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RIVOLUZIONE VERDE
Come sarà il mondo di domani? È difficile dare una risposta ottimistica. Riscaldamento climatico, catastrofi ecologiche,
fonti di energia sempre più scarse. Alcuni conflitti per l'approwigionamento del petrolio sono prevedi bili o già
cominciati. Le risorse diminuiscono, ma gli Stati Uniti si dimostrano sempre più affamati di energia. Proprio come la
Cina, futura prima potenza mondiale, il cui appetito energetico sta cambiando gli equilibri geopolitici internazionali.
Ma se analizziamo più attentamente la realtà, è possibile cogliere qualche segnale di speranza. La duplice emergenza
climatica ed energetica sta infatti stimolando una nuova presa di coscienza mondiale, un movimento d'opinione che
chiede meno inquinamento e un modello di consumo energetico diverso. A lungo ignorate, le energie rinnovabili stanno
conoscendo uno sviluppo incredibile. Nascono nuove imprese, che partono alla conquista dei mercati con soluzioni
"pulite". Potrebbe essere l'inizio di quella rivoluzione verde che ci farà uscire dall'età degli idrocarburi.
La guerra dell'energia
La corsa dei cinesi
La fine del petrolio, il business delle energie verdi, gli effetti sul clima.
Viaggio nei nuovi equilibri del pianeta. Prima tappa: Chongqing, nel
cuore della Cina
SERGE ENDERLIN PER INTERNAZIONALE
LA PRIMA TAPPA DEL NOSTRO viaggio sui fronti della guerra mondiale per l'energia è la Cina. Dato che tutto, o
quasi, è stato già detto sul boom fenomenale della costa orientale, da Pechino a Canton, passando per Shanghai,
partiamo allora dal centro dell'Impero di mezzo. Ci dirigiamo verso la città di Chongqing, situata alla confluenza fra lo
Yangtze e un fiume minore, il Jailing. Non avete mai sentito parlare di Chongqing? Be', fino a poco tempo fa neanch'io.
Nessuno o quasi, a parte i cinesi, conosce questo posto. Del resto sarebbe impossibile ricordare il nome di tutte le
novanta città cinesi con più di un milione di abitanti.
Ma Chongqing ha delle caratteristiche molto particolari. Con 32 milioni di
abitanti, il comune è infatti il più grande del mondo. In realtà questa città si
estende su quasi 82mila chilometri quadrati, la superficie dell'Austria, e ci si
può trovare, chissà ancora per quanto, qualche piccolo pezzo di terra coltivata.
Fino al 1977 la metropoli faceva parte della provincia del Sichuan. Ma in
seguito il governo di Pechino ha deciso di legarla direttamente al potere centrale,
con l'obiettivo politico di farne la capitale della Cina dell'interno, la "porta
dell'ovest". Innanzi tutto per farvi rimanere una parte degli emigranti che stanno
saturando la costa a causa dell'esodo rurale. In secondo luogo per ispirarsi al
modello della Chicago dell'ottocento, che con la sua esplosione demografica
aveva permesso la conquista del west. E in Cina è proprio l'ovest che sfugge
ancora alla rivoluzione industriale accelerata della parte orientale del paese.
A quanto pare, la strategia del governo sta funzionando: ogni anno 500 mila
contadini si vanno ad aggiungere alla popolazione di Chongqing, un vero e proprio fiume umano attirato dalle luci della
città. Il problema è dove sistemare tutta questa gente. Così nuovi quartieri, grattacieli, labirinti di autostrade, tunnel,
ponti, metropolitane aeree e stadi spuntano come funghi. E molto presto si aggiungeranno centri commerciali, parcheggi,
cinema e un nuovo teatro dell'opera. Ci sono gru ovunque, cantieri frenetici, rumore incessante di martelli pneumatici.
La fisionomia della città cambia così rapidamente che le mappe di Chongqing vengono ristampate ogni due mesi! Ogni
giorno l'economia locale cresce di 100 milioni di yuan (1O milioni di euro). Ogni giorno si contano 568 morti contro 813
nascite. Ogni giorno 1.370 persone arrivano dalla campagna per dare il loro contributo a questa esperienza di sviluppo
unica al mondo. Chongqing è ormai il simbolo della crescita cinese.
Qui l'urbanizzazione è un film a velocità accelerata, la cui sceneggiatura viene modificata quotidianamente. "Per gli
urbanisti, la Cina è il posto più formidabile di tutti", dice l'architetto francese Marie-Caroline Piot, responsabile della
sede cinese di AB Architecture, uno studio parigino molto attivo in campo internazionale. "Mai nella storia, città cos
ìgrandi sono state costruite così rapidamente. La Cina sta facendo la sua rivoluzione industriale in un ventennio, mentre
in occidente è durata un secolo. Si passa dalla discussione iniziale ai progetti in tre dimensioni e alla realizzazione finale
in pochissimo tempo". In realtà Chongqing ha un solo obiettivo: recuperare il tempo perduto. Appena uscito dal
modernissimo aeroporto, il visitatore si trova di fronte un grande cartellone: "Che il mondo conosca Chongqing! Che
Chongqing conosca il mondo!". Se continua a svilupparsi a questo ritmo, la città non tarderà molto a farsi conoscere.
UNA NUVOLA DI SMOG
Appuntamento con Qiu Shujie, responsabile dell'ufficio di urbanistica della giunta municipale. "È facile trovarmi", dice
al telefono, "sono nell'unico vecchio edificio rimasto, in una zona circondata da grattacieli". Il tassista ci mette quaranta
minuti a trovare il posto: appena un anno fa il quartiere ancora non esisteva. Qiu ha 35 anni e ha vissuto qualche tempo
a Stoccarda, in Germania, per imparare come funziona un'amministrazione moderna. Parla inglese e tedesco, e racconta
che, durante la seconda guerra mondiale, Chongqing fu per un breve periodo la capitale della Cina che lottava contro
l'occupazione giapponese. Qiu ci dice che "qui le licenze edilizie sono concesse molto rapidamente"; commenta poi le
foto satellitari attaccate alle pareti del suo ufficio. Le immagini mostrano una città tentacolare, una piovra urbana che
non ha ancora finito di estendere i suoi tentacoli. "La penisola di Yuzhong, al centro, è sovrappopolata, così costruiamo
il più rapidamente possibile nuovi quartieri dall'altra parte delle colline". Quanti? "Una decina. Ma bisognerebbe
piuttosto parlare di nuove città, perché saranno quasi indipendenti dal centro". E i lavori avanzano rapidamente?
''Abbastanza. Ogni anno cominciano lavori per dieci milioni di metri quadrati, e costruiamo 100mila appartamenti
all'anno". L'energia non è un problema? "Sì, è il nostro problema principale. Abbiamo spesso interruzioni di corrente
perché la produzione di elettricità non riesce a seguire la crescita della domanda. Preleviamo troppa corrente dalla rete".
