Gli spot elettorali televisivi e la seconda campagna presidenziale di

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Gli spot elettorali televisivi e la seconda campagna presidenziale di
Running as a challenger? Gli spot elettorali televisivi e la seconda campagna presidenziale di
Barack Obama
Marco Morini (Università degli Studi di Padova)
VERSIONE PROVVISORIA
Come Bill Clinton e George W. Bush, anche Barack Obama ha conquistato un secondo mandato
presidenziale. L’impresa è stata a suo modo storica: non accadeva dal 1820 che tre presidenti
consecutivi fossero rieletti. Ma né Clinton né Bush jr. erano riusciti a vincere entrambe le elezioni
con più del 50% del voto popolare. Tuttavia, Obama passerà alla storia come l’unico presidente
americano, dopo Woodrow Wilson nel 1916, a essere stato rieletto con un numero di voti popolari e
di grandi elettori inferiore a quelli ottenuti nel primo successo elettorale. Obama è anche l’unico
senatore eletto presidente ad aver centrato la rielezione. Prima di lui anche Warren Harding e John
Kennedy furono eletti presidenti, ma entrambi morirono durante il loro primo mandato.
Sebbene Obama abbia realizzato numerosi spot “positivi”, atti a evidenziare i successi dei suoi
primi quattro anni di presidenza, la campagna democratica del 2012 è stata caratterizzata da una
massiccia produzione di spot di propaganda negativa, una tattica che solitamente è adottata dagli
sfidanti e non dai presidenti uscenti. Il suo messaggio più ricorrente è stato infatti quello di
descrivere l’avversario repubblicano Mitt Romney come uno spietato multimilionario le cui
politiche avrebbero favorito i ricchi a scapito della classe media.
L’ipotesi di questa ricerca è che gli spot elettorali del rieletto presidente rivelino forti analogie con
quelli realizzati per la campagna del 2008 e che in entrambi i casi Obama abbia voluto proporsi
come “sfidante”, con un imponente utilizzo del negative campaigning.
1. Lo spot elettorale nella politica americana.
La definizione di spot elettorale è un concetto in costante evoluzione. Nel 1981, Kaid (2004)
sostenne che la propaganda politica televisiva è “quel processo comunicativo attraverso il quale una
fonte (un candidato o un partito) acquista l’opportunità di esporre spettatori a messaggi politici con
l’idea di influenzarne le attitudini, le credenze e i comportamenti politici”. Tuttavia questa è una
definizione che non sarebbe possibile applicare ad altri paesi occidentali per via di una diversa
regolamentazione delle comunicazioni a carattere elettorale. Nel Regno Unito e in Italia, ad
esempio, non è possibile per i candidati e i partiti acquistare liberamente spazi pubblicitari
televisivi. In questo caso la legge assegna loro spazi gratuiti circoscritti. Un regolamento di questo
tipo implica poi la possibilità di forme diverse da quelle dei canonici spot di 30 o 60 secondi,
indebolendo quindi la definizione precedente. Inoltre la proliferazione di gruppi indipendenti o
pseudo-indipendenti che producono i propri spot porta alla necessità di un’ulteriore ridefinizione del
tema in oggetto. Perciò la definizione al momento più condivisa è quella per cui uno spot elettorale
è un messaggio politico il cui stile e contenuto sia sotto il totale controllo del suo produttore e che
sia trasmesso attraverso l’utilizzo di un mezzo di comunicazione di massa (Kaid, 2004, p. 156).
E’ evidente come anche gli spot elettorali via internet rientrino in questa definizione: i video
possono essere visti da milioni di persone, lo sponsor ha il controllo sul contenuto del messaggio e
talvolta pure il controllo del contesto in cui è trasmesso (può essere il suo sito personale o altri siti
che lui decide di scegliere). E’ importante poi enfatizzare come la definizione di Kaid non dia
alcuna specifica istruzione sul formato e la lunghezza del messaggio. Finchè il committente
mantiene il controllo del contenuto del messaggio, esso va considerato spot elettorale, senza
distinzioni di mezzo (stampa, audio-video o digitale) o lunghezza.
Negli Stati Uniti gli spot elettorali non devono sottostare ad alcuna regolazione specifica.
Questo aspetto, che spesso sorprende numerosi osservatori, è in realtà una delle spiegazioni al
grande utilizzo che di essi si fa. Sebbene varie rilevazioni abbiano evidenziato come molti
americani credano che vi siano autorità preposte al controllo dell’autenticità dei contenuti degli spot
(Iab, 2006), essi possono invece veicolare qualsiasi tipo di messaggio, anche il più calunnioso. Non
esiste alcuna regolazione a livello federale, per il timore di confliggere con il primo emendamento
costituzionale che garantisce la libertà di espressione. Nel corso degli anni, in sede congressuale,
sono stati discussi vari tentativi di regolamentazione in materia, ma nessuno è mai arrivato a
compimento. Esistono però alcuni singoli stati che hanno legiferato sulla questione. In Ohio, ad
esempio, dalla metà degli anni ottanta è in vigore un dettagliato codice che punisce le false
dichiarazioni e i falsi endorsement in campagna elettorale (Johnson e Kaye, 2004). Tuttavia, stante
anche la difficoltà di accertare il contenuto informativo dei messaggi e l’ambiguità a livello legale
di distinguere tra ciò che viene presentato come “fatto” e quelle che possono essere “legittime
opinioni”, la Corte Suprema, nella sentenza Gertz vs Robert Welch Inc. del 1974, ribadì l’assoluta
libertà di espressione.
Gli spot televisivi, nelle campagne elettorali americane, sono il principale strumento di
comunicazione tra i candidati e gli elettori (Kaid e Johnston, 2001). Non appena il mezzo televisivo
si è diffuso in tutto il Paese, la politica si è accorta della sua potenza e della possibilità di
raggiungere, anche nelle più remote aree d’America, ogni elettore all’interno della propria
abitazione. Riesce difficile ora immaginare gli aspiranti presidenti battersi per la poltrona più
ambita, in un Paese così esteso, unicamente attraverso comizi, pagine sui giornali e messaggi radio.
Ma fu così fino all’immediato secondo dopoguerra e il primo a utilizzare gli spot fu Dwight
Eisenhower nella campagna presidenziale del 1952, su suggerimento del suo consigliere Rosser
Reeves che notò come essi fossero “brevi, sul punto e difficili da evitare”, soprattutto se paragonati
ad altre forme di comunicazione politica come la pubblicazione di libri sul candidato e i comizi
pubblici. (Atkin, Bowen, Nayman e Sheinkopf, 1973, p. 209).
La televisione offriva ai candidati un modo efficiente per raggiungere i propri sostenitori, gli
indecisi e gli elettori della parte avversa. Sin dalla campagna del 1952, gli spot televisivi a
contenuto politico sono cresciuti di numero e di sofisticatezza a ogni tornata elettorale, di pari passo
con il costo complessivo delle campagne stesse, di cui rappresentano la più significativa voce di
spesa. Nel corso degli anni si è poi imposto il formato standard di 30 secondi, mentre non era raro
nelle prime elezioni del dopoguerra imbattersi in contenuti molto più lunghi, anche di 30 minuti
(Papper, Holmes e Popovich, 2006).
2. La teoria. Approccio funzionale e spot positivi.
Gli spot elettorali sono usati dalla comunicazione politica per una varietà di ragioni,
semplici e complesse. Da un lato i candidati meno noti utilizzano gli spot televisivi per farsi
conoscere presso l’elettorato. West (1994), ad esempio, sostiene che gli spot televisivi abbiano
un’influenza sul grado di notorietà del candidato superiore alle news televisive o ai giornali.
Dall’altro lato, i candidati più famosi ricorrono ai messaggi commerciali per informare il proprio
elettorato su specifiche tematiche, per esprimere le proprie qualità personali, per enfatizzare la
propria vicinanza a determinati gruppi elettorali, attaccare i propri avversari o difendersi e replicare
e infine stimolare donazioni, volontari e creare entusiasmo attorno alla propria campagna.
(Martinelli e Chaffee, 1995). Sono molti i ricercatori che sostengono come gli spot elettorali siano,
per gli elettori, la fonte principale d’informazione sui candidati (Atkin e Heald, 1976).
Coloro che producono gli spot raggiungono i propri scopi informativi e persuasivi attraverso
un accurato lavoro di realizzazione dello spot stesso. Kaid e Johnston (2001) spiegano come nulla
sia lasciato al caso durante la creazione di questi video e come ogni aspetto, verbale o non verbale,
sia minuziosamente selezionato onde costruire quella “realtà” che serve alla definizione stessa del
candidato. Per essere efficaci, i contenuti dello spot devono intercettare gli istinti degli spettatori,
attivare le credenze primitive, l’identificazione partitica, le esperienze di vita e ogni stimolazione
ideologica che possa influenzare il processo di scelta elettorale. Alcuni studiosi arrivano perfino ad
avanzare un’ipotesi di priming1 al riguardo (West, 2005).
L’approccio funzionale è indicato per investigare i messaggi di tipo politico poiché essi
rispondono ad un unico fine: quello di vincere le elezioni. Per questo le campagne elettorali sono
1
Si ha un fenomeno di priming quando uno stimolo precedente influenza la risposta ad uno stimolo successivo, anche
se non vi è una correlazione diretta tra i due stimoli. Il priming sfrutta il meccanismo automatico, non ragionato,
dell'attivazione degli schemi mentali: lo stimolo sensoriale (parola, suono, immagine, odore).
strumentali (funzionali) per natura. Certo, esisteranno sempre candidature di bandiera, di
testimonianza o mosse dalla semplice volontà di far conoscere determinate ragioni. Ma le campagne
minimamente rilevanti sono tutte finalizzate alla vittoria, parziale o finale che sia.
Il primo assioma della teoria funzionalista è il seguente: “Il voto è un atto comparativo e gli
elettori si trovano di fronte a una scelta semplice, a una domanda ovvia: a chi dovrei dare il voto?”
(Benoit, 2003). Si tratta quindi di una decisione tra due o più candidati (o partiti) e sottintende un
giudizio comparativo. In sostanza la scelta dell’elettore è quale candidato appaia preferibile all’altro
o agli altri, sulla base di ciò che è più importante per l’elettore stesso. La parola “appaia” è usata per
sottolineare come la preferenza sia una percezione individuale del votante che si forma attorno a
molteplici fattori.
Non è certo fuor di logica pensare come elettori di uno stesso candidato possano aver
formato la propria opinione sulla base di ragionamenti molto distanti tra loro. Chi per ideologia, chi
per simpatia personale verso quel candidato, chi per interesse, chi perché convinto da determinate
linee programmatiche. Sono infinite le ragioni che stanno alla base del comportamento elettorale del
votante. Esse poi si possono compiere anche in condizioni di precaria o nulla informazione (Lupia e
McCubbins, 1998). Ma dal punto di vista dell’obiettivo del candidato, essere eletto, questo
comporta un’unica strategia: persuadere un numero sufficiente di elettori che egli/ella sia il miglior
candidato in corsa. Inoltre, l’idea che il voto sia una scelta tra candidati in competizione tra loro è
diventata ancor più importante a causa del contemporaneo declino dell’influenza dei partiti
(Wattenberg, 1998). Nelle elezioni dell’immediato secondo dopoguerra, ad esempio, il candidato
veniva solitamente scelto alla convention finale, le primarie si svolgevano solo in numero limitato
di stati e poteva perfino capitare che i notabili di partito scegliessero un candidato uscito sconfitto
dalla competizione intrapartitica.2 (Patterson, 1993). Dagli anni novanta, le primarie si tengono in
tutti gli stati, oltre che a Portorico e nel distretto di Columbia, e sono minuziosamente
regolamentate da un preciso calendario. La loro crescente rilevanza ha quindi gradualmente
cambiato la politica americana, dando sempre maggior importanza ai candidati e ai loro consulenti
politici.
