi di piacere e sento il suo seme che scende
caldo sulla mia mano. Ci puliamo in silenzio e ci allontaniamo in direzione opposta. Non ha senso fare conversazione. Lo vedo mentre si allontana e lascia cadere della
carta sporca di sperma a terra. Io o Manuel lo raccoglieremo più tardi. Mi ricompongo e scendo le scale. Merda, non
gli ho neanche chiesto se gli piacciono i gatti!
Il mattino dopo vengo svegliato dall’odore del caffè. Mio
padre entra in stanza con dei toast e una tazza di caffè latte. Addento un toast e bevo un po’ del latte fumante. Prendo il cellulare e chiamo Giada.
“Ok 4D cerca di spiegarmi chiaramente. Quindi questo tipo che frequenti, se così si può dire, e che ti piace da morire non ti telefona più e tu hai paura che abbia scoperto che
Mattia o Damiano, o Gertrude per quello che ne so, non
sono il tuo vero nome. Inoltre ieri sei stato con un altro ragazzo? E questo come dovrebbe aiutarti a risolvere il problema con Luca? Scusami ma non capisco”.
Come al solito Giada ha una chiara visione di quello che è
successo. Questo non fa certo diminuire la confusione nella mia testa. Esco da sotto le coperte e stringo il cellulare
tra le mani incerto su come rispondere.
“Non lo so Giada. Non so perché l’ho fatto. Ero arrabbiato
con Luca o forse avevo solo voglia che lui non mi piacesse
tanto. Come faccio a dirgli che gli ho sempre mentito?”.
”Beh puoi dirglielo così come lo stai dicendo a me. Digli
che ti dispiace e che vuoi un’altra possibilità”.
“Non è cosi facile!”.
“Sì, ma non hai altra scelta”.
“Lo so”.
“Inoltre, se è vero che lui ha scoperto tutto in ogni caso,
tanto vale che sappia la tua versione dei fatti. Forse sapendo la verità, sarà più facile per voi riprovare”.
“Forse hai ragione” dico e mi sento più sollevato.
Mi siedo sul letto e affronto il secondo motivo della mia
chiamata.
“Comunque senti, ieri pomeriggio sono passato dal ragaz144
zo dei motorini e gli ho dato i soldi per la tua forcella, per
cui quando vuoi puoi portargli la moto”.
“Ehi... non so che dire” risponde chiaramente emozionata.
“Beh allora non dire niente”.
“Grazie. Te li restituirò”.
“Lo so. Tanto per iniziare potresti ripagarmi con un giro in
moto sulle colline appena la moto sarà aggiustata” le dico.
“Promesso”.
Nella sua voce c’è un’euforia contagiosa, sorrido e penso
che forse tutto si aggiusterà. Questo pensiero dura soltanto
un attimo e poi vola via.
145
8.
L’unica cosa che non mi piace del lavoro in sauna sono le
pulizie. Per mantenere l’ambiente il più igienico possibile
io e Manuel dobbiamo fare un giro completo di tutti i piani
ogni due ore. I primi due piani non comportano grandi
problemi, ma pulire il labirinto al terzo piano è veramente
orribile. Io e Manuel ci contendiamo spesso questo onore
giocando a quello che abbiamo battezzato come “la morra
cinese inversa”. Il gioco consiste in una normalissima morra cinese: carta, sasso o forbice. La differenza è che chi dei
due totalizza più vittorie è quello che poi deve pulire il terzo piano, cioè quello che perde. Da cui il nome morra inversa. Per addolcire la pillola chi non deve fare le pulizie
prepara alla sventurato uno spuntino coi fiocchi in cucina.
Inoltre dovendo ripetere il rituale della pulizia diverse volte in una serata, abbiamo iniziato anche a fare a gara a chi
trova più profilattici usati nelle stanzette.
Scendo dal terzo piano, dopo aver completato la ronda di
pulizie, entro in cucina e cammino verso la lavagna dove
solitamente il cuoco scrive gli ingredienti per la spesa del
giorno dopo. In un angolo in basso c’è il punteggioprofilattico di oggi. Cancello il 7 a 5 in favore di Manuel e
sostituisco il mio 5 con un bel 12. Accompagno il tutto con
uno yuppieee di falsa gioia.
“Lo sai che pure io oggi smonto alle due?” dice Manuel.
“Yuppieee” ripeto per con lo stesso tono di prima cercando
di provocarlo.
Addento il panino alle melanzane che mi ha preparato e gli
chiedo: ”Come mai?”.
Manuel si gira per essere sicuro che Matteo non sia nei paraggi:
“Ok, la scusa ufficiale è che ho mal di stomaco. La realtà è
che questo mal di stomaco era stato previsto da due settimane, cioè da quando mi hanno invitato all’apertura del
nuovo bar gay della città. Sarà una festa privata. Il locale si
chiama The Ribbon ed è a meno di un chilometro da qui” .
“Matteo non sarà contento della concorrenza” gli dico.
146
“Ma scherzi? Dove credi che finiranno tutti quei bei ragazzi dai corpi caldi quando il bar chiuderà ogni sera? Proprio
qui in sauna”.
“Perché non vieni con me alla festa?” mi chiede poi.
“Ma hai appena detto che è una festa privata”.
“Sì, ma io sono nella lista e posso portare un guest” mi
guarda, strizza l’occhio e aggiunge: ”vuoi essere il mio
guest?”.
“Non è che poi lì c’è uno dei tuoi amanti che mi uccide
appena ci vede insieme?” dico sarcastico.
“Non ti preoccupare. Dovrebbe prima passare sul mio corpo... e ti garantisco ci metterebbe un bel po’…” dice e si
dà una pacca sul sedere.
Sorrido: “Va bene, allora sarò il tuo guest”.
“Yuppiee!” dice lui imitando perfettamente la mia voce,
poi mi passa dietro e mi pizzica il sedere.
“Ehi” gli intimo puntandogli un dito contro.
Ma Manuel non mi degna di una scusa e continua a camminare.
In fondo forse è una buona idea andare ad una festa. Mi
aiuterà a non pensare a quello che succederà lunedì sera
quando mi vedrò con Luca. Infatti dopo aver guardato ininterrottamente il display del mio cellulare aspettando la
sua chiamata e dopo avere provato infinite volte il perfetto
funzionamento del telefonino, giovedì ho ricevuto un messaggio di risposta. “Ciao. Scusa se non ho risposto alle tue
chiamate, ero in Germania per lavoro e ho scordato il cellulare in Italia. Sono tornato solo l’altro ieri. Lunedì pomeriggio sono libero. Ti va di vederci? Dobbiamo parlare.
Luca”.
Dopo un’accurata analisi del testo ho trovato almeno sette
cose che non vanno in questo messaggio:
1)Ha volutamente omesso il mio nome falso (Damiano);
chiaro riferimento al fatto che sa tutto.
2) Se è vero che è tornato l’altro ieri perché non si è fatto
vivo prima?
3) Come si fa a partire scordando il cellulare a casa?
4) Perché mi ha mandato un sms e non mi ha chiamato?
5) e 6) “Dobbiamo parlare” merita due punti perché è pro147
vocatorio e accusatorio contemporaneamente!
7) Tutti gli altri sms che mi ha mandato finivano sempre
con un bacio, invece questa volta c’è solo un freddo Luca.
Che fine ha fatto il mio bacio? Merda!
Ho riletto il messaggio circa venti volte. Dieci delle quali a
Giada. Alla decima volta Giada ha cercato di strapparmi il
cellulare a forza e buttarlo nel bagno e ha minacciato di
farmi fare la stessa fine se non la smettevo di torturarla.
Non mi resta che aspettare e cercare di non pensarci. Andare in un bar e bere mi sembra un’ottima soluzione per
cercare di diluire i miei pensieri con un po’ di alcool.
Manuel diventa più impaziente ogni ora che passa. Stargli
vicino al bar mi innervosisce. Guarda l’orologio ogni trenta secondi e quando non lo guarda mi chiede l’ora. Alla
fine quando la lavagna segna un punteggio finale di 21
profilattici a 18 per Manuel, l’orologio si porta lentamente
sull’una e quarantacinque. Manuel mi afferra per mano e
grida:
“Bastaaaa! Io me ne vado. Sono stufo di questo stupido
orologio”.
Afferra una bottiglia di birra che ha appena aperto e invece
di darla a un cliente la beve tutta di un sorso. Si pulisce
con una mano la bocca e mi trascina negli spogliatoi. Ha
deciso che il lavoro per oggi è finito, Matteo lascia correre
e prende il nostro posto per servire al bar. Sa che Manuel è
un po’ euforico, ma i clienti lo adorano e anche Matteo gli
vuole bene. Mi tolgo la maglietta con il tridente e dopo
una doccia rapida indosso i jeans e un maglione leggero
nero.
