La felicità è un sistema complesso

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La felicità è un sistema complesso
31 FILM: LA FELICITÀ È UN SISTEMA COMPLESSO Gianni Zanasi
Regia e soggetto: Gianni Zanasi.
Sceneggiatura: Gianni Zanasi, Michele
Pellegrini, Lorenzo Favella. Fotografia:
Vladan Radovic. Montaggio: Rita
Rognoni. Musica: Niccolò Contessa.
Scenografia: Roberto De Angelis.
Costumi: Grazia Colombini. Interpreti:
Valerio Mastandrea (Enrico Giusti), Hadas
Yaron (Achinoam), Giuseppe Battiston
(Carlo Bernini), Produzione Movie/Rai
Cinema. Distribuzione: Bim. Durata:
117’. Origine: Italia, 2015.
Elogio del disequilibrio Federico Pedroni
Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) fa un lavoro strano: avvicina, fraternizza, segue, indirizza
dirigenti incompetenti di grandi aziende – eredi scansafatiche, rampolli sognatori e inconcludenti,
manager bolliti ed egotisti – per convincerli a lasciare il loro posto di responsabilità e godersi una
vita agiata. Cerca di evitare, mettendosi a servizio di misteriosi faccendieri senza scrupoli al servizio
del capitale, che il tracollo delle varie società si trasformi in fallimenti e licenziamenti: fa in modo
che il sistema sopravviva per limitare le vittime collaterali, per proteggere – crede – gli anelli deboli
della catena produttiva. Un lavoro schizofrenico (Enrico odia l’implacabile e asettica piramide
economica al cui servizio si dedica con zelo) che lo porta a indossare una superficiale corazza in
grado di proteggerlo dai fantasmi personali dovuti alla fuga del padre, anche lui imprenditore in
difficoltà costretto a sparire dai debiti e dalla crisi. Enrico sembra imperturbabile fino a quando una
misteriosa ragazza israeliana e un nuovo incarico da affrontare lo mettono sotto scacco. La giovane
Achinoam (Hadas Yaron) gli piomba a casa come un sasso scagliato dal fratello minore Nicola, in
fuga da responsabilità sentimentali, mentre i due nuovi soggetti da controllare, gli adolescenti Filippo
e Camilla, orfani di una coppia vittima di un incidente stradale, dimostrano una sensibilità
impermeabile al solipsismo viziato cui Enrico è abituato.
La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi racconta il rapsodico punto di rottura di un
uomo che si è nascosto dietro una maschera, asettica e anaffettiva, e la vede frantumarsi. Sin dalla
prima scena il racconto procede per bizzarrie, mantenendo un tono lieve e sghembo per raccontare
una storia serissima: la crisi esistenziale di Enrico è quella del mondo in cui è calato e con cui non sa
trovare una relazione se non attraverso le regole meccaniche del proprio mestiere. Enrico costruisce
per interesse amicizie posticce con persone che non stima, che rappresentano il lato spensierato e
marcio di una società implacabile che genera le rovine di cui lui stesso paga le conseguenze. Il
metronomo della sua esistenza è regolato da leggi precise, da un’insonnia congenita, da una casa che
abita senza coinvolgimento e da vestiti che indossa come uniformi. Ma se il cuore del film è nel
personaggio di Mastandrea, è proprio nei ragazzi che si cela il suo motore principale. Già dal loro
ingresso in campo Zanasi ribalta programmaticamente l’equilibrio del film: dopo aver mantenuto
nella prima parte uno stile orizzontale e asciutto, all’apparire di Filippo e Camilla il suono invade lo
schermo – Victim dei Win Win, gruppo electro-pop della hipsterissima Brooklyn, recita non a caso:
«Can somebody tell me how did I become a victim of society?» – e la macchina da presa abbandona
la gravità lasciandosi andare a rotazioni che letteralmente ribaltano i protagonisti e mettono il mondo
a testa in giù. Il film assume un andamento musicale – l’insistita colonna sonora è il controcanto
ideale della storia: canzoni che accompagnano e puntellano la narrazione come una playlist – con
strofe e ritornelli e, forse, qualche assolo di troppo, qualche nota stonata, qualche digressione non
sempre centrata.
Quando il mondo, anche interiore, dei ragazzi inizia a svelarsi risaltano stridenti le ingessature
degli adulti. Ma se i potenti sono personaggi bidimensionali – vestiti tutti uguali, con voci monocordi
e atteggiamenti precotti – i giovani sono imprevedibili e creativi, nelle decisioni come negli affetti. È
in questa frizione che Enrico mostra le sue crepe mentre l’aliena Achinoam, che beve dalla doccia e
ama dormire per terra, fa della sua anormalità un pacato stile di vita. «Noi non siamo persone che
scappano» ripete Enrico al fratello in fuga ma parla, inconsciamente, soprattutto a se stesso. E se la
storia è scandita come un metronomo dalla compresenza di musica e azione – il funerale dei genitori
sulle note di Just a Habit dei Low Roar, la scena in ospedale dopo il goffo tentato suicidio di
Achinoam accompagnato da In a Manner of Speaking dei Tuxedomoon nella versione morbida e
confidenziale dei Nouvelle Vague – l’evolversi sotterraneo degli eventi porta dritto alla
disintegrazione delle certezze e degli equilibri di Enrico, al concretizzarsi di un’anomalia.