Il secondo principio della teoria funzionalista suona così: “ogni candidato deve sapersi
distinguere dagli altri”. Assodato che il voto è un atto comparativo, appare logicamente conseguente
che i candidati debbano differenziarsi l’uno dall’altro. Semplicemente perché altrimenti gli elettori
non sarebbero in grado di compiere una scelta. E’ evidente quindi come i candidati debbano
2
Il riferimento in questo caso è alla campagna democratica del 1952. Estes Kefauver, senatore del Tennesse vinse
dodici primarie, perdendo in soli tre stati da candidati nati o eletti nello stato. Si presentò alla convention forte di oltre
tre milioni di voti. Tuttavia, il partito scelse il governatore dell’Illinois Adlai Stevenson che nella sua corsa aveva
conquistato la miseria di 78000 voti.
sviluppare una campagna elettorale tesa a mostrare le proprie caratteristiche distintive. A titolo
esemplificativo si veda la classica strategia del proporsi come “candidato che unisce”, che vedremo
utilizzata con successo da Barack Obama nel 2008, così come da George W. Bush nella campagna
del 2000: “I’ve..been called a uniter not a divider..” (Sono una figura che unisce, non un uomo che
divide). Lo stesso Obama, specie durante la serrata lotta con Hillary Clinton per assicurarsi la
nomination democratica nel 2008, ha più volte fatto appello al suo “dire sempre la verità agli
elettori”, frase che suona identica a quel “I will always tell the truth” dichiarato da John McCain
nella sua sfortunata campagna del 2000. Ma anche qui sono molte le possibili tattiche, dal
sottolineare il proprio bagaglio esperienziale al condurre una campagna fondata sui valori, ad
evidenziare un passato che magari nulla ha a che fare con la politica attiva, fino a puntare su un
forte piano programmatico.
Come hanno evidenziato alcuni politologi (Benoit 1999; Patterson, 1993) non è sulle issues
che i candidati tendono a differenziarsi, anzi, in questo caso, essi mostrano un’inclinazione
all’omologazione, nell’intento di cercar di intercettare gli umori dell’opinione pubblica.
Riprendendo parte dell’elaborazione concettuale della teoria economica della democrazia di Downs
(1957) si può affermare che “molti modelli spaziali dimostrano come l’orientamento dell’opinione
pubblica su certe issues abbia un’importante influenza sulle posizioni che i candidati assumono”.
Nell’analisi proposta da Benoit, si fa un confronto tra due candidati apparentemente opposti tra loro,
Nixon e Humphrey, avversari alle presidenziali del 1968, concludendo tuttavia come su molte
questioni avessero la stessa posizione. Questo perché, ed è un punto implicito, in campagne
elettorali fortemente incentrate sul candidato è spesso necessario “nascondere” i reali piani
programmatici che si ha intenzione di adottare. Sarebbe ovunque suicida, per un candidato, proporre
aumenti delle tasse, seppur giustificati. Così come, nel caso americano, battersi contro il secondo
emendamento, cioè quello di poter possedere armi liberamente. Essendoci un’ampia maggioranza a
sostegno della difesa di questo diritto, appare naturale come perfino un candidato dal profilo
apparentemente liberal come Barack Obama abbia realizzato spot televisivi a sostegno del diritto di
possesso di armi e della difesa personale (sia nel 2008 che nel 2012). La differenziazione maggiore
si ha quindi sulle qualità personali e sulle caratteristiche biografiche del candidato. Secondo
Kamber (1997) è infatti “indispensabile per un candidato instaurare un legame empatetico diretto
con gli elettori, da costruirsi facendosi percepire come simile a loro per abitudini, comportamenti e
caratteristiche morali”.
Il terzo pilastro della teoria funzionalista del discorso politico è che gli spot televisivi sono
lo strumento ideale per permettere la distinzione tra i candidati. Sebbene i cittadini possano
informarsi sui candidati attraverso i normali canali d’informazione, giornali, telegiornali, notiziari
radio o il web, non è detto che essi siano lo strumento ideale per formarsi un’opinione. Soprattutto
ci si chiede se l’informazione ”neutra” sia il mezzo ideale per conoscere le posizioni
programmatiche dei candidati. Sul punto infatti gli studiosi sono divisi. Patterson e McLure (1976),
nelle loro rilevazioni sulla campagna del 1972 affermano come “le persone più esposte agli spot
elettorali televisivi sono più informate sulle singole posizioni dei candidati sulle varie issues a
dispetto di coloro che hanno visto pochi spot e si informano prevalentemente tramite le news
tradizionali”. D’altro canto, Capizs (2006) sostiene come la maggioranza delle informazioni di
contenuto politico riportate dagli organi d’informazione siano prevalentemente parziali e talvolta
perfino distorsive e che quindi ciò possa confondere o male indirizzare il votante. Quel che è certo è
che i newsmedia rappresentano strumenti mediati e fuori dal controllo del contenuto da parte del
candidato. Gli spot elettorali sono l’unica opzione nella totale disponibilità del candidato. A questo
proposito Benoit (2003) aggiunge come anche i dibattiti presidenziali siano una buona possibilità
per differenziarsi dagli altri candidati, ma vi siano talmente tante variabili in gioco, che in realtà non
si sia mai in pieno controllo degli effetti possibili e che spesso essi rilascino ambiguità di fondo,
talora controproducenti.
Come abbiamo anticipato in precedenza, la necessità della distinzione si incrocia con il
dover distinguersi in senso positivo. Per citare un esempio già proposto, il candidato che si
dichiarasse favorevole a raddoppiare le tasse per tutti i cittadini, sicuramente si distinguerebbe dagli
altri, ma andrebbe incontro a sconfitta elettorale certa. Occorre quindi distinguersi in una maniera
che venga positivamente percepita dall’elettorato. Popkin (1994) spiega come sin dall’inizio della
campagna, i candidati si ritrovino ad avere gran parte degli elettori già posizionati su sponde
opposte, con ognuno di essi convinto che il “pacchetto” offerto dallo schieramento avversario sia
meno desiderabile di quello proposto dal proprio. Oltre a questi vi è una porzione di votanti
registrata come indipendente ed una quota di non partecipanti al voto che negli Stati Uniti si
mantiene costantemente superiore ad un terzo dell’intero elettorato.
Può sembrare banale ma va tenuto conto di come un candidato non abbia la necessità di
persuadere ogni elettore, ma quella di cercare di raggiungere il traguardo della maggioranza-piùuno dei grandi elettori. Questo è importante perché alcune posizioni politiche risultano come
naturalmente dicotomiche, attraendo elettori ma respingendone altri. Questo accresce la lotta
politica, ma riduce il guadagno netto in termini di voti, compattando schieramenti preesistenti.
Nell’infuocata campagna del 2000, ad esempio, Bush e Gore presero posizioni esattamente opposte
sul tema dei voucher alle scuole private. Bush li sosteneva, mentre il candidato democratico li
avversava. In questo caso essi quindi polarizzarono l’elettorato sensibile all’argomento, ottenendo
tuttavia una vantaggio netto di voti assai marginale. Inoltre, il caratteristico sistema del collegio
elettorale3 indirizza quasi sempre i candidati a concentrare la propria campagna e quindi i propri
messaggi solo negli gli stati contendibili, tralasciando quelli che vengono considerati già assegnati
in partenza. Si tratta di una strategia che permette di risparmiare tempo e denaro e che vale anche
per le primarie dei due partiti.
Nel 1960, Richard Nixon decise di fare campagna in ogni stato e perse le elezioni, un errore
che non replicò nella vincente campagna di otto anni dopo. Le campagne degli ultimi venti anni si
sono tutte concentrate unicamente sugli stati contendibili, i cosiddetti battleground states: Bill
Clinton nel 1992 impiegò tutte le sue risorse in soli nove stati in bilico; Bush e Gore nel 2000 si
affrontarono in 23 stati considerati contendibili; Bush e Kerry nel 2004 fecero campagna in 18 stati.
Barack Obama, nella campagna 2008, grazie all’enorme budget a disposizione è riuscito a
raggiungere tutti gli stati, magari anche solo con uno o due spot televisivi mirati. McCain, invece,
che poteva contare solo sui fondi federali, ha scelto di concentrarsi su 19 stati giudicati contendibili.
E’ evidente quindi come sia di fondamentale importanza la scelta dei territori nei quali essere
presenti e l’accuratezza dei sondaggi effettuati per stabilire quali siano gli stati effettivamente
contendibili. Matthew Dowd, responsabile della campagna di George W. Bush nel 2000, spiega con
chiarezza la strategia: “La scelta cruciale è quella degli stati. L’obiettivo è solo quello di
raggiungere la maggioranza nel collegio elettorale. Dal dicembre del 1999 non abbiamo più fatto
sondaggi nazionali” (Jamieson e Waldman, 2001, p.45).
Per muovere elettori da un fronte all’altro, per convincere gli indecisi e per trascinare al voto
gli scarsamente interessati, i candidati hanno a disposizione tre macro-categorie del discorso
politico.4 La strategia più tradizionale, e comune alle campagne elettorali di tutto il mondo, è quella
di diffondere messaggi di propaganda positiva (acclaims), tendenti a esaltare le qualità del
candidato. Esse possono fondarsi sulle caratteristiche personali, valoriali o esperienziali del
candidato: “I will always tell the truth..no matter what” (Dirò sempre la verità, non importa quale
sia) (McCain, 2000), “An experienced leader to bring America back” (Un leader esperto per
risollevare l’America) (Reagan, 1980). Oppure su precisi indirizzi programmatici: “I want
everybody who pay taxes to have their tax rates cut” (Voglio che tutti coloro che pagano le tasse
beneficino di tagli fiscali) (George W.Bush, 2000). Ogni candidato intende quindi di mettere in luce
i propri punti di forza, puntando ad attrarre elettori sulle tematiche che più gli risultano affini.
Gli spot televisivi positivi sono definiti come messaggi che sono “prevalentemente focalizzati
sull’avvaloramento del candidato che paga e realizza lo spot” (Kaid, 1996, p. 136). Johnson-Cartee
3
A un candidato presidenziale servono 270 grandi elettori per essere eletto (su un totale di 568), essi vengono assegnati
stato per stato secondo il sistema “winner-takes-all”. Solo Nebraska e Maine assegnano i propri grandi elettori a
seconda della maggioranza ottenuta in ciascun distretto elettorale interno allo stato stesso.
4
Usiamo il termine ‘discorso politico’ poiché le tre strategie non si riferiscono soltanto agli spot televisivi, ma all’intero
spettro comunicativo di un candidato in campagna elettorale: Interviste, dibattiti, comizi.
e Copeland (1997a) argomentano come la propaganda positiva sia utilizzata dalle campagne
moderne non soltanto per persuadere elettori, ma soprattutto per ottenere tre specifici obiettivi.
Aumentare la popolarità del candidato presso l’elettorato. Associare la figura del candidato a
specifici argomenti, a determinate immagini o valori, a gruppi o persone particolari. Attivare cioè
un processo di familiarizzazione e di associazione fisica e valoriale a narrazioni già conosciute
dall’elettore. Enfatizzare la somiglianza del candidato agli elettori (p.162). “Farlo percepire come
l’amico o il vicino di casa che tutti vorrebbero avere” (Capizs, 2006). Tuttavia, John Geer (2006),
nella sua poderosa analisi di 40 anni di spot elettorali, ha messo in luce come i messaggi di
propaganda positiva, che sono meno costretti alla giustificazione del proprio contenuto risultino in
realtà più menzogneri degli attacchi di negative campaigning che, essendo considerati arma più
affilata, sono chiamati ad una maggiore accuratezza informativa. La tecnica opposta alla
propaganda positiva è infatti quella di attaccare o criticare l’avversario/i. Mettere in luce le carenze
personali o programmatiche del competitor dovrebbe ridurne la desiderabilità agli occhi
dell’elettore. Sarebbe strano se risultasse che centinaia di candidati avessero speso milioni di dollari
per realizzare spot elettorali senza ricavarne effetti sull’elettorato. Sono numerosi gli studi che
evidenziano l’importanza di questo strumento sul comportamento elettorale del votante. Gli effetti
dell’elettorato possono essere raggruppati in tre categorie: effetti sul livello di conoscenza
dell’elettore; effetti sulla percezione del candidato da parte dell’elettore; effetti sulle preferenze di
voto.
L’elettore americano viene tradizionalmente considerato come non molto informato. Ci sono
studi che mostrano come molti cittadini non sappiano menzionare il nome del proprio deputato, dei
candidati in corsa per l’elezione e le problematiche oggetto della campagna elettorale. Le prime
pionieristiche ricerche sugli spot politici televisivi mostrarono come gli spot riescano a comunicare
efficacemente informazioni all’elettore, superando il problema dell’esposizione selettiva.
