LA MIA STRADA VERSO CASA
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LA MIA STRADA VERSO CASA
LA MIA STRADA VERSO CASA “It’s heartbreaking” mi sussurrò guardandomi negli occhi in una umida serata di fine agosto mentre eravamo seduti su una fredda panchina di fronte a Westminster. Era talmente umido che la punta del Big Ben si vedeva a stento e solo grazie all’enorme quadrante gotico. La sua voce era rotta dall’emozione e non capii cosa avesse detto e, per istinto, presi dalla mia sacca a tracolla il piccolo dizionario che portavo sempre con me e glielo porsi. Quando mi mostrò la parola e lessi il significato rimasi stupita più che lusingata. Ero a Londra da due anni e non la avevo mai sentita pronunciare. Avevo scelto di vivere nella città più cosmopolita del mondo perché le regole mi erano sempre andate strette, non perché fossi portata ad infrangerle, al contrario, tendevo a farle mie e ad assoggettarmi ad esse totalmente. Nel posto da cui venivo di regole ne esistevano troppe: quelle scritte, le consuetudini, quelle valide solo in determinate porzioni di territorio, quelle dedicate a specifiche classi sociali, quelle da seguire solo in un limitato numero di ambienti e solo per limitati periodi di tempo. Ma la regola sovrana era che qualsiasi regola potesse essere infranta in determinate condizioni, anch’esse variabili e complesse. Per me decisamente troppo. Ci eravamo conosciuti nel più classico dei modi. Io rientravo a casa con le buste della spesa in entrambe le mani, lui usciva dal lussuoso albergo che occupava il marciapiede di fronte per tutta la sua lunghezza. Erano trascorse molte settimane e sarebbe partito l’indomani. Il suo soggiorno era giunto a termine. Il tenente della Marina Americana Allen Davil Balabis sarebbe dovuto rientrare l’indomani mattina alla base di Sigonella dove era di stanza temporaneamente in attesa del successivo trasferimento presso la Base NATO di Napoli. Aveva barattato la sua enorme Cadillac con una piccola Cinquecento gialla (il modello degli anni novanta, quello che non somigliava per niente alla mitica ‘500) e sognava di sfrecciare agevolmente attraverso gli stretti vicoli napoletani e magari in costiera Amalfitana o Sorrentina. Lo raccontava con un entusiasmo da ragazzino nonostante avesse quasi cinquant’anni. I suoi piccoli occhi neri leggermente a mandorla si illuminavano e il sorriso era contagioso. Poi la risata diventava sonora e solo allora ci si rendeva conto che delle sue origini filippine conservava solo i gentili tratti somatici mentre la simpatia e la determinazione erano tutte “made in USA”. Mi aveva conquistata subito, senza fatica, possedeva tutti i cliché dell’uomo perfetto: la gentilezza degli orientali, la spavalderia degli americani, il calore passionale acquisito in Sicilia e il fascino della divisa. Tutto quello che mi circondava si era arricchito di nuovi colori e nuovi significati. Nel momento stesso in cui conobbi Allen capii che ero giunta a casa. Non la casa fatta di muri, mobilio e regole imposte, ma la casa dell’odore che riconosci, dei rumori che ti rassicurano, dei colori nitidi che danno forma agli oggetti, dell’amore che non è vincolo ma libertà, del futuro che non sogni perché lo stai già vivendo. Ma andò via, doveva andar via, e lo fece dicendo che era straziante. Fu un sogno dal quale ho impiegato dodici anni ad uscire. Non l’ho più rivisto, non l’ho più sentito. Ho scritto, ho telefonato, ho fatto telefonare, per settimane e mesi ho tentato di contattarlo ma invano. Vivevo in una città che non era più la casa che avevo trovato, tutto era catalogato in due nette contrapposizioni: l’ho visto o non l’ho visto mentre ero con Allen, ad Allen piaceva o non piaceva, l’ho mangiato o non l’ho mangiato con Allen, e così di seguito, all’infinito. Cominciai a detestare gli odori, i rumori, le persone, tutto quello che mi ricordava o non mi ricordava Allen. Non potevo restare, era “heartbreking”. Dopo qualche mese una smania incontrollabile si impossessò di me, il pensiero che potesse essere stato trasferito a Napoli si materializzò nella mia mente e mollai tutto: il lavoro per il quale avevo lottato per tre anni e la città che amavo e che ancora oggi amo. Per dodici anni ho guardato nella cassetta postale sperando di trovare una lettera. Per dodici anni ho guardato sconosciuti alla guida delle poche ‘500 gialle che incontravo ovunque andassi. Per dodici anni ho alzato la cornetta del telefono sperando di sentire la sua voce. La cosa peggiore è che ho camminato per tutte le strade della mia vita aspettando di rincontrarlo per caso. Poi qualcosa dentro di me mi ha detto che forse era tornato a casa sua, perché la sua casa non era la stessa che avevo scelto io. TERESA STAIANO