Manuel mi guarda e sancisce:
“No, no, no! Non puoi venire cosi!” con un accento ispanico marcatissimo per evidenziare il suo disappunto.
Apre il suo armadietto. È incredibile come uno spazio così
piccolo possa contenere così tante magliette! Sembra il distaccamento di un negozio. Passa in rassegna diverse opzioni. Poi soddisfatto mi allunga una maglietta blu a maniche lunghe con un disegno tribale sul braccio destro. Gli
148
faccio notare che probabilmente la maglietta mi starà piccola perché lui è più basso di me.
Lui mi guarda simulando la faccia di comprensione che si
usa con i bambini o con le persone prive di cervello:
“Lo so tesoro, infatti non è mia la maglietta è di... un
amico”.
“Oh... e scusa: il tuo amico l’ha lavata?” gli chiedo dubbioso prendendo la maglietta.
“Certo!” dice impaziente. “E poi comunque gliel’ho tolta
prima che avesse il tempo di sporcarla”.
Decido che è meglio non fare altre domande, la indosso e
infatti è della mia taglia. Prendo del gel e cerco di dare una
sistemata ai capelli.
“Andale” grida Manuel imperativo e due secondi dopo
siamo in strada.
Manuel cammina con passo veloce. Cammina in maniera
perfettamente studiata. Non guarda le persone che gli passano accanto, non si gira se qualche bel ragazzo lo osserva
eppure nella sua non curanza vede tutto e tutti. Accendo
una sigaretta e lascio che Manuel parli per tutto il tragitto
fino alla porta di ingresso del Ribbon.
La fila davanti al locale è lunghissima. Ci sono due code
ognuna delle quali conta almeno trenta ragazzi. Manuel mi
tira per mano e scivoliamo tra le due file. Su di noi ci sono
almeno cento occhi puntati pronti ad ucciderci. Io sono
rosso dalla testa ai piedi per l’imbarazzo, Manuel è logicamente indifferente e quasi divertito della confusione
provocata. Quando arriviamo davanti al buttafuori dice:
“Ciao Giordy. Eccomi: Manuel e guest!” e mi indica con
la mano.
Il buttafuori sorride e gli apre la porta. Il suo contatto per
entrare alla festa privata è svelato: il buttafuori. Anche io
conosco Giordy. Lui e Manuel hanno un appuntamento
fisso al terzo piano della sauna ogni domenica sera. Gli
passo accanto e lo saluto. Lui sorride imbarazzato, quasi
quanto me. Poi si sposta e ci lascia entrare.
Al suo interno, il Ribbon è un locale molto accogliente. È
diviso in quattro aree. C’è il bancone del bar che occupa
gran parte di una parete, di fronte al bar ci sono diversi ta149
voli rialzati con affianco degli sgabelli con cuscini bianchi.
Poi c’è l’area divanetti che circonda una piccola pista da
ballo e una zona un po’ più appartata con dei tavolini e dei
puff bianchi sui quali sedersi e guardarsi alla luce delle
candele blu che ornano i tavoli. Al bancone lavorano cinque baristi, due dei quali decisamente carini. Tutti e cinque
indossano una maglietta bianca stretch con disegnato al
centro un fiocco rosso.
Il locale è pieno di persone. Mi guardo intorno e perdo di
vista Manuel che ricompare dopo dieci minuti con due
bicchieri in mano.
“Regalo della casa!” grida cercando di sovrastare il rumore
delle voci e della musica. Prendo il mio bicchiere e brindiamo.
Il deejay mette Music di Madonna e la pista da ballo si
riempie in due secondi lasciando più spazio libero tra il
bancone e i tavoli. Sorseggio la bevanda marrone che mi
ha portato Manuel. È un cuba libre con ben poca coca cola.
Manuel è seduto su uno degli sgabelli del bancone e ha attaccato bottone con il ragazzo vicino a lui. Io mi guardo in
giro. Un ragazzo in camicia nera mi sta fissando dall’altra
parte del locale e io sostengo il suo sguardo. Mima con la
bocca i versi della canzone di Madonna e di tanto in tanto
mostra il suo bel sorriso. Si alza dal tavolo e continua a
fissarmi. Io sono più che contento dell’attenzione che mi
riserva, ma proprio non sono in vena di parlare. Abbasso
lo sguardo e quando lo rialzo per vedere dove sta andando,
intravedo un altro tavolo alle sue spalle. Seduto su uno dei
puff bianchi c’è un ragazzo con un berretto. Sotto il berretto Giulio! Non ci credo! Mi alzo di botto in preda al panico, rovescio parte del cuba libre a terra e parte sulle mie
scarpe.
“Merda” impreco stavolta ad alta voce. Tiro la manica del
giubbotto di Manuel che si gira infastidito.
“Che c’è?” grida.
“Manuel ci vediamo domani io devo andare”.
“Ma perché?” mi chiede, ma la sua domanda arriva troppo
tardi. Sto già camminando in direzione dell’uscita. Non
voglio che Giulio mi veda. Non mi vergogno di essere gay,
150
solo non voglio che la voce faccia il giro di tutta la scuola
e arrivi ai miei genitori. Loro poi potrebbero scoprire che
lavoro in una sauna e mi manderebbero a finire gli studi in
un collegio svizzero! Un collegio svizzero per sole donne!
Manuel mi corre dietro e mi afferra da dietro.
“Ehi va tutto bene?”.
“Sì. Sono solo stanco, preferisco andare” dico. Il tono della mia voce è più alto di quanto non voglia.
“Ok allora…” mi dice poco convinto.
In quel momento Giulio si gira nella nostra direzione. Mi
avrà visto? Manuel mi stampa un bacio sulla guancia prima che mi possa scostare, poi si gira e torna verso il bancone. Sulla sua maglietta fa bella mostra la scritta “Nobody
knows I’m gay!”. Vedo chiaramente Giulio che si gira verso Manuel squadrandolo e poi sta per voltarsi nuovamente
verso di me. Io cerco di mimetizzarmi tra la folla e imbocco l’uscita di volata. Spero di cuore che non abbia fatto in
tempo a vedermi. Perché Giulio era nel locale?
Quando domenica pomeriggio arrivo a casa di Giada sono
ancora in pieno panico. Scendo le scale e busso alla porta.
Giada viene ad aprirmi con in mano una sigaretta.
“Ciao 4D. Entra”.
“Che week-end del cazzo!” esordisco.
Ma Giada non è sola.
“Conosci già Damiano vero?” mi dice sarcastica.
“Oh… ehm… sì. Ciao come va?” dico. La mia bocca è
spalancata dalla sorpresa. La gola secca.
“Bene. Stavamo facendo lezione di inglese. “ risponde lui.
Non volendo lo squadro dalla testa ai piedi. Si è tolto le
scarpe e ha un paio di calzini neri. È seduto sul divano.
Non l’avevo mai visto prima fuori dalle mura scolastiche.
Vederlo qui a casa di Giada mi dà l’impressione che pure
lui appartenga al genere umano e non sia solo quel ragazzo
che ho imparato ad ammirare da lontano durante le ore di
educazione fisica o gli sporadici incontri nei corridoi. Il
divano sul quale è seduto è piuttosto piccolo. Due persone
entrerebbero a mala pena. Indeciso opto per sedermi a ter151
ra. Mi accovaccio vicino al tavolo. Damiano allunga le
gambe e i nostri piedi sono a dieci centimetri scarsi gli uni
dagli altri. Non so perché, ma questa vicinanza mi eccita e
so di stare arrossendo. Mi pento di non aver scelto i miei
vestiti più accuratamente.
“Come va la studentessa?” chiedo cercando di reprimere le
vampate di calore che risalgono verso il viso.
“Bene, bene. Certo studiasse di più le poesie
dell’Ottocento inglese invece di sapere a memoria tutti i
testi dei Cure, sarebbe meglio” dice.
Giada si avvicina e gli dà un colpetto in testa. Forse tra loro due c’è qualcosa? Ma l’espressione imbarazzata di Damiano conferma che questa ipotesi è impossibile.
Cerco con poco successo di non guardare Damiano negli
occhi per la paura di non essere più in grado di mettere insieme pensieri coerenti. Ogni volta che mi fissa con i suoi
occhi color nocciola il mio cuore smette di battere.
“Hai fatto tu quel quadro?” mi chiede mentre Giada spegne la sigaretta in un bicchiere.
Mi giro a guardare il punto che indica con il dito. Giada ha
appeso sul letto il ritratto che le ho fatto il giorno in cui
suo padre ha messo a soqquadro la casa e quasi distrutto la
sua moto. È l’unica persona alla quale abbia mai regalato
uno dei miei disegni.
“Sì” rispondo sempre più imbarazzato.
“Sei proprio bravo. Hai mai pensato di iscriverti ad architettura una volta diplomato?”.
“No, ancora non ci ho pensato”.
“Beh, il signorino qui presente un giorno sarà un architetto
di successo esattamente come suo padre” interviene Giada
indicando Damiano.