L'energia, in Cina, è un vero rompicapo. L'Impero di mezzo è programmato per diventare fra vent'anni la prima potenza
mondiale. Ma se non vorrà rallentare il suo glorioso balzo in avanti, dovrà trovare il modo per soddisfare le gigantesche
esigenze di energia provocate da questo boom inedito nella storia. Il problema riguarda anche Chongqing, nonostante la
relativa vicinanza all'immensa diga delle Tre gole, che si trova trecento chilometri a valle sul fiume Yangtze.
In attesa di una soluzione più pulita il paese fa affidamento quasi esclusivamente sul carbone, il carburante della
rivoluzione industriale occidentale dell'ottocento. La Cina ne ha quantità enormi, le più importanti riserve del mondo.
Così, per alimentare il motore della crescita, brucia quantità enormi di carbone. Ogni settimana nel paese viene inaugurata una nuova centrale elettrica a carbone. E sono tutte molto inquinanti.
Ogni giorno vengono emesse centinaia di milioni di tonnellate di anidride carbonica, il principale gas a effetto serra.
Alla fine del 2007, la Cina supererà gli Stati Uniti come primo inquinatore del mondo e come principale responsabile del
riscaldamento climatico globale. Ancora qualche mese fa si riteneva che questo sorpasso avrebbe avuto luogo nel 2010.
Secondo la Banca mondiale, sedici delle venti metropoli più inquinate del mondo si trovano in Cina. E Chongqing figura
al primo posto in questo sinistro elenco. La nuvola di smog grigio-gialla che copre la città non scompare mai. L'aria è
talmente densa, talmente carica di polveri, che si ha una percezione fisica della sua pesantezza. La colpa è del carbone e
dell'industrializzazione galoppante. Ma anche del traffico automobilistico.
A Chongqing non ci sono più biciclette, sia perché la città è costruita su una serie di colline ripide sia perché il traffico
automobilistico raddoppia ogni anno. Incontriamo Yin Mingshang, che si dice soddisfatto di questo sviluppo. A 68 anni
è una delle star del nuovo business privato. Ex prigioniero politico sotto Mao, ha conosciuto il laogai, i gulag cinesi. Poi,
nel 1992, ha preso alla lettera il celebre slogan del riformista Deng Xiaoping: ''Arricchitevi!". Così quindici anni fa ha
aperto una piccola officina di riparazione di motociclette. Oggi il gruppo Lifan è diventato il primo costruttore mondiale
di due ruote per numero di unità prodotte. Si tratta anche di una delle prime imprese private del paese, molto corteggiata
dal potere di Pechino. Yin appartiene alla cerchia ristretta di consulenti sul capitalismo del presidente Ru Jintao e del
primo ministro Wen Jiabao. Con stabilimenti in Cina, in Vietnam, in Egitto e ben presto in Europa dell'est, i piani di
sviluppo del gruppo sono in sintonia con l'immagine di una Cina lanciata alla conquista del mondo. Yin spiega che vuole
copiare il modello giapponese: "Ho studiato il caso Ronda. Dopo la guerra, il Giappone si stava ricostruendo e Ronda
produceva motociclette. Quando lo stipendio medio dei giapponesi ha superato i 400 dollari al mese, Ronda ha
cominciato a produrre automobili. Il resto della storia lo conosciamo".
E in Cina? "Siamo vicini ai 400 dollari al mese. Non dappertutto, ma nelle grandi città è nata una vera classe media". E
allora? "E allora ho cominciato a produrre automobili". Mase tutti i cinesi ne avranno una, gli faccio notare, la Terra
morirà avvolta in una gigantesca nuvola di inquinamento. Sorride e mi risponde: "In Europa, quando eravate nella stessa
situazione, non vi siete posti il problema".
Ci porta nella quattordicesima fabbrica che ha fatto costruire in quattordici anni. Qui diverse centinaia di lavoratori, che
hanno un'età media di 22 anni, assemblano i primi modelli della Lifan Sedano. Per il 2007 sono previste cinquantamila
unità. Quest'automobile a buon mercato (costa intorno ai 7mila dollari), modesta ma ben disegnata, è il sogno di tutti i
cinesi.
Oggi negli Stati Uniti c'è una macchina per ogni abitante, una ogni due in Italia e una ogni duecento in Cina. Se tra
vent'anni i cinesi raggiungeranno, cosa possibile, una percentuale automobilistica simile a quella dell'occidente, ci
saranno 600 milioni di automobili! Abbastanza da raddoppiare il parco automobilistico mondiale. Del resto. poche
settimane fa il mercato automobilistico cinese ha superato quello giapponese, diventando il secondo del mondo: una
manna per i produttori, occidentali e cinesi, un incubo per il clima. E un cambiamento enorme nei grandi equilibri
geopolitici mondiali. Perché per far camminare tutte queste automobili, la Cina avrà bisogno, anzi ha già bisogno, di
quantità crescenti di petrolio. E lo cerca in Africa, nel golfo Persico o in Venezuela. Gli alti dirigenti della Repubblica
Popolare visitano sempre più spesso i paesi membri dell'Opec. Sul terreno di caccia all'oro nero è ormai guerra aperta tra
Pechino e Washington.
LE TENSIONI DEL FUTURO
La Cina sta cambiando il mondo. Dopo aver trascorso qualche giorno a Chongqing, parlando con la gente per strada e
incontrando i rappresentanti ufficiali, si capisce che per i cinesi l'affermazione del paese come potenza sviluppata e forte
è un obiettivo giusto e ineluttabile.
La corsa in avanti della Cina provocherà tensioni e alimenterà le guerre dell'energia del ventunesimo secolo. Guerre che
in realtà sono già cominciate. Perché i cinesi hanno fretta, così fretta che non hanno neanche il tempo di diventare
cittadini. All'entrata del supermercato Carrefour nel quartiere di Shapingba, c'è un deposito con degli armadietti dove
mettere le proprie cose durante la spesa. Sopra, una grande scritta dice: "Vietato
mettere negli armadietti volatili e altri animali".
Oro nero canadese
Continua il viaggio nel mercato globale
dell'energia. La seconda tappa è l'Alberta, la
provincia del Canada diventata ricca con il
greggio estratto dalla sabbia
Siamo andati in Canada a novembre. Appena arrivati a Calgary, ci hanno avvertito: "In questa stagione le strade del nord
sono una specie di pista di pattinaggio". In effetti i quattrocento chilometri dell'autostrada a quattro corsie che porta a
Edmonton, la capitale della provincia dell'Alberta, sono coperti da una pericolosissima lastra di ghiaccio. Evidentemente
non così pericolosa per i grossi suv dell'Alberta, che la percorrono a circa cento chilometri all'ora: ci vuole ben di più di
una semplice lastra di per fermare un canadese che va di fretta. Solo dopo Edmonton le cose cominciano davvero a
complicarsi: sembra che il mondo civilizzato finisca qui, e il freddo diventa ancora più intenso a causa del blizzard. Non
s'incontra anima viva per chilometri. a parte qualche lupo ai margini della foresta boreale.