Confermando quindi la potenza dello strumento a disposizione, capace di recapitare il proprio
messaggio a tutti gli spettatori, non soltanto a quelli che già supportavano il candidato o il partito
(Atkin, Bowen, Nayman e Sheinkopf, 1973). Ricerche successive osservarono poi come gli spot
garantissero la riconoscibilità del nome del candidato. West (1994) rilevò, nel suo studio sulla
campagna senatoriale della California del 1992, come i video elettorali fossero un miglior veicolo
informativo dei notiziari televisivi e della stampa. Che gli elettori imparino di più sulle proposte del
candidato dagli spot che dalle news e dai dibattiti è rilevato da più parti (Patterson e McLure 1976,
Bowen, 1994). Anche le caratteristiche dell’elettore possono giocare un ruolo importante. Sebbene
gli studi in questo ambito non abbondino, si può riscontrare come gli elettori con un minor grado di
conoscenza e gli indecisi siano maggiormente sensibili agli spot politici (Bowen, 1994).
Anche la teoria dell’agenda-setting ha contribuito a far comprendere gli effetti cognitivi
degli spot politici. Il contenuto degli spot concernenti issues produce effetti sulla salienza
dell’argomento in questione per l’elettore, e influenza l’agenda mediatica dei notiziari e degli
approfondimenti televisivi d’informazione. Uno degli effetti più confermati dalle varie ricerche
condotte sul tema è quello relativo alla percezione del candidato da parte dell’elettore. West (1993),
ad esempio, analizzando comportamenti di voto e caratteristiche degli elettori nelle elezioni dal
1972 al 1992 ha riscontrato significativi impatti sulla valutazione del candidato. Nello specifico, gli
spot programmatici sembrano avere una miglior influenza sullo spettatore degli spot sulle
caratteristiche personali dei candidati e che i video di propaganda negativa sembrano produrre
talvolta effetti negativi sia sull’attaccato che sull’attaccante. Per quel che riguarda il comportamento
elettorale vero e proprio, vi sono molte ricerche che mostrano come gli spot televisivi abbiano
orientato l’elettore verso un candidato piuttosto che un altro o ancor più abbiano influenzato gli
indecisi e gli astenuti tendenziali (Bowen, 1994). Anche qui sembra giocare un ruolo importante la
conoscenza e la cultura dell’elettore, oltreché l’attivismo politico pregresso (West, 1994).
Gli spot elettorali sembrano quindi conservare tutta la loro potenza e anche studi più recenti
lo confermano. L’apertura di un secondo canale, poi, ha permesso di allargare ulteriormente la
platea a disposizione. Attraverso internet, l’elettore può ricercare un numero infinito di informazioni
sul candidato e sui suoi piani per il Paese. Questo a tutto vantaggio dell’elettorato informato, che
può approfondire ogni argomento a sua discrezione. I cittadini disinteressati, invece, conteranno
ancora e unicamente sugli spot televisivi (Howard, 2006).
3. La propaganda negativa.
Il negative campaigning è una caratteristica peculiare delle campagne elettorali americane.
Un unicum raramente riscontrabile altrove. Le sue origini sono un tutt’uno con le prime campagne
elettorali della fine del XVIII secolo e le cronache di quegli anni riportano manovre calunniose che
farebbero impallidire le moderne polemiche sul ricorso al mudslinging.5
Gli spot televisivi sono il veicolo principale per la propaganda negativa e la prima campagna
elettorale che vide il ricorso al mezzo televisivo, quella del 1952 tra Eisenhower e Stevenson, fu una
delle più negative di sempre. Ben il 66% di tutti gli spot prodotti in quella campagna erano negativi.
Tuttavia, l’ammontare generale di propaganda negativa varia significativamente da una campagna
5
Le prime campagne elettorali, che videro battersi molti dei Padri Fondatori, furono caratterizzate da eccessi di
propaganda negativa. Il riferimento alle ‘polemiche odierne’ è invece relativo all’attacco portato dal gruppo pseudo
indipendente “Swift Boat Veterans for Truth” contro John Kerry nel 2004 sui suoi trascorsi militari e dalla campagna
virale via internet del 2008 condotta contro Barack Obama che asseriva come il candidato afroamericano fosse
musulmano.
all’altra, dal minimo del 10% del 1960 fino al 68% della corsa presidenziale del 1992 (Kaid e
Johnston, 2001).
I critici sono nel giusto quando condannano il crescente uso dei messaggi negativi nelle
elezioni recenti. Gli spot negativi rappresentavano poco più di un terzo (il 38%) di tutti gli spot
realizzati tra il 1952 e il 1996, ma dal 1992 le campagne stanno producendo più spot negativi che
spot positivi. I candidati sfidanti, ad esempio, sono più orientati ad usare spot d’attacco al fine di
compensare budget inferiori (Johnson-Cartee e Copeland, 1997) e di accrescere la propria copertura
informativa da parte di stampa e telegiornali (Lau e Pomper, 2002). Il numero di spot negativi varia
non solo da elezione a elezione, ma anche durante una stessa corsa presidenziale. Per esempio, la
campagna 2004 di George W. Bush toccò picchi di spot negativi contro Kerry in luglio (100%
negativi), in ottobre (90% negativi) e in aprile (80%), mentre in mesi come settembre o marzo (15%
e 35% rispettivamente di negative campaigning) il Presidente uscente preferì diffondere messaggi
positivi. Nel mese di giugno, infine, la campagna di Bush non fece trasmettere alcuno spot di
propaganda negativa (West, 2005, p. 38).
Un elemento comune a tutte le strategie citate è quello che i candidati che iniziano l’attacco
tendono a dissociarsi dal messaggio e a lasciare a “surrogati” il compito di perpetrare e diffondere il
messaggio negativo. Nella loro ricerca, Kaid e Johnston (2001) riscontrarono come solo nel 17% di
tutti gli spot di negative campaigning dal 1952 al 1996 sono contenute rappresentazioni video o
audio dei candidati responsabili degli attacchi.
L’eccezionalità americana in materia è dovuta ad una serie di fattori: un sistema elettorale
maggioritario uninominale a tutti i livelli, un sistema di primarie ormai diffuso in tutti gli stati
dell’Unione, una salda tradizione di pubblicità comparativa a livello commerciale, un elettore medio
sostanzialmente depoliticizzato,6 un latente puritanesimo, una generale perdita d’importanza dei
partiti ed una contestuale crescente personalizzazione della politica (Polsby, 1983).
Gli spot di negative campaigning vengono definiti tali quando “implicitamente o
esplicitamente ritraggono l’avversario in una posizione inferiore” (Johnson-Cartee e Copeland,
1997a, p. 20). Il dibattito in letteratura si può riassumere attraverso le due posizioni teoriche
principali: da un lato vi sono i sostenitori della cosiddetta ipotesi della demobilitazione, dall’altro i
fautori del valore democratizzante della propaganda negativa. Alcuni commentatori osservano come
la propaganda negativa avveleni il dibattito politico poiché presenta argomenti che sono “ridicoli,
irrilevanti e irresponsabili”, trascinando la discussione al livello dei tabloid scandalistici. (Kamber,
1997). Si tratta di riflessioni molto comuni. Il titolo di un famoso volume di Kathleen Hall Jamieson
6
L’ISI test, test di educazione civica che viene somministrato ogni anno a diverse fasce di elettori, mostra un elettorato
con gravi lacune nella conoscenza di aspetti centrali della vita pubblica. Questo potrebbe significare un sostanziale
disinteresse per gli aspetti più profondi connessi alla scelta di voto.
(1992) rappresenta bene un certo diffuso malessere: Dirty Politics: Deception, Distraction and
Democracy, dove si sottolinea l’associazione tra negative advertising e inganno. Secondo Bartels
(2008, 1) anche l’opinione pubblica condivide questo disgusto: “la percezione del processo
elettorale da parte del cittadino è caratterizzata dal cinismo e dall’insoddisfazione per la natura e i
toni delle campagne elettorali contemporanee”. In sostanza, quindi disincentiva l’elettore a
impegnarsi politicamente. (Ansolabehere e Iyengar, 1995) Come ha osservato Lynn Sanders, (1997,
348), infatti, la deliberazione richiede civiltà e mutuo rispetto tra i partecipanti. Alla base di queste
teorie vi è l’assunto che l’elettore sia disattento e facilmente manipolabile, soggiogato dalle
emozioni e vulnerabile alla demagogia (Brader, 2006).
La discriminante essenziale tra le due scuole di pensiero è su come vada inteso il
comportamento politico dell’elettore. Alcuni studiosi sostengono che un elettore scarsamente
informato compia comunque scelte razionali sulle issues a cui è interessato (Lupia e McCubbins,
1998). Altri aggiungono che “emozioni e ragione interagiscono producendo un’attenta e riflessiva
cittadinanza” e che lo scambio di “colpi bassi” tra i candidati permetta ai votanti di soppesare
adeguatamente bonus e malus di ciascuna figura e che in generale
la lotta politica stimoli
l’interesse degli elettori (Geer, 2006). Si tratta qui della cosiddetta ipotesi democratizzante, che
vede nella propaganda negativa un’occasione di allargamento del dibattito e l’avvio di discussioni
su temi altrimenti marginalizzati. Perché appellarsi alla necessità di discussioni civili e moderate?
La democrazia impone che si sappia tutto di tutti, che i candidati siano trasparenti e giudicabili
avendo a disposizione ogni dettaglio della loro vita privata e pubblica (Riker, 1996). A supporto di
questo approccio vi è inoltre il dato che emerge da alcune ricerche che hanno analizzato le
campagne elettorali americane nel corso degli anni: i messaggi di propaganda positiva sono
tendenzialmente più falsi di quelli negativi, perché hanno meno necessità di giustificare il proprio
contenuto (Geer e Geer, 2003). Ad esempio, il messaggio “Huckabee è un ottimo amministratore
perché da governatore dell’Arkansas ha abbassato le tasse, mantenendo il pareggio di bilancio”
seppur neutro, risulta ben più menzognero dell’ipotetico “Huckabee è un buon padre di famiglia a
differenza di Giuliani che è un adultero, pluridivorziato con discutibili amicizie omosessuali”.
Spesso, infatti, l’utilizzo di particolari tematiche, solitamente di carattere privato, confonde
l’osservatore, incapace poi di identificare la reale autenticità del messaggio in sé. Il disaccordo sugli
effetti delle campagne negative è legato al fatto che non sempre gli studiosi hanno proposto una
definizione univoca del concetto e dei suoi limiti. Spesso si identifica la propaganda negativa con la
sua deriva estrema: il cosiddetto mudslinging, quando, cioè, la comunicazione valica il limite della
veridicità del contenuto e diventa calunnia.
Con l’affermazione del web le opportunità di lanciare attacchi si sono moltiplicate,
riducendo l'esigenza di budget pubblicitari considerevoli. Internet è il mezzo ideale per attuare
campagne denigratorie che avvengono “sotto traccia”, offrendo così ai candidati due vantaggi: in
primo luogo, gli attacchi possono rimanere anonimi, consentendo ai loro promotori di sfuggire alle
responsabilità politiche a cui dovrebbero far fronte se fossero smascherati come gli artefici di
accuse particolarmente gravi; in secondo luogo, le offese si possono diffondere verso gruppi più o
meno selezionati di elettori e leader di opinione senza che gli avversari ne vengano a conoscenza,
almeno nella prima fase, consentendo così alle calunnie di sedimentarsi nelle coscienze di una parte
della cittadinanza prima che le loro vittime abbiano il tempo e la possibilità di rispondere.
Niccolò Machiavelli sosteneva che le calunnie anonime, diffondendosi senza confronto
pubblico, non permettono il diritto di replica e dunque falsano il dibattito democratico.7 D’altra
parte la Corte Suprema statunitense ha stabilito il diritto di proferire discorsi anonimi. Al riguardo,
fa giurisprudenza la sentenza McIntyre vs Commissione Elettorale dell’Ohio del 1995:
La protezione dei contenuti anonimi è vitale per la democrazia. Consentire ai dissenzienti di proteggere la loro
identità li rende più liberi e sicuri di esprimere critiche e opinioni minoritarie … L’anonimato è uno scudo che
protegge dalla tirannia della maggioranza … Questo dice la Costituzione nel Primo Emendamento: proteggere
gli individui impopolari dalle rappresaglie di una società intollerante.