Io cerco di fermare il corso dei miei pensieri. Mi ha appena
chiesto se andrò nella sua stessa facoltà? Oh cavolo!
“Va bene, è meglio che vada” dice Damiano: “ho
l’allenamento di calcetto tra venti minuti e devo attraversare la città”.
Si alza e i nostri piedi inevitabilmente si allontanano. Spero che la mia faccia non esprima il mio disappunto.
Si infila le scarpe piegandosi e dalla mia postazione intra152
vedo chiaramente la striscia nera e bianca delle sue mutande Calvin Klein. Raccoglie la sacca sportiva e saluta Giada. Lei gli stampa un bacio sulla guancia e mi strizza
l’occhio mentre lo bacia. Poi Damiano si avvicina a me,
che sono ancora seduto a terra. Si abbassa e sento il sangue
salire alla testa. Lo devo baciare sulla guancia? Gli devo
dare la mano? Nel dubbio mi alzo facendo un movimento
decisamente poco coordinato che include un avvicinamento da bacio e una mano protesa per la stretta. Lui prende la
mano e me la stringe. Cavolo!
Giada gli apre la porta e lui esce. Fisso l’apertura che si fa
sempre più piccola e poco prima che si chiuda Damiano
saluta nuovamente e strizza un occhio dritto nella mia direzione. Preso alla sprovvista smetto quasi di respirare.
“Vuoi una canna?” mi chiede Giada non appena la porta si
è chiusa.
“Sì. Penso di averne bisogno” dico sospirando.
Si avvicina al lettore cd e mette Nevermind dei Nirvana.
Poi comincia svuotare una sigaretta sul tavolo, mi dà
dell’hashish da sbriciolare e le cartine. Io non sono bravo
quanto lei e ci impiego un bel po’ per dare alla cartina la
tipica forma a cono.
“Allora cosa è successo ieri sera?” mi chiede.
“Dopo il lavoro sono andato con un mio amico al Ribbon.
Un nuovo locale che hanno aperto”.
“Sì. ne ho sentito parlare” m’interrompe: “è un locale gayfriendly”.
“Infatti. Comunque siamo entrati alla festa di apertura e
dentro il locale c’era Giulio”.
“Giulio della 4F?” mi chiede.
“Proprio lui!” .
“E cosa ti ha detto?”.
“Niente, appena l’ho visto sono scappato”.
“Sei scappato? Che mammoletta!” dice lei e mi spinge con
una mano.
“Beh non sapevo che fare. Ero con questo mio amico chiaramente gay e penso che lui lo abbia visto e probabilmente
abbia visto pure me. Sicuramente penserà che sono gay”
“Ok 4D. Voglio dirti una cosa che ti cambierà la vita: tu
153
sei gay!” mi dice divertita.
“Grazie per l’illuminazione Einstein! Quello che voglio
dire è che magari lo dirà a scuola e i miei genitori lo verranno a sapere. Non penso di essere pronto a fare un coming out su scala planetaria”.
Finisco di mettere insieme la canna e con le dita chiudo la
cartina. Poi prendo l’accendino a forma di teschio e
l’accendo. Riesco a fare due tiri prima che Giada riprenda
a parlare.
“OK. Punto primo sei un paranoico del cazzo. E comunque
se Giulio era nel locale magari anche lui è gay”.
“Tu pensi?”.
“Non lo so, non ci ho mai parlato. Sei tu quello che lo conosce e che dovrebbe avere il gay-da!”.
“Il gay-da?” chiedo confuso.
“Sì. la capacità di riconoscere gli altri gay. Senti, lasciamo
stare il tuo gay-da che non mi sembra sia ancora attivo.
Secondo me ti stai facendo un po’ troppe paranoie. Vedrai
che non ti ha visto”.
“Forse” rispondo e il suono della mia voce deve sembrare
più convincente di quello che vorrei. Infatti Giada decide
di non continuare sull’argomento. Ma so che la mia convinzione è solo temporanea e parzialmente attribuibile
all’effetto calmante della canna sui miei nervi scossi.
Lunedì arriva veloce e inaspettato come un’influenza estiva. Sono appoggiato a un palo e aspetto che una Punto rossa sbuchi da dietro l’angolo con il suo carico di cattive notizie. Accendo una sigaretta e lascio che il fumo entri nel
mio organismo ed esca fuori dalla bocca grigio e pesante
di ansie e tensioni. Appena l’auto gira l’angolo butto via la
cicca quasi intatta e prendo una gomma. La mastico con
rabbia e il sapore della menta prende il posto di quello della nicotina.
“Ciao Damiano” dice Luca come se non sapesse che non è
il mio nome.
“Ciao Luca come va?” rispondo salendo in macchina e lasciando cadere il suo maglione sul sedile posteriore. Lui
154
forse non l’ha notato e non dice niente in proposito. La
mia voce non trema, ma mi gira la testa e sono contento di
potermi sedere. Voglio solo che stasera arrivi velocemente
e che questo incontro segua il corso che deve seguire.
“Ti va di prendere qualcosa da bere?” chiede.
“Sì certo” rispondo asciutto.
Tra noi c’è un silenzio imbarazzante riempito dalla musica
della radio. Per la prima volta da quando lo conosco non
mi tiene la mano mentre guida. La mia mano giace sudata
e malinconica sul pantalone.
“Come è andata in Germania?” chiedo. La sua risposta in
realtà non mi interessa e non è questo quello che gli vorrei
dire. Gli vorrei chiedere scusa e sapere se c’è ancora una
possibilità per noi. Per lui e me. Il vero me intendo: il ragazzo che va ai superiori e lavora in una sauna e che ha
ancora paura delle interrogazioni del giorno dopo.
“Bene” risponde. “Ho rivisto un vecchio amico e ho anche
lavorato parecchio”
Mi porta nello stesso bar dove mi aveva portato la prima
volta che ci siamo incontrati. Scegliamo uno dei tavoli barocchi e ordiniamo due tè. Vorrei fargli una battuta sul “tè”
del messaggio di tempo fa, ma quel momento sembra ormai cementato nel passato.
“Damiano, non so come dirtelo” esordisce dopo un po’. Il
mio cuore smette di battere. Ci siamo!
“Ma quello che ti ho scritto nel messaggio è solo parzialmente vero. In Germania non sono andato solo per lavoro.
Ho anche rivisto il mio ex ragazzo. Lui vive lì”.
Lo guardo con aria interrogativa. Cerco di capire la connessione tra il suo ex e il fatto che lui ha scoperto le mie
bugie, ma penso di avere perso un passaggio. Poi lui ricomincia a parlare e quello che dice mi colpisce come un
fulmine a ciel sereno.
“Lui mi ha chiesto di tornare insieme” dice e abbassa lo
sguardo.
La gola mi si chiude. Non era quello che mi aspettavo e
non so che dire. Luca allora non ha idea del nome falso,
non sa niente di niente! Tutto questo non ha a che fare con
noi due, ma con loro due!
155
“Ah” dico soltanto. Prendo la tazza di tè fumante con entrambe le mani e ne bevo un sorso per calmarmi. Cerco di
digerire le parole. Il tè è troppo caldo e una lingua di fuoco mi scende giù fino allo stomaco. Faccio una smorfia di
dolore.
“Io non mi considero il tipo di persona che gioca con i sentimenti altrui...” dice quando vede che non rispondo “…
Mi piaci veramente e sono stato bene con te, ma penso di
volergli dare un’altra possibilità”.
“L’ultima volta che ci siamo incontrati sapevi che lo avresti rivisto in Germania?” gli chiedo con gli occhi puntati
sul tè fumante.
“Sì. Ma non pensavo che... Senti Damiano, diciamo che
non è stata una mia scelta finire la nostra relazione. È lui
che mi ha lasciato. Io non ho mai smesso di... Io tenevo
ancora a lui” conclude cercando di non ferirmi dicendomi
che non ha mai smesso di amarlo. Neanche quando mi
stringeva a letto tra le sue braccia.
“Capisco” rispondo. Le mie gambe fremono come se volessero staccarsi dal corpo e scappare via dal bar di corsa.
“Mi ha chiesto di vivere con lui in Germania e ho accettato”.
Silenzio.
“E il tuo lavoro?” gli chiedo dopo un po’, anche se quello
che vorrei chiedergli è: “E io? E noi?”.
“Il mio lavoro non è un problema. La mia ditta ha sedi anche in Germania. Posso chiedere facilmente un trasferimento”.
Prendo il cucchiaino e lo uso per girare il tè. Un piccolo
vortice di liquido scuro si forma nella tazza, lo stesso vortice che turbina nella mia testa.
“Beh … penso che ognuno di noi abbia tenuto nascosti
troppi segreti. Forse è giusto così” dico. Ma è solo la mia
testa a suggerire queste parole. Il mio cuore resta muto.