Alla fine arriviamo a Fort McMurray, il luogo da cui è partito il grande balzo del Canada nel settore petrolifero. In
passato questa città, che si estende su un'ansa del fiume Athabasca era solo un avamposto della conquista del nord. un
punto di riferimento per i cacciatori di pelli in cerca di fortuna nelle terre dei nativi, che qui sono chiamati first nation.
Ma nel giro di dieci anni è cambiato tutto. Fort .McMurray è ormai una boomtown del grande nord: 60mila abitanti,
diecimila in più ogni due anni. Il risultato è che tutto aumenta: i prezzi (tremila euro al mese per affittare un trailer, una
sorta di roulotte più confortevole) e gli stipendi (un operaio specializzato può guadagnare fino a ottomila euro al mese).
Arriva manodopera da tutto il Canada con un'intensa migrazione interna. Da Terranova e dal Labrador, dove la
scomparsa delle attività legate alla pesca ha ridotto drasticamente l'occupazione, ci si sposta verso l'Alberta, terra ricca di
una risorsa nera e viscosa: le sabbie bituminose, oil sands nel gergo dell'industria petrolifera.
L'ultima frontiera
Si è creduto a lungo che questo petrolio molto pesante e nascosto nella sabbia non valesse gli enormi sforzi necessari per
estrarlo. Ma l'aumento del prezzo del greggio registrato negli ultimi anni ha cambiato tutto. Le sabbie bituminose del
bacino dell'Athabasca sono diventate l'ultima frontiera della corsa all'oro nero. Tutte le grandi compagnie petrolifere
Total, ExxonMobil, Chevron - hanno investito decine di miliardi di dollari nella regione. Ma visitare le miniere non è
facile. "Sono siti troppo strategici", ci hanno risposto diverse compagnie. Alla fine, dopo una settimana di intense
trattative all'esclusivo Petroleum club di Calgary, la Shell ci ha permesso di visitare i suoi impianti.
Ci siamo dati appuntamento, all'alba di un freddo venerdì, davanti all'ingresso della Muskeg river mine, una miniera di
proprietà della Albian Sands Energy, azienda controllata dalla Shell Canada. Per arrivarci bisogna risalire da Fort
McMurrayverso nord per settanta chilometri. Il percorso offre una vista incredibile: la strada passa accanto alle miniere
e alle installazioni petrolchimiche delle compagnie canadesi Suncor e Syncrude, pioniere nella lavorazione delle sabbie
bituminose. Tra i fumi neri e l'odore acre del greggio in lavorazione, lo spettacolo assume un'aria apocalittica. Lungo la
strada vediamo solo i fuoristrada dei tecnici ed enormi camion.
L'accoglienza all'Albian Sands è decisamente più calda della temperatura esterna, che oscilla intorno ai trenta gradi sotto
zero. Riceviamo strette di mano energiche, mezzo litro di caffè e le solite raccomandazioni sulla sicurezza: bisogna
indossare il casco, gli stivali con la punta rinforzata e gli occhiali di protezione. Christopher Jones, un dirigente
dell'Albian Sands, ci porta nel cuore della miniera a bordo di un fuoristrada. Piombiamo in un universo parallelo: un
giacimento infinito di sabbia nera piena di petrolio, attraversato da camion giganteschi e da scavatrici altrettanto grandi.
Stiamo letteralmente camminando sul petrolio greggio. "Posso raccogliere della sabbia con le mani?", chiedo. "Quanta
ne vuole. Non è certo quella che manca", risponde Jones. "Ma cos'è esattamente?", ribatto. "Questa distesa", mi spiega il
dirigente, "è il deposito di quella che un tempo era la costa del mare di Albian, che si è trasformato in sabbia satura di
petrolio. Ogni granello è avvolto in una pellicola d'acqua, che a sua volta è coperta da uno strato di bitume. Mettendo la
sabbia nell'acqua bollente, riusciamo a separare il petrolio dal resto".
Jones è orgoglioso di lavorare qui. Secondo lui, la miniera prefigura il futuro radioso del Canada come nuova potenza
mondiale del petrolio. "Le sabbie dell'Alberta racchiudono decine di miliardi di barili. Grazie all'evoluzione delle
tecniche di estrazione recuperiamo quantitativi sempre maggiori di petrolio, e in tempi sempre più rapidi". In futuro sarà
possibile estrarre l'oro nero direttamente sul posto, evitando il costoso processo di separazione della sabbia. I tecnici
stanno studiando il modo di iniettare vapore bollente nel sottosuolo per liquefare il bitume intrappolato nella sabbia e
recuperarlo attraverso il pompaggio, come nei sistemi tradizionali. Secondo i tecnici canadesi e gli specialisti
dell'Agenzia internazionale dell'energia (Aie), il petrolio "non convenzionale" dell'Alberta costituisce la seconda riserva
di greggio al mondo (170 miliardi di barili) dopo quella dell'Arabia Saudita (261 miliardi). Tra il 2010 e il 2015 il
Canada produrrà da due a quattro milioni di barili al giorno, diventando il quarto produttore mondiale e il primo fuori dal
Golfo Persico e dalla Russia. Una nuova potenza energetica mondiale si sta affermando a queste latitudini improbabili
Camion giganti
La neve, che intanto ha ripreso a cadere, non rallenta il balletto infernale dei
Caterpillar 797B, i più grandi camion del mondo. L'Albian Sands Energy ne
possiede più di cento. La scala che porta alla cabina del camion 118 ha 35 gradini. Il
conducente si chiama Dan Pryshon. Ha appena svuotato il suo cassone in un imbuto
gigante, attraverso il quale la sabbia nera si riversa su un tapis roulant di 1.600 metri
e raggiunge una centrifuga dove si procede alla separazione del bitume. Dan non ha
molto tempo per noi: la sabbia non aspetta, la miniera lavora 24 ore su 24, 365
giorni all'anno. Si toglie i tappi dalle orecchie ed elenca le caratteristiche del
mammut che ha l'onore di guidare: "I pneumatici hanno un diametro di 3,5 metri e
pesano 4.900 chili l'uno. La parte superiore del cassone è a venti metri d'altezza. Il
camion costa sei milioni di dollari e viene montato sul posto, perché è troppo grande per essere trasportato dalla fabbrica
di Peoria, nell'Illinois. Ogni carico contiene quattrocento tonnellate di sabbia, da cui si estraggono circa duecento barili
di greggio. La centrale di Calgary mi segue continuamente attraverso il gps". La serie di superlativi potrebbe continuare,
perché qui tutto è smisurato.