Alle origini stesse della democrazia americana vi sono numerosi attacchi calunniosi tra le
personalità politiche dell’epoca. I padri fondatori, però, non disponevano della televisione né di
internet e le campagne denigratorie si risolvevano nella cerchia ristretta di élite che potevano
verificare l’informazione; in questo contesto, anche gli attacchi più pericolosi potevano essere
ribattuti e circoscritti. Nell'ultimo decennio, le campagne anonime di calunnie hanno rivestito un
ruolo centrale nelle elezioni presidenziali. Nel 2000, le accuse, condotte attraverso telefonate
automatiche (robocalls) e catene di email, secondo cui un bambino che John McCain aveva adottato
dal Bangladesh fosse invece nato da una sua relazione extraconiugale contribuirono alla sua
sconfitta contro George W. Bush nelle decisive primarie repubblicane della South Carolina. Le
sfide presidenziali del 2004 e del 2008 hanno visto la realizzazione di due campagne calunniose,
organizzate in ambienti conservatori contro candidati democratici: gli attacchi denigratori del
gruppo indipendente Swift Boat Veterans for Truth contro John Kerry nel 2004 e le dicerie sulla
presunta religione musulmana di Barack Obama nel 2008.
7
L'argomento è trattato nel settimo capitolo dei Discorsi (2000).
La propaganda negativa può essere diretta contro le policies proposte dall’avversario o
contro il character, cioè le caratteristiche personali stesse dell’avversario politico. E’ evidente come
in quest’ultimo caso si tratti della tipologia di attacco più violenta e che talvolta essa si possa
ritorcere contro l’emittente generando una sorta di solidarietà morale con la vittima dell’attacco
personale. La ricerca di Benoit e McHale (2003) evidenzia come i vincitori delle elezioni degli
ultimi 50 anni tendenzialmente attacchino di più sulle politiche che sulla persona, rispetto a coloro
che sono usciti perdenti dallo scontro elettorale.
Oltre a realizzare propaganda positiva e negativa, talvolta ci si deve difendere dagli attacchi
dell’avversario/i. La difesa è importante non soltanto per la circostanza in essere ma deve essere
tempistica e appropriata onde poter prevenire danni futuri e ristabilire il profilo danneggiato del
candidato. Si tratta di un aspetto spesso sottovalutato dai candidati. E’ capitato infatti più volte che i
politici sotto attacco evitassero di rispondere, per non dare dignità all’attacco subito e non creare
ulteriore pubblicità e notiziabilità attorno alla questione e quindi sottolineare eventuali debolezze.
Inoltre, rispondere ad un attacco toglie tempo e denaro alla campagna e ad altri messaggi che si
vorrebbero comunicare. Tuttavia, alcuni noti esempi recenti mostrano come sia essenziale
rispondere tempisticamente agli attacchi subiti. Nel 2004, John Kerry sottovalutò la campagna
denigratoria orchestrata dal gruppo Swift Boat Veterans for Truth sui suoi trascorsi militari. Tardò a
rispondere, e gli attacchi, che mescolavano abilmente verità e finzione, finirono per
comprometterne l’elezione, spostando alcuni decisivi pacchetti di voti. Quattro anni dopo, Barack
Obama, di fronte alle accuse di essere musulmano, reagì con prontezza, formando una squadra di
collaboratori dedita a cacciare e a confutare tutti gli attacchi, veri o falsi che fossero, diretti contro
di lui. A novembre 2008, la percentuale di coloro che credevano nella supposta fede islamica di
Obama era ridotta a numeri fisiologici.
Aldilà dei casi specifici è comunque elaborabile una regola generale: se l’attacco appartiene
alla categoria del mudslinging, cioè è falso, conviene difendersi e contrattaccare fino a smascherare
l’attacco fraudolento. Se invece la propaganda negativa poggia su basi reali è forse preferibile non
rispondere, dal momento che si andrebbe a creare ulteriore interesse intorno alla questione in
oggetto, che rappresenta pur sempre una debolezza del candidato. In uno studio condotto da Benoit
(2007) sulle campagne presidenziali dal dopoguerra al 2000 si evidenzia come i candidati abbiano
principalmente prediletto la propaganda propositiva, quindi quella negativa e da ultima, i messaggi
difensivi.
4. I temi della campagna presidenziale 2008.
La campagna presidenziale 2008 ha superato ogni record rispetto alle precedenti in quanto a
raccolta fondi e spesa individuale dei candidati. La campagna di McCain ha raccolto circa 238
milioni di dollari, mentre quella di Obama una cifra di quasi tre volte superiore, avendo a
disposizione fondi per 659,7 milioni di dollari (Pew, 2008). Va inoltre sottolineato come McCain
abbia potuto contare su un budget inferiore perfino a quello raccolto da Hillary Clinton per le
primarie democratiche e quindi si sia presentato alla competizione presidenziale in una situazione di
netta inferiorità, solo in parte colmata dagli spot realizzati direttamente dal partito repubblicano o
dai gruppi filoconservatori.
Per quanto riguarda gli spot elettorali televisivi, McCain ha speso 135,5 milioni di dollari,
Obama quasi il doppio, cioè 236 milioni di dollari. Secondo Craig Smith (Jones, 2005), manager
della campagna di Joe Lieberman nella campagna per le primarie democratiche del 2004, “di regola
il 75% dei fondi della campagna viene usato per la comunicazione a pagamento: lettere postali, spot
televisivi e radiofonici, banner pubblicitari su internet”. Va da sé che la campagna di Obama, grazie
al budget a disposizione, ha potuto destinare risorse colossali verso ogni tipo di comunicazione,
senza infrangere la tradizionale suddivisione della “torta” dei fondi.
Sul piano retorico, gran parte della campagna è stata fatta di attacchi di propaganda negativa.
Molti degli spot sono serviti soltanto a lanciare accuse e a screditare il rivale su uno specifico tema
e non a proporre chiare linee programmatiche. In questo senso è stato maestro Obama, che in
termini vaghi fa cenno ai propri piani, ma si serve di ogni singola issue per accostare il suo rivale a
George W. Bush, ai “lobbisti di Washington” e dipingendolo come lontano dai bisogni e dalle
difficoltà della classe media. Proprio il costante riferimento alla classe media appare come una delle
idee più azzeccate della campagna 2008 di Obama. Lo staff del candidato democratico ha infatti
saputo utilizzare al meglio la crescente situazione di difficoltà economica per intercettare gli umori
e le paure delle classi lavoratrici a cui ha proposto tagli fiscali mirati. Proprio sul tema delle tasse,
che alla fine è stato anche in queste presidenziali il più dibattuto, McCain ha invece diffuso un
messaggio più generico, finendo con l’essere accusato di favorire le multinazionali e i più ricchi.
D’altro canto, l’impopolarità di Bush ha costretto McCain a impostare una campagna di rottura, da
sfidante, confidando sul suo riconosciuto pedigree di “cane sciolto” repubblicano. Anch’egli quindi,
seppur con maggior circospezione, ha cercato di impostare un discorso basato sul “cambiamento”
corroborato dal suo fattore esperienziale. Tuttavia, con l’acuirsi della crisi economica, tra i due
messaggi di cambiamento non c’è stata vera competizione e gli elettori hanno preferito il candidato
genuinamente più nuovo. Inoltre, il ricorso di McCain alla retorica del change, avvenuta negli
ultimi due mesi di campagna, ha in parte disorientato l’elettorato, uso a tutto un altro tipo di
messaggio e, complice la discutibile scelta di Sarah Palin come contraltare “giovane” nel ticket
repubblicano, non ha giovato al candidato.
McCain ha costantemente attaccato l’inesperienza dell’avversario, contando sulla propria
eroica storia personale e sulla presenza pluridecennale in Senato. Ma la guerra in Iraq e le tematiche
di sicurezza nazionale e di lotta al terrorismo sono finite in secondo piano rispetto alle montanti
problematiche economiche; pertanto il candidato repubblicano non ha potuto monetizzare quelle
issues sulle quali godeva della fiducia degli elettori. Su molte altre questioni ha cercato di
difendersi, finendo però soverchiato dalle disponiblità economiche e dal fuoco di fila rappresentato
dagli onnipresenti spot di Obama.
Dai dati riassuntivi emerge una campagna repubblicana sostanzialmente tradizionale, che ha
posto molta attenzione al tema delle tasse e della spesa pubblica (unica issue sulla quale McCain ha
investito nettamente di più rispetto a Obama), confidando nella retorica antistatalista e antifiscale
che spesso in passato aveva premiato candidati repubblicani. McCain e Palin hanno poi cercato di
mostrarsi come riformatori, come original mavericks, contando sulle proprie eterodosse storie
personali. Tuttavia, è apparso subito chiaro come il loro fosse un messaggio “di rimessa”, al traino
dell’originale narrazione del cambiamento, incarnata, anche fisicamente da Barack Obama. La
campagna di McCain si è dimostrata ondivaga anche nel metodo degli attacchi di propaganda
negativa contro Obama. Dalla fine di luglio e per tutto agosto, gli spot di McCain si sono focalizzati
sul messaggio “Obama celebrità”, cercando di ridicolizzare la figura del candidato democratico,
indicandolo come incapace di autorevolezza e competenza di governo e tacciandolo quindi di essere
una sorta di “moda passeggera” (in quel periodo gli spot si aprivano con una folla che inneggiava a
Obama e con le parole “è la più grande celebrità del Pianeta”). Da settembre in poi, invece,
celebrity Obama ha lasciato spazio allo slogan “Chi è Barack Obama?”, volutamente dietrologico e
che in un qualche modo voleva legare il candidato democratico alle innumerevoli insinuazioni
circolanti soprattutto in internet (Obama è musulmano, i legami con l’ex terrorista Ayers etc..).
Obama invece, al di là del dominio generale su ogni tema trattato, ha saputo fare leva su
classici temi democratici come la sanità e la formazione scolastica, particolarmente sentiti in un
momento di profonda contrazione economica, collegandoli sapientemente, appunto, a temi
economici. Va segnalata poi l’importanza rivestita da argomenti come le politiche energetiche e il
costo della benzina, comunque interconnessi e sempre compresi nel macro-tema economico. Qui i
candidati si sono cimentati proponendo sostanzialmente le stesse cose, ma anche in questo caso, la
disponibilità economica di Obama ha annichilito a colpi di spot l’avversario.
Il candidato democratico ha attaccato il rivale su ogni tema. McCain, non avendo le risorse
economiche per rispondere ha finito per essere afflitto dalla propaganda dell’avversario, facilitata
dalla scelta di Sarah Palin alla vicepresidenza, figura politica che è stata bersaglio di frequenti
attacchi. La scelta della governatrice dell’Alaska ha dato un’iniziale forte spinta a McCain, che nei
sondaggi di inizio e metà settembre era riuscito a scavalcare Obama. L’opzione Palin aveva
galvanizzato l’ala più conservatrice del partito che fino a quel momento si sentiva
sottorappresentata da un candidato moderato come McCain. Inoltre, la coraggiosa scelta di una
donna giovane e poco nota al grande pubblico aveva suscitato interesse e curiosità sia nell’elettorato
femminile che nell’opinione pubblica generale. Ma le scadenti performance televisive della Palin,
gli spot di attacco di Obama e dei gruppi fiancheggiatori alle sue capacità e alla sua cultura e
l’ondivaga reazione di McCain al momento di difficoltà economica (che inconsapevolmente è finita
con l’avvalorare gli spot di Obama in cui McCain ripeteva “i fondamenti della nostra economia
sono solidi”) hanno permesso a Obama di tornare a condurre nei sondaggi e infine di vincere le
elezioni con ampio margine. La campagna di Obama si è contraddistinta per un tasso di propaganda
negativa superiore a quella dell’avversario (Figura 1).
Fig. 1: Negative campaigning realizzato dai candidati. Ottenuto misurando la semplice menzione
negativa dell’avversario politico (Obama (100=92), McCain (100=84).
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
71.73
59.75
Obama
McCain
Negative (%)
Fonte: Nostra elaborazione.
La campagna 2008, pur essendosi caratterizzata per la voglia di cambiamento a fronte di un
Presidente uscente assai impopolare, ha visto repubblicani e democratici scontrarsi utilizzando i
temi a loro più tradizionalmente affini. Da un lato, quindi, lo stato minimo e l’attenzione al bilancio;
dall’altro l’educazione e l’estensione delle tutele sanitarie. Entrambi i candidati hanno poi fatto un
largo uso della retorica antifiscale, proponendo ciascuno ampi tagli delle tasse. Sebbene si
prevedesse che la guerra in Iraq fosse la issue principale, ogni attenzione venne invece catalizzata
dalla questione economica, a causa della crisi finanziaria scoppiata proprio nel momento più
importante della campagna, subito dopo l’estate. Obama e McCain hanno calibrato la quasi totalità
dei loro messaggi sul problema economico, declinando in tal senso sia questioni affini come la
disoccupazione, la delocalizzazione delle imprese nei paesi emergenti e il prezzo della benzina, che
argomenti apparentemente lontani come l’energia pulita, le politiche ambientali e la riforma
sanitaria stessa. Su un piano retorico la campagna ha anche ricordato la corsa elettorale del 1960 tra
Kennedy e Nixon, dove il candidato democratico proponeva un’immagine di giovinezza e
cambiamento a fronte di un avversario che puntava sull’esperienza.
