Ricordo di mio Nonno, Aristide Mazzarello, al secolo “Nonno Nino

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Ricordo di mio Nonno, Aristide Mazzarello, al secolo “Nonno Nino
Ricordo di mio Nonno, Aristide Mazzarello, al secolo “Nonno Nino”, operaio della S.I.A.C.,
miracolosamente scampato al rastrellamento e alla deportazione il 16 giugno 1944.
Il Nonno li vide arrivare dalla spiaggia …
Una divisione di SS in assetto di guerra si incuneò con passo rapido nell’alveo del Polcevera, allora
in secca.
Poco lontano, sulla sponda sinistra del torrente, sorgeva lo Stabilimento S.I.A.C. in località Campi,
in pieno fermento di uomini e mezzi nel turno mattutino di lavoro.
In pochi si accorsero del pericolo.
I Tedeschi avevano ormai raggiunto i cancelli della fabbrica quando mio Nonno e pochi altri operai
tentarono la sortita scavalcando il muro che delimitava a monte lo Stabilimento S.I.A.C. e
raggiungendo l’area di Corso Perrone, ingombra di presse, tubi ed altri mezzi meccanici.
In una zona praticamente inaccessibile di quest’area mio Nonno intravide un tubo di cavità
abbastanza ampia da contenerlo e occultato alla vista da un cumulo di ferraglie.
Forse anche per questo, si salvò dal fiuto dei cani lupo tedeschi, che riuscirono invece a snidare
molti degli operai fuggiti.
All’interno di quel condotto di forma cilindrica mio Nonno si rannicchiò – quasi avvolto su se
stesso – senza fiatare né pensare, completamente immobile per ore.
Attese la sera, di quel 16 giugno 1944.
Quando il frastuono e le grida furono cessate e il crepitio delle mitragliatrici aveva finalmente
taciuto.
Il rastrellamento era finito. Migliaia di operai delle fabbriche genovesi – in quel momento –
giacevano ammassati in condizioni disumane nei convogli che li avrebbero deportati a Mauthausen.
Attese che le tenebre avvolgessero il groviglio di metalli che lo aveva protetto e, solo allora, decise
di lasciare il nascondiglio, quel tubo d’acciaio che gli aveva salvato la vita preservandolo dalla
deportazione.
Sapeva cosa fare, mio Nonno.
Evitò persino di rientrare a casa per togliersi gli indumenti da lavoro e si allontanò il più possibile
dalla Via Aurelia e dal mare, massicciamente presidiati dal nemico.
Lesto, prese la “Via” dei monti: quella sì la conosceva bene, era come percorrere la strada per casa.
Lo attendeva la Valle Scrivia, la scalata del fedele Monte Tobbio e poi ancora su, dove le prime
colline del Piemonte si lasciano alle spalle l’impervio entroterra ligure, verso Ronco, Arquata e
infine Gavi.
Ancora pochi chilometri e avrebbe raggiunto la sua famiglia, sfollata a Parodi Ligure durante la
guerra.
Camminò per due giorni e due notti, mio Nonno.
Un lungo incubo, attraversando boschi, scalando montagne, guadando ruscelli e torrenti.
Non voleva perdere la speranza di raggiungere l’agognata destinazione.
E quando venne assalito dal terrore di non farcela, smise di pensare all’oggi e ripercorse con la
mente il romanzo della sua vita fino al momento in cui tutto ebbe inizio.
Ricorda, Nonno, non pensare.
Ritorna al 1930 quando dal Piemonte arrivarono a Campi due sposini, Nino e Maria.
Nel loro cestino di nozze, anche una banana.
Non l’avevano mai assaggiata prima e, per molti anni a venire, indelebile di quel “lusso”sarebbe
rimasto il ricordo.
Erano giovani, ancora alla ricerca di un’identità, quella che allora si chiamava “zuppa”, quando
all’improvviso gli eventi precipitarono.