Compreso l'inquinamento, il primo effetto collaterale della corsa all'oro nero dell’Alberta. Il Pembina Institute, un’ong
ambientalista di Calgary, sostiene che le emissioni di gas a effetto serra del Canada sono cresciute di pari passo con lo
sfruttamento delle oil sands. Il bitume, una volta separato dalla sabbia, non è ancora petrolio: deve prima subire una serie
di trattamenti chimici e molecolari in impianti detti upgraders, che emettono fumi neri e inquinanti. Secondo Mel
Grandjamb, rappresentante dei nativi Mikisew Cree del villaggio di Fort McKay, vicino alla miniera dell'Albian Sands,
è in corso una catastrofe ecologica. Mel ha sfruttato i vantaggi dello sviluppo nella regione: dirige una piccola azienda
che fornisce servizi di vario genere (alimentari e trasporti) agli operai delle miniere. Ma si rende conto che il boom
petrolifero sta distruggendo inesorabilmente la terra dei suoi antenati. "In passato ci dedicavamo alla caccia",
raccontaMel. "Oggi il commercio di pellicce è vietato, ma lo avremmo abbandonato comunque, perché gli animali sono
quasi scomparsi. C'è troppo rumore, così migrano tutti a nord. Secondo gli scienziati, l'acqua del fiume Athabasca è
buona, ma non ci fidiamo. Non la beviamo né ci peschiamo. È assurdo: con le sabbie bituminose siamo più ricchi di
prima, ma allo stesso tempo ci siamo impoveriti. perché il nostro stile di vita ancestrale è scomparso per sempre".
Janet Annesley, la portavoce del Shell Canada, non la pensa così. "Dopo aver finito di sfruttare un settore della miniera,
procediamo al rimboschimento sistematico della foresta boreale per far tornare gli animali. Certo, c'è un po'
d'inquinamento, ma facciamo del nostro, meglio per limitare le emissioni. E poi è meno dannoso rifornire i canadesi e gli
americani con il petrolio dell'Alberta piuttosto che far arrivare il greggio mediorientale attraverso l'oceano". Annesley,
insomma, non dice che le sabbie bituminose sono pulite e innocue, ma solo che inquinano meno di quanto si pensi.
Per gli statunitensi il greggio canadese è una manna caduta dal cielo. Possono contare sul petrolio di un paese vicino e
amico che deve solo attraversare la frontiera per alimentare l'enorme fabbisogno di benzina del loro mercato
automobilistico. Il petrolio canadese è un bene per gli Stati Uniti e per la "sicurezza energetica" tanto cara alla Casa
Bianca, costretta ad affrontare una guerra globale degli approvvigionamenti petroliferi sempre più dura. Ma è un bene
soprattutto dal punto di vista strategico, perché con l'avventura irachena il Medio Oriente è diventato una regione
ancora più instabile
Nella lotta per il controllo delle risorse inoltre. è scesa in campo Pechino, che ha emissari ovunque: in Venezuela. in
Medio Oriente e perfino a Edmonton. La crescita cinese minaccia la supremazia dell'impero americano, basata sul
pilastro dell’energia a buon mercato. Infine non non bisogna dimenticare lo spettro del peak oil, l’inizio del calo della
produzione globale. Come essere certi che i sauditi non stiano mentendo sulla portata delle loro riserve? I principi di
Rjyadh continuano a pompare petrolio come pazzi. senza che negli ultimi vent'anni le loro riserve siano diminuite di un
barile. Eppure non è stato scoperto nessun nuovo giacimento di rilievo. Per Washington si tratta di un enigma a dir poco
preoccupante.
Il nuovo Texas
Dopo la visita alla miniera torniamo a Calgary, dove i grattacieli di vetro delle compagnie petrolifere spuntano come
funghi. In pochi anni i petrodollari hanno cambiato tutto. L'Alberta si considera ormai come un nuovo Texas, e Calgary
è la nuova Houston. Il denaro scorre a fiumi, la popolazione aumenta, nei bar si trovano addirittura prostitute
dell'Europa dell'est, un segno evidente della nuova ricchezza. Intanto la città continua a ingrandirsi. La sua periferia
occidentale conquista ogni anno chilometri di tundra e si avvicina alle stazioni sciistiche delle montagne Rocciose,
dove si costruiscono ville monumentali. Insomma, siamo di fronte alla versione canadese di Dallas. All'inizio del 2006
i cittadini dell'Alberta hanno addirittura ricevuto un regalo dal fisco. L'amministrazione provinciale ha dato a tutti i
residenti un assegno (windfall cheque) di diverse centinaia di dollari, frutto di un enorme surplus nel bilancio pubblico.
Il governo locale non sa più come gestire la montagna di royalties versate dalle compagnie petrolifere in cambio del
diritto di distruggere la foresta boreale.
L'analogia con il Texas non finisce qui. Nel 2005 è diventato primo ministro del Canada un politico dell'Alberta,
Stephen Harper. Per la prima volta è stato imposto a Ottawa un outsider, un politico che non ha frequentato i circoli colti
delle metropoli. Ogni riferimento al texano George W. Bush non è casuale. E infatti Harper si considera simile al
presidente degli Stati Uniti: ha lo stesso atteggiamento da bigotto protestante e la stessa diffidenza istintiva verso le
"minacce alla crescita", tra cui quel protocollo di Kyoto che il Canada non ha ratificato e che comunque sarebbe
incapace di rispettare. I petrolieri dell'Alberta hanno sostenuto Harper perché sanno che il premier non gli metterà mai i
bastoni tra le ruote.
Ma le sabbie bituminose dell'Alberta sono anche una metafora della fine di un'epoca, quella degli idrocarburi, che
facciamo fatica a lasciarci alle spalle. L'estrazione di un barile di greggio a Fort McMurray costa venti dollari, contro i
34 dell'Arabia Saudita, ma con il prezzo del petrolio a sessanta dollari al barile questo sistema di estrazione risulta
redditizio. Trasfonnare la sabbia bituminosa in petrolio greggio, però, è molto dispendioso dal punto di vista energetico:
ci vuole gasolio per il camion gigante di Dan Pryshon (quattromila litri all'ora) e grandi quantità di gas naturale per
alimentare i complessi industriali che impastano e triturano il bitume. Per produrre due barili di greggio nell'Alberta se
ne brucia l'equivalente di uno. È un'aberrazione? Probabilmente sì. Ma intanto in Canada c'è chi si rallegra dei primi
vantaggi del riscaldamento climatico: con lo scioglimento della banchisa a nord si liberano nuovi spazi nell'Artico per
la prospezione petrolifera. adr
Effetti collaterali
Il boom economico dell' Alberta ha costretto le autorità della provincia ad affrontare una serie di problemi, un tempo
marginali o inesistenti. Per esempio la speculazione edilizia: a Fort McMurray il costo dei terreni edificabili e degli
appartamenti ha raggiunto i livelli di città come Toronto. Inoltre si registra un aumento della criminalità. Il fine
settimana molti operai bevono e vanno in cerca di sesso e droga: oggi il consumo di stupefacenti nella zona di Fort
McMurray supera di quattro volte la media della provincia. L’uso di droghe è all'origine dell'assenteismo e di molti
incidenti sul lavoro, cresciuti del 17 per cento negli ultimi due anni.-THE ECONOMIST
Il potere del mais
Per ridurre la sua dipendenza dal petrolio, Washington punta sui
biocarburanti. Il viaggio nel mercato dell'energia globale fa tappa
nell'Iowa, dove si produce l'etanolo
SERCE ENDERLIN PER INTERNAZIONALE
Bill Couser è uno di quegli americani ottimisti per i quali il futuro può essere solo radioso. Ha fede in Dio e
nell'onnipotenza della tecnologia. Proprio questa fede gli ha permesso, negli ultimi due anni, di cambiare lavoro: ora
non è più un semplice contadino, ma un coltivatore di energia. "Guardi questo mais", dice agitando una pannocchia,
"sono venti anni che lo coltivo. Fino a poco tempo fa rivendevo i tre quarti del raccolto alla cooperativa locale e il resto
lo usavo come mangime per le mie mucche. Ma oggi abbiamo la possibilità di trasformarlo in carburante: è davvero
una bella novità!".