Lui appoggia una mano sulla mia e io alzo lo sguardo. Le
sue labbra non si poggeranno mai più sulle mie e io non
riuscirò mai più ad entrare in questo bar senza rivivere
questo momento. Finito il tè usciamo dal bar. Fuori piove.
Luca mi da un bacio sulla guancia e mi chiede se voglio
156
essere accompagnato a casa, ma io preferisco camminare.
Gli do le spalle e lui scompare sul suo cavallo rosso. Avrei
potuto dirgli di me e dei miei segreti, ma cosa sarebbe
cambiato? È meglio così, mi dico! Ma se è meglio così
perché fa così male? Tiro fuori il cellulare dalla tasca.
Leggo i suoi messaggi e li cancello uno ad uno. Poi scorro
le immagini registrate e quando trovo la foto dell’albero
con metà arance e metà limoni premo di nuovo il tasto
cancella con rabbia. Il display mi chiede “Sei sicuro di volerlo cancellare?” mi fermo e ci penso un attimo. Premo no
e riprendo a camminare verso casa.
Lunedì pomeriggio diventa venerdì mattina senza che me
ne accorga. Le interrogazioni di fine anno hanno smesso di
preoccuparmi. Tutte le cose sembrano aver perso il loro
colore e passano inosservate davanti ai miei occhi. Sono
seduto a tavola con mia madre mio padre è ancora al lavoro. Con la forchetta disegno un vulcano con la purea di
patate. Sposto pezzi di coniglio a destra e a sinistra cercando il miglior modo per nascondere la mia mancanza
di appetito.
“Non hai fame tesoro?” chiede mia madre.
“Ho fatto merenda troppo tardi. Lo mangio stasera”
“Ma stasera non mangi al lavoro?”
“Sì è vero, allora lo mangerò domani” dico, sapendo che il
mio tono è scortese.
Vedo chiaramente una ruga sulla fronte di mia madre farsi
più evidente.
“Se sei stanco puoi prenderti il pomeriggio libero?”
chiede.
“Non sono stanco mamma”.
“Ha qualcosa a che vedere con Giada?”.
Mia madre ha sentito il nome di Giada diverse volte negli
ultimi mesi e ho l’impressione che abbia cominciato ad illudersi che tra me e lei ci sia qualcosa in più di
un’amicizia.
“No mamma, non ha nulla a che vedere con Giada. Scusami, vado a riposare un poco”.
157
Mi alzo e sento mia madre sbuffare alle mie spalle. Ultimamente le nostre conversazioni si trasformano spesso in
scontri più o meno diretti. Lei si sente frustrata dal mio atteggiamento e io mi sento frustrato perché lei non capisce
che non voglio parlare. Chiudo gli occhi e poggio la testa
sul cuscino, vorrei solo dormire e smettere di pensare per
almeno un’ora o due.
Appena entrato in sauna Manuel mi assale: “Dio mio, ma
che faccia hai? Qui ci sono solo due possibilità: hai fatto
sesso fino a perdere i sensi. No… direi che non è il tuo caso. Se lo avessi fatto la tua pelle sarebbe lucida e brillante,
mentre tu sembri uscito dalla pubblicità dell’Omino
bianco. Oppure qualcuno ti ha scaricato. Decisamente
scaricato”.
“Grandioso, mi si legge anche in faccia” rispondo e odio il
mio tono di autocommiserazione.
“Ma chi? Luca quello del ‘oh mio Dio guarda che albero
spettacolare ha davanti casa?’ Il Luca col quale volevi tirar
su famiglia e adottare tre bambini? Uno indiano e due coreani come Angelina Jolie e avere un cane e un giardino
per coltivare pomodori e patate? Quel Luca?” mi dice tutto
d’un fiato.
Io alzo il dito medio e Manuel apre la bocca mimando una
faccia scandalizzata per il gesto.
“Dai sto solo scherzando. Mi spiace, vieni qui” dice con
voce suadente. Si avvicina e mi abbraccia. Io mi lascio abbracciare totalmente imbarazzato. Il calore del suo corpo
mi avvolge e mi conforta, quando si stacca mi lascio sfuggire un grazie sottovoce. Manuel mi strizza l’occhio e mi
porta al bar, apre una bottiglia di birra e me la passa. La
prendo e ne bevo buona parte, poi gli racconto
dell’incontro con Luca e di tutto quello che è successo.
“ Un classico” sancisce lui. “Tu sei stato la sua post-storia.
Vedi, alla fine di ogni storia importante c’è sempre una
persona che frequenti per un po’ di tempo e che non diventerà mai il tuo nuovo ragazzo perché ancora non ti sei ripreso da quello precedente. Una specie di intermezzo pub158
blicitario. Nel suo caso tra i due tempi dello stesso film,
visto che è tornato dal suo ex”.
“Grandioso, sono stato un intermezzo pubblicitario. Questo sì che mi fa sentire meglio. Grazie davvero!” rispondo.
“Ma no dai, non è colpa tua. È solo che le storie vanno così. Una importante, una no e così via. È la natura troia
dell’uomo. Capisci come la corrente alternata… stesso
principio”.
“Che filosofo del cazzo sei” gli dico.
“Può essere, ma almeno ti ho fatto ridere”.
“No che non sto ridendo” dico ridendo.
“Ah no e che cosa è quella? Una paresi facciale di fronte
alla mia bellezza?” e mi dà una pacca sul sedere.
“Ehi!” esclamo e rido più sollevato, poi mi avvicino al
bancone per servire un cliente che sta aspettando paziente
e divertito la fine della nostra conversazione.
Oggi la sauna è piena di gente. Solo verso le undici la fila
al bar diminuisce.
“Manuel, vado a pulire il terzo piano” dico.
“Così volontariamente? Senza neanche l’ausilio della morra inversa? Cazzo allora l’hai presa proprio male”.
“Torno tra una mezz’ora, così ne approfitto per una pausa.
Se non fumo impazzisco”.
“Ok a dopo” mi dice e si gira a servire l’ennesimo cliente.
In realtà non ho alcuna intenzione di fumare. Salgo al terzo
piano. Matteo è all’entrata e Gianni arriverà tra un’ora. So
che Manuel sarà molto impegnato al bar per cui ho campo
libero. Poso gli spray e i deodoranti in un angolo. Mi tolgo
la maglietta, poi entro nel labirinto. Non so perché sento
questa urgenza di fare sesso. Questo desiderio di avvicinarmi ad un altro corpo che non sia quello di Luca. Farlo
forse mi aiuterà a togliermi il suo odore di dosso e il suo
volto dalla testa. Faccio un giro per vedere chi c’è disponibile. Un paio di uomini mi toccano il sedere e io lascio che
le loro mani avide scivolino su di me. Due ragazzi parlano
in un angolo. Sono entrambi molto carini e uno dei due mi
indica. Io non perdo tempo e mi avvicino. È la prima volta
che li vedo in sauna, di sicuro non sono degli habitué.
Quello con i capelli più chiari sorride e mi fa segno di en159
trare in uno dei cubicoli. Entro. Quando mi giro vedo che
siamo in tre. Loro si tolgono gli asciugamani e io i pantaloni. Ci baciamo formando un triangolo di lingue sigillato
dalle nostre mani ancorate sui rispettivi fianchi. Lascio la
presa e faccio scivolare le mie mani alla ricerca dei loro
sessi. Li impugno e comincio a muoverli lentamente. Uno
di loro piega la testa all’indietro e geme di piacere. Il secondo ragazzo dai capelli più scuri si abbassa e comincia a
gustare in maniera alternata il mio sesso e poi quello
dell’altro partecipante al triangolo. Chiudo gli occhi e mi
lascio andare. Lascio che le loro mani mi frughino e che le
loro lingue dipingano ogni centimetro della mia pelle. Mi
lascio penetrare e in contemporanea penetro l’altro ragazzo. Mi giro e cerco la bocca del ragazzo alle mie spalle.
Sento il nostro sudore unirsi mentre condensa in gocce acri
sulla pelle nuda. Qualcuno bussa alla porta per cercare di
essere invitato a questo banchetto di corpi. Ma tutti e tre
siamo troppo presi per essere interessati ad altri commensali. Mi stacco dai loro corpi e mi sfilo il profilattico. Mi
abbasso e comincio ad ingoiare prima un pene poi l’altro.
Non posso nascondere il piacere che deriva dall’atto sessuale in sé, né posso nascondere l’evidente differenza che
c’è tra farlo con due estranei e farlo con Luca. Quando so
che sono pronti a venire mi alzo. Il mio pene è eretto e
pronto. Il ragazzo dai capelli scuri si abbassa e ci chiede
con lo sguardo di venirgli in faccia. L’altro ragazzo afferra
il mio pene e io il suo. I movimenti diventano sempre più
veloci fino a quando una scossa elettrica parte dal mio cervello, percorre la spina dorsale e scende giù fino alle gambe. La sua faccia si riempie del mio sperma e di quello del
mio compagno di venti minuti di piacere. Poco dopo anche
il terzo di noi viene in un’orgia di suoni di piacere e liberazione.