Soltanto un anno dopo, nella casa di Via Adelaide Ristori, architettura corpulenta ed inquietante di
un sobborgo operaio che nel suo ventre benigno aveva accolto quel contadino strappato alla sua
terra dalla fame di braccia delle acciaierie e la donna vigorosa che dalle brume piemontesi nella
grande città il suo sposo aveva seguito, in quella modesta dimora dove il nonno Nino e la nonna
Maria avevano scaldato i loro cuori comparve un fiocco rosa.
L’immagine si appanna e lentamente il ricordo comincia a svanire. Il fitto del bosco di nuovo
s’avanza, ad occultar la traccia del sentiero segnato.
Coraggio, Nonno, lesto ritorna a quel sogno e in fondo alle tenebre vedrai l’aurora color ghiaccio
che minacciosa sorse dal mare, bucando la notte, nel freddo mattino di febbraio in cui Giuliana
venne alla luce.
Ricorda l’incubo della fame e della povertà nell’Italia degli anni ’30.
Ricorda quante esistenze vennero sradicate dai luoghi cari dell’infanzia e costrette ad emigrare.
“Fuggite dalle bombe” – disse il Nonno dopo quel tragico 9 febbraio 1941 – “ rimarrò io a Genova
e con il lavoro allo Stabilimento vi manderò il necessario per sopravvivere.”
In tutta fretta, la Nonna Maria e le piccole Giuliana ed Angela sfollarono da Genova per
raggiungere gli zii a Parodi Ligure.
Cammina, Nonno, non fermarti.
Rammenta le domeniche d’estate, quando prendevi la corriera per tornare dalla tua famiglia ma
“prima” passavi dalle vigne dei “ricchi” per portare alle figlie qualcosa da mangiare.
Non dimenticare mai le fiamme che avvolsero Parodi, appiccate da Tedeschi e Fascisti, dopo aver
snidato nel negozio del macellaio il “covo” dei partigiani. Fece appena in tempo a fuggire, la tua
amata sposa, mettendo in salvo le bimbe e nascondendo il “grano” fra i filari del Mulino.
E, nel voltarti indietro, solo per un attimo ripensa al tuo lavoro di “sabbiatore”.
Di tanto in tanto ti fermavi e, posando la pala, sorseggiavi “quel” bicchiere di latte che ti porgevano,
non per lenire la tua sete ma per combattere – invano – il pulviscolo letale che sollevando respiravi.
Ancora non sapevi che, pochi anni dopo, l’azione silente ma incessante di quella polvere tossica
avrebbe aggredito i tuoi polmoni fino a condurti alla morte, consumato dalla silicosi.
Attraverso questo lungo sogno, il nonno Nino camminò per due lunghi giorni e due interminabili
notti, dopo quell’alba tragica del 16 giugno 1944.
Ad attenderlo, la sua amata sposa, Maria, e le adorate figlie, Giuliana ed Angela, che ancor oggi
ricordano il grido di dolore strozzato dentro, alla notizia del rastrellamento in S.I.A.C.: non una
parola di disperazione, solo un gran silenzio di chi ha pudore dei propri sentimenti.
Erano sedute, come ogni sera, sui gradini della Chiesa, sotto il grande Campanile.
Riconobbero da lontano la tuta da lavoro che ancora indossava e, senza che Lui parlasse,
ripercorsero – come in un film – le immagini di quell’avventura, le lunghe ore d’angoscia e
l’interminabile fuga attraverso sentieri e montagne, camminando nelle tenebre.
Come riemerso delle viscere del tubo che lo salvò, il Nonno si avvicinò ai gradini della Chiesa.
Non disse nulla.
Sollevò lentamente la mano e fece loro segno di accompagnarlo a casa, come ogni sera al ritorno
dal lavoro.
Un gesto candido ma gravido di affetto e commozione, figlio del pudore e della rigorosa dignità
delle sue origini contadine.
FLAVIO BATTIFORA