Ci troviamo a Nevada, un villaggio dell'Iowa, nella cosiddetta com belt che dà da mangiare agli Stati Uniti. Grazie
all'etanolo, che sta arricchendo i coltivatori della regione, la piccola comunitàrurale è in piena trasformazione. Sono
loro, infatti, i primi beneficiari della mania dei biocarburanti che negli ultimi due anni si è impadronita del paese.
Bill Couser ha 44 anni, una moglie e due figli. Il più grande, Tim, è andato in California per studiare cinema. Il più
piccolo, Tom, lavora con il padre nei ventimila ettari dell'azienda di famiglia, che è venti volte più grande di un'impresa agricola europea di medie dimensioni. L'orgoglio dei Couser era il bestiame: un allevamento industriale di
cinquemila bovini all'anno, pieni di ormoni. Qui èammesso tutto quello che la scienza offre per accelerare la
produzione: il maisdel campo di Bill Couser è geneticamente modificato. Ed è proprio il mais che ha cambiato la sua
vita. "Tre anni fa", racconta Bill, "abbiamo organizzato un'assemblea alla cooperativa ed è venuto un tipo a parlarci
dell'etanolo. Per me, fino a quel momento, l'alcol era un liquido che si trovava in una lattina o in una bottiglia.
Immaginatevi la sorpresa quando ho capito che il nostro mais poteva essere trasformato in alcol, in etanolo e quindi in
biocarburante. Anche gli altri sono rimasti impressionati. Così ci siamo lanciati nell'avventura: sembrava di vivere in
un sogno".
La nuova Arabia Saudita
Il sogno rapidamente è diventato realtà. Grazie a un accordo con la banca agricola locale e a una sottoscrizione
pubblica tra gli abitanti della comunità, nel giro di qualche settimana sono arrivati i primi milioni di dollari. Con questi
soldi è stata costruita la prima distilleria di etanolo della zona, seguita presto da molte altre. Bill Couser, che presiede il
consiglio d'amministrazione della distilleria, ci porta a visitare l'impianto, vicino alla sua fattoria lungo la Lincolnway
(poche settimane fa ci trovavamo sulla stessa arteria, alcune centinaia di chilometri più a ovest, a Cheyenne nel
Wyoming):
I camion arrivano dai dintorni, carichi di mais appena raccolto. Poi il mais viene aspirato da una pompa e spinto da
un grosso tubo nelle vasche dove, con un processo naturale a base di enzimi, è trasformato in etanolo. "Il vantaggio",
spiega Couser, "è che non ci sono intermediari. Il mais diventa etanolo e noi lo vendiamo a buon prezzo grazie alle
sovvenzioni federali. E con i residui della distillazione facciamo il mangime per il bestiame. Non si perde nulla, questa
fabbrica è come una Cadillac!".
Come Couser, migliaia di coltivatori delle grandi pianure degli Stati Uniti sono passati ai biocarburanti. Il risultato è
stato un aumento del prezzo del mais sul Chicago board of trade, la principale borsa di materie prime del mondo. Negli
ultimi trent'anni il mais non era mai stato così caro. "Siamo i protagonisti della rivoluzione energetica in cui si sono
lanciati gli Stati Uniti e ne siamo orgogliosi", afferma Couser. "Con il nostro mais non abbiamo più bisogno
d'importare petrolio dal Medio Oriente. Finalmente abbiamo un carburante pulito, che emette quantità ridotte di
anidride carbonica (C02) nell'atmosfera. Inoltre è un carburante patriottico: cresce a casa nostra, non viene esportato, è
riciclabile e rinasce ogni anno. Non dobbiamo più andare a combattere in Iraq per dei barili di petrolio arabo. Il mais
dell'lowa è la nuova Arabia Saudita".
Bill Couser spera che in futuro potrà riempire il serbatoio delle sue auto con quel prezioso liquido giallo. A causa
dello sfruttamento intensivo, infatti, la sua azienda è estremamente meccanizzata.
Del resto il centro nevralgico della fattoria è l'hangar che ospita il parco macchine: due trattori giganti a sei ruote, delle
mietitrebbie e alcuni escavatori per raccogliere il letame nelle stalle. L'agricoltura meccanica è stata sovvenzionata da
Washington, che ne ha garantito il successo nonostante l'apertura progressiva dei mercati mondiali e l'affermazione di
nuove potenze agricole globali, come il Brasile, la Cina e l'India del futuro. Così quando gli agricoltori hanno capito che
l'etanolo offriva una specie di assicurazione sulla vita, non hanno esitato a lanciarsi nell'avventura.
La loro impresa è stata incoraggiata dall'alto. Il 30 gennaio 2006, a Washington, il presidente George W. Bush ha
tenuto il suo discorso annuale sullo stato dell'unione. Tra le diverse considerazioni sulla guerra globale contro il terrorismo e sull'economia statunitense, il presidente ha detto: "La nostra nazione ha un problema: l'America dipende dal
petrolio, che viene importato da regioni instabili del mondo. Questo crea un grave problema di sicurezza nazionale".
Per la prima volta l'uomo più potente del mondo, lui stesso originario della potente lobby petrolifera del Texas, ha
riconosciuto davanti ai suoi concittadini che l'impero ha un tallone d'Achille: la dipendenza dagli idrocarburi.
Obiettivo realistico
Al di,scorso di Bush non è seguita nessuna misura concreta, ma è bastato parlare di questa debolezza per segnare una
svolta. Gli Stati Uniti si sono resi conto che il prelievo delle riserve di greggio del golfo Persico (se necessario anche
con la forza) non può essere l'unica politica energetica a lungo termine.
Un anno dopo, alla fine del gennaio del 2007, la situazione si è ripetuta con il nuovo discorso sullo stato dell'unione.
È il momento dei biocarburanti, la nuova panacea. La Casa Bianca incoraggia questa soluzione "nazionale e patriottica".
Bush vuole che il 15 per cento della benzina consumata nel paese nel 2020 provenga dalla biomassa. L'obiettivo, sulla
base del boom attuale, sembra realistico: all'inizio del nuovo millennio le distillerie di etanolo negli Stati Uniti si
contavano sulla punta delle dita, oggi sono centinaia.