Ci puliamo con dei fazzoletti. Loro seguono il mio esempio e dispongono i profilattici usati nella spazzatura. Poi ci
salutiamo con un gesto semplice e veloce e usciamo dal
cubicolo.
Entro sotto la doccia. Sono nudo. Sguardi di sconosciuti
analizzano la mia pelle, i miei capelli e il mio pene. Alcuni
160
mi riconoscono e mi fanno un cenno con la mano. Rispondo ai loro saluti. Sotto il getto di acqua tiepida una lacrima
solitaria riga la pelle del mio viso ed è portata via veloce
dall’acqua. La sua compagna goccia stenta ad uscire
dall’altro occhio e rimane imprigionata nella mia testa.
Forse rimarrà li per sempre. Non penso a Luca. Non penso
a niente. Mi rivesto e mi asciugo i capelli. Poi torno al bar.
Se per Luca sono stato un intermezzo pubblicitario, spero
in cuor mio che i due stranieri siano stati la pubblicità di
fine film tra me e Luca. Il suo odore ora è sparito. Non lo
sento più sulla mia pelle, ma andando via si è portato dietro anche un po’ di me.
161
9.
Martedì quando entro in classe sono ben contento che ci
siano solo quattro ore. Tutto continua a risuonare nella mia
testa. Le parole di Luca e il suo addio, i tentativi di Giada
di calmarmi, la teoria dell’intermezzo pubblicitario di Manuel. Il pub gay e Giulio tra la folla. Mi sarò chiesto mille
volte cosa ci faceva Giulio lì. Forse si trovava nel pub per
caso e non è affatto gay. Sicuramente ha visto Manuel e la
sua maglietta. Avrà pensato che Manuel è il mio ragazzo.
Può essere che pure Giulio sia gay? No sicuramente non lo
è. Non lo sembra affatto. Merda troverò il mio nome in tutti i bagni con scritto accanto frocio. Mi toccherà cambiare
scuola nuovamente.
Entro in classe a testa bassa e vado a sedermi in terza fila.
Giovanni mi passa accanto. Ultimamente i rapporti con i
miei compagni di classe sono migliorati. Sabato scorso sono stato invitato a uscire con loro per una pizza e andare
poi al cinema. Purtroppo lavoravo in sauna per cui ho dovuto rispondere con un’ulteriore bugia.
“Tutto a posto?” mi chiede Giovanni avvicinandosi al mio
banco.
“Sì sì, tutto perfetto” rispondo con tono sarcastico.
“Scusa” dico pentito: “non è stato un fine settimana grandioso”.
“Cosa ci vuoi fare amico. La vita è una merda, comunque
oggi non abbiamo matematica”
“Eh?” dico incerto. Poi realizzo il motivo della sua osservazione: sul mio banco fa bella mostra il libro di matematica.
“Oh cazzo, ho sbagliato libro” dico sorpreso.
Sorridiamo. Giovanni è un ragazzo alto con i capelli lunghi fino alle spalle, il suo viso è allungato e ha un pizzetto
appena accennato sul mento. Suona la chitarra in una band
ed è il ragazzo più alternativo della classe.
“Mi ci vorrebbe proprio una sigaretta” dico a tono basso.
Giovanni mi guarda e scuote la testa e vorrei che il gesto
non mi ricordasse così tanto Luca. Prende una cicca dal
162
suo pacco. La accende e me la passa. Fumare nei bagni è
già di per sé proibito, però i bagni sono territorio neutrale,
un po’ come la Svizzera della scuola. Fumare in classe è
una vera azione suicida. Un biglietto di sola andata per
l’ufficio del vicepreside. Giovanni mi guarda e continua a
porgermi la sigaretta. La prendo, le mie dita sfiorano le
unghie della sua mano destra. Sono curate e più lunghe di
quelle della mano sinistra per potere eseguire meglio
l’arpeggio. Faccio un tiro e lascio che la nicotina entri in
circolo e distenda i nervi.
La campanella suona e la professoressa di italiano entra in
classe. Getto la sigaretta fuori dalla finestra. Il mio cuore
batte all’impazzata. Metà della classe ha osservato ogni
mio singolo movimento. Giovanni mi guarda e sorride. Poi
lentamente torna a sedersi. Per fortuna la professoressa ha
già aperto il libro e non si è accorta di nulla.
Alla fine della terza ora vado nei bagni del secondo piano.
È molto tempo che non ci metto piede, infatti nel corso
degli ultimi mesi ho cambiato le mie abitudini fumando
sempre con Giada. Oggi preferisco stare solo. Espiro il
fumo. Un raggio di sole entra dalla finestra del bagno e la
nuvola di fumo che esce dalla mia sigaretta si perde in spirali violacee. Non ho portato il mio album da disegno e
passo il tempo a leggere le scritte sui muri. Niente che mi
riguardi. Forse Giulio sta cercando un pennarello abbastanza grande da ricoprire l’intera parete con una scritta
sola!
Quando rientro in classe e mi siedo, sul mio banco c’è un
biglietto giallo ad aspettarmi. C’è scritto solo: “Tutto ok?
Giada” lo piego e me lo metto in tasca col proposito di telefonarle più tardi.
Alle dodici raccolgo i miei libri, compreso quello di matematica ed esco. Fortunatamente uscendo un’ora prima
del solito non c’è la solita calca di studenti nei corridoi.
Oltrepasso il portone della scuola e mi accendo una sigaretta. Decido di tornare a piedi. Cammino per le strade del
corso e guardo distrattamente le vetrine. Il numero di sigarette nel mio pacchetto diminuisce esponenzialmente quanto più mi avvicino a casa. Il corso è pieno di ragazzi che
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tornano a casa per pranzo. Vorrei camminare per chilometri e non pensare più a niente. Sporadicamente delle coppie
mi passano accanto e mio malgrado invidio le loro risate.
Un ragazzo di bell’aspetto e la sua ragazza camminano
mano nella mano verso di me. Lei ha un bel volto e lineamenti forti, un vestito attillato le fascia la vita minuta. Il
suo ragazzo è un bel moro. Ha una magliettina stretch che
evidenzia i suoi bicipiti. Sorride e i suoi denti bianchi mi
colpiscono in pieno volto. È Mauro o meglio Torello 27
con la sua ragazza. Lui pure deve avermi riconosciuto perché il suo sorriso si spegne improvvisamente. Più cerca di
ignorarmi più i suoi occhi sono fissi su di me mentre cercano di sondare le mie possibili reazioni. Io continuo a
guardarlo. Una goccia di cattiveria mi scorre nel sangue.
Potrei salutarlo, forse un semplice cenno del capo per metterlo un po’ in difficoltà. La sua ragazza continua a camminare in perfetto equilibrio sulle scarpe dai tacchi a spillo. Siamo sullo stesso marciapiede e in rotta di collisione.
Il suono dei tacchi scandisce un ritmo perfetto. Preciso
come un orologio. Tic tac, tic tac. Ogni passo una colpa
che pesa sulle spalle di Mauro. Un tradimento e un colpo
di pugnale. Lo guardo fisso. Mi passa accanto a meno di
un metro. Il suo sguardo furtivo scivola su di me e quasi
avverto il suo sollievo quando non lo saluto. Continuo a
camminare e per la prima volta negli ultimi giorni alzo lo
sguardo da terra e sorrido.
Quando arriva domenica il mio umore è un poco migliorato. Entro in sauna e mi cambio nello spogliatoio. Nonostante siano ormai diverse settimane che lavoro in sauna
ancora non riesco a definire l’idea che mi sono fatto di
questo posto. A volte l’unica cosa che sento è l’odore di
sesso. Altre volte mi dà l’idea di un semplice luogo di ritrovo. Una specie di congrega segreta dove scambiarsi occhiate e giochi di pelle. La gente viene qui per i più disparati motivi. Ci sono mariti che si tolgono l’anello nuziale
prima di entrare, ragazzi che cercano di capire la loro sessualità, avvocati e magazzinieri che fanno il bagno insieme
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e parlano del governo o della nuova linea di biancheria intima di Calvin Klein. All’inizio mi disturbava la presenza
di persone mature: pensavo alla sauna come un luogo di
edonismo. Ma definirlo solo un luogo di edonismo sarebbe
riduttivo e non veritiero. Qui si può venire per vedere, per
partecipare o solo per rilassarsi. Incontri vecchi amici,
nuovi amori o solo una passione di dieci minuti. Mi guardo
intorno e non posso fare a meno di pensare che io ho trovato delle belle amicizie in Manuel e Matteo e in alcuni
dei clienti. Quando c’è poca gente io e Manuel ne approfittiamo per immergerci nella jacuzzi. Ci svestiamo ed entriamo nudi nella vasca straripante di bollicine. Li dentro
chiudiamo gli occhi e ci raccontiamo i nostri segreti.