L’analisi sull’allocazione delle risorse per spot elettorale ha mostrato come l’immensa
capacità finanziaria a disposizione di Obama abbia permesso al candidato democratico di essere
presente su ogni issue, investendo quasi sempre su ciascuna di esse più soldi dell’avversario.
McCain ha prevalso quantitativamente solo sulle tematiche della corruzione, della spesa pubblica,
dell’energia e dell’immigrazione. D’altra parte lo svantaggio economico dei repubblicani era
notevole ed era quindi impossibile per McCain poter controbattere alla pari su ogni questione contro
la macchina di spot democratica.
Il fattore esperienziale, sul quale ha molto puntato il candidato repubblicano, non è stato di
grande aiuto. Obama, al Senato federale da appena quattro anni, ha potuto attaccare il rivale sul
voto favorevole dato nel 2003 all’intervento in Iraq; inoltre, la propaganda repubblicana aveva
fortemente caratterizzato il valore esperienziale in senso militare, onde appoggiarsi all’eroico
comportamento di McCain in Vietnam, pertanto il lungo curriculum politico del senatore
dell’Arizona non potè essere speso sulle questioni relative alla crisi economica. Anzi, Obama
attaccò il rivale proprio facendo leva su alcune dichiarazioni passate di McCain nelle quali
candidamente affermava di “capirne molto di politica estera, ma poco di economia”.
L’analisi individuale di ogni campagna ci ha poi consentito di mettere in luce uno dei dati
più sorprendenti, cioè che Obama ha fatto ricorso al negative campaigning in misura nettamente
superiore rispetto a McCain. La sorpresa deriva dalla percezione collettiva della candidatura di
Obama, alimentata dalla campagna stessa e legata alla retorica del cambiamento e degli appelli
all’unità bipartisan. La nostra spiegazione, supportata dalle ricerche di altri studiosi, si fonda sulla
convinzione della copertura mediatica favorevole che tutti i grandi network giornalistici hanno
riservato a Obama e sulla vastità semantica dei messaggi prodotti dalla sua campagna. McCain, a
corto di fondi, è sempre sembrato rincorrere l’avversario e il breve sorpasso nei sondaggi di fine
estate era dovuto all’effetto novità rappresentato dalla Palin, che ben presto si è però rivelata una
scelta controproducente, a causa del profilo ideologico estremo della candidata e le pessime
performance televisive dove ha esibito gravi lacune culturali.
Entrambi i candidati hanno fatto ampio uso delle proprie storie biografiche. Obama
proponendosi come moderna incarnazione dell’American dream: un afroamericano figlio di un
povero immigrato che diventa Presidente. McCain ripetendo costantemente le immagini dei suoi
cinque anni di torture e prigionia in Vietnam, quando rifiutò di essere liberato per restare accanto ai
suoi commilitoni ancora sequestrati. Il candidato repubblicano si è anche servito della sua immagine
di maverick della politica americana, conquistata grazie all’attivismo dimostrato su alcune leggi
bipartisan, come quella sull’immigrazione. Come di consueto hanno poi esibito gli affetti familiari:
Obama la moglie e le figlie bambine, McCain l’anziana madre e la moglie impegnata in iniziative
benefiche. Molto frequenti anche i richiami ai valori della fede e della Patria, giudicate da sempre
caratteristiche essenziali di un candidato alla presidenza. Obama ha anche insistentemente attaccato
la vicinanza di McCain con Bush, avendo gioco facile nel ripescare spot di McCain per le primarie,
dove il candidato Repubblicano, per conquistare voti conservatori, aveva spesso mostrato continuità
con il Presidente uscente, salvo poi quasi “disconoscerlo” nel contesto presidenziale quando
l’obiettivo era la conquista dei voti moderati e indipendenti. Questo episodio, legato all’incoerenza
di McCain verso Bush, mette in luce la profonda discrepanza tra il contesto delle primarie e quello
presidenziale. Spesso, osservatori superficiali vedono le due corse elettorali come un’unica lunga
sfida verso la presidenza. In realtà dal punto di vista dell’analisi delle campagne elettorali, i due
momenti sono profondamenti distinti per strategie, immagini e anche per fini politici. I metodi di
voto per le primarie danno infatti grande potere alle frange più attive dell’elettorato, che spesso però
sono anche le più ideologizzate. Questo porta i candidati a competere per conquistare il voto dei
sostenitori più attivi e talvolta anche delle ali più estreme dei rispettivi partiti. Questo è stato
particolarmente evidente in campo repubblicano, con McCain che ha dapprima blandito i
conservatori e gli evangelici orfani di Bush, proponendosi come erede del Presidente uscente e di
popolarissime figure del passato come quella di Reagan, salvo poi impostare una campagna
presidenziale tutta giocata sul moderatismo e sul profilo maverick capace di superare le fratture
ideologiche presenti nel paese. Obama ha invece mantenuto un comportamento più lineare,
mantenendo ferma la barra sulla retorica del cambiamento, sulla necessità di “riunire il paese” e
inasprendo soltanto il negative campaigning.
Il candidato democratico ha astutamente creato messaggi specifici per ogni stato, talvolta
apportando solo minime ma decisive correzioni a “spot-clichè” generali ed è stato l’unico a parlare
in spagnolo all’elettorato ispanico, mentre tutti gli altri candidati analizzati si sono limitati a
narratori in lingua originale o a semplici traduzioni sovrascritte. Obama, grazie ai fondi a
disposizione, ha potuto inoltre fare campagna in tutti e 50 gli stati, a differenza di McCain che si è
dovuto concentrare sui battleground states. L’analisi sull’allocazione delle risorse ha però mostrato
come anche Obama abbia in definitiva concentrato i suo sforzi su non più di 18-20 stati,
confermando quindi una delle regole della teoria funzionalista, esposte nella parte introduttiva, cioè
la pragmatica necessità di convincere un solo elettore più del necessario e non quindi di dover
persuadere l’intero elettorato, impresa improba, anti-economica e in fondo inutile.
Sebbene McCain abbia potuto beneficiare di tre mesi in più di campagna grazie al protrarsi
dell’estenuante battaglia intra-democratica e pur lodevolmente insistendo sul profilo esperienziale,
bipartisan e sulla sua storia di eroe di guerra, non è mai sembrato in grado di veicolare un proprio
messaggio forte, a fronte di un Obama che incarnava anche fisicamente il desiderio di cambiamento
e che ha saputo monetizzare i forti attacchi di propaganda negativa rivolti soprattutto sulla presunta
incompetenza economica di McCain. Questa situazione conferma un altro degli assiomi citati in
letteratura: la necessità di distinguersi dall’avversario per raggiungere la vittoria elettorale, onde
poter essere agevolmente “riconosciuti” dagli elettori.
5. La campagna del 2012. Temi e strategie principali.
Come nella più classica contrapposizione tra democratici e repubblicani, sono stati i temi economici
e fiscali ad aver avuto la maggiore rilevanza in campagna elettorale. Fin dall’inizio, i due candidati
hanno cercato di veicolare due visioni differenti di Stato e di società. Liberista e anti-statale
l’America che voleva Romney, più attenta al welfare quella proposta da Obama. Romney ha battuto
sul tasto della disoccupazione, che ancora pochi giorni prima del voto era di poco inferiore all’8%, e
su una radicale riforma del fisco. Il piano di Romney, la cui impostazione richiamava da vicino
quella dell’amministrazione Reagan, vedeva nell’invadenza del governo centrale il freno allo
sviluppo (Bon, 2012).
Richiamandosi al modello dell’amministrazione Clinton, Obama riteneva invece che per
risolvere la crisi produttiva ed occupazionale fosse necessario un efficace intervento dello stato
sull’economia. Nel piano del Presidente emergeva il principio secondo il quale lo strumento fiscale
dovesse essere usato per modificare il comportamento degli individui e delle imprese al fine di
costruire un tessuto sociale più omogeneo e resistente alle crisi economiche. Obama proponeva di
rafforzare la sua politica di tassazione e spesa federale, aggiungendo un innalzamento della
pressione fiscale sui contribuenti che guadagnano più di 250.000 dollari annui. A questo si
sarebbero aggiunti modesti tagli al bilancio federale, fra cui i principali avrebbero riguardato la
spesa per operazioni militari internazionali.
Il candidato repubblicano non è mai riuscito a chiarire quale fosse il suo approccio generale
alle questioni di politica estera. Talvolta sembrava affine al realismo di Bush Sr. o di Eisenhower,
come dedotto dall’indicazione di Robert Zoellick a guidare il team di transizione in caso di vittoria;
ma in altre ancora, forse per non dispiacere l’ala neoconservatrice, Romney si esprimeva in termini
che riecheggiavano l’idealismo di George W. Bush, specie quello aggressivo e interventista del suo
primo mandato (Klein, 2012). Qualcosa è cambiato sul finire della campagna: Romney ha iniziato
ad attaccare violentemente il presidente uscente sulla morte dell’ambasciatore americano in Libia,
giudicando l’amministrazione Obama incapace di proteggere i suoi uomini. L’argomento era
particolarmente delicato poiché metteva in dubbio le qualità di “comandante in capo” del presidente
uscente. Obama è stato però abile e fortunato a farsi scudo delle dichiarazioni del Segretario di
Stato Hillary Clinton e dell’allora capo della Cia Petraeus che si assunsero in toto eventuali
responsabilità, certificando l’assoluta correttezza del presidente.
Al di là dei temi specifici, un ruolo importante nella campagna elettorale lo ha giocato
l’uragano Sandy, che si è abbattuto sulla costa orientale la settimana precedente il voto. Non si potrà
mai appurare l’influenza di questo evento sul comportamento di voto degli elettori. Ma è certo che,
avendo ottimamente reagito alla catastrofe, Obama non abbia subito danni di immagine. Anzi, la
catastrofe naturale ha consentito al presidente non solo di avere un ruolo di primo piano a livello
mediatico, ma anche di poter dimostrare le sue capacità di Commander in Chief. Inoltre, Obama ha
ottenuto l’aperto sostegno del sindaco di New York, il repubblicano indipendente Michael
Bloomberg e parole di stima dal governatore del New Jersey Chris Christie, anch’esso
repubblicano. Una gestione sbagliata del passaggio dell’uragano, dei soccorsi e del ritorno alla
normalità avrebbe potuto avere conseguenze devastanti sulla popolarità di Obama, con effetti simili
a quelli che la sciagurata gestione dell’uragano Katrina del 2005 ebbero sull’immagine di George
W. Bush.
Se la campagna elettorale del 2008 fu all’avanguardia nell’utilizzo di Facebook, Twitter e
YouTube - tre piattaforme che prima di allora nemmeno esistevano - quella del 2012, invece, in
assenza di nuovi simili innovativi strumenti di comunicazione e condivisione di massa, si è
caratterizzata per l’utilizzo sempre più sofisticato dei database contenenti i dati personali degli
elettori e per le strategie di microtargeting. Le banche dati di derivazione commerciale, incrociate
con le statistiche elettorali del 2008 e con gli elenchi delle registrazioni al voto di alcuni stati (quelli
dove è obbligatorio indicare l’affiliazione: democratica, repubblicana o indipendente) hanno
permesso di elaborare mappe degli elettori molto dettagliate. Le due campagne hanno saputo quasi
con precisione individuale le caratteristiche dei votanti. I loro gusti, le abitudini e lo “storico” del
loro comportamento elettorale. Per i candidati gli obiettivi in gioco sono stati due: conquistare gli
elettori indecisi e stimolare la partecipazione di quelli tendenti all’astensione.