Tuttavia ci sono delle resistenze, in particolare nella zona di Detroit, il santuario automobilistico degli Stati Uniti.
Qualche mese prima del suo discorso, Bush ha convocato alla Casa Bianca i presidenti dei primi tre gruppi automobilistici del paese, le cosiddette Bigthree di Detroit: General Motors (Gm), Ford e Chrysler. "Siete in ritardo", gli ha
detto il presidente. " Da tempo i giapponesi si battono con successo per ridurre i consumi dei loro veicoli e ogni anno ci
rubano una quota di mercato. Le persone vogliono auto che inquinano meno, ma voi non fate nulla". Dopo essere stati
rimproverati, i responsabili delle tre grandi aziende automobilistiche sono tornati a casa sui loro jet privati, per atterrare
qualche ora dopo a Detroit. Di certo l'aereo non è il mezzo migliore per limitare le emissioni di C02.
I giapponesi stanno vincendo la battaglia automobilistica contro gli Stati Uniti. Nel 2007 Toyota ha preso per la
prima volta il posto di Gm come leader mondiale nella produzione di auto. Detroit non si è resa conto che la situazione
stava cambiando. Anche se dal 2001 il prezzo della benzina nel paese è triplicato, le Big three hanno continuato a
puntare sui suv, gli enormi fuoristrada che consumano fino a trenta litri di benzina ogni cento chilometri.
L'esempio brasiliano
La crisi energetica mondiale e la consapevolezza del rischio climatico, però, hanno poco a poco modificato i gusti del
pubblico, che ha premiato la Toyota Prius, un'auto ibrida (motore a benzina ed elettrico) con consumi molto ridotti.
Arrivati tardi sul mercato delle vetture a basso consumo, per soddisfare la domanda i giganti di Deuon hanno puntato
sull'ecologia. Così Gm ha proposto la Chevrolet Tahoe, con un motore flexfuel che le permette di consumare indifferentemente benzina o etanolo E85. È la miscela "verde" più popolare: 85 per cento di etanolo e 15 per cento di benzina.
Gli Stati Uniti si limitano a seguire l'esempio del Brasile. Alla fine degli anni settanta, dopo essere stato duramente
colpito dalle due crisi petrolifere, il gigante del Sudamerica puntò su un carburante alternativo: l'etanolo ricavato dalla
canna da zucchero. Trent'anni dopo, il successo è totale. Tre quarti delle auto che circolano nella gigantesca metropoli
di Sao Paulo funzionano con questo zucchero distillato. Nella primavera del 2007 George W. Bush, in visita a Brasilia,
ha concluso un patto energetico con il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva per sviluppare la produzione di
etanolo. Intanto in Colombia i signori della guerra cominciano ad abbandonare la coltivazione della coca per quella
dell'olio di palma che, una volta trasformato in biodiesel, assicura un rendimento enorme. E l'Europa non è rimasta con
le mani in mano. Tutti i governi puntano sullo sviluppo accelerato del settore dei biocarburanti, anche se la produzione
è molto inferiore a quella del Brasile e degli Stati Uniti.
Ancora vent'anni
Ma torniamo nell'lowa. Siamo ad Ames, a un'ora di strada a nord dalla capitale Des Moines. Ad Ames c'è l'università
più importante dello stato, l'Iowa state university. Il suo dipartimento di agronomia, diretto dal professore Robert
Brown, è all'avanguardia nel campo dei biocarburanti. Brown è una delle massime autorità sull'etanolo del futuro,
quello veramente ecologico.
"L'etanolo ricavato dal mais non è ecologico?".
"Direi di no. Innanzitutto il suo rendimento energetico è basso, solo il 38 per cento rispetto all'86 per cento del petrolio.
Questo significa che un motore che funziona con succo di mais ha prestazioni ridotte rispetto a un motore a benzina
tradizionale: accelera meno ra pidamente e consuma più litri di carburante".
"Ma si tratta di carburante pulito, da momento che l'etanolo non emette C02".
"È vero, ma non dobbiamo dimenticare che per coltivare queste enormi quantità di mais servono macchine che
bruciano petrolio, fertilizzanti a base di idrocarburi e moltissima acqua. Il rendimento energetico complessivo
dell'etanolo del mais è molto basso e il suo rendimento ecologico è discutibile".
"Allora i biocarburanti sono solo un'illusione?".
“No, perché la soluzione sono i biocarburanti di seconda generazione: l'etanolo ottenuto a partire dalla cellulosa, che si
trova nei gambi di mais o in alcuni cereali come il panìco Un tempo ricoprivano la prateria americana ma potrebbero
essere ripiantati Questa biomassa cellulosica ha un rendimento energetico eccezionale ed è abbondante. Una volta
trasformata in etanolo, in futuro potrebbe assicurare un terzo del fabbisogno di benzina degli Stati Uniti".
"E quanto dobbiamo aspettare per questo futuro?".
"Almeno vent'anni".
Da sapere
- I biocarburanti sono carburanti che si ricavano dai cereali o da altri prodotti agricoli. Rispetto ai carburanti fossili
(carbone, gas, petrolio) bruciando producono una bassa quantità di anidride carbonica.
- L'etanolo e il biodiesel dominano il mercato mondiale. L’etanolo è prodotto dal mais, dalla barbabietola, dal grano
o dalla canna da zucchero. Invece il biodiesel si produce a partire dalla colza, dal girasole o dall'olio di palma.
- L'Agenzia internazionale dell'energia sostiene che l'etanolo a base di canna da zucchero riduce dall'85 al 90 per
cento le emissioni di gas a effetto serra rispetto a un carburante fossile. L:etanolo prodotto dai cereali o dalle
barbabietole da zucchero riduce le emissioniinquinanti del 47 per cento.
- Gli Stati Uniti e il Brasile sono i leader mondiali nella produzione di etanolo. L:etanolo americano, a base di mais,
rappresenta il 37 per cento della produzione mondiale; quello brasiliano, a base di canna da zucchero, rappresenta il 35
per cento. Il biodiesel, invece, è prodotto soprattutto in Europa.
- L'Unione europea nel 2005 ha prodotto 3,9 milioni di tonnellate di biocarburanti. La Germania è il più grande
produttore di biodiesel del continente, seguita dalla Francia e dall'Italia.
- I biocarburanti di seconda generazione, prodotti da biomasse lignocellulosiche, sono la speranza del futuro.
Progetti pilota esistono in Danimarca, Svezia e Spagna. -LIBERATION
I signori del vento
Gli impianti eolici si diffondono in tutta Europa, ma hanno il difetto di
essere ingombranti. Finisce in Danimarca e Spagna il viaggio nel mondo
dell'energia
SERIE ENDERLIN PER INTERNAZIONALE
Chissà se in futuro i nostri paesi saranno coperti da enormi centrali eoliche
in
grado di fornire energia pulita. Per dare una risposta a questa domanda,
abbiamo preso il treno che dalla Svizzera porta verso il nord Europa. Il
viaggio è monotono sul convoglio ad alta velocità diretto nella Germania
settentrionale. Dopo Hannover la pianura diventa piatta come una tavola.