Nella jacuzzi un paio di sere fa Manuel mi ha confessato
che passerà l’estate alla casa al mare di Giordy, il buttafuori.
Io l’ho guardato attentamente. Le bolle mi schizzavano acqua in faccia e sulle braccia facendomi il solletico.
“Ma non torni in Spagna dalla tua famiglia?” gli ho
chiesto.
Lui ha abbassato lo sguardo poi mi ha confessato: “Io non
sono spagnolo, sono Argentino. Nessuno mi sta aspettando
in Argentina. Per cui non tornerò li se non quando sarò
ricco oppure avrò un buon motivo per tornarci”.
Poi si è messo le mani dietro la testa e ha allungato il corpo. Eravamo distesi uno di fronte all’altro e i suoi piedi
sfioravano il mio bacino. Mi sono sentito di nuovo bambino quando i miei zii ci venivano a fare visita e dormivo
nello stesso letto con mio cugino. Allora le notti passavano
leggere tra risate senza motivo e segreti innocenti. Ora i
segreti non sono più innocenti, ma le bollicine della vasca
li rendono in un certo qual modo più leggeri.
“Mi spiace” gli ho detto e ho accarezzato con una mano i
suoi piedi. “Se vuoi puoi venire a stare da me. Abbiamo
una stanza libera. Mio fratello è in Germania per ora e tornerà solo a fine estate”.
“No ti ringrazio. Preferisco andare da Giordano. Lui ha
una casa in Sardegna. Non ho mai visto la Sardegna, dicono sia molto bella d’estate”.
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Poi ha aperto gli occhi e mi ha chiesto:
“Tornerai qui a settembre a lavorare?”.
“Non lo so” gli ho risposto.
“Io penso di si” mi ha detto.
Poi, dopo un lungo silenzio, ha aggiunto:
“Forse un giorno tornerò in Argentina e aprirò una sauna
bella come questa. Prometti che verrai a trovarmi con il
tuo uomo”.
“Promesso”.
“Promesso!” ha ripetuto lui, poi si è immerso con la testa
dentro la vasca e ne è uscito fuori a pochi centimetri da me
con i capelli bagnati e gli occhi vivi e nerissimi. E insieme
abbiamo riso.
Oggi la professoressa di chimica ci ha sorpreso con un
compito in classe improvvisato per concludere le interrogazioni di fine anno. La sua proposta è stata accolta dalla
maggior parte della classe con grida di protesta ed esclamazioni di panico che sfioravano l’isterismo. Alla fine delle due ore di compito, controllo per l’ennesima volta le risposte e consegno. Mancano ancora quindici minuti alla
fine della lezione per cui le chiedo se posso aspettare fuori.
Lei acconsente. Scendo le scale e vado in cortile. Accendo
una sigaretta. Un bel sole di fine primavera riscalda il
campo di basket. I ragazzi che stanno finendo l’ora di educazione fisica raccolgono i loro zaini e mi passano accanto
per rientrare nell’istituto. I miei compagni di classe non mi
raggiungeranno prima di altri dieci minuti. Mi siedo a terra
in un angolo e incrocio le gambe.
Giovanni esce dal portone e cammina in controcorrente
attraverso la fila di studenti che rientra. Pure lui deve aver
consegnato in anticipo. Si guarda intorno, gli faccio un
cenno. Lui si avvicina. Sulle spalle porta la chitarra.
“Hai una sigaretta in più?” chiede sedendosi accanto a me.
“Certo” rispondo. Gli passo il pacchetto di sigarette e
l’accendino rosso.
“Come mai hai la chitarra?” chiedo.
Lui esala una boccata di fumo poi dice:
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“Ho le prove col gruppo dopo la scuola. Non mi fidavo di
lasciarla in classe”.
Tira fuori la chitarra dalla custodia e con la sigaretta ancora in bocca comincia ad arpeggiare una canzone che non
conosco. La chitarra è a dodici corde, il suono che le sue
mani ne fanno uscire mi sembra bellissimo e dolce. Lo lascio suonare e muovo la testa a ritmo di musica.
“Che tipo di musica suonate con il tuo gruppo?” chiedo
quando fa una pausa.
“Un po’ di tutto. Principalmente musica inglese. Smiths,
Oasis, Beatles, ma anche qualcosa dei Rolling Stones”.
“Mi piacciono gli Smiths. In questo periodo li sento parecchio”.
Giovanni mi guarda di traverso:
“Pensavo di essere l’unico in questa scuola a cui piacessero gli Smiths. Ho fatto una fatica del cazzo a convincere
gli altri ragazzi del gruppo a suonare le canzoni di Morrissey”.
Sorrido. Lui ricomincia ad arpeggiare e questa volta riconosco le note di Last night I dreamt that somebody
loved me.
“Sai le parole?” mi chiede.
“Sì”.
Lui canta e io mi lascio trascinare dalla sua voce.
Prima di iniziare a cantare il ritornello mi guarda e mi fa
segno con la testa come per dire canta anche tu. Allora lo
accompagno tentando di accordare la mia voce alla sua.
Cantiamo insieme e l’effetto è quasi bello. I miei compagni entrano nel cortile e ci guardano disponendosi intorno
a noi. Sento il sangue affluire in testa e sono sicuro di essere completamente rosso. Vorrei smettere di cantare, ma
Giovanni sembra voler finire il brano, così fisso le mie
scarpe e immagino di essere nella mia stanza. Continuo a
cantare con lui fino alla fine. Quando l’ultima nota esce
dalla sua chitarra alzo lo sguardo e i miei compagni cominciano ad applaudire. Alle loro spalle ci sono anche i
ragazzi della 5F che fischiano e gridano. Tra loro gli occhi
di Damiano fissi sui miei.
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“Dovrei farti entrare nel gruppo” mi dice Giovanni. Io sono troppo imbarazzato per rispondere. Penso di avere un
sorriso ebete. Guardo in ogni direzione pur di evitare gli
occhi di Damiano che continuano a cercare i miei.
I miei compagni si allontanano chiacchierando e dopo un
po’ pure io mi alzo e li raggiungo per giocare a pallavolo.
Entro in campo quando ormai le squadre sono già state
formate. Damiano è nell’altra squadra. Gioco distrattamente anche se la mia coordinazione nel gioco è molto migliorata dalle prime partite. Alla fine della partita raccolgo il
giubbotto di jeans da terra e mi allontano. Damiano mi
passa accanto e dice quasi sottovoce:
“Sei una continua sorpresa. C’è qualcosa che non sai
fare?”.
Mi giro e fisso i suoi occhi di un perfetto color nocciola.
Sono rosso in volto e non so cosa rispondere. Lui si allontana trascinato dai compagni di classe senza aspettare che
mi vengano le parole. Anche i miei compagni di classe escono dal campo e io mi accendo un’altra sigaretta. Le note della canzone degli Smiths risuonano ancora nella mia
testa. Guardo il portone: chissà se Giada riuscirà a raggiungermi in cortile? Così potrei raccontarle della mia
nuova carriera di cantante con Giovanni. Ma mentre sto
fissando il portone una sagoma conosciuta lo oltrepassa.
Giulio! Mi strozzo col fumo e comincio a tossire. Ci siamo, mi dico. Non può non avermi visto o non sentire i
miei colpi di tosse.
Lui si avvicina e mi mette una mano sulla schiena dandomi delle pacche vigorose.
“Tutto bene?” mi chiede ridendo. “Guarda che quella roba
uccide”
“Sì” rispondo con la voce soffocata: “lo so”.
Giulio mi guarda e sorride. Il suo sorriso… due fila di denti bianchi e perfettamente allineati. Dopo qualche minuto
riesco a smettere di tossire e vorrei riuscire anche a non
fissare quel sorriso perfetto. Lui mi guarda divertito e i
suoi occhi verdi si illuminano.
“Hai tolto l’apparecchio?” gli chiedo.
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“Sì. Finalmente. L’ho dovuto portare per tre anni, ma da
oggi porterò quello interno e solo la notte. Nella speranza
che i miei denti del giudizio quando usciranno non mi facciano gradite sorprese” dice e sorride.
“È tanto che non ti vedo in giro” aggiunge poi dispiaciuto.
Vorrei rispondergli che la cosa non dovrebbe stupirlo, visto che ho fatto di tutto per non incontrarlo. Ma ora guardando i suoi occhi gentili mi chiedo perché.
“Sì è vero, mi spiace” dico e sono sincero.
Giulio indossa una maglietta a mezze maniche verde acqua
che risalta i suoi occhi. La sua pelle è chiarissima e dei
ciuffi di peli biondi corrono sulle braccia come un campo
di spighe piegato sotto la forza del vento.