Rispetto agli anni precedenti hanno avuto minor rilevanza gli spot televisivi, che
tradizionalmente sono lo strumento di propaganda sul quale i candidati investono più soldi. Sebbene
anche stavolta i candidati abbiano realizzato centinaia di spot che sono stati trasmessi a tambur
battente, forse è mancata la tradizionale cassa di risonanza giornalistica che in passato, riprendendo
specifici spot elettorali, generava cortocircuiti informativi in grado di creare veri e propri casi
mediatici. Sono anche mancate significative campagne calunniose, che invece caratterizzarono le
elezioni del 2004 e del 2008. Nel primo caso John Kerry dovette difendersi dagli attacchi del
gruppo filo repubblicano Swift Boat Veterans for Truth, tesi a screditare il suo servizio militare
svolto in Vietnam. Nel secondo invece, Barack Obama fu vittima di un attacco anonimo e virale,
prevalentemente diffuso sui nuovi media, che voleva instillare negli elettori il dubbio che il
candidato democratico fosse musulmano (Morini e Vaccari, 2010).
Tuttavia, il clima è rimasto assai polarizzato visto che le prime analisi hanno mostrato come
quasi il 75% degli spot televisivi realizzati dai due candidati contenesse propaganda negativa
(Living Room Candidate, 2012). Un’altra differenza rispetto al 2008 è stata la minor intensità di
quei fenomeni bottom-up, che caratterizzarono la campagna elettorale di quattro anni fa. Forse a
causa dell’entusiasmo generato dalla novità Obama o della lunga e veemente sfida per le primarie
democratiche, la campagna del 2008 fu caratterizzata dalla massiccia produzione di video virali da
parte di gruppi indipendenti e singoli utenti della Rete. Grazie poi alla pubblicità orizzontale e alla
capacità di renderli virali attraverso YouTube e i social network, molti di questi video divennero
veri e propri fenomeni mediatici, ripresi infine anche dai media tradizionali (Morini, 2011). Casi
come quelli dell’Obama girl, per esempio, non si sono ripetuti nella campagna 2012, forse per il
minor appeal dei due candidati, o più probabilmente per una stagione delle primarie molto ridotta
rispetto al 2008 (allora non erano in lizza né il presidente né il vicepresidente uscenti e sia i
democratici che i repubblicani furono impegnati in lunghe e costose primarie).
Negli spot ufficiali, Romney ha cercato di dipingere come fallimentare la presidenza Obama,
citando ripetutamente l’alto tasso di disoccupazione, il deficit in aumento e la crescita dei prezzi dei
carburanti. Inoltre, il candidato repubblicano ha attaccato Obama in quanto “simbolo” della spesa
pubblica e del big government. Gli spot democratici hanno invece voluto ritrarre Romney come un
incoerente milionario che se eletto avrebbe favorito i ricchi e reso la vita ancor più difficile ai
poveri e alla classe media. Sebbene gli strateghi di Obama abbiano anche prodotto alcuni video in
cui si elencavano i successi ottenuti dall’amministrazione democratica durante il primo mandato, la
maggior parte degli spot di Obama è stata di attacco all’avversario. A seconda delle metodologie
d’indagine, il tasso di propaganda negativa va dal 75 al 85 per cento del budget di spesa per Obama
e dal 75 al 91 per cento del budget di spesa per Romney (Usa.gov, 2012). Numeri che testimoniano
come la cifra retorica dello sfidante e del presidente uscente non sia stata molto differente. E, anzi,
come già capitato nell’edizione 2008, entrambi i contendenti abbiano cercato di proporsi come
“sfidanti”, con la differenza che, quest’anno, un presidente uscente c’era. La spesa specifica in spot
elettorali è stata simile: 492 milioni di dollari per Romney, 404 milioni per Obama (considerando
anche l’apporto dei rispettivi partiti e dei gruppi indipendenti direttamente riferibili ai due
candidati). Come già detto, gli spot elettorali si sono contraddistinti per non aver generato la
consueta battaglia mediatica, tuttavia, le cifre investite sono lì a testimoniare l’ulteriore aumento
della spesa in pubblicità televisiva. Sul piano retorico, il duello a colpi di spot si è espresso
principalmente in un interminabile crogiuolo di propaganda negativa, incentrata essenzialmente sui
temi economici. Romney ha tentato di associare Obama alle difficoltà dell’economia americana,
mentre il presidente uscente ha spesso utilizzato attacchi al character dell’avversario, nello
specifico alla sua carriera manageriale e al suo essere “ricco” (che implicitamente, nella strategia
comunicativa democratica, significava “essere lontano dai bisogni della classe media”). Gli spot
negativi realizzati da Obama in questa tornata elettorale sono stati assai simili a quelli ideati per
sconfiggere McCain quattro anni prima. Nonostante infatti Romney e McCain fossero rivali alle
primarie repubblicane del 2008, le loro campagne presidenziali sono state simili a livello di
contenuti. Entrambi hanno cercato di “smarcarsi” dall’ala conservatrice del loro partito, nell’intento
di intercettare il voto moderato. Hanno quindi tentato di crearsi un’immagine, più o meno veritiera,
– questo non importa – di indipendenti e di uomini lontani dalla “politica di Washington”. McCain
aveva poi il problema di far dimenticare gli otto anni di amministrazione Bush, che era fortemente
impopolare quando lasciò la presidenza. Contro di loro, Obama ha usato la stessa strategia: gli spot
democratici hanno infatti sempre cercato di togliere all’avversario quell’aura di moderatismo e di
indipendenza dal partito che si erano voluti costruire. L’altro schema d’attacco ha riguardato
l’appartenenza dei due candidati repubblicani all’elite economica del Paese. Obama è stato
instancabile nell’accusare i rivali “di essere talmente ricchi dall’essere lontani dalla realtà
economica degli americani”, “di non capire le esigenze della classe media”, e di avere accumulato
esorbitanti fortune. McCain peggiorerà la propria situazione collezionando gaffes clamorose (non
ricordando ad esempio il numero di case possedute), mentre Romney dovrà difendersi da accuse
relative all’aver pagato poche tasse e aver condotto discutibili operazioni finanziarie.
In assoluto però, l’aspetto più significativo della campagna elettorale 2012 è stato l’uso dei
dati degli elettori e la capacità di realizzare messaggi su misura per l’elettorato. Quel che è successo
ha infatti probabilmente aperto una nuova era nei rapporti tra democrazia, tecniche e tecnologie
della comunicazione. Nella campagna elettorale che ha portato alla rielezione di Barack Obama
sono andati in onda numeri al posto di parole e una nuova e sofisticata capacità di utilizzarli per le
strategie elettorali. Con annessi problemi e pericoli sulla identificabilità degli elettori e sui possibili
usi tutt'altro che democratici della nuova frontiera della tecnodemocrazia.
Uno dei “segreti” della vittoria di Barack Obama è stato infatti la sua superiorità nell’uso
delle nuove tecnologie e nella capacità di identificare e raggiungere gli elettori indecisi degli stati in
bilico. La sofisticatezza raggiunta dalle tecniche di microtargeting è stata tale che lo staff di Obama
è riuscito a pianificare strategie specifiche per ogni singolo elettore indeciso residente in quegli
swing states su cui poi si è giocata l’elezione. Il team democratico ha speso oltre 100 milioni di
dollari in “investimenti tecnologici”. Come ha riferito al New York Times Jim Messina, capo dello
staff di Obama, gran parte di questi soldi sono stati utilizzati per acquistare “dati e banche dati,
ovunque” (Tufekci, 2012). Si è trattato principalmente di dati sensibili originariamente raccolti a
fini commerciali da grandi aziende e agenzie specializzate (tramite monitoraggio degli acquisti
personali, transazioni con carta di credito, programmi fedeltà etc) e acquistati sul mercato dagli
uomini di Obama. Questi dati sono poi stati “incrociati” con le statistiche elettorali del 2008 e del
2010 e con i dati fiscali individuali disponibili.
Con questa immensa mole di numeri, dall’inizio del 2012, la campagna democratica ha
effettuato oltre 66.000 simulazioni al computer al giorno ed è riuscita a mettere a punto un accurato
sistema di catalogazione degli elettori negli otto stati considerati in bilico dai sondaggi (Colorado,
Iowa, Florida, Nevada, New Hampshire, Ohio, Virginia, Wisconsin). In pratica è stato realizzato un
dossier per ciascuno di questi elettori indecisi. A ogni individuo sono stati associati quattro
parametri di valutazione, espressi in una scala da 1 a 100: il primo parametro era relativo al grado di
probabilità che quell’elettore votasse per Obama; il secondo alla possibilità che partecipasse
effettivamente al voto; gli altri due valori riguardavano il grado in cui poteva essere influenzato dai
sondaggi (terzo parametro) e dalle conversazioni interpersonali (quarto parametro).
L’analisi incrociata di questi quattro valori ha determinato le strategie d’azione della
campagna verso ogni singolo elettore. In base a questo, infatti, lo staff di Obama ha scelto quali
messaggi inviare, con che mezzo raggiungere l’elettore e se inviare volontari a domicilio per
persuaderlo di persona. In questo ambito la differenza con la campagna repubblicana è stata netta:
nonostante fosse molto ben finanziato, lo staff di Romney non ha organizzato alcuna attività di
questo tipo, ma ha preferito concentrarsi su gruppi specifici di elettori come i conservatori
evangelici, tradizionalmente vicini ai repubblicani ma spesso tendenti all’astensione. Una mancanza
forse decisiva: i quattro più importanti stati in bilico (Florida, Ohio, Virginia, Colorado) sono stati
tutti vinti da Obama con un margine inferiore ai 200'000 voti. Una circostanza che potrebbe
suscitare qualche rimpianto in casa repubblicana: una campagna elettorale più accurata e meglio
“cucita” sui singoli elettori avrebbe potuto dare risultati ben diversi.
Come sempre accade, tra quattro anni queste tecniche saranno divenute la norma e nuove
strategie e altre invenzioni risulteranno decisive. Come è accaduto tra il 2008 e oggi: l’innovativo
uso di Twitter, YouTube e Facebook fu molto importante per creare entusiasmo attorno alla
candidatura del semi-sconosciuto Obama, garantirgli un efficace ritorno d’immagine e un costante
flusso di micro-donazioni spontanee. Appena quattro anni dopo però, le tattiche comunicative del
2008 sono diventate routine per entrambe le campagne. Un effetto probabile delle innovazioni del
2012 sarà quello di contribuire all’ennesimo incremento dei costi delle campagne elettorali: le
banche dati costano tanto, così come quegli algoritmi che sono essenziali per utilizzarle e che
spesso sono protetti da brevetto. Le attività di elaborazione dei dati necessitano poi di figure
altamente qualificate: ingegneri, matematici, programmatori, analisti. Tutte persone che per entrare
a far parte degli staff elettorali per qualche anno o pochi mesi devono essere convinte a lasciare il
lavoro o a prendersi lunghe aspettative. Non bastano volontari entusiasti, serviranno come il pane
professionisti ben pagati. Ma quello dei costi, e dunque dell'innalzamento delle barriere all'ingresso
della competizione elettorale, non è l'unico lato oscuro dell'era delle elezioni smart. C'è anche da
riflettere sulle conseguenze a lungo termine dell’uso di queste strategie di marketing elettorale la cui
materia prima, comunque la si giri, è l'elettore in persona. I suoi comportamenti, i suoi gusti, le sue
scelte. Tutto trasferito in dati, e dunque diventato “tracciabile”.
E' vero che, seppur in misura meno sofisticata, l’applicazione delle tecniche di vendita più
aggiornate alla politica avviene sin dagli anni ’60 (Davies, 2012). Ma con queste soluzioni si fa un
salto di qualità: arrivare a realizzare un “profilo” così preciso del singolo cittadino è forse qualcosa
che va oltre le normali strategie elettorali. Significa considerare l’elettore come un oggetto
manipolabile. Possiamo considerare queste operazioni come “tecniche normali in democrazia?”, è
la domanda di base. Alla quale ne seguono altre: come e per quanto tempo vengono conservati i
profili degli elettori? Quali i diritti del cittadino?
Nel 2008, una delle caratteristiche del successo di Obama fu la copertura mediatica
nettamente positiva che ricevette da stampa e televisione durante tutta la campagna elettorale.