Le
zone urbane si alternano a una campagna organizzata ed efficiente. Gli
unici segni di verticalità in questa parte della Bassa Sassonia sono le
antenne della telefonia mobile e le grandi pale bianche delle turbine
eoliche. Più si va a nord, più aumentano. C'è qualcosa di poetico in quest'opera meccanica fatta di eliche a tre pale, simbolo di un futuro
affascinante che la minaccia climatica dei gas a effetto serra renderà ben
presto inevitabile.
L'Unione europea ha deciso che entro il 2020 un quinto del suo fabbisogno energetico dovrà essere soddisfatto at-
traverso fonti rinnovabili. Basta dare un'occhiata fuori dal finestrino per capire che in alcune parti d'Europa quest'obiettivo è già una realtà. Dopo Amburgo entriamo nel Land dello Schleswig-Holstein. Qui il numero di impianti è
ancora più elevato: il paesaggio sembra una coreografia in onore di Eolo. Sulle rive del mare del Nord, vicino a Husum,
c'è una vera e propria foresta di pale eoliche. In pochi anni la Germania ha costruito quindicimila turbine per sfruttare
l'energia del vento.
Eccoci quindi in Danimarca, meta principale del nostro viaggio e leader mondiale dell'energia eolica: un quarto della
corrente elettrica del paese proviene direttamente dal vento. Siamo a Esbjerg, primo porto danese, una città di mattoni
rossi il cui principale interesse è l'energia. Questo centro è il crocevia delle attività petrolifere danesi nel mare del Nord
(il paese possiede anche alcuni giacimenti di gas di poca importanza), ma è soprattutto la vetrina dei progressi
tecnologici del piccolo stato scandinavo nel campo dell'energia eolica. Se c'è qualcosa di maturo nel regno di Danimarca, è proprio l'industria del vento. Nella penisola dello Jutland, che si affaccia da un lato verso il mare del Nord e
dall'altro verso il Baltico, negli ultimi trent'anni i danesi hanno costruito turbine eoliche in modo sistematico. In
quest'arco di tempo questa vera e propria autostrada del vento è stata ricoperta da cinquemila impianti eolici: piccoli,
grandi, giganti; solitari, in coppia o in gruppi più numerosi. Ormai sulla terraferma non c'è più posto, e così le turbine
vengono installate in mare aperto. Per questo siamo a Esbjerg: a venti chilometri dalla costa c'è Horns Rev, il più grande impianto di turbine eoliche offshore del mondo. Dal 2002 ottanta turbine, poggiate su un fondale profondo cento
metri, affrontano la furia dei venti. Questo impianto produce seicento megawatt, che corrispondono al consumo di
150mila famiglie (circa cinquecentomila persone) e coprono il 2 per cento del consumo totale della Danimarca. In altre
parole, l'impianto eolico di Horns Rev ha la potenza di una centrale nucleare di medie dimensioni.
Eliche giganti
È questo il nostro futuro? Lo chiediamo a Claus Lykke, l'uomo che dal suo ufficio nel porto di Esbjerg controlla il
movimento delle eliche giganti di Horns Rev. Lykke è un ingegnere della Vattenfall, il gruppo energetico svedese
proprietario dell'impianto. L'energia eolica in Danimarca è una realtà quasi scontata, ci spiega: da trent'anni le eliche
sono ovunque. Non si può più costruire a terra perché i vicini brontolano, e di vicini in Danimarca ce ne sono ovunque.
La corrente eolica prodotta offshore, però, costa ancora troppo cara, perché le sovvenzioni sono diminuite dopo decenni
di generosi contributi da parte di Copenaghen.
Lykke, infine, ci dice che il suo lavoro é appassionante. Ed è facile immaginarlo davanti a lui ci sono una decina di
schermi giganti e numerose tastiere, che con un semplice clic permettono di bloccare una turbina eolica. "Come vede",
spiega Lykke indicando uno sche~a sul computer, "c'è parecchio vento nel Baltico. Le quattro turbine di Koszalin, in
Polonia, girano a pieno regime. Nella Manica, invece, c'è meno vento. L'impianto britannico di Kentish Flats è in crisi".
La Vattenfall possiede impianti un po' ovunque nel nord Europa, e li pilota proprio da Esbjerg.
Effetto Nimby
L'anno scorso, durante un breve soggiorno a Copenaghen, all'epoca in cui nei paesi musulmani si bruciavano le
bandiere danesi perché un piccolo giornale dello Jutland aveva pubblicato delle caricature di Maometto, avevamo incontrato Anja Pedersen, la portavoce dell'Associazione dell'industria eolica
danese. In altre parole: una lobbista del ~ vento. Nel suo ufficio avevamo esaminato una serie di dati impressionanti. "In
Danimarca", ci aveva raccontato Pedersen, "abbiamo capito le potenzialità del vento un secolo e mezzo fa. Qui il vento
soffia in continuazione, e bisognava sfruttare questa caratteristica del clima.
All'inizio del novecento alcune cooperative di coltivatori si erano già dotate di piccoli impianti eolici per produrre
corrente. Ma è stata la crisi petrolifera del 1973 che ci ha spinti ad affrontare la questione in modo più razionale. Non
avendo petrolio, ci siamo posti il problema della dipendenza energetica. Inoltre ci siamo resi conto che bruciavamo
troppo carbone per produrre elettricità. Sulla base di queste considerazioni, si è affermata la volontà politica di puntare
sulle energie rinnovabili, cominciando da quella eolica. Dalla fine del 2005 il 20 per cento dell'energia elettrica danese
proviene dal vento. La quota arriverà al 50 per cento nel 2025. Ma a terra ormai è impossibile costruire nuovi impianti
a causa dell'effetto Nimby". Nimby sta per not in my backyard, non nel mio cortile. Così si è deciso di andare sul mare.
Oltre a quello di Horns Rev, infatti, la Danimarca ha altri quattro impianti eolici offshore, di cui uno vicino a
Copenaghen, davanti alla statua della Sirenetta.
Ma il paese è diventato soprattutto il leader mondiale della fabbricazione di turbine eoliche. Il numero uno, il gruppo
Vestas, controlla da solo un quinto del mercato ed esporta in Cina e in Australia. L'azienda, che è quotata in borsa, vale
diversi miliardi di euro. Inoltre a Risoe, non lontano da Roskilde, c'è un laboratorio nazionale all'avanguardia nello
studio dei modelli di previsione del vento. Il centro attira visitatori da tutto il mondo. In pochi anni il settore eolico ha
creato trentamila posti di lavoro in Danimarca, mentre le esportazioni - quattro miliardi di dollari all'anno - corrispon-
dono al 4 per cento del pil. Questi dati dimostrano che non sempre il successo della rivoluzione verde si traduce in un
rallentamento della crescita economica.