“Ehm… ti volevo chiedere…” dice poi tenendo lo sguardo
fisso a terra “… sabato fanno vedere all’Odeon il film
Quattro matrimoni e un funerale. Lo so che è uscito da un
bel po’ di anni al cinema, ma vorrei vederlo sul grande
schermo. Se ti va di venire… se sei libero…” con una mano gioca col suo capello di basket grigio. Lo alza e un mare di capelli lisci color miele inonda la sua fronte.
Mi ha appena chiesto un appuntamento? Avrò visto quel
film cento volte.
“Mi piacerebbe, ma sabato lavoro” rispondo imbarazzato.
“Certo, sicuro” risponde lui. Si tira i capelli indietro con la
mano e si rimette il cappello. Si allontana istintivamente
da me. Io vorrei farlo riavvicinare afferrandolo per una
mano, ma mi manca il coraggio e mi fermo a metà strada.
“Però possiamo andare allo spettacolo del primo pomeriggio se c’è. Comincio a lavorare alle otto” gli dico.
I suoi occhi si illuminano e il suo sorriso si apre costringendomi a sorridere e a diventare ancora più rosso.
“Sì, certo. Penso che ci sia” dice imbarazzato quasi
quando me.
Ci scambiamo il numero del cellulare. Mi manderà un
messaggio nel caso in cui non ci incontrassimo di persona
per confermare l’orario del film. Ho la sensazione che da
oggi ci incontreremo più spesso di quanto sia accaduto negli ultimi giorni. Lo saluto con un gesto della mano e mi
allontano. Salgo le scale ridendo un po’ confuso. Entro in
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classe e mi accorgo che la lezione di matematica è iniziata
da un po’. La professoressa Verdi mi guarda interdetta da
dietro i suoi grossi occhiali:
“Bene, visto che siamo così felici avrà il piacere di accomodarsi alla lavagna. Per prima cosa vediamo come ha risolto gli esercizi per oggi”.
Il mio sorriso si spegne di botto causando l’ilarità generale
della classe. Anche la professoressa sorride. Io prendo il
gesso e anche se la situazione non mi sembra affatto divertente non posso far altro che sorridere di nuovo pensando a
sabato prossimo.
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10.
È incredibile che siano già passate otto settimane da quando ho cominciato a lavorare in sauna. Oggi è l’ultimo
giorno prima della chiusura estiva. Siamo tutti un po’ nervosi come se la chiusura sancisse la fine di un pezzo di
storia. Matteo corre avanti e indietro continuando a ripetere che non ci sono abbastanza asciugamani nonostante una
pila di mille asciugamani neri sia accatastata proprio accanto a lui. Manuel si è tolto la maglietta e mostra ai clienti un tridente d’oro che si è disegnato sul petto. Indossa solo un costume nero e dà a tutti il suo numero di telefono
come se avesse messo i saldi di fine stagione. Io cerco di
tenermi il più impegnato possibile. Pulisco il labirinto,
cambio le cassette dei film porno una volta terminate e
servo da bere sbagliando più volte l’ordinazione. Alle due
la sauna chiude. Gli ultimi clienti escono. Io rimango oltre
il mio orario di lavoro. Raccolgo gli asciugamani sporchi e
li metto in lavatrice, poi accendo le luci al terzo piano e
accompagno Manuel per le pulizie. Matteo apre due bottiglie di spumante per festeggiare il buon esito dell’apertura
della sauna. Si congratula con me e Manuel per l’ottimo
lavoro svolto e ci dà un premio di duecento euro a testa.
Alle tre, dopo diversi bicchieri di spumante, siamo tutti
abbastanza alticci. Manuel guarda Matteo e dice col suo
accento ispanico: ”Dobbiamo solo pulire le docce per finire. Credo che tu Matteo, in segno di rispetto per il lavoro
da noi svolto, debba darci una mano”.
“Ma certo” risponde Matteo e ci segue mentre camminiamo sbandando per il corridoio che immette alla piscina.
Prendiamo le pompe per lavare il pavimento. Poi io e Manuel ci scambiamo uno sguardo complice, apriamo l’acqua
a manetta e puntiamo il getto su Matteo. Lui grida a causa
dell’acqua fredda e punta la sua pompa prima su di me e
poi su Manuel. Anche io e Manuel cominciamo a bagnarci
a vicenda. L’acqua è gelida, ridiamo e gridiamo insulti isterici tanto che le urla coprono il rumore dell’acqua. Le
risate rimbombano tra le mura dell’edificio e continuano
171
fino a quando non siamo totalmente fradici. Matteo sparisce continuando a insultarci e a ridere:
“Basta! Siete licenziati entrambi! Basta!”.
Io chiudo l’acqua e Manuel mi imita. Poi mi avvicino a lui
totalmente zuppo. Ci guardiamo negli occhi e ci abbracciamo, entrambi abbiamo la pelle d’oca.
“Buone vacanze, divertiti in Sardegna” gli dico.
”A presto” mi risponde. Mi dà un bacio sulla bocca con le
sue labbra piene e mi stringe ancora più forte. Ci separiamo. Io entro negli spogliatoi per cambiarmi. Raccolgo le
mie cose dall’armadietto e saluto di nuovo tutti, infine apro la porta della sauna Nettuno ed esco. Mentre la porta si
chiude alle mie spalle mi giro a guardare per l’ultima volta
la sauna prima dell’inizio delle vacanze. La facciata bianca
dell’edificio riflette la luce di un lampione in lontananza.
Non so se il prossimo anno tornerò a lavorarci, anche se
Matteo mi ha fatto capire che non ci sarebbero problemi.
Certo un po’ mi mancherà questa strana casa dei segreti.
Non posso fare a meno di pensare che anche io mi sento
un po’ come questo posto. Una facciata semplice con un
cartellino di fronte che porta il mio nome, una porta piccola dietro la quale si nasconde un mondo intero. Fatto di
odori forti e luci soffuse, di speranze e desideri nascosti in
strani labirinti oscuri che portano in luoghi che neanch’io
ancora conosco bene. In queste stanze affollate i vapori
sono come emozioni; si formano rapidi e si accalcano trasformandosi in nebbia che a volte mi fa perdere di vista la
mia vera strada.
Alzo lo sguardo e fisso una strana luna a forma di falce.
Mi imprimo bene nella mente la sua forma affilata per esser poi in grado di disegnarla. Metto una mano in tasca e
prendo l’ultima cicca dal mio pacco di sigarette insieme
alla scatola di cerini nera con disegnato un tridente d’oro.
Stacco un cerino di legno e lo accendo sulla parete bianca.
Il muro rimane segnato da una striscia rossa. Guardo la
striscia e sorrido mentre la sigaretta si illumina nella notte.
Spero che la pioggia non la porti via o che il caldo non
faccia scrostare quella parte del muro, così la prossima
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volta vedendola mi ricorderò quello che sto provando adesso e che non saprei spiegare bene.
Espiro il fumo e mi incammino verso casa. Sul bancone
all’entrata della sauna ho lasciato una lettera per Manuel e
Matteo. Una lettera di ringraziamento per avermi accolto e
di scusa per avere mentito.
Oggi escono i quadri di fine anno. Sono le undici e mezza.
Sono sveglio da almeno tre ore. Ho fatto di tutto per fare
passare il tempo velocemente. Ho fatto una doccia di
un’ora tra le grida di mia madre che aveva bisogno di usare il bagno, ho fatto colazione lentamente controllando
l’orologio circa trenta volte al minuto, ho impiegato
un’altra mezz’ora a scegliere un paio di pantaloni neri militari e una maglietta a mezze maniche blu scuro. Li ho indossati e poi ho fatto a Giada lo squillo convenzionato con
il cellulare per dirle che sono pronto. I quadri escono a
mezzogiorno.
“Tesoro, telefonami appena vedi i risultati” dice mia madre mentre chiudo la porta.
“Va bene!” le rispondo.
Sotto casa Giada mi aspetta sulla moto. Ha una sigaretta
accesa e la faccia di chi non ha dormito tutta la notte.
“Ehi 4D. Il giorno della verità eh..” dice nervosa.
“Sono sicuro che andrà tutto bene” la rassicuro e vorrei
tanto che fosse così. Le possibilità di Giada di essere ammessa agli esami di stato sono solo del cinquanta percento.
I suoi voti sono migliorati nel secondo quadrimestre, ma
molti professori hanno fatto leva sul fatto che questo dimostri che Giada sia solo svogliata e proprio per questo
dovrebbe di ripetere l’anno.
Giada accende la moto e io salgo dietro. Non dice più
niente e guida veloce fino alla scuola. Arrivati scendo dalla
moto con finta calma. Il cuore in gola dall’emozione. I
quadri sono stati appena affissi nell’atrio dell’entrata
principale, Giada parcheggia la moto e si toglie il casco.
Sospira.
173
“Ehi 4D, io non ce la faccio a vedere. Vai tu e poi fammi
un segno” dice.