Nell’analisi di Denton (2009) emergeva come non solo i grandi network liberal come Cnn e Msnbc
garantissero al candidato democratico cronache decisamente favorevoli, ma che perfino una
televisione dichiaratamente conservatrice come Fox News offrisse una copertura mediatica
“neutrale” ai due candidati. Quest’anno i dati del Pew Research Center (2012) mostrano una
situazione diversa: Obama avrebbe ricevuto un trattamento mediatico prevalentemente negativo,
eccezion fatta per la settimana successiva alla convention democratica e per l’ultima settimana
prima del voto, dove le storie positive su Obama (29%) avrebbero superato quelle negative di 10
punti (19% le cronache negative).8 E’ quindi probabile che la buona gestione dell’uragano Sandy
abbia influenzato in maniera determinante televisioni e giornali e ciò potrebbe aver avuto un effetto
anche sul risultato elettorale.
A fronte di un Obama che avrebbe ricevuto un trattamento peggiore rispetto a quattro anni
prima, Mitt Romney non è certo stato il beniamino dei media tradizionali. L’ultima settimana di
Mitt Romney è stata “coperta” in modo nettamente negativo (33%), a fronte di un misero 16% di
cronache positive, un dato molto simile a quello sofferto dal candidato repubblicano nella penultima
settimana di campagna elettorale. Per quel che riguarda la presenza sui media dei due candidati,
anche qui emerge come l’uragano Sandy potrebbe essere stato un fattore decisivo: nell’ultima
settimana di campagna elettorale, Obama ha occupato l’80% dell’attenzione delle cronache
politiche rispetto al 62% dell’avversario. Questo nonostante il fatto nel mese di ottobre i due
candidati avessero avuto una presenza del tutto simile nelle storie che riguardavano la sfida
elettorale. Nel resto della campagna, invece, i candidati hanno ricevuto una copertura mediatica
paritaria in termini di presenza con Obama che ha potuto godere di un 9% in più frutto
probabilmente della sua presenza alla Casa Bianca (nel 2008 Obama e McCain pareggiarono a
quota 62%).
In generale, entrambi i candidati hanno ricevuto una copertura mediatica più negativa che
positiva, con punte di negatività maggiori associate ai social media. Le differenze con la campagna
del 2008 sono notevoli. Allora Obama ricevette una copertura positiva quasi doppia rispetto a quella
ottenuta nel 2012 (36% a 19%) e più positiva che negativa in termini assoluti (36% a 29%). McCain
ottenne anche un trattamento peggiore rispetto a quello riservato a Romney. Nel 2008, il 57% delle
storie associate a McCain erano caratterizzate negativamente, a fronte dell’appena 14% di cronache
positive. Insomma la copertura mediatica 2012 è apparsa meno schierata rispetto a quella del 2008 e
può essere suddivisa in tre periodi: nel primo, dalle convention al primo dibattito televisivo, Obama
ha beneficiato di un trattamento decisamente migliore rispetto all’avversario con un 20% di
cronache positive e un 24% di negative; a fronte di Romney che ha avuto appena il 4% di copertura
positiva contro il 52% di storie negative . Nel secondo, che va dal primo all’ultimo dibattito, è stato
Romney che ha potuto fregiarsi di una copertura mediatica migliore (23 a 23 per Romney, 12%
positivo e 37% negativo per Obama), mentre negli ultimi 10 giorni di campagna elettorale è stato di
nuovo il presidente uscente a godere di un miglior trattamento. E’ quindi evidente come la copertura
8
Si tratta di uno studio in cui le “storie” della campagna elettorale sono così definite quando almeno il 50% di esse è
dedicato alla campagna elettorale. Queste sono state poi assegnate a uno dei due schieramenti quando i due candidati o i
loro vice fossero stati presenti in almeno il 25% della cronaca.
mediatica sia orientata dagli eventi che contraddistinguono la campagna e che nello specifico è stata
la performance dei candidati nei dibattiti televisivi a orientare il senso delle cronache giornalistiche.
Tab. 1: Copertura mediatica riservata ai due candidati.
Copertura
mediatica
Obama
Romney
Stampa e TV
Positiva Mista
Negativa
Twitter
Positiva
Mista
Negativa
Facebook
Pos
Mista
Neg
Blogs
Pos
Mista
Neg
19
15
30
38
25
16
31
25
45
58
24
23
53
62
19
18
44
46
51
47
22
15
37
36
Fonte: Pew Research Center for Excellence in Journalism (2012).
La Tabella 1 mette in evidenza come il dibattito sui nuovi media sia stato molto più aspro rispetto a
quello avvenuto sulla stampa e sulla televisione. Gli utenti della Rete si sono dimostrati quindi
ancora una volta decisamente più “radicali” rispetto alle cronache giornalistiche mediate. Nello
specifico è sembrato essere Twitter il medium più caratterizzato da negative campaigning: qui gli
attacchi a Romney hanno superato di 42 punti le asserzioni positive e anche Obama ne è uscito con
un saldo negativo di 20 punti. Tra gli altri risultati proposti dallo studio citato, emerge come Msnbc
sia stata decisamente pro-Obama mentre Fox News abbia stavolta apertamente tifato per Romney e
che il candidato repubblicano alla vicepresidenza non abbia avuto lo stesso impatto mediatico di
Sarah Palin, poiché ha ricevuto una copertura mediatica tre volte inferiore (e sempre
prevalentemente negativa). Inoltre sia l’attenzione giornalistica che quella del web è stata più
concentrata su chi avesse vinto i dibattiti più che sui contenuti.
Ovviamente non è facile studiare i ridondanti flussi informativi presenti su Twitter,
Facebook e sui blog poiché sono soggetti ai frequenti cambiamenti d’umore degli utenti. Certo è
che la loro importanza come canali di approvvigionamento di informazioni politiche è in costante
aumento, così come esplicitato graficamente in Figura 2.
Fig. 2: Mezzo principale di approvvigionamento di notizie politiche.
60
50
TV locali
40
TV via cavo
30
TV nazionali
20
Stampa
Web
10
0
2000
2004
2008
2012
ott-12
Fonte: Pew Research Center for Excellence in Journalism (2012).
La Figura 3 mostra come il Web stia guadagnando posizioni anno dopo anno, a scapito
soprattutto della stampa e delle televisioni nazionali. La TV via cavo rimane comunque il mezzo
privilegiato di approvvigionamento di news politiche e il grafico relativo a ottobre 2012 mostra una
situazione piuttosto equilibrata, con il web ormai al livello delle TV locali e via cavo e già superiore
alle televisioni nazionali. E’interessante inoltre rilevare come la campagna presidenziale sia capace
di catalizzare le attenzioni dei cittadini americani: rispetto a gennaio 2012, molti più americani
dichiarano di “rifornirsi” di notizie politiche.
Il boom del Web dipende certamente dall’ormai capillare diffusione di tablet e smartphone,
strumenti che permettono una consultazione immediata di migliaia di fonti informative online.
Queste fonti sfuggono però spesso al “controllo” delle campagne e non sono mediate da
professionisti dell’informazione. Tuttavia, appare sufficientemente evidente come Obama abbia
ricevuto attenzioni più positive rispetto all’avversario. E questo nonostante entrambi i candidati
siano stati principalmente oggetto di critiche, a ulteriore testimonianza di come i nuovi media e i
social network in particolare scatenino gli istinti più partigiani delle opposte schiere di
simpatizzanti. E di come il web, per sua stessa natura, si presti a essere l’ambiente ideale per
attacchi di propaganda negativa di ogni tipo.
6. La raccolta fondi e le spese della campagna 2012.
Come ormai accade ogni quattro anni, anche questa volta la campagna presidenziale ha battuto i
record di raccolta fondi e di spesa della precedente. I due candidati hanno raccolto
complessivamente oltre 1 miliardo di dollari. Cifra che raddoppia aggiungendo i contributi
provenienti dai rispettivi partiti. La campagna presidenziale del 2012 è perciò costata più di 2
miliardi di dollari. Considerando l’intero ciclo elettorale, cioè tutte le corse per il Congresso, i
referendum e le elezioni dei governatori si stima che la campagna elettorale 2012 sia costata
complessivamente circa 6 miliardi di dollari.
Per quanto riguarda la sola contesa presidenziale sono stati trasmessi più di un milione di
spot televisivi, si è speso oltre un miliardo in pubblicità e la spesa per elettore è stata stimata in 42
dollari (nel 2008 fu di 18 dollari). Ovviamente nessuno dei due candidati si è avvalso del
finanziamento pubblico, che avrebbe limitato il budget a disposizione al di sotto dei 100 milioni di
dollari. Nel 2008 McCain vi ricorse perché pensava di non riuscire a raggiungere una cifra più
elevata con le donazioni private. Quest’anno, sia Obama che Romney non hanno avuto problemi a
superare abbondantemente la cifra stabilita dal finanziamento pubblico, che avrebbe inevitabilmente
ridotto le chances di elezione di chi vi avrebbe fatto ricorso.
Dall’analisi dei dati pubblicati dalla Federal Election Commission (2012) risulta come
Obama abbia ricevuto più donazioni di Romney (715'677'692 dollari a 446'135'997 dollari) ma che
quest’ultimo abbia beneficiato di maggiori trasferimenti economici dal partito (Romney ha ricevuto
378'828'234 dal partito repubblicano, Obama 285'801'769 da quello democratico). La sostanza non
cambia, il saldo finale per i due candidati è abbondantemente superiore al miliardo di dollari
ciascuno, con un lieve vantaggio per Romney.
Molto più interessante è chi abbia finanziato i due candidati. Obama ha ricevuto più “piccoli
contributi individuali” (donazioni inferiori a 200 dollari) rispetto all’avversario. Nello specifico, il
56% delle donazioni private ricevute dal presidente uscente sono state di taglio inferiore ai 200
dollari, il 33% è stato tra i 200 e i 2500 dollari, mentre appena 11 donazioni su 100 sono state
superiori a 2500 dollari. Per Romney i rapporti si invertono: il 23% delle donazioni ricevute sono
state inferiori a 200 dollari, il 35% tra 200 e 2500 dollari e ben il 42% delle donazioni spontanee è
composto da dazioni superiori a 2500 dollari.
La Tabella 2 mostra quale fosse l’affiliazione più ricorrente tra i donatori dei due candidati.
Attenzione però, non sono queste aziende o istituzioni ad aver fatto donazioni direttamente, ma i
loro dipendenti o affiliati e dal conteggio sono ovviamente esclusi i finanziamenti fatti ai cosiddetti
SuperPAC. Essenzialmente quindi la Tabella mostra quale sia il profilo del donatore “medio” di
Obama e quale di Romney.
Tab. 2: Affiliazione fiscale più ricorrente dei singoli donatori di Obama e Romney.
Candidato
1
2
3
4
5
Obama
Affiliazione del donatore
University of California
Microsoft
Google
US Government
Harvard University
Cifra donata ($)
1'092'906
761'343
737'055
627'628
602'992
Romney
Affiliazione del donatore
Goldman Sachs
Bank of America
Morgan Stanley
JPMorgan Chase & Co
Credit Suisse Group
Cifra donata ($)
994'139
921'839
827'255
792'147
618'941
Fonte: OpenSecrets.org (2012).
Pur mostrando cifre limitate rispetto ai totali generali, la tabella 2 è sufficientemente esplicativa.
Dalla parte di Obama ci sono le università, Google, Microsoft e i dipendenti pubblici. Con Romney
le banche e l’alta finanza. E’ ovviamente riduttivo trarre delle conclusioni da questi dati. E’
indubbio però come questi confermino analisi e pregiudizi ben radicati, che non si limitano solo alla
sfida Obama-Romney, ma vanno ricondotti alle tradizionali basi elettorali di democratici e
repubblicani. Il partito del presidente uscente è preferito dai dipendenti pubblici, dai docenti e dalle
persone più istruite, mentre il candidato repubblicano appare come un’espressione dei ceti più
ricchi. Interessanti anche i dati riportati in Tabella 3, che confermano la diversità delle due
campagne: Obama ha ricevuto donazioni private anche da molte donne, a fronte di una campagna
repubblicana finanziata principalmente da uomini.
Tab. 3: Caratteristiche demografiche dei finanziatori dei due candidati.
Candidato
Donatore
Uomini
Donne
Obama
Percentuale sul
totale
55,8%
44,2%
Numero di
donatori
138'920
122'532
Totale donato
($)
145'161'158
114'927'328
Romney
Percentuale sul
totale
71,5%
28,5%
Numero di
donatori
160'996
62'036
Totale donato
($)
214'617'157
85'559'595
Fonte: OpenSecrets.org (2012).