La torre bianca
Ritorno all'ufficio della Vattenfall a Esbjerg, dove ci aspetta Claus Renberg, un tecnico addetto alla manutenzione. Ha
appena ricevuto una cattiva notizia: non potremo imbarcarci per visitare le turbine di Horns Rev. A causa del vento
troppo forte e del mare mosso la nostra barca potrebbe finire contro gli enormi tubi di acciaio. Ma c'è anche una buona
notizia: invece di fare questa escursione saliremo su una turbina eolica di ultima generazione, che ha una potenza di cinque megawatt. Si trova in piena campagna, dove è difficile dire se sono più nu'merose le mucche o le turbine eoliche.
Per raggiungere la porta, posta alla base di questa "torre bianca", si sale una piccola scala metallica. li diametro del
cilindro non supera i dieci metri. Dopo aver indossato un'imbracatura e un casco, veniamo sospesi a un gancio. Un
argano ci issa dolcemente al vertice della macchina, le cui pale sono state fermate. C'è un primo stop a settanta metri da
terra, su una piattaforma interna. Ancora qualche gradino, poi una botola da aprire, e arriviamo nel cuore della struttura,
la "sala macchine" dietro l'elica, dove ci sono il cambio, il disco del freno, gli ingranaggi, il generatore e il trasformatore.
Una vera e propria centrale elettrica in miniatura. Attraverso un'altra botola e una scaletta, infine, usciamo all'aria
aperta, sulla piattaforma di manutenzione.
Qui i tecnici vengono depositati con l'elicottero, un sistema più rapido dell'argano. Siamo a ottanta metri da terra, un
ambiente in cui lùmberg è perfettamente a suo agio. Noi, un po' meno: sotto la forza del vento, le oscillazioni della
struttura sono così forti che ci sembra possa crollare da un momento all'altro. Ma i tecnici della Vestas hanno previsto
tutto: "La torre è stata costruita con materiali speciali", spiega fumberg. "Sono molto leggeri, resistenti e flessibili. Al
vertice, la struttura arriva senza problemi a sopportare oscillazioni di cinque metri".
Il boom spagnolo
Come andare più lontano? Come costruire turbine eoliche sempre più grandi e potenti? Quali sono i limiti, visto che la
loro dimensione raddoppia ogni cinque anni? A questi interrogativi cercherà di trovare una risposta il futuro laboratorio
di test eolici europeo, in costruzione in Spagna. Da qualche anno la Navarra, una regione senza grandi risorse, sta
vivendo una fase di grande sviluppo ecologico. Anche qui, come in Danimarca, le turbine eoliche sono diventate parte
integrante del paesaggio. TI motore di questo sviluppo è il Centro spagnolo nazionale delle energie rinnovabili (Cener)
di Pamplona, dove decine di ricercatori lavorano sull'energia del futuro: quella eolica, ma anche quella pro dotta dal
sole e dalla biomassa. Imanol Pérez Sarasola dirige il dipartimento di energia eolica. Ci riassume la formidabile
avanzata del vento sul mercato energetico spagnolo: "Nel 1995 l'energia eolica era praticamente inesistente. Poi Madrid
ha seguito l'esempio danese introducendo delle sovvenzioni per l'acquisto di energia pulita. Da allora il mercato ha registrato un vero e proprio boom. Inoltre qui non ci sono problemi di spazio: il paese è grande e il vento soffia forte. Ma
senza l'impulso iniziale dello stato, non avremmo potuto fare niente".
In termini di impianti eolici installati, la Spagna è ormai il numero due al mondo dietro la Germania e davanti alla
Danimarca.
Ma se si considera la percentuale dell'energia prodotta rispetto al fabbisogno totale, la Danimarca è in testa. Come
ricorda Pérez, però, il punto importante è un altro: "Abbiamo acquisito una nuova mentalità. L'energia eolica non è più
un'utopia pulita, ma un settore industriale in cui la ricerca, la concorrenza e le quote di mercato sono fattori essenziali.
E la sensibilizzazione mondiale sul tema del riscaldamento climatico accelererà ulteriormente questa tendenza".
Di fatto la Spagna guadagna già molti soldi grazie ai suoi fomitori di energia pulita. Il gigante basco Iberdrola, numero
tre europeo del settore dopo la recen te acquisizione della Scottish Power, ha cominciato a rilevare i produttori di
energia eolica negli Stati Uniti. I dirigenti di Iberdrola, che possiede anche centrali nucleari, sono convinti che la
soluzione ai problemi dell'energia debba passare attraverso un "mix energetico" in cui le fonti rinnovabili assumeranno
un'importanza sempre maggiore. Il loro è un amore interessato per le sorti di un pianeta minacciato? No. È la
convinzione che la corrente elettrica verde rende dal punto di vista economico. Ne è una prova la GamesaEolica:;
un'azienda controllata dalla Iberdrola. Questo produttore di turbine eoliche di Bilbao, quotato alla borsa di Madrid e con
un capitale di diversi miliardi di euro, è molto apprezzato dagli investitori della nuova economia verde. Abbiamo appuntamento con Teodoro Monzon, il responsabile dell'azienda, in un edificio di un parco industriale e tecnologico situato accanto al nuovo aeroporto di Bilbao.
Il dirigente si fa attendere. La sua segretaria ci offre un paio di caffè, poi si scusa per il ritardo del suo capo. Monzon
arriva dopo un'ora. Ha un sorriso radioso. "È fatta", annuncia soddisfatto, "abbiamo ottenuto una commessa di seicento
turbine eoliche per la Cina. Il problema, ormai, è solo la mancanza di acciaio".
Energia eolica
Turbine volanti
Il principale problema legato alla diffusione dell'energia eolica è l'eccessivo spazio occupato dalle turbine. In
alcuni paesi si è cercato di ovviare all'inconveniente collocando gli impianti in mare. Un'alternativa arriva
dagli Stati Uniti, dove l'azienda californiana Sky Wind Power ha sviluppato delle turbine eoliche volanti. È
un sistema a metà strada tra un elicottero e un aquilone. La struttura, a forma di h, è dotata di quattro eliche
che generano l'elettricità. L’energia viene trasmessa attraverso dei cavi di alluminio che collegano la struttura
al terreno.
Un sistema simile è stato sviluppato dall'università di Delft, nei Paesi Bassi. Tra cinque anni i tecnici
olandesi prevedono di lanciare un prototipo da dieci megawatt, in grado di soddisfare il fabbisogno di seimila
abitazioni. Secondo molti esperti, tuttavia, questi sistemi richiedono ancora anni di studio prima di essere
lanciati sul mercato, e in ogni caso hanno dei costi di manutenzione troppo alti per garantire speranze di
successo economico. Oggi, però, la richiesta di energia verde è tale che per l'industria eolica potrebbe essere
arrivato il momento di pensare anche a soluzioni di questo tipo.
-THE ECONOMIST