Io sto morendo dalla curiosità, vedo i miei compagni di
classe che si accalcano vicino ai quadri che mostrano pubblicamente i voti di fine anno. Cerco con gli occhi quelli di
ammissione agli esami per la classe di Giada, la 5F. Mi
tremano le gambe. Giada mi segue a una certa distanza
come uno zombie. Riconosco finalmente tra la folla i suoi
compagni di classe e mi avvicino. I miei occhi scorrono
veloci sui risultati senza riuscire a mettere a fuoco quello
che c’è scritto. Mi giro verso Giada che mi fissa sconvolta
in attesa del verdetto.
Penso che il mio cuore si stia fermando. Mi giro nuovamente verso i quadri e cerco il suo nome. Lo vedo. Sorrido
e comincio a saltare: “Sei ammessa! Ti hanno ammessa!”
grido a più non posso.
Vedo gli occhi di Giada lucidi, poi lei pure comincia a saltare. Mi corre incontro e mi abbraccia. Saltiamo abbracciati gridando come se avessimo vinto alla lotteria. Sento il
rumore metallico delle sue chiavi che cadono a terra seguite dal rumore di un cellulare che si infrange al suolo. La
maniglia della sua borsa di pelle ha ceduto rovesciando
tutto il contenuto a terra.
“O cazzo” grida Giada. “Cazzo, cazzo!” dice e continua
saltare. Sono così contento per lei che dimentico di controllare i miei voti. Cantiamo a squarciagola: “Ammessa,
ammessa, ammessa! Ammessa, ammessa, ammessa!”.
Presi dai festeggiamenti non ci accorgiamo di una signora
che si avvicina alle nostre spalle:
“Ehm ehm…” la sua voce ci riporta con i piedi per terra.
Siamo al centro dell’atrio abbracciati. Buona parte della
scuola ci fissa, probabilmente sospettando che stiamo facendo largo uso di droghe. La professoressa di matematica
di Giada ci guarda entrambi da dietro gli occhiali spessi.
Nel suo sguardo ci sono disappunto e severità, che non riescono a celare uno strano sorriso compiaciuto.
“Signorina Rossati” dice con gli occhi puntati su Giada:
“spero che non mi farà pentire di aver riposto in lei la mia
fiducia”.
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Giada la fissa immobile e per la prima volta da quando la
conosco mi sembra che stia arrossendo. Attorno a noi pezzi di cellulare, chiavi e mille altri oggetti, prima dentro la
sua borsa, giacciono a terra.
Poi la professoressa prende sotto lo sguardo dell’intera
scuola la sua agenda. Toglie il tappo della penna, sceglie
un foglio bianco e comincia a scrivere. Con calma strappa
il foglio dall’agenda con un gesto veloce e lo consegna a
Giada.
“Questo è il mio indirizzo. La aspetto ogni mercoledì pomeriggio a casa mia. Voglio seguire personalmente la sua
preparazione all’esame”.
“Eh... ok” dice Giada imbarazzata. Poi aggiunge, quasi
sottovoce: “La ringrazio”
La professoressa chiude con calma la penna col tappo, la
ripone in tasca e fissa Giada negli occhi:
“A mercoledì” dice e si incammina all’uscita tra il silenzio
generale.
Giada mi strizza l’occhio e si abbassa a raccogliere i pezzi
di cellulare e le chiavi. Poi, col volto raggiante e incredulo,
mi prende per mano e mi trascina verso la parete dove sono appesi i miei quadri.
“Dai 4D, mostrami la tua pagella da secchione”.
Mi faccio trascinare euforico. Giunto di fronte al muro dove sono esposti i voti della mia classe allungo il collo per
potere vedere meglio. Giada legge i miei voti a voce alta.
Ho preso tutti otto tranne un sette in filosofia, un sette in
latino e un dieci in disegno.
Giada mi guarda e dice:
“Che sfigato che sei” e mi abbraccia di nuovo.
Dopo aver ricontrollato per un’ultima volta i voti andiamo
fuori e ci sediamo sulle scale. L’adrenalina circola veloce
nelle nostre vene.
“Cazzo ancora non ci posso credere” dice Giada.
“Te lo sei meritato” le dico.
Lei mi guarda e mi fa la linguaccia mostrandomi il piercing. Si accende una sigaretta e inala il fumo. Anch’io ne
accendo una, allungo una gamba e trovo una posizione
comoda appoggiando la schiena su una ringhiera.
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“Non mi hai ancora raccontato dei tuoi appuntamenti con
Giulio” dice.
Io divento rosso dalla testa ai piedi.
“Siamo solo usciti un paio di volte. Siamo andati al cinema
e abbiamo cenato insieme” rispondo imbarazzato.
“Ok, lascia stare i dettagli che racconti a tua madre. Come
bacia?” mi chiede.
“Che stronza!” le dico e istintivamente tocco il braccialetto
di filo che Giulio mi ha regalato ieri come portafortuna per
l’uscita dei quadri.
Giovanni esce dall’atrio e gli faccio segno da lontano. Lui
si avvicina guardando prima me e poi più intensamente
Giada.
“Ciao” gli dico. “Complimenti per la promozione”
“Anche a te” risponde lui con gli occhi sempre più fissi su
Giada.
“Vi conoscete?” chiedo ad entrambi.
“Di vista” rispondono all’unisono e poi scoppiano a ridere.
Io li presento e Giovanni si siede accanto a Giada. Mi
guardo intorno e mi chiedo se Giulio sia già venuto a vedere i quadri. Forse lo dovrei chiamare e invitarlo ad uscire
stasera per festeggiare.
“Ehi cosa fate questo sabato?” chiede Giovanni. “Perché
non venite al falò che sto organizzando?”
Giada mi guarda.
“Certo” rispondo: “con piacere”
Poi aggiungo: “Posso portare un amico?”.
Giovanni mi guarda e risponde:
“Sicuro, a patto che porti anche Giada”.
Giada lo fissa interdetta:
“Diciamo che sarò io a portare lui” dice e mi dà una pacca
amichevole sulla spalla.
Giovanni sorride consapevole di aver fatto colpo. Io prendo il cellulare e mando un messaggio a Giulio: “Grazie per
il braccialetto. Ha funzionato! Un bacio” e lo invio trattenendo il fiato.
Intorno a noi gli altri studenti commentano i voti e fanno
progetti per l’estate. Le loro voci riempiono la strada di risate e grida.
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“Sono contento che abbia funzionato” dice una voce alle
mie spalle. Giulio! Mi giro di scatto. I nostri sguardi si incrociano. I suoi occhi di gatto fissi nei miei mi fanno arrossire. Lo guardo mentre si siede accanto a me, sento il
contatto della nostra pelle e chiudo gli occhi per cercare di
fermarmi dal saltargli addosso. Lui mi sfiora la mano velocemente, i suoi occhi persi nei miei. Sorrido e vorrei tanto che questa giornata non finisse mai.
È sabato pomeriggio. Sono in bagno e mi sto asciugando
dopo una doccia rigenerante. Guardo la spugna messa vicino al lavandino mentre mi asciugo. La fisso intensamente. Spostati, spostati ripeto dentro di me. Lei resta immobile e io sorrido sconfitto. Poi spengo lo stereo e mi vesto di
corsa. Non voglio fare tardi all’appuntamento. Giada deve
passarmi a prendere tra cinque minuti. Mi metto il costume
per il bagno di mezzanotte e sopra indosso i pantaloni.
Chissà come starà Giulio in costume? Ok, meglio non pensarci. Esco dal bagno e finisco di preparare lo zaino. Mia
madre me l’ha riempito di roba da mangiare come se dovessi star fuori una settimana intera e non solo una notte.
Prendo lo stereo e scelgo una selezione di cd da portare al
falò. Li spingo dentro lo zaino che sembra sul punto di
scoppiare. Il mio cellulare vibra accusatore: Giada è già
sotto che mi aspetta. Sono di nuovo in ritardo! Raccolgo
tutte le mie cose e il giubbotto di jeans in caso stanotte
faccia freddo. Saluto i miei genitori e apro la porta di casa.
Una folata di aria tiepida mi investe in pieno volto e preannuncia una serata calda. Mentre sto per uscire sento la
voce di mia madre che mi chiama:
“Fabio…”.
“Sì mamma?” le dico girandomi.
“Stai attento”.
Le sorrido e i nostri occhi saturi dello stesso colore si incrociano. Il mio nome risuona con un lungo eco dentro di
me ed è come se lo avessi sentito per la prima volta dopo
tanto tempo.
177
Chiudo la porta di casa e scendo facendo le scale a due a
due. Finalmente è estate!
178
INDICE
9
Uno
27
Due
48
Tre
70
Quattro
83
Cinque
107
Sei
130
Sette
146
Otto
162
Nove
171
Dieci
Stampato in Italia
nel giugno 2009 per conto di
LibertàEdizioni