Per quanto riguarda i SuperPAC,9 Obama ne aveva 15 schierati dalla sua parte, contro i 20 “vicini”
a Romney. Questo solo per quel che riguarda i maggiori comitati indipendenti, perché in assoluto i
SuperPAC attivi nella campagna presidenziale 2012 sono stati ben 266. La loro spesa complessiva è
9
I SuperPAC sono comitati elettorali indipendenti che partecipano attivamente alla campagna elettorale realizzando
spot, organizzando eventi e altre forme di attività politica. Non possono ufficialmente coordinarsi con i candidati e i
partiti, ma di fatto molti di questi sono evidentemente schierati. La sentenza della Corte Suprema Citizens United v. Fec
del 2010 ha consentito anche ad aziende e sindacati di finanziare direttamente questi comitati, in virtù del principio del
freedom of speech garantito costituzionalmente dal I emendamento costituzionale.
stata superiore ai 550 milioni di dollari, con una significativa prevalenza di investimenti a favore del
candidato repubblicano. Secondo le statistiche della Fec, infatti, i comitati indipendenti hanno fatto
pubblicità elettorale contro Barack Obama per circa 291 milioni di dollari, a fronte dei “soli” 94
milioni di dollari spesi per attaccare Mitt Romney. L’attività di appoggio dei SuperPac ai candidati
è stata invece molto inferiore (25 milioni di dollari circa spesa a sostegno di Obama, 77 milioni
invece in appoggio a Romney).
Riguardo alle spese dei due candidati, l’allocazione degli investimenti è stata molto simile,
con qualche milione di dollari in più investito da Obama in spese amministrative e una percentuale
di budget più ampia destinata da Romney agli spot elettorali. Obama ha speso 333 milioni di
dollari per trasmettere 562'664 spot televisivi (l’85% dei quali con qualche riferimento negativo
al’avversario), Romney ha investito 147 milioni di dollari per trasmettere 223'584 spot (il 91% dei
quali negativi). Ma, come detto, accanto ai candidati erano presenti partiti e superPAC ed è
soprattutto grazie a questi che Romney è riuscito a superare Obama almeno nella spesa in pubblicità
televisiva. Basti pensare che comitati quali American Crossroads e Restore Our Future, di chiara
afferenza conservatrice, abbiano investito rispettivamente 128 e 77 milioni di dollari,
principalmente in spot di attacco a Obama.
Per quanto riguarda l’allocazione geografica di questi investimenti, la Tabella 11 mostra
come ovviamente siano stati i battleground states ad aver ricevuto il maggior afflusso di denaro
investito dalle due campagne elettorali. Interessante è anche verificare l’allocazione geografica
degli investimenti. A fronte di spese enormi sostenute da entrambi i candidati, va rilevato come
Romney abbia quasi sempre investito qualche milione in più di Obama a livello di singolo stato.
Essendo i totali di spesa poco dissimili, è evidente quindi come anche stavolta Obama abbia teso a
organizzare una campagna elettorale il più possibile nazionale, andando a trasmettere spot televisivi
anche in stati già vinti o già persi in partenza.
Tab. 4: Investimenti delle campagne elettorali suddivisi per stato.
Stato
Florida
Virginia
Ohio
North Carolina
Colorado
Iowa
Nevada
Wisconsin
New Hampshire
Michigan
Totale investito (milioni di $)
173
151
150
97
73
57
55
39
34
33
Fonte: Nostra elaborazione su dati Fec (2012).
Democratici (milioni di $)
78
68
72
40
36
27
26
13
18
8
Repubblicani (milioni di $)
95
83
78
57
37
30
29
27
16
24
Quello che invece ha sorpreso negativamente sono stati gli scarsi investimenti destinati alla
pubblicità online e al Web in generale. Sono ormai molti anni che gli esperti sostengono come il
Web sia destinato a sorpassare la televisione come medium principale delle campagne elettorali.
Come già anticipato nel capitolo precedente, anche quest’anno i due candidati sono stati ben
presenti sui nuovi media e il buzz creato da Twitter, Facebook e altri social network è stato enorme
e forse anche politicamente influente. Tuttavia, essendo questo flusso mediatico sostanzialmente
gratuito e generato dagli utenti, ancora non è facile per le aziende del settore digitale riuscire a
monetizzare le loro applicazioni e i loro prodotti.
Sebbene perciò il web sia sempre più utilizzato come mezzo d’approvvigionamento di
notizie e i fatturati della pubblicità online siano in costante crescita, anche quest’anno gli
investimenti dei due candidati in pubblicità online sono stati molto marginali. Obama ha speso 47
milioni di dollari (a fronte dei 16 investiti nel 2008), Mitt Romney ha invece speso appena 4,7
milioni (in lieve crescita rispetto ai 3,6 spesi da McCain quattro anni prima). Obama ha speso 10
volte più di Romney, ma si tratta di cifre che appaiono quasi ridicole se paragonate agli investimenti
in spot televisivi (OpenSecrets.org, 2012).
Conclusioni.
Nella campagna presidenziale del 2012 entrambi i candidati sono riusciti a costruire delle efficaci
macchine elettorali, che sono state molto abili nell’attività della raccolta fondi. Entrambe le
campagne potevano contare su circa un miliardo di dollari ciascuna e non hanno lesinato in spese in
pubblicità elettorale, in quella che è stata la più costosa campagna elettorale di sempre. I due
candidati hanno prevalentemente realizzato spot di attacco all’avversario, generando una spirale
negativa che ha finito per avviluppare entrambi in una copertura mediatica essenzialmente negativa.
Obama ha speso di più nell’arruolare volontari e nell’aprire sedi locali ma il suo vero vantaggio
competitivo è stato l’acquisto di svariate banche dati e l’incrocio di dati sensibili che ha permesso
allo staff democratico di mappare gli elettori degli stati in bilico e verificare quali fossero le
strategie migliori per persuaderli a votare per Obama. La superiorità nell’uso e nella combinazione
di dati personali e commerciali è stata totale: la campagna repubblicana nemmeno sapeva di queste
tecniche e ha preferito ricorrere alla propaganda tradizionale e calibrare messaggi specifici per
gruppi elettorali affini (come gli evangelici conservatori).
Seppur in crescita rispetto al 2008, le due campagne hanno investito relativamente poco
sull’online: sebbene i democratici abbiano speso dieci volte di più, i numeri rimangono piccoli. A
testimonianza non di una irrilevanza politica – tutt’altro, il consumo di notizie e di promozione di
contenuti politici è in costante aumento – ma della difficoltà per gli operatori del settore di ottenere
profitti dal web.
La caratteristica forse più interessante è quella relativa alla sostanziale somiglianza, a livello
retorico, della sfida Obama-Romney con quella di Obama-McCain di quattro anni prima. I due
candidati repubblicani, pur provenendo da storie e retroterra culturali molto differenti, hanno
condotto campagne elettorali molto simili. Entrambi hanno cercato la via della “moderazione”,
presentandosi come “indipendenti” e “lontani” dal partito repubblicano centrale. Sia Romney che
McCain, inoltre, hanno tentato di bilanciare questa loro spinta “centrista” nominando un candidato
alla vicepresidenza che fosse beniamino dell’area più conservatrice e che bilanciasse in termini
anagrafici l’esperienza e la maturità del candidato alla presidenza: prima fu scelta Sarah Palin, poi
Paul Ryan. Sul piano contenutistico, entrambe le campagne repubblicane hanno pagato l’assenza di
una strategia specifica, patendo frequenti avvicendamenti all’interno dello staff organizzativo e
mancando di una lineare visione programmatica. Come McCain puntò sull’inesperienza di Obama e
sulla vacuità delle sue immaginifiche proposte, Romney ha incentrato quasi completamente la
propria potenza comunicativa sui temi economici, tentando di associare le perduranti difficoltà
economiche con i quattro anni di amministrazione Obama. Allo stesso tempo, l’ex governatore del
Massachusetts intendeva avvalorare il proprio profilo di manager di successo, capace di risollevare
le sorti di numerose aziende, del comitato olimpico di Salt Lake City del 2002 e, appunto, dello
stato del Massachusetts.
Chi per le elezioni del 2012 si attendeva un Obama sulla difensiva ha avuto torto. Il
presidente uscente ha attaccato l’avversario dall’inizio alla fine, in modo del tutto simile a quello
fatto quattro anni prima. La campagna televisiva di Obama è stata prevalentemente negativa, con
continui attacchi a Romney. Come successo con McCain, il presidente uscente ha insistito nel farsi
paladino dei più deboli e della classe media, accusando Romney di elitarismo e di essere talmente
ricco da non essere in grado di capire le necessità delle persone comuni. Obama, pur essendo alla
Casa Bianca da quattro anni ha realizzato spot elettorali come fosse lo sfidante, come fosse l’Obama
del 2008. La campagna sognatrice ed entusiasmante di quattro anni prima è stata logicamente
mitigata dai doveri e dal realismo di governo, ma le strategie di attacco sono rimaste le stesse.
Curiosamente, a differenza del 2008, quando la sfera religiosa di Obama fu al centro del dibattito e
della propaganda, nel 2012 gli stessi spunti polemici hanno avuto un eco molto minore, nonostante
la fede mormone di Romney si prestasse a questo tipo di attacchi. E’ probabile, tuttavia, che questi
fossero tenuti come “arma segreta”, nel caso di un innalzamento dei toni nei giorni finali di
campagna elettorale.
Come ormai capita da molti anni, la campagna elettorale si è sviluppata prevalentemente
negli stati in bilico, essenziali per la vittoria finale, così come previsto dal caratteristico sistema del
Collegio Elettorale. La Florida è lo stato che ha attirato il maggior numero di investimenti in
pubblicità televisiva elettorale, forte dei suoi desideratissimi 29 Grandi Elettori. Come Romney ha
esclusivamente concentrato i suoi sforzi negli 8-10 swing states, Obama ha comunque destinato
risorse anche a territori “non contendibili”. Di fatto, gli spot elettorali di Obama hanno coperto
insistentemente l’intero territorio americano, mentre la propaganda repubblicana ha ignorato talune
aree date per già vinte o già perse in partenza. Le spiegazioni per la scelta di Obama - intrapresa già
nel 2008, in misura perfino maggiore – possono essere due. Da un lato, la volontà di “aiutare” altri
democratici in corse elettorali locali (nel novembre scorso si è votato anche per il rinnovo della
Camera, di un terzo del Senato e per molti governatori e per referendum a livello statale),
affiancando quindi la sua immagine a quella di politici locali. L’altra ipotesi, ovviamente non in
contrasto con la precedente, è quella relativa alla forza orizzontale della Rete e delle relazioni
interpersonali. Per esempio, Obama, facendo campagna anche in uno stato apparentemente perso
come il “rosso” Idaho, riesce comunque a far parlare di sé, delle sue proposte e dei suoi compagni
di partito. Il dibattito che ne scaturisce, sia a livello mediatico che interpersonale, fuoriesce dai
confini dello stato (Twitter, Facebook e Instantgram non hanno confini) e andrebbe in qualche
modo a influenzare anche elettori di altri stati, grazie appunto alla forza orizzontale della Rete.
Un ultimo dato, troppo spesso sottovalutato, è quello relativo alla copertura mediatica. Già
numerose ricerche misero in luce come nella campagna elettorale del 2008, a Obama fosse garantito
un trattamento nettamente più favorevole di quello che i media riservavano a McCain. Nel 2012, la
situazione è cambiata solo parzialmente: il contesto mediatico è stato più equilibrato ma il
presidente uscente ha goduto anche stavolta di una maggior copertura mediatica positiva. La novità
rispetto a quattro anni prima è la presenza di analisi relative ai sentimenti collettivi espressi dagli
utenti dei social media: anche qui la campagna di Obama sembra aver fatto meglio di quella del
rivale.
Romney ha fatto meglio di McCain, ha conquistato più Grandi Elettori, più stati e ha preso
un milione di voti in più del predecessore, pur in un’elezione che ha visto un’affluenza inferiore di
circa 2 milioni di voti alla precedente. Un calo della partecipazione che ha però danneggiato più
Obama del rivale: il presidente uscente ha infatti perso più di tre milioni di voti in quattro anni.
Romney è stato però ridicolizzato nel computo dei voti delle minoranze etniche. Data per scontata
la vittoria democratica tra i neri, i 44 punti di differenza tra lui e Obama nel voto ispanico sono stati
decisivi in Nevada, Colorado e Florida. I latinos erano delusi da Obama ma terrorizzati dall’idea di
una presidenza Romney, caratterizzata da tagli al welfare e restrizione delle politiche
sull’immigrazione.
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