Mastandrea riesce a trasmettere lo smarrimento del suo personaggio con poche e controllate
espressioni: uno sbigottimento sempre in agguato, un sorriso sempre più irrigidito, uno sguardo che
tende a perdersi nel vuoto. Gli spazi in cui si consuma la sua esistenza pubblica – ché quella privata è
del tutto inesistente – sono quinte ripetute: ville, ospedali, aeroporti, piscine, ristoranti. Una litania di
non luoghi che fanno da sfondo all’alienazione mascherata a fatica dal protagonista.
Zanasi manipola impercettibilmente il film squilibrando l’inquadratura e lavorando sulla distonia.
Achinoam è quasi sempre a terra e costringe letteralmente Enrico ad abbassarsi, i ragazzi si muovono
per scarti, il nervosismo sotterraneo diventa febbre stilistica, a volte ai limiti della ridondanza (il
fellinismo di un dialogo filosofico tra i fumi di una grotta; improvvise frammentazioni da videoclip;
qualche vezzo démodé; un uso non sempre centrato del ralenti). Mentre Enrico osserva sgomento il
baratro in cui precipita il suo quotidiano in cui si era artificiosamente rifugiato, il modo diverso di
vedere le cose di Filippo e Camilla, la loro gestione del lutto, il senso di responsabilità che non
scansano ma piuttosto adattano ai loro pensieri, disegna scenari imprevedibili.
In un mondo adulto che si disinteressa del prossimo e delle generazioni future, ridotto a monade
votata all’arricchimento, i due ragazzi rappresentano la maturità di uno sguardo rivolto all’esterno,
disposto verso gli altri, a suo modo ribelle. Loro sono i Children of the Sun cantati dai Dead Can
Dance in una delle scene in cui silenziosamente Filippo e Camilla prendono coscienza e ipotizzano
una disubbidienza, perché la fede e la speranza sono il loro volontariato mentre l’avarizia e l’accidia
sono i nemici da combattere («Faith, hope, our charities. Greed, sloth, our enemies»).
Più la storia procede e più l’anima profonda del film si svela: è uno scontro generazionale, un
corpo a corpo tra la gabbia di una società adulta schematica e vile e la libertà tattile, naturale,
emotiva di un mondo giovane che sceglie di smettere di tacere. Una lotta liquida tra i vivi e i morti in
cui Enrico si trova schiacciato, costretto dalle libere scelte di Achinoam a invertire i ruoli per trovarsi
infine sconfitto e libero. I giovani rappresentano per il protagonista elementi non riconducibili a
un’equazione – quella su cui aveva giustificato le sue scelte difensive – e infine un giubbotto di
salvataggio, un’ancora di salvezza. Gli mostrano qualcosa di diverso: You Showed Me, cantano i
Turtles. In questo elogio del disequilibrio ondeggia tutto il film che assume, procedendo verso la
conclusione, i toni sfocati di una dolce allucinazione, accompagnata da stralunati nonsense (la Torta
di noi biascicata al karaoke da Mastandrea) e dalla sensazione che l’universo si stia per rovesciare,
come nel moonwalk di Michael Jackson in cui si finge di avanzare e invece si va indietro, in cui
l’asincronia si trasforma in creatività, in cui il contatto può significare una levitazione, una perdita,
finalmente, della zavorra gravitazionale che ci schiaccia.
Ed è come una liberazione che alla fine Enrico accetta il suo fallimento, come un esorcismo
riuscito verso i suoi fantasmi, lo scardinamento di un blocco esistenziale. Così il film scivola nei suoi
molti finali, tra balletti muti in stazione che sanno di Blow-Up antonioniani virati in commedia,
uscite da tunnel verso una luce bianchissima e sonni su un pavimento finalmente morbido: quello di
Zanasi si rivela un film quasi orgoglioso delle proprie imperfezioni, discontinuo e sovraccarico ma
ricco di un’energia atipica per il cinema italiano, privo di paternalismo e felice di gettare uno sguardo
dritto e fermo nel futuro, pieno di amore e di fiducia verso quei giovani abitualmente ridotti a
specchi impersonali del nostro narcisismo.
Giovedì 9 giugno ULTIMO FILM: Fuocoammare
di Giancarlo Rosi